In Italia si sta ripresentando, per l’ennesima volta, nel dibattito politico dei comunisti (siano essi organizzati o no) in riferimento al progetto politico da perseguire in questa fase di sconfitta storica (in altre parole: quale obiettivo porre per i comunisti, il “cosa fare” adesso), l’alternativa secca tra partito/unità dei comunisti da una parte e movimento/unità delle “sinistre” dall’altra. Da anni la riproposizione di questo dibattito avviene con una puntualità ricorrente, segnata in primo luogo dalle scadenze elettorali, poi dalle loro successive sconfitte e in ultimo dalle fasi congressuali dove i nodi solitamente vengono al pettine.
Per chi ha anche una minima memoria storica si ricorderà che un dibattito simile ci fu, tra le altre volte, anche verso la fine degli anni ‘80, dopo la batosta elettorale del 1988, e dopo il secondo governo Prodi e l’allora congresso del Prc. Le ipotesi che venivano messe in campo allora per uscire dalla crisi nera in cui ci eravamo cacciati (al punto che in parlamento non vi era più nemmeno una forza organizzata che si richiamasse al comunismo), erano l’ipotesi della “Costituente dei comunisti” in contrapposizione alla “costituente della sinistra”. Se dopo quasi trent’anni, con una situazione che per i “comunisti” si è fatta talmente tragica che più tragica non si può, si è ancora fermi alle opzioni politiche di allora forse qualche ripensamento dovrebbe (im)porsi nella testa di coloro che si richiamano, se non al comunismo, alla sinistra, sia essa di classe, anticapitalistica, antiliberista, antagonista, ecc.: qua gli aggettivi necessariamente si sprecano per tentare di connotare un termine così generico!
Questa autocritica riflessione dovrebbe essere ineluttabile se si considera che le due “opzioni/necessità” politiche di allora (e che ci ritroviamo tra le mani tuttora basti pensare al dibattito interno al Prc tra coloro che ripropongono la necessità di discriminanti programmatiche comuniste da partito comunista in contrapposizione alternativa con il progetto di un “soggetto unitario e plurale della sinistra” alternativo al PD) hanno portato in questi anni, non solo ad un bel nulla, ma ad un ulteriore arretramento politico, frammentazione, minoritarismo al limite dell’estinzione, dei comunisti. Ambedue gli obiettivi che si ponevano allora i due progetti politici non si sono concretizzati. Non si è formato nessun partito comunista degno di questo nome, né tantomeno si è formato a livello politico un movimento/partito unitario di sinistra.
Stante tale situazione si imporrebbero quantomeno due domande. La prima è la seguente: se non è stata possibile la realizzazione di quelle ipotesi politiche, quali furono le motivazioni del loro insuccesso? Forse è il caso di pensare che non era possibile che si concretizzassero o che non lo erano in quelle condizioni? La seconda domanda, forse più importante, è: ci sono le condizioni attualmente perché ciò si verifichi? Iniziamo con il tentare di dare risposta a queste due domande.
Dopo trent’anni di continue sconfitte a tutti i livelli dello scontro di classe, dal livello teorico, ideologico, a quello politico fino a quello economico sociale, tra coloro che più coerentemente si richiamano al comunismo l’obiettivo e il progetto della “costruzione del partito” o quanto meno di una organizzazione che risolva il problema dell’unità dei comunisti, viene sentito prioritario e preliminare rispetto all’ennesima riproposizione “movimentista”, “politicista” e spesso solo “elettoralistica” di una “unità delle sinistre”. Ciò è comprensibilissimo. Un partito comunista (almeno come storicamente lo abbiamo conosciuto nel secolo scorso nel movimento operaio e comunista), coeso attorno ad un solido gruppo dirigente unito, significa storicamente (e non solo nell’immaginario collettivo dei militanti) garanzia di una autonomia teorica rivoluzionaria, condizione prioritaria e fondamentale per ipotizzare, in relazione sia alla conquista delle “avanguardie di classe” che all’egemonia di settori fondamentali della società, un progetto di rivoluzione e trasformazione sociale che apra una fase di transizione socialista.
Il problema che però fin dall’inizio si pone nell’affrontare questa questione, è se e come sia possibile concretizzare l’unità dei comunisti attorno alla teoria rivoluzionaria, dando per scontato comunque che, pur contraddittoria, disomogenea e sfilacciata, nel suo complesso essa ancora ci sia. E qui sta il problema, visto che nessuna unità è possibile ad un livello così alto e complessivo, il partito appunto, senza un minimo di omogeneità teorica e di progettualità politica strategica. Ecco che allora il problema si delinea in maniera chiara concretizzandosi in una fondamentale questione: quella dello stato del variegato e disomogeneo patrimonio teorico conoscitivo posseduto dai comunisti ( cioè del marxismo inteso nella sua accezione storica più vasta) e del più generale patrimonio ideologico-politico di conoscenza e trasformazione sociale della classe. Ora, se c’è qualcosa che in questi ultimi decenni ha sempre più evidenziato i segni del logoramento e della crisi, a fronte della reazione-restaurazione neocorporativa del capitale imperialistico transnazionale che ha saputo trasformare la sua crisi ormai quarantennale nella più grave crisi del potenziale blocco sociale proletario e popolare e delle forze politiche che ad esso si rifacevano, è il nostro patrimonio teorico e ideologico politico.
Nell’iniziare la disamina della questione, considerata la vastità e la complessità dell’argomento, per comodità di analisi e di ragionamento tralasceremo il riferimento al blocco e alla sconfitta dei processi di transizione socialista in quei paesi dove, in vario modo, vi era stata una presa del potere politico delle forze comuniste (l’inadeguatezza teorica nel comprendere e gestire le contraddizioni e le difficoltà della fase di transizione sono indubitabili). Ciò, pur consapevoli dell’importanza della fase di transizione quale riferimento strategico a cui relazionare anche la complessiva tattica delle forze rivoluzionarie in una fase non rivoluzionaria (ivi compreso tutta la tematica del programma minimo). Per restare nel contesto storico-sociale più vicino a noi e in particolare nel nostro paese, il segno della crisi del patrimonio ideologico-politico di conoscenza e trasformazione sociale e del patrimonio teorico conoscitivo che lo sostanzia, si evidenzia e si esplicita da un lato nell’incapacità di comprendere le modalità nuove e “creative” con cui, cambiando pelle, l’imperialismo transnazionale ha riattivato tutte le varie controtendenze alla crisi. L’accoglimento nel nostro complessivo patrimonio di concezioni teoriche che sono l’espressione, (a livello teorico-scientifiche appunto), del campo sociale a noi antagonista è figlio di questa situazione: la lotta di classe avviene a maggior ragione anche nell’ambito teorico e culturale (là dove vince chi convince). Ragionare con le teorie economiche-sociali del capitale non può che portare a una sua ennesima vittoria (e alla nostra ulteriore sconfitta) e, nella sostanza, all’idea dell’ineluttabilità del rapporto sociale capitalistico.
Dall’altro lato la crisi del nostro patrimonio si palesa nell’incapacità ideologica e politica di comprendere i processi neocorporativi a tal punto che sembra essersi persa ogni visione classista dei processi sociali e di conseguenza dei processi politici che su questi si basano, con il risultato di aver inanellato sconfitte a non finire ad ogni livello dello scontro di classe, da quello ideologico- politico a quello economico rivendicativo: si pensi, per fare solo un esempio, a quanto si sia ridotto contemporaneamente il livello di coscienza della classe e il livello del suo salario sociale complessivo.
Anche se in misura non così accentuata come oggi, tale inadeguatezza e tali limiti del nostro complessivo patrimonio erano presenti già più di una trentina di anni fa nelle forze che riproponevano un percorso unitario rifondativo riconducibili, schematicamente, l’una alla cosiddetta “sinistra rivoluzionaria” (quantomeno a quello che ne restava) e l’altra alla “sinistra” dell’ormai defunto Pci. Infatti, a fronte dell’inadeguata conoscenza del marxismo che accomunava tutti o quasi, la ripresa dello storico patrimonio teorico e politico del movimento comunista e proletario avveniva attraverso le “lenti” dei precedenti impianti teorico politici di riferimento dei vari gruppi. Vi era chi, come nel caso della “sinistra rivoluzionaria”, si riferiva al patrimonio marxista-leninista, terzo internazionalista (nelle sue varianti più o meno staliniste o maoiste), chi alla sinistra comunista, chi al trotskismo o all’operaismo, e nel contempo, ed è il caso di coloro che provenivano dall’esperienza del Pci, vi era chi si riferiva al patrimonio del Pci togliattiano/berlingueriano o ancor prima a quello del Kominform. In sintesi quella ripresa fu viziata, contemporaneamente, da estremismo infantile e da concezioni revisioniste e socialdemocratiche. Il risultato era quanto di più disomogeneo si potesse pensare. Il tentativo di risoluzione dei problemi teorici e il contemporaneo progetto di rifondazione di un complessivo e unitario impianto teorico e politico in ogni caso sortirono due risposte. Da un lato il teoricismo che, sull’onda di quella che allora veniva chiamata “crisi del marxismo” ipotizzava una “prassi teorica” che, “lavorando” sulle categorie ne enucleasse i limiti e le contraddizioni per poi superarli. Dall’altra la concezione che fosse possibile avanzare “assemblando” i migliori contributi che i nuovi movimenti sociali in quegli anni, di volta in volta proponevano (da quello ambientalista a quello terzomondista, da quello di genere a quello studentesco e via discorrendo). Tali risposte, che apparentemente sembravano agli antipodi, ebbero però lo stesso negativo risultato: non risolsero il problema dell’approfondimento/sviluppo del patrimonio teorico conoscitivo, né seppero garantire l’unitarietà dei comunisti in una unica organizzazione/partito.
Tale esperienza storica non può essere accantonata come un incidente di percorso, che sostanzialmente non inficia la possibilità di riprovarci e di riprovarci con le stesse modalità. Essa ci impone di rivedere quell’impostazione politica e di riacquisire e approfondire meglio le modalità con cui sia possibile la ripresa e lo sviluppo del patrimonio teorico conoscitivo.
In quanto scienza sociale esso non si auto sviluppa categorialmente (dalla teoria alla teoria come ritenevano i teoricisti), né si sviluppa nella sommatoria meccanica di spezzoni di altre scienze e ideologie sociali (con le quali ci si rapporta in maniera dialettica sulla base della propria teoria). Esso si approfondisce nel rapporto dialettico con la prassi sociale, quella prassi, sociale e politica, che si pone l’obiettivo della trasformazione e che ha valenza storica, oltre che tempi storici. L’approfondimento e lo sviluppo del patrimonio teorico comunista quindi non può che essere pensato quale risultato di una fase storica, in relazione dialettica col patrimonio ideologico/politico di conoscenza e trasformazione della realtà sociale di cui è parte integrante e, conseguentemente, con le avanguardie rivoluzionarie che questo patrimonio lo “praticano”, sulla base del fatto che nella sua contraddittorietà esso mantiene elementi di “verità” e di “certezza” che lo rendono comunque in parte usabile e praticabile. Ecco perché un progetto politico dei comunisti in questa fase dovrà essere un progetto che possa contemporaneamente far ripartire il processo rivoluzionario di classe nel nostro paese e la centralizzazione delle avanguardie, processo quest’ultimo che potrà portare alla formazione del gruppo dirigente del futuro partito. Il tentare di saltare o ovviare a queste modalità e a questi tempi perseguendo altre strade porta (come dimostrato da questi ultimi trent’anni) al fallimento, come è dimostrato dalla creazione, nel frattempo, di diversi partitini e/o organizzazioni di comunisti. Dobbiamo materialisticamente essere consapevoli che rimarremo per anni con le diversità e contraddizioni all’interno del nostro patrimonio (e conseguentemente con i diversi gruppi, forze e partitini, ognuno con i loro piccoli gruppi dirigenti). Tali diversità e contraddizioni saranno risolte in parte, di volta in volta, solo quando il processo rivoluzionario procederà sia in generale che in particolare nel nostro paese.
Partendo quindi dall’assunto che, senza omogeneità teorica non vi può essere per i comunisti nel loro complesso l’unità in un unico partito o organizzazione, tale obiettivo, ancor più oggi e in questa fase storica, non è nemmeno lontanamente possibile ipotizzarlo e (ri)proporlo. Quindi, lungi dal riprendere scorciatoie fondative o rifondative di partito, financo sotto la mentita spoglia di cartelli elettorali, quello che, in quanto comunisti è possibile e necessario attuare (ognuno con le proprie strutture e organizzazioni), è, per ritornare al progetto politico dei comunisti di cui sopra, un confronto serrato sui quei problemi teorici e politici che sottendono la possibilità di ripresa di un movimento di classe nel nostro paese: dall’analisi della fase a livello economico e sociale all’interno della più generale crisi/ristrutturazione dell’imperialismo finanziario transnazionale, all’analisi delle classi (in particolare del proletariato e del “lavoro subordinato”), alle forze motrici sociali e politiche, alla individuazione delle linee guida (tattiche e strategiche) che devono orientare il progetto politico dei comunisti. Cominciando a entrare nel merito a questi problemi potremo verificare anche se l’ipotesi politica contrapposta a quella del “Partito”, cioè quella di un movimento/partito che sia “soggetto unitario e plurale della sinistra” sia funzionale allo svolgimento di questi compiti.
Il dato da cui dobbiamo partire, è quello che caratterizza la fase storica di scontro di classe in cui ci troviamo ad operare. Tale fase è, se relazionata all’obiettivo rivoluzionario dell’instaurazione del socialismo, indubitabilmente una fase non rivoluzionaria. A fronte di una potenza dell’avversario di classe che ribalta la sua crisi e le sue contraddizioni sul proletariato e gli strati popolari della società, abbiamo nel nostro campo un proletariato (nazionale e non) che dal punto di vista materiale e sociale è disgregato, frantumato e, quando non rientra nelle diverse forme di esercito industriale di riserva, differenziato nelle innumerevoli forme con cui vende la sua forza-lavoro. Ben si comprende che in questa condizione, in relazione alla crisi dell’autonomia teorica di classe comunista, la coscienza di classe sia regredita a livelli pre novecenteschi. L’egemonia neocorporativa (coercizione e consenso) che la grande borghesia finanziaria sovranazionale mantiene sulla classe proletaria e sulle classi popolari, di semi proletariato e piccola borghesia è tale che in questi strati sociali sono maggioritarie e spesso egemoni ideologie aclassiste e piccolo borghesi, reazionarie, scioviniste e razziste. Le stesse ideologie riformiste e socialdemocratiche che conoscevamo fino al secolo scorso sono in netta minoranza. Nel contempo, a livello ideologico e politico, non esistono quasi più forze politiche connotate in termini di classe e di “sinistra”.
In riferimento a tale situazione emergono due considerazioni, l’una strettamente connessa dialetticamente all’altra. La prima consiste nel fatto che i comunisti, pur in riferimento strategico ad una fase prerivoluzionaria, in questa fase, proprio perché non è rivoluzionaria, devono praticare una tattica tesa a modificare e invertire gli attuali rapporti di forza tra le classi, accumulare le forze conquistando la maggioranza della classe al nostro progetto di cambiamento sociale e stabilendo, sulla base di quello, rapporti di “alleanza” sociale e politica con settori popolari non immediatamente riconducibili al proletariato, ma che, in forza dei processi di espropriazione ed oppressione economico-sociale connaturate alla fase imperialista del capitalismo (si pensi a tutta la problematica sulla difesa del salario sociale di classe o all‘opposizione alle tendenze reazionarie), si rendono disponibili appunto ad un processo di cambiamento. La seconda considerazione è riferita al programma con cui si concretizza la tattica sopra indicata. In questo contesto non rivoluzionario, che esclude a priori la praticabilità di obiettivi di transizione socialista, si pone la necessità di ricostruire l’unità della classe e le sue alleanze attorno ad un “programma minimo” che (in riferimento strategico ad una prima fase di transizione dopo la rottura rivoluzionaria) deve assumere in questa fase un carattere popolare, democratico e di resistenza sociale di massa; un programma che sia capace, agendo sulle contraddizioni e divisioni del fronte avversario, non solo di ricompattare il potenziale blocco sociale anticapitalistico, ma anche di strappare quegli obiettivi che di volta in volta si rendano praticabili in base ai reali rapporti di forza.
La tattica che sopra sinteticamente delineavamo necessariamente può articolarsi solo attorno ad un programma minimo di classe e un programma minimo non può che concretizzarsi mediante una tattica come quella sopra indicata, tattica che nel movimento operaio, in concomitanza con gli sviluppi che, dopo Marx ed Engels, ne diedero Lenin e i primi congressi della Terza Internazionale, venne chiamata di “Fronte Unico” ed in seguito, nei suoi aspetti più legati al problema delle alleanze, di “Fronte Unito”. Qui però è fondamentale capire che il livello sociale in cui “agisce” questo “fronte” è quello politico della lotta di classe (quindi né teorico ideologico comunista, né pan sindacale rivendicativo), e la forma che assume il suo essere soggetto politico in grado di dirigere e nel contempo essere espressione del processo sociale che si pone l’obiettivo di una alternativa socialista, in grado di concretizzare e “personificare” il livello dell’unità politica della classe e di questa con le masse popolari (financo nei suoi aspetti istituzionali e parlamentari), di essere struttura operativa, organizzativa, contenitiva delle masse, non può che essere quello di un movimento politico organizzato e non quella di un partito ideologicamente comunista (che tra l’altro non c’è e non potrà esserci per molto, come abbiamo visto), neanche nell’ambigua forma del partito comunista di massa, così come è stata acriticamente ripresa dalla tradizione del Pci. Su obiettivi quali quelli del programma minimo che pongono discriminanti politiche anticapitalistiche di classe e non ideologiche comuniste, tale soggetto non può che essere un soggetto politico unitario connotato politicamente (dalle discriminanti anticapitaliste, antiliberiste, democratiche ecc.), “largo”, espressione diretta della classe e delle sue “avanguardie”, un soggetto che assomigli di più a un organismo di “fronte” più che a un partito politico ideologicamente contrassegnato; un organismo di “fronte” che sappia essere coagulo e organizzazione dal basso dei diversi movimenti e lotte che, appunto sulla base del programma minimo e della sua articolazione, devono sorgere nel paese ai vari livelli, da quello economico sindacale (fondamentale), a quello politico democratico fino a quello culturale e strutturarsi come organismi di massa e di base (come provarono a essere per un certo periodo oltre ai consigli di fabbrica anche i consigli di zona). Quindi un movimento politico organizzato e centralizzato su un progetto di cambiamento politico, che si dovrà dotare di strutture consiliari, territoriali, democratiche (una testa un voto). Strutture/comitati che possano esercitare minimi rapporti di forza in contrapposizione all’avversario di classe, la grande borghesia sovranazionale e i suoi subalterni alleati, al suo stato, al suo governo e alle sue politiche liberiste e antidemocratiche. Tali strutture dovranno essere in grado innanzitutto in questa fase di raccogliere il vasto fronte del lavoro subordinato al capitale. Le iniziative per la costruzione di un movimento di tal genere sono concettualmente parte integrante degli obiettivi immediati dei comunisti. Come nell’ambito sindacale, proprio l’impegno in questi organismi di massa della classe rappresenta il principale lavoro politico della “parte” dei comunisti. I comunisti, quelli che siano, devono porsi il problema di far crescere questo “movimento politico organizzato” che come discriminante politica (non ideologica) ha il “programma minimo”e devono porsi il compito di egemonizzarlo in termini di analisi, di indicazioni politiche, di obiettivi e di lotte, di presenza di compagni che ai vari livelli il movimento selezionerà come quadri dirigenti.
Diventa a questo punto necessario una precisazione. Spesso, fraintendendo l’esperienza storica del movimento operaio e comunista, la cosiddetta “politica di massa” dei comunisti, quando non significava accodarsi alla ciclicità spontanea delle lotte rivendicative, veniva intesa come la propria riproposizione in quanto partito o organizzazione in ogni contesto in cui era possibile organizzare momenti di lotta di classe. Tale impostazione, che non vede nessuna mediazione politica tra il tuo essere “partito” (o il ritenersi tale) e la lotta politica e rivendicativa sociale, è la base del settarismo che ha portato e porta all’isolamento dalle avanguardie sociali e dalle masse in genere. Anche quando, in passato, si tentavano momenti “unitari” questi non erano nient’altro che organismi “interpartitici” o “intergruppi” che non andavano oltre la sommatoria momentanea delle rispettive forze. Bisogna invece pensare che negli organismi di massa, di base, unitari e democratici di un movimento politico che sviluppa lotta politico-sociale, noi comunisti non agiamo come “delegati” di un partito, non “rappresentiamo” un partito o un gruppo, ma contiamo per noi stessi, con le nostre analisi e idee (quelle si “comuniste”), con le nostre indicazioni e il nostro impegno (quello si militante), negli organismi di massa unitari vige, fin dai tempi dei soviet, la democrazia di “una testa un voto”.
In questa fase l’obiettivo della costruzione di un “movimento politico organizzato” può rappresentare l’obiettivo e l’ambito in cui i comunisti operano politicamente in prima persona fin da subito, misurandosi con i reali problemi politici di un processo di alternativa sociale, affrontando i problemi teorici sottesi alla formulazione del “programma minimo”, ristabilendo il rapporto con le avanguardie di classe e innescando un generale processo di crescita politico-sociale che le sappia centralizzare. Questo è il “progetto politico” dei comunisti in questa fase.
Sulla scorta di quanto detto, di come si concretizzi il progetto politico dei comunisti (un movimento politico organizzato imperniato attorno ad un programma minimo e strutturato su organismi di base di ”unità popolare”) e possibile valutare meglio anche l’altro progetto politico, quello della costruzione di una “soggettività unitaria della sinistra” che, in opposizione a quello della “costruzione del Partito”, si muove nel dibattito dei comunisti e non solo.
Il primo aspetto che colpisce è quello per cui questo progetto ripropone, con l’obiettivo di un soggetto unitario della sinistra, una unità tra forze politiche i cui patrimoni teorici, ideologici e strategici sono ben diversi (a volte contrapposti) gli uni dagli altri. Sappiamo bene quanto sia rischiosa di per sé questa proposta e ancor più a quale rischi e fallimenti si vada incontro qualora la si voglia piegare e snaturare per riproporre e ricercare un impossibile livello di unità più alto (in termini di partito comunista). A questo livello l’unità dei comunisti non è possibile. Là invece dove è possibile raggiungere una unità tra i comunisti, ma non solo tra loro (vedi l’ampio arco di forze e militanti di “sinistra”), è a livello tattico politico. Su tutta una serie di battaglie politico sociali e obiettivi (quali quelli del programma minimo) è possibile e necessario arrivare a momenti unitari non saltuari, ma organizzati, arrivando financo a livello elettorale e parlamentare. In tal senso la proposta del soggetto unitario della sinistra ha in generale una indiscutibile validità, anche se con dei limiti che ora proveremo ad illustrare.
Infatti questo progetto prevede una ipotesi di soggetto unitario della sinistra quale risultato dell’unità delle forze di sinistra alternative al PD, comuniste e non, senza pensare (o lasciando molto in ombra questo aspetto) alle strutture sociali nelle quali, in termini programmatici, sia possibile e necessario essere unitari, quelle che nel progetto del movimento politico organizzato individuavamo come le strutture di base (comitati, consigli, circoli, ecc.) su cui potesse reggersi e organizzarsi il movimento politico organizzato che a questo punto può essere il soggetto politico unitario che agisce anche sul piano istituzionale e elettorale (con un nome e un simbolo che ne evidenzi i caratteri di “fronte unitario popolare” nella prospettiva socialista). Senza questa impostazione e strutturazione che permetta fin dalla base una effettiva unità democratica che scongiuri rischi di rottura e scissione, l’unità tra le varie forze alla sinistra del PD rischia di essere una fusione a freddo: raggruppa solo l’esistente in termini di gruppi dirigenti e di militanti e non è in grado di ristabilire il rapporto con le avanguardie politico-sociale della classe e iniziare una fase di radicamento sociale.
A tale limite poi si aggiunge quello relativo al programma, al suo orizzonte e caratterizzazione politica, alle sue modalità di elaborazione. In tal senso se ci rapportiamo a quello che abbiamo definito “programma minimo”, un “programma di attuazione della Costituzione Repubblicana”, pur cogliendo la necessaria minimalità di un programma di obiettivi che sono tutti interni alle regole capitalistiche borghesi, sembra essere estremamente riduttivo nel momento in cui non fa i conti con la contraddittorietà di classe insita in un patto costituzionale frutto di una fase storica di compromesso tra le forze che uscirono dalla resistenza. Sull’impostazione e sui limiti della proposta di un soggetto unitario e plurale della sinistra antiliberista è giusto che si discuta anche al fine di precisare diversità e assonanze col progetto politico da noi qui proposto e far fare un passo in avanti al dibattito sul progetto politico tra tutti i comunisti nel loro complesso.
Riteniamo infatti che l’obiettivo della costruzione di un “movimento politico organizzato” per i comunisti non annulla o sostituisce, ma bensì conferma la necessità di mantenere nel contempo il loro riferimento teorico e ideologico organizzato (in quanto partito, organizzazione, associazione, rivista, gruppo o giornale comunista che sia), questo perché nel loro complesso essi rappresentano l’ambito in cui è possibile affrontare e dibattere dal punto di vista teorico e politico le problematiche che maturano nel “movimento politico organizzato” in relazione allo scontro di classe, riavviando così sia il processo di elaborazione teorica (per non parlare dell’alfabetizzazione teorica), che il processo unitario tra gli stessi comunisti.
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