Il numero di MicroMega in edicola e libreria da oggi pubblica
l’analisi dei programmi economici dei partiti in vista delle elezioni
del 24 febbraio. Quella che segue è una sintesi del saggio di Vladimiro Giacché sul programma del MoVimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Insieme a questo, MicroMega pubblica anche un articolo di Sergio Cesaratto sul programma del Centrosinistra e uno di Marco Passarella su quello della coalizione guidata da Mario Monti. L’indice completo della rivista è disponibile a questo link.
Il Movimento 5 Stelle sarà un protagonista a tutti gli effetti della vita politica del nostro paese. Ecco perché le sue proposte vanno ‘prese sul serio’ ed esaminate con lo
stesso rigore che si applica a quelle degli altri partiti. Purtroppo il
programma della forza guidata da Beppe Grillo è spesso estremamente
impreciso e vago, sopratutto in tema di economia. Ecco quel che dice, e
sopratutto quel che non dice, la Grillonomics.
di Vladimiro Giacché
Nell’affrontare
il programma economico del Movimento 5 Stelle è opportuno
preliminarmente sgombrare il campo da possibili equivoci. Uno su tutti:
chi scrive non appartiene al novero di chi ritiene il Movimento fondato
da Beppe Grillo un pericoloso movimento eversivo con il quale non ha
senso dialogare e le cui proposte non possono essere neppure prese in
considerazione [...] considererò il programma di Grillo come si fa (o si
dovrebbe fare) col programma di ogni partito o movimento: discutendo
nel merito di quello che propone. [...] il Movimento 5 Stelle il
programma ce l’ha. Anzi, ne ha due. L’uno, più articolato, è un
documento di 15 pagine scaricabile dal blog di Beppe Grillo. L’altro,
molto più sintetico e consistente in 16 punti, è stato proposto (e
rilanciato dagli organi d’informazione) il 27 dicembre 2012, in una
sorta di risposta alla cosiddetta Agenda Monti. Purtroppo, i due
programmi non si sovrappongono perfettamente (in ciascuno dei due sono
trattati anche temi non presenti nell’altro), e questo complica un po’
le cose.
In ogni caso procederò come segue: partirò dal programma economico che si può ricavare dai 16 punti, per poi verificarne più approfonditamente i contenuti con l’aiuto del documento programmatico vero e proprio.
In ogni caso procederò come segue: partirò dal programma economico che si può ricavare dai 16 punti, per poi verificarne più approfonditamente i contenuti con l’aiuto del documento programmatico vero e proprio.
Cosa c’è nel programma economico di Grillo
Nei 16 punti del 27 dicembre, per la verità, di economia non si parla
troppo. Riproduco testualmente i punti di interesse sotto tale profilo:
«reddito di cittadinanza» (punto 2), «misure immediate per il rilancio
della piccola e media impresa sul modello francese» (13), «ripristino
dei fondi tagliati alla sanità e alla scuola pubblica con tagli alle
Grandi Opere Inutili come la Tav» (14).
Hanno inoltre implicazioni economiche anche altri punti del programma: «legge anticorruzione» (punto 1), «abolizione dei contributi pubblici ai partiti» (3), «abolizione immediata dei finanziamenti diretti e indiretti ai giornali» (4), «referendum sulla permanenza nell’euro» (6), «informatizzazione e semplificazione dello Stato» (15), «accesso gratuito alla Rete per cittadinanza» (16).
Per quanto riguarda il programma del movimento, esso approfondisce anche temi non presenti nei 16 punti. Lo ripercorro rapidamente seguendo i capitoli di cui si compone.
Hanno inoltre implicazioni economiche anche altri punti del programma: «legge anticorruzione» (punto 1), «abolizione dei contributi pubblici ai partiti» (3), «abolizione immediata dei finanziamenti diretti e indiretti ai giornali» (4), «referendum sulla permanenza nell’euro» (6), «informatizzazione e semplificazione dello Stato» (15), «accesso gratuito alla Rete per cittadinanza» (16).
Per quanto riguarda il programma del movimento, esso approfondisce anche temi non presenti nei 16 punti. Lo ripercorro rapidamente seguendo i capitoli di cui si compone.
Energia. Assieme alla salute, l’unico altro caso in
cui le proposte sono enunciate con un tentativo di ragionamento
articolato – e non soltanto per cenni molto sintetici – è il tema
dell’energia. Al riguardo il programma si sofferma in particolare sui
temi del risparmio energetico e delle energie rinnovabili. Si propongono
incentivazioni per fonti rinnovabili e biocombustibili, e si chiede
(giustamente, anche se la cosa non sembra di competenza del parlamento)
l’applicazione di norme già in essere, ma disattese, sul risparmio
energetico. C’è anche qualche incoerenza. Ad esempio, prima si
confrontano i rendimenti energetici attuali delle centrali
termoelettriche dell’Enel con gli standard delle centrali di nuova
generazione, poi però si dice che non bisogna costruire nuove centrali
ma rendere più efficienti quelle già esistenti.
Informazione. Il tema dell’informazione, al quale il
Movimento 5 Stelle è tradizionalmente molto sensibile, ha alcune
implicazioni di natura economica. Sia in termini di risparmi per lo
Stato (attraverso l’eliminazione dei contributi pubblici per il
finanziamento delle testate giornalistiche: è anche il quarto dei 16
punti), sia in termini di maggiori spese: così è per la «cittadinanza
digitale per nascita, accesso alla rete gratuito per ogni cittadino
italiano» (una più chiara articolazione del sedicesimo punto) e per la
«copertura completa dell’Adsl a livello di territorio nazionale»; così
è, soprattutto, per la «statalizzazione della dorsale telefonica, con il
suo riacquisto a prezzo di costo da Telecom Italia e l’impegno da parte
dello Stato di fornire gli stessi servizi a prezzi competitivi a ogni
operatore telefonico».
Economia. Il tema economia è comprensibilmente molto vasto. Possiamo raggruppare le proposte secondo l’ambito a cui si riferiscono.
Molte proposte concernono il funzionamento del mercato finanziario: introduzione della class action, abolizione delle scatole cinesi in Borsa, abolizione di cariche multiple da parte di consiglieri di amministrazione nei consigli di società quotate (questo per la verità è già avvenuto con il decreto legge 201/2011, che regolamenta il cosiddetto «divieto di interlocking», e che è già applicato in base al regolamento congiunto Consob-Banca d’Italia dell’aprile 2012), «introduzione di strutture di reale rappresentanza dei piccoli azionisti nelle società quotate», introduzione di un tetto per gli stipendi dei manager delle società quotate in Borsa e delle aziende con partecipazione rilevante dello Stato, divieto di nomina di persone condannate in via definitiva come amministratori in aziende partecipate dallo Stato o quotate in Borsa (come caso da non ripetere il programma cita Paolo Scaroni all’Eni), abolizione delle stock options, divieto di acquisto a debito di una società.
Altre riguardano più precisamente il settore bancario: questo vale per il divieto di incroci azionari tra sistema bancario e sistema industriale e per l’introduzione della responsabilità e compartecipazione alle perdite degli istituti finanziari per i prodotti finanziari che offrono alla clientela.
Quanto al mercato del lavoro, troviamo la proposta di abolizione della (cosiddetta) legge Biagi e quella di un «sussidio di disoccupazione garantito» (che a dire il vero è un concetto diverso dal «reddito di cittadinanza» menzionato al secondo dei 16 punti citati sopra).
Riguardano i grandi settori economici della produzione di merci e servizi altri obiettivi: «impedire lo smantellamento delle industrie alimentari e manifatturiere con un prevalente mercato interno» (si propone anche di «favorire le produzioni locali»), abolire i «monopoli di fatto, in particolare Telecom Italia, Autostrade, Eni, Enel, Mediaset e Ferrovie dello Stato» e mettere in opera «disincentivi alle aziende che generano un danno sociale (per esempio distributori di acqua in bottiglia)». Nessun cenno, invece, alle «misure immediate per il rilancio della piccola e media impresa sul modello francese» che rappresentano il tredicesimo dei 16 punti. Non conoscendo quale sia «il modello francese» a cui Grillo si riferisce, non è facile capire se questa lacuna del programma dettagliato sia grave o meno.
Infine, quanto alla riduzione del debito pubblico, si ritiene che essa possa essere conseguita «con forti interventi sui costi dello Stato con il taglio degli sprechi e con l’introduzione di nuove tecnologie per consentire al cittadino l’accesso alle informazioni e ai servizi senza bisogno di intermediari» (corrisponde grosso modo al quindicesimo punto).
Molte proposte concernono il funzionamento del mercato finanziario: introduzione della class action, abolizione delle scatole cinesi in Borsa, abolizione di cariche multiple da parte di consiglieri di amministrazione nei consigli di società quotate (questo per la verità è già avvenuto con il decreto legge 201/2011, che regolamenta il cosiddetto «divieto di interlocking», e che è già applicato in base al regolamento congiunto Consob-Banca d’Italia dell’aprile 2012), «introduzione di strutture di reale rappresentanza dei piccoli azionisti nelle società quotate», introduzione di un tetto per gli stipendi dei manager delle società quotate in Borsa e delle aziende con partecipazione rilevante dello Stato, divieto di nomina di persone condannate in via definitiva come amministratori in aziende partecipate dallo Stato o quotate in Borsa (come caso da non ripetere il programma cita Paolo Scaroni all’Eni), abolizione delle stock options, divieto di acquisto a debito di una società.
Altre riguardano più precisamente il settore bancario: questo vale per il divieto di incroci azionari tra sistema bancario e sistema industriale e per l’introduzione della responsabilità e compartecipazione alle perdite degli istituti finanziari per i prodotti finanziari che offrono alla clientela.
Quanto al mercato del lavoro, troviamo la proposta di abolizione della (cosiddetta) legge Biagi e quella di un «sussidio di disoccupazione garantito» (che a dire il vero è un concetto diverso dal «reddito di cittadinanza» menzionato al secondo dei 16 punti citati sopra).
Riguardano i grandi settori economici della produzione di merci e servizi altri obiettivi: «impedire lo smantellamento delle industrie alimentari e manifatturiere con un prevalente mercato interno» (si propone anche di «favorire le produzioni locali»), abolire i «monopoli di fatto, in particolare Telecom Italia, Autostrade, Eni, Enel, Mediaset e Ferrovie dello Stato» e mettere in opera «disincentivi alle aziende che generano un danno sociale (per esempio distributori di acqua in bottiglia)». Nessun cenno, invece, alle «misure immediate per il rilancio della piccola e media impresa sul modello francese» che rappresentano il tredicesimo dei 16 punti. Non conoscendo quale sia «il modello francese» a cui Grillo si riferisce, non è facile capire se questa lacuna del programma dettagliato sia grave o meno.
Infine, quanto alla riduzione del debito pubblico, si ritiene che essa possa essere conseguita «con forti interventi sui costi dello Stato con il taglio degli sprechi e con l’introduzione di nuove tecnologie per consentire al cittadino l’accesso alle informazioni e ai servizi senza bisogno di intermediari» (corrisponde grosso modo al quindicesimo punto).
Trasporti. Per quanto riguarda i trasporti, molti
dei provvedimenti proposti vanno nella direzione di un disincentivo
all’uso dell’automobile nei centri urbani. Quanto alle ferrovie, si
propone il «blocco immediato della Tav in Val di Susa» e per contro lo
«sviluppo delle tratte ferroviarie legate al pendolarismo». Più in
generale, si propone una riduzione della mobilità lavorativa attraverso
incentivi al telelavoro e, ancora una volta, alla copertura dell’intero
paese con la banda larga.
Salute. Anche sul tema della salute, come su quello
dell’ambiente, troviamo punti sviluppati in maniera più argomentata di
quanto accada per gli altri temi. Qui il programma di Grillo parte da
una constatazione corretta, e assai sgradita alle diverse destre
nostrane (tanto Berlusconi/Lega, quanto Monti): «L’Italia è uno dei
pochi paesi con un sistema sanitario pubblico ad accesso universale».
Questa caratteristica è però minacciata da un lato dal federalismo e
dall’attribuzione alle regioni dell’assistenza sanitaria (il testo parla
di devolution, ma il concetto è questo), dall’altro al fatto che «si
tende a organizzare la sanità come un’azienda», facendo prevalere gli
obiettivi economici sulla salute e sulla gratuità dei servizi. La
risposta enunciata nel programma è l’imposizione di un ticket
progressivo e proporzionale al reddito sulle prestazioni non essenziali e
la possibilità di destinare l’8 per mille alla ricerca
medico-scientifica.
Istruzione. Infine, l’istruzione. Qui si chiede
l’abolizione della legge Gelmini, il finanziamento pubblico
esclusivamente per la scuola pubblica e investimenti nella ricerca
universitaria. Per il finanziamento alla scuola (e anche alla sanità) si
può fare riferimento al quattordicesimo dei 16 punti: «ripristino dei
fondi tagliati alla sanità e alla scuola pubblica con tagli alle Grandi
Opere Inutili come la Tav». A occhio sembra un po’ poco… Ma la parte di
programma sull’istruzione che suscita maggiori perplessità è quella
relativa agli strumenti e alle modalità di studio: se si può condividere
l’obiettivo di una «diffusione obbligatoria di internet», la «graduale
abolizione dei libri di scuola stampati» non è affatto condivisibile. Lo
stesso «accesso pubblico via Internet alle lezioni universitarie» non
sembra un obiettivo confortato dai risultati (in genere tutt’altro che
brillanti) ottenuti dalle cosiddette «università a distanza». Infine,
due obiettivi francamente bizzarri, anche se molto di moda, sono le
proposte di insegnamento obbligatorio dell’inglese dall’asilo e di
abolizione del valore legale dei titoli di studio.
Cosa non c’è nel programma economico di Grillo
[...]
Euro. Nel programma in 16 punti troviamo l’unico accenno all’euro e all’Europa che sia dato rinvenire nei programmi del Movimento.
Non a caso, esso non riguarda un giudizio sui pro e contro della moneta unica, né sui processi che attualmente interessano l’Unione monetaria (balcanizzazione finanziaria e progressiva divergenza tra le economie dell’Eurozona, processi entrambi molto negativi per l’Italia e potenzialmente catastrofici per la stessa sopravvivenza della moneta unica), né sulle conseguenze per il nostro paese del cosiddetto fiscal compact e delle misure di austerity depressiva decise a livello europeo (con alcune tra esse, su tutte la riduzione del 5 per cento annuo del debito in eccesso rispetto al 60 per cento del pil, che colpiscono in misura particolarmente grave il nostro paese).
Si tratta invece della proposta di lanciare un «referendum sulla permanenza nell’euro». È un obiettivo che parla direttamente alla necessità, molto avvertita dai cittadini, di decidere del proprio destino e del ruolo dell’Italia in Europa. Ma è un obiettivo sbagliato: anche i critici dell’euro più feroci e conseguenti (si pensi ad Alberto Bagnai) hanno infatti ben chiaro che uno dei presupposti essenziali per un’eventuale uscita non catastrofica di un paese dalla moneta unica consiste nell’avvenire in maniera rapida e inattesa, ponendo altrettanto tempestivamente vincoli sui movimenti dei capitali (in caso contrario, infatti, sarebbero pressoché certi un’enorme fuoriuscita di capitali e il fallimento in serie delle banche del paese interessato). Per questo motivo, è evidente che una campagna referendaria sull’euro condurrebbe l’Italia alla bancarotta ancora prima dell’eventuale uscita dall’euro. In ogni caso, è evidente che quest’unico accenno all’euro, slegato da ogni ragionamento sulla situazione europea (e sulle condizioni italiane in questo contesto), è molto debole e scarsamente persuasivo.
Ma a ben vedere non è questa l’unica, e neppure la principale lacuna del programma del Movimento 5 Stelle. Il punto è che mancano i capitoli cruciali di un ragionamento sulla situazione economica nazionale.
Non a caso, esso non riguarda un giudizio sui pro e contro della moneta unica, né sui processi che attualmente interessano l’Unione monetaria (balcanizzazione finanziaria e progressiva divergenza tra le economie dell’Eurozona, processi entrambi molto negativi per l’Italia e potenzialmente catastrofici per la stessa sopravvivenza della moneta unica), né sulle conseguenze per il nostro paese del cosiddetto fiscal compact e delle misure di austerity depressiva decise a livello europeo (con alcune tra esse, su tutte la riduzione del 5 per cento annuo del debito in eccesso rispetto al 60 per cento del pil, che colpiscono in misura particolarmente grave il nostro paese).
Si tratta invece della proposta di lanciare un «referendum sulla permanenza nell’euro». È un obiettivo che parla direttamente alla necessità, molto avvertita dai cittadini, di decidere del proprio destino e del ruolo dell’Italia in Europa. Ma è un obiettivo sbagliato: anche i critici dell’euro più feroci e conseguenti (si pensi ad Alberto Bagnai) hanno infatti ben chiaro che uno dei presupposti essenziali per un’eventuale uscita non catastrofica di un paese dalla moneta unica consiste nell’avvenire in maniera rapida e inattesa, ponendo altrettanto tempestivamente vincoli sui movimenti dei capitali (in caso contrario, infatti, sarebbero pressoché certi un’enorme fuoriuscita di capitali e il fallimento in serie delle banche del paese interessato). Per questo motivo, è evidente che una campagna referendaria sull’euro condurrebbe l’Italia alla bancarotta ancora prima dell’eventuale uscita dall’euro. In ogni caso, è evidente che quest’unico accenno all’euro, slegato da ogni ragionamento sulla situazione europea (e sulle condizioni italiane in questo contesto), è molto debole e scarsamente persuasivo.
Ma a ben vedere non è questa l’unica, e neppure la principale lacuna del programma del Movimento 5 Stelle. Il punto è che mancano i capitoli cruciali di un ragionamento sulla situazione economica nazionale.
Lavoro. Come abbiamo visto sopra, gli unici cenni
che riguardano il lavoro sono relativi all’abolizione della legge Biagi e
all’indennità di disoccupazione. Un po’ poco in un paese che negli
ultimi due anni ha conosciuto un vero e proprio smantellamento delle
tutele del lavoro consolidate da oltre quarant’anni. L’abolizione di
fatto del diritto di reintegro per i lavoratori licenziati non per
giusta causa (art. 18 dello Statuto dei lavoratori) e lo smantellamento
del presidio rappresentato dalla contrattazione nazionale (grazie alla
manomissione dell’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori e alla libertà
di deroga in peggio a livello aziendale delle condizioni stabilite nel
contratto nazionale) rappresentano, molto semplicemente, una regressione
di quasi mezzo secolo per i diritti dei lavoratori. Ma non
rappresentano soltanto questo. Essi sono altrettanti tasselli di un
modello di competitività che oltre ad essere ingiusto è perdente ed
economicamente fallimentare. [...]
Fisco. Anche il tema del fisco è completamente
trascurato. E dire che si tratta di uno dei nodi chiave per la finanza
pubblica italiana. E quindi anche dal punto di vista del reperimento
delle risorse necessarie a realizzare svariati punti del programma di
Beppe Grillo. Non si può ragionevolmente pensare che la riduzione del
debito pubblico possa essere conseguita – come si afferma nel programma
del Movimento 5 Stelle – soltanto «con forti interventi sui costi dello
Stato con il taglio degli sprechi e con l’introduzione di nuove
tecnologie» (le quali ultime, anzi, abbisognano di ingenti investimenti
che potranno essere ammortizzati in tempi non brevissimi).
Stando ad alcuni interventi pubblici dei mesi scorsi, si direbbe che Beppe Grillo negli ultimi mesi abbia scelto la strada più facile sui temi della fiscalità: quella dell’attacco a Equitalia (comodo capro espiatorio delle leggi sbagliate di questi anni), anziché quella della rivendicazione dell’equità fiscale e del rispetto della legge da parte di tutti i cittadini, a cominciare da chi da sempre scarica sugli altri (soprattutto sui lavoratori dipendenti) l’onere di pagare le tasse. [...]
Stando ad alcuni interventi pubblici dei mesi scorsi, si direbbe che Beppe Grillo negli ultimi mesi abbia scelto la strada più facile sui temi della fiscalità: quella dell’attacco a Equitalia (comodo capro espiatorio delle leggi sbagliate di questi anni), anziché quella della rivendicazione dell’equità fiscale e del rispetto della legge da parte di tutti i cittadini, a cominciare da chi da sempre scarica sugli altri (soprattutto sui lavoratori dipendenti) l’onere di pagare le tasse. [...]
Politica industriale. Le indicazioni del programma
del Movimento 5 Stelle in tema di economia, come abbiamo visto, sono
molto focalizzate sui mercati finanziari, ed esprimono abbastanza
chiaramente gli interessi dei piccoli risparmiatori. Significative al
riguardo la proposta di introdurre una vera class action e anche la
suggestiva idea (purtroppo non meglio precisata) di introdurre
«strutture di reale rappresentanza dei piccoli azionisti nelle società
quotate».
Il problema nasce quando si passa a proposte di politica economica più generale. Il divieto di incrocio azionario tra banche e industria, ad esempio, in una situazione di crisi come l’attuale inasprirebbe la crisi (impedendo la trasformazione di crediti bancari inesigibili – e come è noto in giro ce ne sono parecchi – in partecipazioni azionarie nelle società debitrici). Quanto all’abolizione dei «monopoli di fatto», essa per diversi settori è priva di senso: quando si tratta di monopoli naturali (come nel caso delle autostrade) l’abolizione della condizione di monopolio è, infatti, impossibile. Quello su cui invece varrebbe la pena di ragionare, e seriamente, è se questi monopoli – proprio per la loro ineliminabilità – non siano da riportare sotto un controllo pubblico: solo così, infatti, la connessa rendita di monopolio potrebbe essere ripartita socialmente (anziché intascata dall’azionista privato).
Ma è evidente che il tema della proprietà pubblica delle imprese di interesse strategico, anche per Grillo, come per la stragrande maggioranza dei partiti che si presentano a queste elezioni, è tabù. L’unica eccezione riguarda la dorsale telefonica, di cui Grillo propone il riacquisto da parte dello Stato «al prezzo di costo».
Del pari è ignorata la necessità che lo Stato faccia politiche industriali: ossia elabori piani strategici di sviluppo dei settori principali dell’economia, con chiare politiche di incentivo e di disincentivo. L’unico accenno a politiche di questo genere presente nel programma riguarda i «disincentivi alle aziende che generano un danno sociale»: ben poca cosa rispetto a quanto troviamo nella nostra Costituzione, la quale all’articolo 41 prevede che l’iniziativa economica privata non possa «svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana», e all’articolo 43 dichiara che «a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e abbiano carattere di preminente interesse generale».
Il tema qui sollevato è di importanza cruciale. È infatti ben difficile pensare che l’Italia possa risollevarsi dalla crisi attuale ampliando ulteriormente a spese dello Stato il peso della componente privata nell’economia o, come si dice, del «mercato». L’intervento pubblico è oggi necessario sia sotto un profilo strategico che da un punto di vista più immediato: per affrontare e risolvere le numerosissime crisi aziendali oggi aperte in Italia. Senza questo intervento, l’Italia è destinata a perdere pezzi rilevanti del suo apparato industriale, bruciando irrimediabilmente una quantità difficilmente calcolabile di posti di lavoro. Occorre un intervento pubblico, e occorre che esso sia coordinato e non confusamente decentrato secondo il modello «federalistico» attuale, tanto insostenibile economicamente quanto iniquo e fonte di corruzione. Il programma di Grillo sfiora questo problema, quando, in relazione alla sanità, individua una fonte di pericolo nel federalismo di questi anni. Ma è un giudizio che andrebbe approfondito e soprattutto generalizzato: si pensi alle politiche pubbliche di incentivazione alle imprese, che il federalismo ha disperso in mille rivoli e privato di efficacia, impedendone ogni sensata programmazione sul piano nazionale. Non è un caso se persino Confindustria oggi – un po’ tardivamente – sembra giunta alla conclusione che sia indispensabile una riforma del Titolo V della Costituzione (quello che è stato stravolto in senso «federalista»).
Il problema nasce quando si passa a proposte di politica economica più generale. Il divieto di incrocio azionario tra banche e industria, ad esempio, in una situazione di crisi come l’attuale inasprirebbe la crisi (impedendo la trasformazione di crediti bancari inesigibili – e come è noto in giro ce ne sono parecchi – in partecipazioni azionarie nelle società debitrici). Quanto all’abolizione dei «monopoli di fatto», essa per diversi settori è priva di senso: quando si tratta di monopoli naturali (come nel caso delle autostrade) l’abolizione della condizione di monopolio è, infatti, impossibile. Quello su cui invece varrebbe la pena di ragionare, e seriamente, è se questi monopoli – proprio per la loro ineliminabilità – non siano da riportare sotto un controllo pubblico: solo così, infatti, la connessa rendita di monopolio potrebbe essere ripartita socialmente (anziché intascata dall’azionista privato).
Ma è evidente che il tema della proprietà pubblica delle imprese di interesse strategico, anche per Grillo, come per la stragrande maggioranza dei partiti che si presentano a queste elezioni, è tabù. L’unica eccezione riguarda la dorsale telefonica, di cui Grillo propone il riacquisto da parte dello Stato «al prezzo di costo».
Del pari è ignorata la necessità che lo Stato faccia politiche industriali: ossia elabori piani strategici di sviluppo dei settori principali dell’economia, con chiare politiche di incentivo e di disincentivo. L’unico accenno a politiche di questo genere presente nel programma riguarda i «disincentivi alle aziende che generano un danno sociale»: ben poca cosa rispetto a quanto troviamo nella nostra Costituzione, la quale all’articolo 41 prevede che l’iniziativa economica privata non possa «svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana», e all’articolo 43 dichiara che «a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e abbiano carattere di preminente interesse generale».
Il tema qui sollevato è di importanza cruciale. È infatti ben difficile pensare che l’Italia possa risollevarsi dalla crisi attuale ampliando ulteriormente a spese dello Stato il peso della componente privata nell’economia o, come si dice, del «mercato». L’intervento pubblico è oggi necessario sia sotto un profilo strategico che da un punto di vista più immediato: per affrontare e risolvere le numerosissime crisi aziendali oggi aperte in Italia. Senza questo intervento, l’Italia è destinata a perdere pezzi rilevanti del suo apparato industriale, bruciando irrimediabilmente una quantità difficilmente calcolabile di posti di lavoro. Occorre un intervento pubblico, e occorre che esso sia coordinato e non confusamente decentrato secondo il modello «federalistico» attuale, tanto insostenibile economicamente quanto iniquo e fonte di corruzione. Il programma di Grillo sfiora questo problema, quando, in relazione alla sanità, individua una fonte di pericolo nel federalismo di questi anni. Ma è un giudizio che andrebbe approfondito e soprattutto generalizzato: si pensi alle politiche pubbliche di incentivazione alle imprese, che il federalismo ha disperso in mille rivoli e privato di efficacia, impedendone ogni sensata programmazione sul piano nazionale. Non è un caso se persino Confindustria oggi – un po’ tardivamente – sembra giunta alla conclusione che sia indispensabile una riforma del Titolo V della Costituzione (quello che è stato stravolto in senso «federalista»).
* * *
Uno
Stato che non sia spettatore passivo di ciò che si muove nell’economia,
e che non si limiti a socializzare le perdite dei privati. Un fisco
realmente equo, che premi chi ha sempre pagato e faccia pagare chi può e
deve. Una politica per la competitività basata su formazione pubblica
di qualità (e non strangolata dai tagli lineari) e su maggiori
investimenti (pubblici e privati) in ricerca e sviluppo tecnologico,
anziché continuare a comprimere il costo del lavoro. Un’Italia in grado
di far sentire la propria voce nel consesso europeo, e di rifiutare il
cappio del fiscal compact. Sono queste le priorità di una politica
economica in grado di ridare speranza a questo paese e a chi ci abita.
Purtroppo, su nessuno di questi punti il programma di Grillo è di
qualche aiuto.
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