Sono
sempre più persuaso che nel modo in cui si presenta l’attuale fase di
sviluppo del capitalismo su scala globale, con le cicliche e perduranti
crisi che l’accompagnano, alcune delle categorie e delle intuizioni
marxiane possono rivelarsi ancora utili nella comprensione di fenomeni
sociali ed economici complessi. Proprio la riscoperta del filosofo di
Treviri in questo delicato frangente, segnato dalla crisi di un’economia
in cui la componente finanziaria ha decisamente preso il sopravvento,
dimostra come la necessità di una critica dell’esistente si accompagni
sempre più a quella di riferimenti interpretativi forti, che aiutino la
comprensione della realtà. La crisi della politica non è quella che
generalmente ci raccontano, parlando di stipendi della casta o di altre
cose simili: essa è data dall’incapacità della stessa di corrispondere
alle sfide di questa modernità, dal suo essere degenerata in
politicantismo. Non sto proponendo un ritorno al passato, né credo che
certi modelli di ieri siano riproponibili oggi. Non penso nemmeno che la
foto di Karl Marx debba essere di nuovo appesa sui muri delle sezioni e
venerata come si trattasse di una divinità. No. Propongo solamente una
riflessione sui dilemmi del tempo presente, avvalendomi, per quanto è
possibile, di qualche strumento che per tanti anni ha aiutato la
comprensione della realtà, tonificando per questo anche l’azione.
Per non limitarci ad enunciazioni di
principio, facciamo però qualche esempio. Il cuore della critica
marxiana delle forme di sfruttamento nelle società capitalistiche è
quello che affronta il tema della mercificazione del lavoro e
dell’appropriazione, da parte dei capitalisti, del cosiddetto
pluslavoro, inteso come frazione di salario non corrisposto al
lavoratore. Il lavoro, nelle società capitalistiche, al pari di ogni
altra merce, ha un suo valore d’uso, vale a dire un suo grado di utilità
per la società e l’economia, oltre che, di conseguenza, un suo prezzo
(valore di scambio), nel quadro delle relazioni di mercato. Questi due
fattori furono definiti da Marx anche come sostanza di valore e
grandezza di valore.
La fonte del profitto nella società
capitalistica è dunque data dal cosiddetto plusvalore, a sua volta il
prodotto della differenza tra il lavoro impiegato per una data
produzione e quello necessario alla riproduzione della forza- lavoro.
Il capitalista acquista la forza -
lavoro come qualsiasi altra merce, ad un valore che è quello necessario
alla sussistenza del lavoratore. Tale valore costituisce il cosiddetto
salario. Per un dato numero di ore, il lavoratore lavora pertanto per il
suo salario, per il tempo restante per il profitto del datore di
lavoro.
Marx, prima nei Grundrisse poi nel
Capitale, aveva affrontato, non senza accuratezza, la questione
dell’applicazione delle macchine al processo produttivo, chiarendo che
tale evenienza stava alla base, inevitabilmente, del tendenziale
risparmio dei tempi di lavoro e, di conseguenza, ma solo nell’immediato,
di una straordinaria massimizzazione dei profitti.
A lungo termine però, un aumento
progressivo degli investimenti sul capitale fisso (macchine), a scapito
del capitale variabile ( i salari degli operai), essendo quest’ultimo la
fonte principe di estrazione del plusvalore, avrebbe determinato una
tendenziale caduta dei profitti (Caduta tendenziale del saggio di
profitto). Non solo. Rimanendo sul punto, Marx aveva anche svelato come
l’uso strategico delle macchine, favorendo un aumento dei volumi di
produzione, un accrescimento dell’offerta di beni sul marcato, avrebbe
determinato, come conseguenza, una diminuzione del valore di scambio di
quest’ultimi. Quindi una diminuzione dei profitti.
Caduta dei profitti e contrazione dei
consumi starebbero alla radice delle crisi cicliche del capitalismo.
Crisi di sovrapproduzione, di sovrabbondanza di beni.
Per quanto attiene alle cosiddette
“previsioni” di Marx, quella che più di altre ha stupito, per lucidità e
fondatezza, è sicuramente quella relativa alla tendenza del capitalismo
a globalizzarsi e ad accentuare la sua componente finanziaria. Proprio
le recenti crisi che hanno investito il capitalismo mondiale, a partire
dalla cosiddetta “bolla americana” fino alla crisi del debito
nell’Eurozona, stanno a dimostrare come le turbolenze in ambito
finanziario incidano sull’economia produttiva.
Profetiche, a tal riguardo, queste
parole che troviamo nel secondo libro de Il Capitale: “Il processo di
produzione appare soltanto come termine medio inevitabile, come male
necessario per far denaro. Tutte le Nazioni a produzione capitalistica
vengono colte perciò periodicamente da una vertigine, nella quale
vogliono fare denaro senza la mediazione del processo di produzione.”
Queste quattro grandi questioni -
reificazione e sfruttamento del lavoro, uso strategico e massivo della
macchina e ciclicità delle crisi, mondializzazione e finanziarizzazione
dell’economia - rivestono tutt’oggi una straordinaria rilevanza, sono
ancora alcuni dei termini più pregnanti dell’attualità politica, a
prescindere dalle interpretazioni e dai giudizi che se ne danno.
Applicando i concetti, le categorie, fin qui fugacemente richiamate alla
realtà del mondo contemporaneo, ai problemi sociali ed economici del
nostro tempo, ci accorgiamo ordunque che gli stessi possono contribuire,
molto più di quel che si pensi, ad illuminare il cammino della
politica.
Il capitalismo, nello stadio attuale,
sebbene globalizzato, fa i conti con la “limitatezza del mercato”: non
siamo più nell’epopea fordista, in cui predominava un’idea di mercato
illimitato, da riempire di beni di consumo. Al contrario è la
saturazione del mercato lo spettro principale che hanno davanti le
grandi imprese multinazionali. Questa circostanza, unita
all’ipertecnologizzazione ed all’informatizzazione dei processi
produttivi – agli investimenti sempre più massicci sul capitale
costante,per dirla con Marx - ed alla concorrenzialità della manodopera
dei paesi in via di sviluppo, sta alla base di una tendenziale, epocale,
caduta del valore d’uso ( Utilità relativa per il sistema produttivo)
e, di conseguenza, del valore di scambio (Salario) della merce lavoro
nei paesi capitalistici avanzati.
È vero che il valore d’uso della forza-
lavoro è dato, in Marx, essenzialmente dalla sua capacità fisica di
soddisfare esigenze di produzione di beni, perciò il suo valore di
scambio nel fabbisogno alla sua riproduzione, ma nel valore di questa
particolare merce, seguendo proprio il ragionamento marxiano, c’è anche
quello che chiamerei il suo grado di indispensabilità per l’impresa, la
sua utilità in rapporto al fabbisogno di manodopera in un dato momento e
in un dato contesto. Come un altro qualsiasi oggetto, sebbene molto
speciale, il lavoro, nel quadro delle economie mercatiste, ha un suo
grado di utilità nel soddisfare bisogni sociali e produttivi ed, al
tempo stesso, un suo valore di mercato, un suo prezzo.
Per quanto speciale, come lo stesso Marx
aveva chiarito, il lavoro, in questo tipo di società, è, a tutti gli
effetti, una merce, di consumo e di scambio. Se allora per qualsiasi
altra merce il valore d’uso consiste nella sua capacità di soddisfare
determinati fabbisogni, nel caso della forza-lavoro tale fabbisogno può
essere identificato anche con la domanda di manodopera. Pensiamo, in
rapporto al concetto di lavoro come merce, alle modificazioni che sono
intervenute negli ultimi anni nel mercato del lavoro. L’esempio più
calzante a tal proposito sono i casi di “somministrazione di lavoro” da
parte di agenzie interinale. La somministrazione di manodopera permette
ad un soggetto definito “utilizzatore” di rivolgersi ad un altro
soggetto appositamente autorizzato che costituisce il “somministratore”,
per utilizzare il lavoro di personale non assunto direttamente, ma
dipendente del “somministratore”. In questa fattispecie c’è una vera e
propria sublimazione del concetto di reificazione del lavoro, che viene
ad essere assimilato ad un qualsiasi altro oggetto.
I fenomeni che ho prima richiamato,
tipici dell’attuale fase di sviluppo delle economie capitalistiche
mature, sono alla base, come dicevo più indietro, di una sostanziale
riduzione del valore d’uso, o, se si vuole, del grado di
indispensabilità del lavoro, inteso sia in senso assoluto come tempo
necessario nei cicli produttivi, sia in senso relativo come offerta di
lavoro sul mercato.
La riduzione dell’utilità assoluta e
relativa del lavoro ha, com’è facile immaginare, una ricaduta negativa
sul corrispondente valore di scambio dello stesso, sul suo prezzo di
mercato, che chiamiamo salario. Ma anche sul suo valore sociale, con
pregiudizi, per fare il primo esempio che mi viene in mente, dei livelli
di sicurezza nei luoghi di lavoro.
La conseguenza pratica di questo stato
di cose è, in primo luogo, un aumento dei livelli di sfruttamento e di
dipendenza del lavoratore dal potere dell’impresa. Secondariamente la
contrazione dei salari e, nel caso della delocalizzazione extranazionale
della produzione, il depauperamento delle economie interne.
L’inedita possibilità di delocalizzare
segmenti sempre più significativi della produzione da parte dei grandi
gruppi industriali, costituisce da un lato una forma di beneficio
diretto per quest’ultimi, dall’altro un fattore di deterrenza sul piano
interno, da giocare in sede di negoziazione salariale e di
ristrutturazione aziendale.
E che cos’è la tendenza all’abbattimento
dei costi del lavoro, anche attraverso la delocalizzazione dei siti
produttivi, se non il rimedio alla parabola discendente del saggio di
profitto, determinata dai mutamenti nella composizione del capitale e
dal fenomeno della sovrabbondanza di merci in rapporto alle dimensioni
del mercato? Forse, o certamente, questa legge non spiegherà, come Marx
invece pensava, di che morte morirà, o potrebbe morire, il capitalismo,
ma ci aiuta a comprenderne l’intimo funzionamento.
A tutto ciò è legata infine, in termini
sistemici, la questione della forza- lavoro eccedente, il problema della
disoccupazione. A proposito di quest’ultima, Marx aveva parlato di
esercito industriale di riserva, quella variabile che, nelle economie
capitalistiche, insieme ad altri fattori, consente di tenere i salari a
livelli di sussistenza ed a garantire la riproduzione del plusvalore,
quindi dello stesso sistema capitalistico.
Si può dire che nelle nostre società gli
alti tassi di disoccupazione non sono funzionali al contenimento della
dinamica salariale ed alle strategie di ricatto dei datori di lavoro?
Che, insieme al deterrente della delocalizzazione, la pressione della
disoccupazione di massa non compensa la tendenza alla perdita di
profitto? A queste domande risponderei così: questo non è il pensiero di
Marx, ma la realtà del capitalismo, che Marx ha contribuito a
disvelare, a descrivere, semplicemente a descrivere.
Bassi salari, precarizzazione dei
rapporti di lavoro, abbassamento dei livelli di sicurezza nelle
fabbriche, disoccupazione di massa, rappresentano pertanto i termini
principali dell’attuale questione sociale, la cui lettura, senza dubbio,
è facilitata dal ricorso a talune categorie marxiane, come quelle che
abbiamo testé esaminato.
Rispetto alla società industriale degli
albori, che Marx aveva analizzato da vicino, le uniche questioni davvero
nuove sono che anche il lavoro intellettuale, specializzato, è stato
assorbito dalla spirale della mercificazione e che la dipendenza dal
potere dell’impresa si presenta sempre più sotto forma di rapporti di
lavoro precari.
Anzi, proprio la precarizzazione del
lavoro, che poi si tramuta in precarizzazione dell’esistenza,
costituisce il prolungamento storico dei rapporti di lavoro alienati di
cui Marx aveva ampiamente parlato nella sua opera, l’esito fatale della
loro evoluzione.
Letteralmente col termine alienazione
Marx indicava la condizione dell’operaio salariato, che, in regime
capitalistico, è estraniato dal processo produttivo che lo riguarda e
dallo stesso prodotto del lavoro: egli era, ed è, condannato a produrre
beni che non gli appartengono, a produrre non per se stesso ma per gli
altri. Una condizione che finisce per estraniarlo da se medesimo, dalla
sua essenza, perché il suo lavoro non è libero e costruttivo, come lo
era per i vecchi artigiani, bensì obbligato, meccanico, spersonalizzato.
L’alto livello di precarizzazione del
lavoro nelle nostre società, aumentando i livelli di dipendenza del
lavoratore, manuale o dell’intelletto che sia, dal potere dell’impresa
e, per certi versi, dagli stessi beni che è chiamato a produrre,
costituisce il fondamento di una forma ancora più micidiale di
alienazione, di estraniamento da se stessi, dalla propria essenza
sociale.
Alla produzione di beni per gli altri,
alla tradizionale forma di estraniazione rispetto al proprio lavoro,
nella nostra epoca, si aggiunge, pertanto un altro elemento alienante:
il lavoro in forma precaria, ansiotica; ultima frontiera dello
sfruttamento dell’uomo sull’uomo, che aliena l’individuo dalla sua vita,
dal suo futuro. Come non convenire allora sul fatto che alla base di
tali questioni c’è quello che definirei il nodo principale degli assetti
socioeconomici capitalistici: il fatto che il lavoro sia assimilato ad
una qualsiasi altra merce: che tutte le relazioni sociali tendono a
mercificarsi, con pregiudizio della dignità e della libertà dell’uomo?
Che il lavoro salariato sia condannato a produrre ricchezza per gli
altri, in misura inversamente proporzionale alla sua valorizzazione
sociale?
E che dire poi, rimanendo sulle eredità
spendibili del pensiero di Marx, delle crisi periodiche del capitalismo e
degli effetti dell’economia speculativa, finanziaria, su quella reale?
Anche su questo versante il filosofo tedesco aveva visto giusto, così
come aveva visto giusto con riferimento alla concorrenza tra operai, sia
sul piano interno che su quello extranazionale, a tutto vantaggio
dell’impresa.
Vale la pena, tal riguardo, riportare un passo dello stesso Marx, la cui attualità è sorprendente:
“Su 1000 operai di uguale qualifica
determinano il salario non i 950 occupati, ma i 50 disoccupati. Influsso
degli irlandesi sulla condizione degli operai inglesi e dei tedeschi
sulla condizione degli operai alsaziani (…)”
Parafrasando, potremmo dire influsso
degli operai serbi, o polacchi, sulla condizione degli operai italiani.
Una questione di stringente attualità! Che rimanda, oggigiorno, al tema
della delocalizzazione della produzione, la strada per beneficiare di
costi di manodopera più bassi e di più bassi livelli di
sindacalizzazione della forza lavoro, nei paesi emergenti o in via di
sviluppo. Insomma ancora al tema dello sfruttamento del lavoro salariato
e del valore mercantile del lavoro.
Potremmo stare a lungo su questi
argomenti, ma una loro trattazione più approfondita costituirebbe il
contenuto di un intero volume. Possiamo però concludere con una
constatazione: nelle società capitalistiche ancora c’è molto cammino da
fare sul terreno della mediazione tra uguaglianza formale ed uguaglianza
sostanziale dei cittadini. L’intuizione marxiana sulla contraddizione
tra uguaglianza nello Stato e disuguaglianza nella società in regime
capitalistico, costituisce ancora oggi un punto cardine per la critica
degli squilibri nelle nostre società.
Non per negare, come aveva fatto Marx,
una funzione livellatrice dello Stato, ma, al contrario, per
incoraggiarla. Per sostenere politiche di trasformazione dell’esistente,
volte a liberare dalla spirale mercantile quegli spazi, qui beni, che
attengono alla sfera della libertà e della dignità dell’uomo. Tra questi
innanzitutto il lavoro, il terreno su cui si misura il grado di
realizzazione della persona umana, la sua libertà, la sua indipendenza.
Fino a quando il lavoro sarà assimilato
ad una qualsiasi altra merce, da scambiare e trattare al pari di ogni
altro bene nel quadro delle relazioni di mercato, non si potrà dire che
una società è pienamente libera e democratica.
Finché il valore del lavoro sarà
calcolato come valore d’uso e di scambio, secondo il criterio
capitalistico già esaminato, e non in base alla sua funzione sociale, in
quanto attività nella quale, contribuendo alla crescita dell’intera
società, l’uomo realizza se stesso, non si potrà parlare di libertà
piena e sostanziale con riferimento alle nostre società.
Rimuovere gli ostacoli che limitano di
fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, costituisce tutt’ora un
debito della politica nei confronti della società. Di tutte le società.
Nondimeno il problema che abbiamo oggi è proprio il dileguamento della
politica, l’assenza di grandi progetti di cambiamento, sostenuti da una
visione del mondo larga e prospettica.
Ho già detto che non mi riferisco a
dottrine millenaristiche, a nuove concezioni messianiche dello sviluppo
storico, ma a concreti programmi di riforma dell’esistente, intorno ai
quali organizzare, mobilitare, larghi strati della società, su cui
fondare un’azione di governo autenticamente riformatrice.
E in questo, ancora Marx può venirci in
soccorso, quando ci ricorda che l’economia politica sbaglia a
considerare immutabili, oggettive, le leggi dell’economia capitalistica,
poiché le stesse, così come sono realizzate dell’uomo, così dall’uomo
possono essere cambiate.
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