sabato 1 febbraio 2014

L'Europa al bivio di Guido Viale, http://www.huffingtonpost.it

Share on print Share on email europa Si terrà domani, lunedì 20 gennaio, alle 17,30 a Firenz

Leggi questo articolo su: http://www.gonews.it/2014/tutta-unaltra-europa-un-convegno-per-capire-il-futuro-dellunione-con-parlamentari-costituzionalisti-societa-civile-e-no-profit/#.Uu01b7TDjNE
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L'Europa è a un bivio. Da una parte c'è una strada già segnata e intensamente frequentata dagli organi centrali dell'Unione europea (Commissione, Consiglio e BCE), dal Fondo Monetario Internazionale (IMF), dai Governi dei paesi membri, dai partiti che li sostengono e, soprattutto, dall'alta finanza che domina il mondo. Quella non è che è l'assetto attuale del capitalismo che si manifesta in Europa nelle politiche di austerity, imposte senza alcuna considerazione per i danni che provocano, portando alla dissoluzione l'intero edificio. Ma è anche una strada su cui transitano persone e merci sorde di fronte ai rischi a cui stanno portando i mutamenti climatici, la produzione di armi di distruzione di massa, l'inquinamento di aria, suoli e acqua, la distruzione della biodiversità, l'imperativo di produrre sempre di più perché.
Dal lato opposto c'è una strada ancora in gran parte da costruire: manca per ora un progetto organico, ma soprattutto non è ancora emerso un numero di attori sufficiente a metterla all'ordine del giorno, a realizzarla, a cominciare a frequentarla. E' la direzione di un'umanità che vuole rappacificarsi con l'ambiente senza rinunciare ai benefici che l'evoluzione della scienza e della tecnica consente; che non intende rinunciare al conflitto ma vorrebbe riportarlo in un ambito che escluda sangue e violenza; che cerca di difendere la propria dignità e lavora per recuperare autonomia e benessere personale in contesti di condivisione.
Lungo questo percorso l'attenzione si concentra sui meccanismi che bloccano la spesa pubblica, vagheggiando il ritorno a un mondo di ieri, in cui il potenziamento del welfare e il supporto di un'industria di stato o di una politica industriale dirigista aveva garantito trent'anni di sviluppo quasi ininterrotto. Premessa di questa prospettiva è la rinegoziazione radicale dei trattati che vincolano le politiche economiche ai diktat della finanza: fiscal compact, pareggio di bilancio, two packs, ecc.
Tuttavia affidare occupazione, redditi e benessere alla riproposizione di un massiccio sostegno a domanda e offerta delle produzioni che hanno sorretto la crescita in passato non farebbe che accelerare la corsa verso il baratro: verso un disastro planetario per quanto riguarda l'ambiente; e verso una competizione sempre più serrata di tutti contro tutti destinata a scaricarsi dalle imprese sui lavoratori perché producano sempre di più guadagnando sempre meno: che è ciò che ha portato all'impasse dei giorni nostri.
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Serve invece una radicale riconversione verso produzioni nuove, per recuperare rapporti rispettosi dell'ambiente e ricondurre economia e gestione dei territori entro i limiti della sostenibilità. Una transizione che non può essere affidata solo all'innovazione tecnologica e a produzioni più sostenibili (la cosiddetta green economy), perché richiede radicali cambiamenti di paradigma nella loro gestione.
Per questo molti sottolineano le trasformazioni politiche e istituzionali che entrambi questi approcci richiedono: l'Europa deve trasformarsi in federazione di popoli governati in modo democratico, decentrato, partecipato, capace di sottoporre a un controllo dal basso gli strumenti di governo dell'economia, della politica estera e delle politiche sociali.
Quei tre approcci costituiscono ovviamente un programma di lunga lena, ma tutti e tre vedono nell'Europa un terreno irrinunciabile della lotta politica che porti a una maggiore integrazione culturale, economica e istituzionale e a una maggiore eguaglianza sia tra paesi membri che all'interno di essi. Per questo sono approcci opposti a quelli che individuano la strada per uscire dalla crisi in un ritorno alle sovranità nazionali in campo monetario ("uscita dall'euro" e svalutazioni competitive), tariffario (protezionismo), fiscale (spesa pubblica finanziata da una banca centrale nazionale) e produttivo (nazionalizzazioni: senza prospettare nuove forme di controllo delle comunità sulle imprese). Il paradosso di queste proposte è che, pur presentandosi come alternativa al liberismo, rimangono interamente interne alla sua logica: per recuperare competitività sui mercati internazionali con la svalutazione della propria valuta, in una gara di al ribasso tra paesi impegnati tutti sulla stessa strada, bisognerebbe che ciò che è stato possibile alla Germania in Europa o alla Cina nel mondo sia replicabile per tutti; senza tener conto del fatto che ai surplus commerciali dei "vincenti" devono corrispondere i deficit dei perdenti. Che è il ruolo fatto giocare all'Italia e ai PIIGS in questi anni. Inoltre, un approccio mirato sa recupero di una evanescente sovranità nazionale non tiene conto dell'impatto ambientale delle produzioni in essere, né del fatto che ciò che aveva favorito lo sviluppo economico tra sessanta e trent'anni fa non funziona più né adesso né funzionerà più in futuro, perché altre sono le cose da fare e da produrre.
Il problema è quindi far camminare un progetto che integri quei tre approcci europeisti alla luce delle indicazioni che si possono ricavare dalle dinamiche dei movimenti sociali in atto o in gestazione. Il problema di costruire un'Europa che raccolga le istanze espresse dalle lotte di questi anni viene così a coincidere con quello dell'organizzazione. Come allargare, connettere e omogeneizzare i tanti spezzoni di resistenza e di opposizione al dominio della attuale governance europea su tutte le problematiche del tessuto socio-istituzionale europeo?
Si tratta di creare un "ponte", anzi, molti "ponti" (Alex Langer, che era un vero europeista, amava questa metafora, che ben si combina con quella della strada da costruire) tra realtà differenti per dimensioni, rilevanza, composizione sociale, cultura, tradizione, radicamento territoriale e, ovviamente, per nazionalità e lingua madre. E qual è la leva che può portare a una progressiva interconnessione tra questi elementi? A mio avviso è la conversione ecologica di produzioni e consumi; tema che ingloba quello della giustizia sociale e ambientale. La conversione ecologica è anche un passaggio graduale dal grande al piccolo, dal concentrato al diffuso, dal gerarchico al partecipato, in un generale orientamento alla riterritorializzazione dei processi economici.
Per esempio, dai grandi impianti di estrazione, trasporto, combustione, raffinazione dei combustibili fossili, e di trasporto dell'energia elettrica o dal carburante che se ne ricava, allo sfruttamento delle fonti rinnovabile e all'efficienza energetica in modalità diffuse, distribuite su tutto il territorio, con impianti piccoli e diversificati per fonti e per carichi, individuati con il coinvolgimento degli utenti. O il passaggio dalle coltivazioni intensive che consumano dieci volte più calorie di origine fossile di quante ne producano in termini biologici, a una agricoltura di prossimità, ecologica e multifunzionale. O, ancora, il passaggio da quella incentrata sull'auto privata a una mobilità flessibile, fondata sulla condivisione dei veicoli, ecc. Sono tutti indirizzi che creano molta occupazione e tendono alla rilocalizzazione di molti processi produttivi. Ma la conversione ecologica deve anche ridimensionare (con una politica di accordi diretti tra produttori e utilizzatori o consumatori finali) quella competizione globale, dove per vincere si spingono verso il basso salari, condizioni di lavoro, tutele dell'ambiente e della salute, condizioni di vita, sostegno ai più deboli, trasformando tutti in soldati di un esercito al comando dei rispettivi capitani d'industria o dei gestori della finanza pubblica del proprio paese.
Decisivo in questo processo saranno le amministrazioni locali, perché la riterritorializzazione può venir promossa solo restituendo ai governi locali, adeguatamente sostenuti da una democrazia partecipata di prossimità, i poteri necessari a realizzare questo obiettivo. Rinegoziazione dei vincoli finanziari, conversione ecologica, riterritorializzazione delle produzioni e federalismo municipale si possono dunque saldare in un programma comune che ha il suo perno nella trasformazioni delle produzioni e dei servizi essenziali in "beni comuni".
Naturalmente, tutto ciò sarebbe possibile solo in un quadro di drastico ridimensionato del potere dell'alta finanza: un obiettivo difficilmente realizzabile in modo consensuale. E' assai più verosimile che esso si materializzi in una serie traumatica di shock. Per questo anticipare i processi di riterritorializzazione è anche un modo per difendersi e prevenire gli effetti più devastanti di probabili ritorsioni.

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