sabato 1 febbraio 2014

Messaggio di Bankitalia al sanfedismo italiano: in banca non c'è più trippa per gatti

Messaggio di Bankitalia al sanfedismo italiano: in banca non c'è più trippa per gatti
Sfogli il sito di Confindustria e non trovi altro che fisco e costo del lavoro. Leggi di primo mattino la prima pagina del loro quotidiano e praticamente da un anno non fanno altro che pubblicare paginoni di imu, tasi, tares per la gioia dei commercialisti italiani che, assieme ad altre categorie di professionisti, a detta dell’editorialista del Sole Carlo Bastasin, si mangiano una fetta di ricchezza 5-6 volte superiore a quella di altri paesi europei.Leggi il Bollettino di Bankitalia: quel poco che si vede, gracile, differenziato per territori e settori, non è altro che una bassa crescita derivante dalla ricostituzione delle scorte di magazzino e da un po’ di vendite all’estero, mentre la disoccupazione è destinata ad aumentare per almeno altri due anni. Ritorni sul sito della Banca Centrale e trovi un intervento del 27 gennaio scorso all’Adam Smith Society italiana, una che da decenni fa la manfrina del “costo del lavoro”, e ti imbatti in una sorprendente relazione del vice direttore generale di Bankitalia Fabio Panetta, dal titolo “Un sistema finanziario per la crescita”.
Non trovi la  “casta”, non trovi i dipendenti pubblici da licenziare, non trovi operai a cui decurtare della metà il già misero salario. Anzi, costui afferma che è cresciuta in maniera esponenziale la disuguaglianza di reddito durante la crisi. Andiamo al nocciolo della questione, il rapporto tra credito e imprese. Come mai sono cresciute le sofferenze bancarie ad un livello stratosferico? Leggiamo: “la crescita dei prestiti inesigibili è stata amplificata dalla fragilità finanziaria delle imprese. Il contenuto grado di patrimonializzazione e il conseguente elevato peso del debito hanno compresso la redditività delle aziende, fiaccandone la resistenza a shock esterni; si tratta di debolezze presenti già nello scorso decennio, emerse in tutta la loro gravità durante la recessione”(pag. 5). Traduciamo con dei numeri: fino al 2000 il rapporto prestiti bancari alle imprese  e PIL era del 40%, nel 2008 aumenta di 15 punti percentuali. Risultato? I prestiti deteriorati rappresentano oggi ¼ del totale degl impieghi, le sofferenze il 12%.

Per la vulgata corrente la crisi italiana è da attribuire alle banche; Panetta, al contrario, afferma che tale modo di pensare “trascura i problemi derivanti dalla fragilità finanziaria delle imprese”, giacché “la sostenuta espansione dei prestiti bancari dal 2000 al 2008 ha trovato riscontro in quella dei debiti delle  imprese, saliti in rapporto al valore aggiunto di oltre 50 punti percentuali, arrivando al 178%”. Nel frattempo però, a detta di Panetta, i padroni non hanno accresciuto gli sforzi per sostenere gli oneri finanziari, non si sono patrimonializzati, la leva, cioè il rapporto tra debito e attivo, è passata dal 34 al 43% (11 punti più alta della media europea),  non hanno fatto investimenti per aumentare la produttività, nel mentre il grado di copertura interna dei pochi investimenti che si sono fatti nel passato decennio scendeva al minimo storico del 38%, al resto ci pensava la banca, tanto con la favorevole tassazione degli oneri sul debito in luogo dell’equity potevi farlo, fino a quando è arrivato il patatrac.
Soluzione? Per Panetta va riequilibrato il sistema di finanziamento, va cioè ammodernato il sistema finanziario, notevolmente arretrato rispetto ad altri paesi europei e per far questo le imprese devono cambiare mentalità. Pena, la decadenza. E’ esplicito al riguardo e dà l’idea della posta in gioco: “il riequilibrio della struttura finanziaria delle nostre aziende, per riportarne il leverage in linea con la media europea, richiederebbe la conversione in strumenti patrimoniali di un ammontare di debiti stimabile tra i 150 e i 220 miliardi di euro”. Ogni commento è superfluo. La modalità passa attraverso le emissioni obbligazionarie, la quotazione azionaria e, consiglia Panetta, la conversione in capitale di una percentuale dell’ammontare complessivo dei profitti industriali, che nel 2012, peraltro anno terribile, sono stati pari a 60 miliardi di euro.

Passiamo ora al capitale di rischio mediante la quotazione azionaria. Come stanno messe le imprese italiane che passano il tempo a parlare di “costo del lavoro”? Insomma, perché non si quotano? Esplicito al riguardo il vice direttore di Bankitalia: “nel nostro paese l’insufficiente sviluppo della borsa non dipende dalla mancanza di società quotabili. Esso riflette in primo luogo le scelte delle stesse imprese: le aziende italiane, caratterizzate da un’elevata concentrazione delle azioni nelle mani di pochi soggetti, spesso legati da rapporti familiari, sono restie ad aprirsi. La crescita dimensionale, l’accesso ai mercati comportano oneri in relazione alla maggiore visibilità agli occhi delle autorità di controllo, degli azionisti di minoranza e soprattutto del fisco (che Panetta ritiene chissà perché eccessivamente gravoso); essa risente inoltre del fermo intento di mantenere il controllo delle imprese, talora al costo di rinunciare a dotarsi di strumenti finanziari e manageriali necessari per sopravvivere alla concorrenza internazionale”. Insomma, quando i padroni parlano di costo del lavoro, di fisco, di politica, di banche, di credit crunch sappiate che sono grandi prese per i fondelli e a Bankitalia non ci cascano.  Non a caso il 31 maggio scorso, nel corso della Relazione Finale, il Governatore Visco ebbe modo di dire che poche imprese italiane erano all’altezza. Peccato che da quelle parti non corra più il pensiero di Menichella del 1945, quando questi chiese agli americani di mantenere l’economia mista, data la gracilità delle imprese private italiane. A Palazzo Koch non avranno più quella lucidità e quella spregiudicatezza, ma un minimo di buon senso è rimasto, a differenza di quel che passano i media mainstream.
di Pasquale Cicalese da Marx XXI

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