mercoledì 13 marzo 2013

Conclusioni di Paolo Ferrero al CPN



La discussione del Comitato Politico Nazionale è stata una buona discussione che però aggrava i problemi che abbiamo davanti: noi abbiamo subito una sconfitta, una sconfitta elettorale pesante. A questa, ieri e oggi si è aggiunta una divisione del gruppo dirigente che è avvenuta in più direzioni.
La divisione nel gruppo dirigente riguarda varie cose, innanzitutto la politica: vi è chi dice che siamo stati troppo a destra, per paura. Dall’altra mi pare si afferma che non siamo stati abbastanza unitari sul versante moderato. Vi sono critiche politiche tra di loro opposte e ho sentito anche rilievi – che non ho ben capito – sul fatto che abbiamo sbagliato a Chianciano. Ritengo sarebbe opportuno esplicitare meglio questi rilievi in modo che si capisca bene cosa si ritiene che abbiamo sbagliato, ad esempio se si pensa che abbiamo sbagliato a proporre una svolta a sinistra rispetto al rapporto con il centro sinistra. Lo dico per avere chiarezza nel nostro dibattito interno. Ad esempio, io su Chianciano ho un enorme rimorso perché penso che come dice Guccini ci siamo arrivati per contrarietà. La battaglia politica andava data prima, prima che facessimo il guaio, perché il guaio grosso l’abbiamo fatto tra il 2006 e il 2008 con il governo Prodi. Penso che il punto di svolta è stato quello, basti pensare che Grillo nel 2006 dava indicazione di voto per le forze della sinistra di alternativa a partire da Rifondazione Comunista. In questo senso anch’io potrei discutere criticamente di Chianciano non pensando che siamo stati troppo netti ma pensando che ci siamo arrivati troppo tardi a correggere la linea e che quegli errori pesano ancora oggi.
In secondo luogo sono emersi problemi rispetto alla gestione del partito. Nello specifico mi pare che il sottoscritto è accusato contemporaneamente di essere troppo attento alle correnti, troppo pattizio e dall’altra di essere troppo di parte, per cui le aree, le correnti ci sarebbero perché il segretario non è stato capace, non ha voluto – questo sul piano politico conta poco – fare una sintesi.
Mi pare opportuno rispondere a questi rilievi. La linea che mi ha guidato è molto semplice, ho sempre cercato di fare la discussione politica in pubblico, cioè che i documenti della Direzione o del Cpn fossero chiari. La discussione politica è avvenuta alla luce del sole ed è stata sempre largamente unitaria. Ad esempio abbiamo discusso un questa sala se ci doveva essere la proposta all’Idv nella costruzione del polo alternativo. Ne abbiamo discusso e abbiamo deciso, in modo trasparente. Nel dibattito le posizioni esplicitate si son sempre potute esplicitare chiaramente e francamente non ho visto particolari militarizzazioni… Anche perché c’è un vantaggio: la stragrande maggioranza dei componenti il CPN non è fatta di funzionari di partito, è fatta da uomini e donne libere che si guadagnano da mangiare col loro lavoro o col tentativo di averne uno. Neanche se si volesse qui si potrebbe ricattare qualcuno!
Ho sempre tentato di fare così, di avere una chiarezza sull’indirizzo politico, di scrivere lo cose chiaramente e francamente non vedo particolari chiusure a sinistra: il 27 ottobre siamo andati in piazza al NO Monti day, ci siamo andati convintamente – anche se forse non tutti hanno partecipato – e lo abbiamo deciso in modo trasparente in Direzione Nazionale.
Parallelamente, nella chiarezza sull’indirizzo politico, ho sempre cercato di essere molto attento all’unità del gruppo dirigente nella gestione del partito. Ho sempre pensato, da Chianciano in avanti, che il trauma della divisione del gruppo dirigente centrale aveva prodotto un trauma dentro al partito, e che era compito del segretario di lavorare ad evitare che si riproducessero giorno dopo giorno nuove rotture dentro il gruppo dirigente.
In base a questo orientamento ho certo fatto anche degli errori: Sansonetti è rimasto a dirigere il giornale per mesi, visto che pareva che la scissione di Vendola da Rifondazione fosse legata alla eventuale rimozione di Sansonetti. Ho lavorato per evitare la scissione e penso sia stato giusto farlo. Così come quando abbiamo avuto la scissione, ho lavorato quanto possibile perché i compagni e le compagne che sono rimasti non venissero “schiacciati”, anzi venissero valorizzati.
Io ho lavorato in questo modo perché considero dovere politico di un gruppo dirigente di essere chiaro nella definizione dell’indirizzo politico ma poi di lavorare al massimo di unità del gruppo dirigente. Definire in modo chiaro l’essenziale e poi gestire unitariamente distinguendo le cose primarie da quelle secondarie. Di questo modo di procedere me ne assumo totalmente la responsabilità.
Aggiungo una cosa. Questo per me vale anche nel rapporto più in generale con il partito. Ad esempio l’ultimo errore – che nessuno mi ha imputato – l’ho fatto nella costruzione delle liste. Io ero super convinto che non mi dovevo candidare, lo consideravo un punto importante nella definizione del nostro profilo di partito. Dopo di ché, tutti quelli che ho sentito mi hanno detto: no, ti devi candidare, perché c’è il segretario deve rappresentare il partito e così via. Così ho accettato di essere candidato e nelle condizioni materiali in cui noi eravamo, se volevamo che il partito facesse campagna elettorale unitariamente, senza litigare al suo interno, se c’era Ferrero ci dovevano essere anche altri. La mia candidatura, richiesta da tutti, portava con se la candidatura della rappresentanza del gruppo dirigente. Questa attenzione a cosa pensava il partito, ci ha portato – io credo – a fare un errore politico. Ovviamente questo non c’entra nulla con il raggiungimento del 4%, ma si poteva forse evitare.
Quindi ho operato per avere una linea politica chiara e contemporaneamente il massimo di unità del gruppo dirigente. Questo ho fatto ed ha funzionato fino a 15 giorni fa, fino alle elezioni. Probabilmente se alle elezioni superavamo il 4% funzionerebbe anche adesso e invece, avendo perso, è saltata l’unità nel gruppo dirigente. Non credo che sia un grande risultato questa divisione. Per altro, lo segnalo per la cronaca, la richiesta di dimissioni al segretario era già oggetto di discussione anche prima. Credo di dover ringraziare l’elezione di Luigi De Magistris, per il fatto di non aver discusso negli stessi termini di oggi dopo le amministrative di qualche tempo fa. Perché allora – non un secolo fa, qualche tempo fa – la stessa aggregazione che oggi ha fatto il 2%, vinse le elezioni a Napoli, producendo un fatto politico di qualche rilevanza. Così come un anno fa, un’aggregazione similare ha vinto le elezioni a Palermo con Orlando. Quei successi elettorali hanno determinato il fatto che la richiesta di dimissioni, non siano state formalizzate già da tempo nel gruppo dirigente. Così come è curioso che dopo le regionali siciliane di pochi mesi fa, fossimo noi tutti, unitariamente a dire che Di Pietro aveva sbagliato pesantemente a non fare la lista unitaria alle elezioni regionali. Perché è vero che ci sono dei generali che sanno solo vincere la battaglia che hanno appena perso, ma ci sono anche dei generali che hanno ma memoria molto corta.
In ogni caso, il nodo che abbiamo davanti è che alla sconfitta elettorale si somma la divisione del gruppo dirigente. La cosa che vi chiedo con molta nettezza è che in questa situazione, certo non magnifica, il gruppo dirigente – questo gruppo dirigente qui, che qualcuno considera delegittimato a fare e dire qualsiasi cosa – invece debba decidere. Decidere con chiarezza.
C’è un torto che non possiamo fare al partito – mimando cosa hanno fatto i dirigenti di Lotta Continua alla loro organizzazione a metà degli anni Settanta – e cioè di distruggere il partito dall’alto, dissolvendo il gruppo dirigente. Questo non dobbiamo e non possiamo farlo. Il gruppo dirigente, che ha deciso nel bene e nel male a larga maggioranza quello che si doveva fare elezioni, fa il santo favore di indicare al partito cosa si deve fare domani. Poi, quando il partito cambierà il gruppo dirigente quel gruppo dirigente deciderà, ma per intanto c’è un minimo principio di responsabilità che fa sì che i compagni e le compagne debbono avere almeno qualcuno con cui poter litigare. Non si può, dopo una sconfitta, aggravarla producendo il vuoto cosmico con il dissolvimento del gruppo dirigente. Vi è una responsabilità collettiva che va del tutto al di la delle legittime scelte individuali ed è una scelta di responsabilità del gruppo dirigente in quanto tale.
Dopo passeremo a votazioni che – sentito il dibattito – non saranno unitarie. La cosa che dev’essere chiara è che le decisioni che verranno assunte valgono per tutti, qualsiasi decisione sia. La cosa che oggi non possiamo fare è dar luogo a un processo decisionale e poi ad un certo punto – facendo leva sull’entità delle divisioni – mettere in discussione la legittimità dell’organismo dirigente a decidere. Su questo dobbiamo essere al chiaro: questo Cpn non può uscire senza aver deciso cosa si deve fare, perché il segnale di una mancata decisione, rispetto al partito, sarebbe devastante.
Questo Cpn può sbagliare, come abbiamo fatto pare moltissime volte, ma non può non decidere. In questo senso dobbiamo reciprocamente darci un affidamento. Quello che viene deciso a maggioranza, sia una maggioranza larga, sia striminzita, viene applicato ed accettato da tutti. Dopo la sconfitta non possiamo mettere a rischio la tenuta del partito con una gazzarra nel gruppo dirigente. La traduco in un altro modo: la divisione del gruppo dirigente non dev’essere costituente la dissoluzione del partito, deve stare dentro il quadro delle regole che ci siamo dati perché la tenuta di quell’organizzazione politica che si chiama Rifondazione comunista è il nostro obiettivo, la pupilla dei nostri occhi.
Oggi dobbiamo scegliere una strada. Ovviamente io con la relazione ne ho proposta una e la sosterrò nelle votazioni, perché le altre non mi convincono. Il congresso subito a me non convince per una ragione di fondo che Ugo Boghetta ha sottolineato nel suo intervento.
Boghetta ha praticato una distinzione tra programma e progetto e ha detto “a noi manca il progetto”. Sono d’accordo. Detta con altre parole equivale alla considerazione che ho fatto che la nostra sconfitta elettorale era da far risalire principalmente al fatto che la gente non capiva bene qual era l’utilità del voto a Rivoluzione civile. Io penso che questo è il nostro problema, il progetto, la nostra ragione storica di esistenza qui ed ora nel nostro paese. Il senso di fondo della nostra impresa.
Badate, per certi versi penso che questo è stato il problema del Prc nel corso della sua esistenza. La differenza è che quando è nata Rifondazione comunista aveva dietro di sé il patrimonio del Partito comunista. Quando noi abbiamo preso il 14% nel 1993 a Torino alle comunali e io sono stato eletto consigliere comunale, il Pd prese il 9,5%. Questo avvenne perché noi rappresentavamo la continuità con quella storia…Noi oggi questo patrimonio non l’abbiamo più.
Questo tema del progetto, del cosa ci stiamo a fare in questo Paese, del compito storico dei comunisti in questo paese, non lo abbiamo per nulla risolto. La mia opinione è che il livello della discussione che abbiamo oggi – la paura, dobbiamo allearci un po’ di più o un po’ di meno, un po’ più a destra o un po’ più a sinistra – non è per nulla all’altezza di questo problema. Questa è la mia valutazione. Noi non abbiamo nemmeno una valutazione del fenomeno di Grillo – che è il principale fenomeno politico che è avvenuto in queste elezioni – che sia minimamente articolato.
Bisognerà scomporre, decostruire, capire cos’è successo. Così come quando qualcuno dice “c’è uno spazio enorme per la sinistra di alternativa” e fa coincidere i voti di Grillo con lo spazio di alternativa, secondo me è matto. Dentro i voti a Grillo c’è molto voto proletario, molto voto giovanile e molte culture di destra sedimentate in profondità! Adesso però non voglio qui discutere di Grillo, solo sottolineare che dobbiamo affrontare con maggiore serietà e profondità di analisi la situazione in cui operiamo. Occorre un percorso di discussione, di analisi, di re-immersione nella comprensione del Paese perché il livello di elaborazione che abbiamo tra di noi è insufficiente a fare una proposta per un partito comunista oggi.
In questo senso la nostra sconfitta – come diceva Roberta Fantozzi – è maturata nell’ultima parte di campagna elettorale ma rimanda anche ad elementi di fondo. Lo stesso processo della Rifondazione comunista degli anni gloriosi – che io in larga parte condivido anche se è oggetto di giudizi diversi all’interno del partito – è stato il portare dentro Rifondazione comunista tutte le innovazioni culturali che la sinistra socialista prima e la nuova sinistra poi aveva fatto nel corso degli anni ’50, ’60 e ’70. Non di più.
Penso che per rilanciare il partito bisogna che il gruppo dirigente ed il partito si accorga che c’è un deficit di elaborazione. E questo deficit bisogna provare ad affrontarlo. Per questo la mia opinione è che le soluzioni immediate e salvifiche non fanno i conti col problema reale. Le soluzioni a breve mi paiono non all’altezza e non definite politicamente. Ho ascoltato l’accorato appello di Alfio Nicotra a parlare con Claudio Grassi, Claudio ne aveva fatto uno a Chianciano a me e a Nichi per parlarci: evidentemente devo avere un problema, non riesco a parlare. Così come ho sentito dire che le persone sono dei simboli. C’è già qualcuno che ha ridotto nella nostra recente le persone a simboli e tenderei ad evitare. In ogni caso vorrei evitare che invece dei problemi politici discutessimo come se i problemi fossero i rapporti tra le persone. Invece di discutere di politica ci si adagia su una lettura da fotoromanzo in cui ci sono i carrieristi, i poltronai, quelli che si innamorano del ruolo . eviterei di degradare fino a questo punto la discussione.
Tra chi pensa, detta brutalmente, che bisogna proporre la sinistra di alternativa e guardare alla nostra destra, a SEL che ha anche un gruppo parlamentare e chi pensa che bisogna guardare molto alla nostra sinistra, non mi sembra ci sia la stessa posizione politica. Non è che risolviamo contraddizioni di questo tipo dicendo che io e Claudio dobbiamo parlare. Per altro tendiamo a discutere, c’è un riconoscimento reciproco, non mi sembra questo il problema.
A me pare che il partito deve cercare di fare un approfondimento, per fare un congresso in cui le tesi non siano semplicemente il riflesso condizionato delle nostre culture politiche di origine, che sono tutte insufficienti per proporre un progetto politico per un partito comunista oggi in Italia: questo a me sembra il problema. In questo senso non vedo soluzioni salvifiche. In questa discussione la cosa che mi ha più colpito, perché più mi mette in discussione, è stato l’intervento del compagno Limoncino, che ha detto «che cosa state facendo con le dimissioni? State scappando!». Questo è l’intervento a cui io penso che bisogna dare più peso, perché non possiamo assolutamente dare questo segnale. Non possiamo essere un gruppo dirigente che scappa.
Il partito può cambiare gruppo dirigente ma questo va fatto sulla base di una proposta che permetta a quel gruppo dirigente di andare avanti. Non si risolve la situazione cambiando il gruppo dirigente senza aver risolto i problemi politici, perché dopo tre mesi sei di nuovo nel casino. Lo dico perché qualcuno ha evocato le prossime elezioni. Ma secondo voi come le facciamo? Se sono a giugno, c’è qualcuno che ha una soluzione risolutiva? Ramon Mantovani ha proposto uno schema: o c’è un processo democratico “una testa un voto” o si va come partito. E’ uno schema che io condivido, sapendo che non è risolutivo dei nostri problemi se si vota a giugno. Non vi sono soluzioni immediate di un problema di fondo. Per questo occorre fare uno straordinario congresso, un congresso lungo, per permetterci di capire e di avanzare un progetto serio. Non siamo in grado non di risolvere in un attimo, in un momento, i problemi che non abbiamo risolto in qualche anno ma dobbiamo porci l’obiettivo, dopo la tranvata che abbiamo preso, di affrontarli seriamente.
Non c’è più alibi per nessuno, noi non possiamo continuare come prima. C’è da ripensare quasi tutto, forme organizzative comprese. Ad esempio il compagno Guagliardi diceva bisogna ripensare un modello in cui i gruppi dirigenti centrali siano eletti più su base territoriale che non dal congresso: io sono d’accordo, questo è un modo per smontare parzialmente le aree organizzate. A questo criterio affiancherei un correttivo: che però il nazionale mette il becco sui territori più di adesso, perché altrimenti il meccanismo passa da correntizio a feudale e non è una buona cosa. Occorre valorizzare la democrazia dal basso ma anche essere molto più fermi di oggi nell’applicazione della linea politica. Ho fatto quest’esempio solo per dire che la nostra riflessione deve riguardare anche il nostro modo di essere forza organizzata.
Aggiungo una notazione politica, che riguarda l’intervento di Alberto Burgio. Sull’analisi di Alberto ho un punto di differenza: la sconfitta è pesante o totale? Io penso sia pesante ma non penso che sia totale, definitiva. Siamo piegati ma non annichiliti. Non sono in altri termini d’accordo con il fatto che il risultato elettorale sia l’unico criterio attorno a cui si valuta un progetto politico. Penso sia sbagliato e ci impedisce di vedere le cose da correggere e la strada da percorrere. La cosa è un po’ più articolata. A me piacerebbe un partito comunista che valuta le elezioni ma discute anche se una federazione ha fatto i Gap o non li ha fatti, quanti immigrati ha iscritto o non ha iscritto, quanti operai è riuscito ad organizzare o non organizzare.
Così come sul piano elettorale farei notare che Lula è stato bocciato tre volte prima di diventare presidente del Brasile e non so che fine avrebbe fatto Syriza se si doveva stare al risultato delle europee del 2009. Il PCF ha avuto qualche problema nelle Presidenziali e oggi la compagna Buffet è una stimata parlamentare comunista mentre il candidato del Front de Gauche è stato il compagno Mélenchon, che ha scritto uno splendido libro che ha venduto 125mila copie che si chiama: “Se ne vadano tutti”. Il compagno Melenchon era ministro del governo Jospin… Occorre a mio parere essere un po’ più articolati.
Più articolati anche sulla vicenda di Taranto. Non sono per nulla d’accordo con quanto ha detto Imma Barbarossa. Io sono orgoglioso di essere il segretario di un partito comunista in cui il Circolo di Fabbrica dell’Ilva di Taranto ha fatto un volantino contro le lotte fomentate dall’azienda e dai sindacati gialli contro la magistratura. Hanno scritto: “oggi c’è una cosa nuova, noi comunisti non scioperiamo, proprio noi che siamo sempre in testa alle lotte non ci facciamo ricattare dall’azienda contro la magistratura”. Non era facile per i compagni dell’ILVA non scioperare quel giorno e mi chiedo, quante volte nella storia del movimento operaio degli operai son riusciti a fare questo? A dire che non si può stare con il padrone per difendere il posto di lavoro contro l’ambiente? Eppure la posizione dei nostri compagni ha permesso di aiutare una maturazione nella Fiom e di modificare anche la posizione dei lavoratori. Nel giro di 15 giorni a Taranto si è passati dalle lotte a favore del padrone alle lotte contro il padrone, in virtù dell’aver tenuto una linea giusta. Io sono orgoglioso di questi nostri compagni operai e questo modo di discutere un po’ impressionistico a me pare sbagliato ed ingeneroso.
Voglio inoltre sollevare un ultimo problema a chi fa derivare dalla sconfitta elettorale un giudizio catastrofico sulla nostra azione politica. La domanda è, ma secondo voi Rivoluzione civile è stata sconfitta perché aveva un profilo politico troppo simile alla nostra proposta politica o perché ce l’aveva troppo diverso? Io ho l’impressione che il problema è che era troppo diverso. Il problema che abbiamo avuto in campagna elettorale è che tutto il lavoro accumulato in questi anni, il lavoro sociale, sui problemi operai, della scuola, dei giovani, sulla critica dell’economia politica, sul Fiscal compact, è sostanzialmente svanito nella comunicazione. Dico questo ringraziando Ingroia, che ha fatto quello che poteva, generosamente, mettendoci la faccia. Purtroppo la comunicazione che è passata era troppo distante dalle questioni sociali e non ha funzionato. Eviterei quindi di far discendere dal risultato elettorale un giudizio così apocalittico su di noi perché una delle ragioni della sconfitta è proprio che il profilo politico che ha assunto quella lista era troppo distante da quello che proponevamo.
Si poteva fare diversamente nella sostanza? Io non penso. Abbiamo lavorato per correggere, per migliorare, senza rompere, perché non potevamo rompere e io non avevo il mandato per rompere. Dal modo in cui si sono fatte le liste alla gestione della campagna elettorale certo di problemi ce ne sono stati tanti. Ma mi avreste preso per matto se avessi determinato una rottura di quel processo che avevamo ricercato con forza.
In questo senso non è la segreteria, è proprio il segretario che ha la responsabilità di aver accettato quel livello di mediazione perché considerava troppo rischioso arrivare ad una rottura. Quindi questa è totale responsabilità mia e come sempre quando si contratta il punto della definizione è oggetto di discussione. La mia opinione è che non eravamo nelle condizioni di poter fare molto altro, anche quando questo riguardava il sottoscritto. Perché io per l’appunto avrei molto preferito poter dire a Nicoletta Dosio ‘entri tu come terza in lista in Piemonte ed esco io’, avrebbe risolto qualche problema politico. Non potevo però farlo perché non me la sono sentita di violare le decisioni che avevamo assunto. In questo senso la responsabilità delle mediazioni me la carico proprio tutta.
Finisco dicendo che quando proponiamo, quando propongo, il congresso lungo, lo faccio per due ragioni:
la prima è che non abbiamo oggi gli elementi per definire il progetto di cui abbiamo bisogno per uscire dalla situazione in cui siamo; la seconda è che però non possiamo far finta che si possa proseguire così, che si possa proseguire senza un congresso.
Io penso che dobbiamo trovare una via di mezzo, anche perché legittimamente le minoranze chiedono un congresso. Penso che bisogna avere il senso dell’equilibrio, definire un percorso che ci permetta di ragionare a fondo per avanzare una proposta che alla fine deve essere validata dal congresso. Così come il partito ha il diritto di definire in un percorso congressuale i suoi gruppi dirigenti. Non si può dire “subito” ma è anche sbagliato dire “mai”, c’è un problema di discussione ma anche di dare la parola ai compagni cercando di farlo nel modo migliore.
Il fatto di proporre uno “straordinario congresso” non vuol dire che allora rimaniamo in stand-by per mesi a discutere mentre il mondo cambia alla velocità della luce. Nella relazione ho avanzato delle proposte.
In primo luogo occorre rilanciare l’iniziativa politica immediata, dalle manifestazioni No Ponte, No Tav e No Muos. Inoltre va fatta subito una campagna politica intitolata “loro giocano a rimpiattino e il Paese va alla malora”, dove loro sono tutti i gruppi parlamentari. Va fatta una campagna aggressiva su questo. Va fatta per ridare il senso del ruolo di Rifondazione comunista, cioè che cosa ci stanno a fare i comunisti questo lo definisce più che mille altre discussioni. Anche perché si dice: cosa succede se ci sono le elezioni? O si pensa di andare ad attaccare il capello all’attaccapanni di qualcun altro – cosa che sarà presente perché il Pd immagino sarebbe molto meno ruvido nei rapporti a sinistra nella prossima fase – o si rilancia l’iniziativa politica. Io penso che bisogna immediatamente riprendere iniziativa politica su temi sociali che parlino ai quei milioni di persone che hanno votato per cambiare.
In secondo luogo occorre lavorare alla costruzione di una sinistra di alternativa, proponendo lo schema che ha riproposto mantovani nell’intervento: basta con le forme pattizie, occorre costruire un processo di unità basato sul principio “una testa un voto”. Dagli errori bisogna imparare. Quando abbiamo pensato quello Statuto della Federazione della Sinistra noi abbiamo definito una forma pattizia che era quella che ha permesso la costruzione della Federazione. Lo abbiamo fatto anche perché se proponevamo allora il principio “una testa un voto” un po’ di gente diceva «ma allora stai sciogliendo il partito», o mi sbaglio? Adesso abbiamo visto che la forma pattizia non ha funzionato né con la Federazione della Sinistra ne con Rivoluzione Civile e dobbiamo proporre il principio “una testa un voto”, sapendo che non sciogliamo il partito. Questa indicazione la dobbiamo lanciare subito, immediatamente.
In terzo luogo dobbiamo fare la Rifondazione di Rifondazione. Dobbiamo cioè ricostruire le ragioni politiche e le forme organizzative attraverso cui rifondare l’esistenza di Rifondazione Comunista. Io penso che le ragioni della rifondazione di un partito comunista siano non solo integre ma rafforzate: se diciamo che la fase attuale è caratterizzata dall’alternativa socialismo o barbarie, dobbiamo tradurre in termini comprensibili a livello di massa, l’attualità del comunismo, del socialismo. Questo è il punto fondante che motiva l’esistenza di un partito comunista. Quando dico che non vedo oggi le condizioni di un partito di massa non sto dicendo che voglio parlare a 15 persone, sto dicendo che bisogna prendere atto di come siamo concretamente per ripartire, per parlare al paese. In questo rilancio della prospettiva del socialismo del XXI secolo, dell’attualità storica della modifica dei rapporti di produzione, si pone la necessità di un raccordo forte con le esperienza latinoamericane e l’internità al processo della sinistra europea.
Tradotta in italiano: dobbiamo uscire dal ruolo di coloro che denunciano l’arretramento – che è la cosa che stiamo facendo non da un anno, non da sei mesi, ma da qualche anno – senza riuscire a invertire la tendenza. Dobbiamo diventare quelli che sono in grado di indicare una strada di trasformazione qui ed ora, individuando le gambe su cui camminare: questo è il nodo del progetto.
Penso che queste tre cose: iniziativa politica immediata, lancio della sinistra di alternativa e rifondazione del partito a partire dal suo progetto, sono le cose che si possono e si debbono fare subito. Compito difficile ma possibile e soprattutto vitale.

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