venerdì 30 marzo 2012

Una legge elettorale per blindare il Parlamento - di Dante Barontini, www.contropiano.org

Incredibile "politica" italiana... Hanno fatto finta di dividersi sul "mercato del lavoro", ma hanno fatto un "vertice" per decidere una legge elettorale contro la democrazia.
Un vertice, un vertice!! La parola che aveva fatto sorridere qualche giornalista “di sinistra” che non riesce ancora cogliere la differenza specifica del governo Monti rispetto ai precedenti si è finalmente incanata in un incontro tra i tre segretari di partito che in Parlamento votano per questo esecutivo.
Di cosa dovevano discuetere mai? Della “riforma del mercato del lavoro”, avrete pensato. In fondo, col Pd così in “sofferenza” e la Cgil sul piedino di guerra, c'era proprio bisogno di fare il punto e trovare una “quadra” tra le varie proproste di modifica a quello schifo.
Avevate pensato male. Al mercato del lavoro ci pensa la Fornero e a voialtri, partiti compresi, non ve ne deve fregare nulla: sarà varata come la vogliono loro e non c'è spazio per cambiamenti, Men che meno sull'art. 18.
E quindi? Hanno discusso di legge elettorale, naturalmente. Di che altro mai dovrebbero parlare tre partiti che non hanno un'idea sparata su quel che sta accadendo nel mondo e sono preoccupati soltanto di garantire le carriere dei rispettivi gruppi dirigenti?
Vediamo l'accordo che han trovato tra loro, con il solito implacabile e implausibile applauso di Giorgio Napolitano.
Due ore di riunione per decidere che sparisce l'obbligo di “coalizione” dichiarata prima del voto, il numero dei parlamentari viene tagliato, sulle liste deve essere presente l'indicazione del candidato premier. Prevista una soglia di sbarramento medio-alta (4% o 5%) per far fuori i partitini, ma si introduce il “diritto di tribuna” per chi era rimasto fuori dalla porta (anche qui dovrà essere stabilita una soglia di sbarramento, altrimenti chiunque si candiderebbe da solo...).
Siccome siamo nella repubblica delle parole in libertà, è stato affermato che la nuova legge "restituisce ai cittadini il potere di scelta dei parlamentari". Ma non sono state reintrodotte le preferenze. Chissà chi sarà chiamato a interpretare la “volontà dei cittadini” rispetto ai singoli eletti.
La riduzione dei parlamentari richiede una modifica costituzionale, ma – detto fatto – sarà pronto uno schema in un paio di settimane (da quando ci sono i “tecnici” le discussioni vengono ridotte a nulla: tanto è tutto già deciso...). Il numero dei parlamentari dovrebbe scendere a 500 deputati e 250 senatori.
L'analisi è semplice.
a) Le maggioranze di governo verranno decise dopo il voto e a seconda del voto, come ai tempi dei governi democristiani.
b) I parlamentari verranno scelti dalle segreterie di partito in base al posto che occuperanno nelle liste elettorali, come con il “porcellum”.
c) Il diritto di opporsi – a meno di sorpresissime all'interno delle urne – viene ridotto al “diritto di tribuna”, ovvero a un singolo deputato o senatore.

A che serve? A garantire che i tre partiti maggiori possano continuare a fare da sostegno parlamentare di un altro “governo tecnico”. Certo, almeno in tre dovrebbero raccogliere più del 50% (anche se ci sarà un robusto “premio” chi prende più voti), altrimenti il gioco non funziona. Ma per il momento sembra essere sufficiente.
Perché diciamo questo? Perché il cuore di un governo è il suo programma economico, politico e sociale. E questo ormai viene deciso altrove, nelle segrete camere di compensazione tra obiettivi del capitale finanziario, imprese multinazionali, principali gruppi di potere nazionali e personale amministrativo sovranazionale. Insomma, tra Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea e Commissione europea, pressati o accompagnati dalle lobby e dagli international advisor di questa o quella società.
La democrazia deve tornare ad essere insomma soltanto una parola. Nessuna decisione "vera" dovrà più dover esser presa mediando tra interessi sociali diversi. Il distillato delle "direttive" arriverà da Bruxelles o Francoforte, e tanto dovrà bastare. Ai partiti nazionali, specie questi gusci vuoti gonfi solo di clientelismo che ci ritroviamo in casa, non resta che il compito di “supportare” con i voti in Parlamento decisioni che non si possono cambiare (Monti docet), pena l'esser prede dell'aumento dello spread e della speculazione globale. Una legge elettorale deve servire a “blindare” il prossimo parlamento, in modo che queste decisioni siano approvate senza discussione. Detto fatto.

giovedì 29 marzo 2012

Sabato tutti a Milano


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di Stefano Galieni
Dalla Bocconi a Piazza Affari, nel cuore finanziario di Milano sfileranno sabato pomeriggio decine di migliaia di manifestanti. Arriveranno in gran parte dalle regioni del centro nord ma, nelle mille difficoltà del periodo si segnala l'organizzazione di pulmann da tutta Italia per questa mobilitazione importante indetta dal Coordinamento No Debito e a cui hanno aderito numerose forze sociali, sindacali e politiche come il Prc. Il segno della manifestazione è esplicito e non lascia spazio ad ambiguità, contro il governo Monti, contro lo strapotere delle banche per la costruzione di percorsi di opposizione tanto radicali quanto capaci di includere i mille rivoli della conflittualità sociale non rappresentati in parlamento. Ci saranno l'Usb e la "Rete 28 Aprile" della Cgil, il coagulo di energie che si condensa in "San Precario, ci saranno lavoratori e lavoratrici provenienti da vertenze sparse per tutto il territorio nazionale.
Sono tante, troppe le aziende in crisi vera o presunta i cui proprietari attendono infatti di veder realizzata quella controriforma del mercato del lavoro che permetterà di abbassare ulteriormente la soglia dei diritti faticosamente conquistati. La manifestazione, come dichiarano i promotori, vuole mettere alcuni punti in chiaro su cui si registrano spesso elementi di micidiale oscillazione. Intanto l'intangibilità dell'Art 18 dello statuto dei lavoratori. Laddove il governo con il bene placito del Presidente della repubblica, riuscisse nel compito di frantumare l'argine che questo articolo rappresenta, si aprirebbero spazi sconfinati ai licenziamenti indiscriminati mascherati da ragioni economiche, sarebbero decine di migliaia le persone che rischierebbero di trovarsi in poco tempo senza lavoro ad una età in cui la nuova occupazione è un miraggio in un contesto caratterizzato dalla recessione e dal generale calo occupazionale. Ma è l'intera riforma che mira alla radice i diritti di chi oggi è lavoratore dipendente, spesso con magro salario e già con la spada di Damocle della chiusura dell'azienda da cui è assunto. Ma sarà forte anche la presenza in piazza di quel vasto mondo del precariato diffuso, del lavoro frantumato in 46 diverse tipologie di contratto, l'una peggiore dell'altra, di quelle che stanno facendo crescere generazioni senza futuro e senza presente. E lo slogan "Occupyamo Piazza Affari" definisce un messaggio di alta portata. Chi sarà in piazza mostra di comprendere perfettamente come le manovre "imposte dall'Europa" come ci viene perennemente ricordato, sono fondamentalmente il frutto di una crisi economica intimamente connessa tanto al modello di sviluppo quanto al predominio del capitale finanziario e delle speculazioni. Si vogliono salvare le banche e non le persone, si mantiene una idea di Europa fondata sul potere della Bce ed è in quel cuore pulsante che va dalla prestigiosa università in Piazza delle Medaglie d'Oro, che ha sfornato i migliori o peggiori cervelli di questo governo , fino alla sede della Borsa Valori che si vive materialmente il senso globale della crisi e la mostruosità delle soluzioni inseguite. Occupare quella piazza significherà per i tanti e le tante che saranno sabato a Milano, poter ricordare che l'1% della popolazione non può sfruttare il 99%.

Legge elettorale, arma di distrazione di massa - Oliviero Diliberto, segretario PdCI

Cicchitto chiama e Monti risponde, anche a costo di perdersi gli elogi di Obama. Il Pdl punta i piedi sulla legge anticorruzione e Monti scatta sull’attenti. Perché a Berlusconi e al Pdl non si può mai dire di no. Un film già visto.
Tassisti, avvocati, professionisti non si toccano. Di Rai non si discute.
Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”: l’ha detto Berlusconi, Monti si allinea.
Invece, sull’articolo 18 il governo decide di andare allo scontro ignorando le richieste del Pd.
E sugli esodati, muro contro muro.
Però, mentre i sindacati convocano uno sciopero unitario sulle pensioni per il 13 aprile e la Cgil giustamente dichiara battaglia sull’articolo 18, il vertice ABC si riunisce per discutere di legge elettorale. Incredibile, il Governo massacra i lavoratori e i segretari dei partiti di maggioranza si riuniscono sulla legge elettorale.
Due le ipotesi: parlano di legge elettorale (una pessima ipotesi, che non elimina alcuna delle nefandezze del porcellum) per sviare l’attenzione dalla riforma del lavoro (si avvicinano le elezioni amministrative…).
Oppure, il quadro politico sta diventando così ingarbugliato che il Pdl e il Pd spingono per assicurarsi una legge elettorale a loro favorevole, succeda quel che succeda.
In ogni caso, da un lato c’è il tentativo del Governo di fare di tutto per distrarre l’opinione pubblica dalla questione enorme dell’eliminazione dell’articolo 18 (e per fare questo va bene anche creare un caso assurdo su una maglietta…) e dall’altro c’è il tentativo dei partiti di maggioranza di costruirsi un quadro elettorale per salvarsi dalla crisi di consensi che stanno subendo e di auto-garantirsi per il futuro
Il centrosinistra, invece, dovrebbe essere unito e avere il coraggio di sparigliare le carte e uscire da questo pantano.
Questo Parlamento di nominati non può modificare la Costituzione e fare un gioco di prestigio sulla legge elettorale.
Questo Governo di tecnici ha esaurito, nel peggiore dei modi, la sua missione sullo “spread” e non ha il mandato per fare riforme sulla pelle dei lavoratori.
Abbiamo una sola possibilità democratica: andare a votare subito. Gli elettori votino quella coalizione e quei partiti di cui condividono le proposte su articolo 18, lavoro, legge elettorale e riforme della Costituzione. Chi vince realizza il suo programma. La democrazia funziona così.

sabato 24 marzo 2012

Art.18,frontiera intangibile di civiltà, dalle lotte nasce il partito del lavoro

Il gruppo provinciale del PRC esprime sdegno e invita alla mobilitazione generale contro i propositi governativi di smantellamento dell’Articolo 18, frontiera intangibile di civiltà nel mondo del lavoro e nel quadro dei diritti maturati dai lavoratori in più di un secolo di lotte per l’emancipazione dalla miseria e dal ricatto padronale.
Il Governo Monti si riempie la bocca con parole – slogan come “modernità “ e “progresso “, ma con gli atti concreti che compie riporta le lancette della storia a 60 anni fa, quando i licenziamenti avvenivano su base discrezionale e i lavoratori erano quotidianamente ostaggio dell’arbitrio dei datori di lavoro.
Cosa nascondono i famosi (o meglio, famigerati) licenziamenti su base economica? Essi sono lo strumento attraverso il quale il capitalismo al tramonto vuol far pagare la crisi generata dalla sovrapproduzione e dalla speculazione finanziaria ai lavoratori; essi rappresentano lo strumento attraverso il quale si vuole ridisegnare in senso ancora più sfavorevole ai lavoratori stessi il quadro dei rapporti di classe in fabbrica, già da anni tutti a favore del padronato, a partire dalla Marcia dei 40.000, passando per il referendum sulla scala mobile e per quella famosa concertazione che, a partire dal 1992, ha fatto scendere la quota di reddito nazionale detenuta dai lavoratori in termini di salari e stipendi a livelli quasi sudamericani.
Si vuol licenziare più facilmente per impedire il sorgere di lotte e rivendicazioni in una fase critica, di crisi irreversibile, che può aprire il varco a una nuova fase storica di conflitto sociale; si vuol licenziare più facilmente per rendere tutti i lavoratori (qualunque sia il loro profilo professionale) più ricattabili e malleabili.
Un Governo che in un momento in cui esplode la Cassa integrazione e le aziende chiudono in massa pensa a come licenziare più facilmente, è quanto di più insultante possa esistere (d’altronde un governo espressione della tecnocrazie bancarie e finanziarie non può operare diversamente), ma ancora più insultante è l’atteggiamento, verso i lavoratori, di una parte del centrosinistra che, prono ai voleri di Confindustria, è pronta a trangugiare questa ennesima minestra antisociale, condita non solo con l’abolizione de facto dell’articolo 18, ma anche con altri ingredienti come l’aumento delle imposte, specie quelle indirette, delle tariffe, ecc….
La posizione del PD di Bersani, altalenante e incerta, non è più sostenibile : le contraddizioni interne alla sinistra sono tali per cui la sua parte più avanzata e le componenti storicamente legate al mondo del lavoro non possono più tacere e rifiutare di smarcarsi da una politica che ormai va oltre la concertazione stessa, rimette in discussione diritti di civiltà conquistati a prezzo di durissime lotte, minaccia di produrre una sempre più forte recessione, con l’incertezza sovrana dei lavoratori rispetto al loro futuro.
La campana di una collocazione precisa, netta e chiara da parte di quella sinistra che vuole continuare ad essere tale e non vuole annacquare i propri fondamenti ideali nel mare del moderatismo, del centrismo, è ormai suonata: non solo occorre mobilitarsi e lottare affinché lo smantellamento dell’art. 18 non passi, assieme a una “riforma“ del lavoro che significa restaurazione definitiva dei privilegi di classe, ma occorre mettere in atto ogni sforzo per capovolgere esattamente i termini del problema.
Non si deve parlare o ragionare, nemmeno tra noi, di smantellamento dell’art.18 e di lotta per mantenerlo così come è, bensì si deve cominciare a ri–parlare di una sua estensione alle piccole aziende, i cui dipendenti attualmente non sono tutelati e i cui “titolari”, spesso, altro non sono che contoterzisti di un grande capitale che li sfrutta e li opprime, con le banche, con i ritmi delle consegne ecc….
Riprendiamo in mano le parole d’ordine del 2002 sulla lotta per la difesa e l’estensione a tutte le unità produttive dell’art. 18, facciamolo su una base di ampia alleanza con tutte le forze di sinistra, popolari e democratiche (non solo politiche, ma anche sindacali e della società civile) che condividono la proposta come la condivisero allora. Prepariamoci a dar battaglia non giocando in difesa, ma andando all’attacco in nome di più avanzate e mature parole d’ordine, i cui contenuti sono quelli dell’universalità dei diritti e della lotta per la costruzione di una società più giusta.
Che questo possa essere il viatico per un grande “Partito del lavoro“, capace di opporsi alla deriva moderata e centrista che vuole cancellare i valori della vera sinistra storica. In questo “Partito del lavoro” la Federazione dovrà essere presente e viva, dal momento che i suoi fondamenti ideali sono già in embrione, specie dopo gli orientamenti prevalsi all’ultimo Congresso, i pilastri di un futuro e più ampio “Partito del lavoro”, non autoreferenziale né di testimonianza, ma vivo e presente nella società, situato oltre il moderatismo dell’attuale PD e oltre il gauchismo parolaio e velleitario di Sel.
L’assurdità più grande del quadro politico italiano è, infatti , proprio l’assenza di una vera sinistra nel Paese che aveva il Partito comunista più forte fino a 20 anni fa: superare questa aporia significa ridare slancio alla speranza, costruire una vera sinistra moderna , radicale, antagonista, un blocco alternativo nel quale far confluire diverse esperienze e idealità accomunate dal rifiuto del pensiero unico del mercato, della logica della compressione dei diritti sociali, del commissariamento della democrazia in nome di governi tecnici deputati a compiere scelte antipopolari al riparo dal vaglio del voto popolare.
Luca Baldelli
Capogruppo del Prc Provincia di Perugia

Vendola e la peggio politica, pur di stare col Pd- Matteo Pucciarelli, Micromega

Giorni fa commentammo la vittoria di Fabrizio Ferrandelli alle primarie di Palermo su questo blog, in termini abbastanza critici. Poi la telenovela è andata avanti con il colpo di scena finale: Leoluca Orlando, dopo aver giurato e spergiurato di non farlo, si candida anche lui. Due candidati a sinistra quindi. Uno però più vicino al presidente della regione Lombardo (Ferrandelli) e uno alternativo al sistema di potere vigente in Sicilia (Orlando, sostenuto da Idv, Rifondazione, Pdci e Verdi).
Occorre rileggersi adesso ciò che scriveva Claudio Fava, coordinatore della segreteria di Sinistra Ecologia e Libertà all’indomani del discusso e torbido exploit del giovane arrembante candidato palermitano: «Con Ferrandelli, giovanotto spregiudicato e già di antico pelo (ha cambiato quattro partiti in cinque anni), vince Lombardo. E con Lombardo vince la politica di rapina che ha portato al saccheggio organizzato della Sicilia e delle sue risorse a beneficio di un conclave di pochissimi».
E poi, ancor più duro: «Solo un fesso o un ipocrita può sperare di ritrovare, nella foto degli abbracciamenti a Ferrandelli ieri notte, una traccia delle battaglie civili e politiche di questi anni. In prima fila, avvinghiati al giovanotto, c’erano l’ex sindaco di Gela Crocetta, l’ex grillina Sonia Alfano, l’ex di tante cose Beppe Lumia. Ciascuno di loro ha costruito un fortunato percorso politico in nome dell’antimafia. Adesso si ritrovano, felici come descamisados peronisti, a festeggiare la sconfitta di Rita Borsellino e la celebrazione delle presenti e future intese con Lombardo. Sul quale pesa l’accusa circostanziata d’aver scambiato voti con Cosa Nostra. Ma si sa, nella vita c’è un tempo per tutto. A questo punto poco importa quante schede siano state materialmente taroccate nelle primarie palermitane. È stato taroccato il senso politico di queste primarie. Esattamente com’era avvenuto a Napoli un anno fa».
Ecco, questo scriveva Fava di Ferrandelli. Fava è siciliano, è giornalista, è figlio di una vittima di mafia.
Queste invece le parole di Vendola oggi: «Ferrandelli è il nostro candidato, domani sarà il sindaco della nuova primavera palermitana». Ennesima dimostrazione che sì, davvero, il Pd nuoce gravemente alla salute. È questa la «primavera palermitana»? «Ma si sa, nella vita c’è un tempo per tutto».

Caro Bersani, su Berlinguer citare di meno e praticare di più

Quando non so come decidere mi ispiro a una frase di Berlinguer, essere fedeli agli ideali della propria gioventù. I diritti del lavoro vanno modernizzati, ma devono restare in piedi
(Pierluigi Bersani, 21 marzo 2012, Porta a Porta)
La situazione deve essere proprio disperata per il Partito Democratico, se il suo segretario, a Porta a Porta, nel tempio dell’ipocrisia democristiana per vent’anni al servizio del berlusconismo, ha finanche rispolverato una famosa frase di Enrico Berlinguer. Il riferimento al leader politico più amato della Prima Repubblica (e prepotentemente tornato di moda, tanto che oramai tutti se ne riempiono la bocca) è chiaramente un tentativo (parecchio maldestro) di fare affidamento su quello che è rimasto della vecchia identità per cercare di mantenere un minimo di consenso e non lasciarsi spazzare via dall’ira funesta dei militanti.
Il punto è che della vecchia identità non è rimasto proprio un bel niente, a partire dagli ideali, che non sono certo quelli dell’abolizione della proprietà privata, come si ostina a millantare qualche idiota cresciuto alla scuola politica del nuovismo senza capo né coda dei rottamatori. Per usare, correttamente, le parole di Berlinguer:
Quali furono infatti gli obiettivi per cui è sorto il movimento per il socialismo? L’obiettivo del superamento di ogni sfruttamento e di oppressione dell’uomo sull’uomo, di una classe sulle altre, di una razza sull’altra, del sesso maschile su quello femminile, di una nazione su altre nazioni. E poi: la pace fra i popoli, il progressivo avvicinamento fra governanti e governati, la fine di ogni discriminazione nell’accesso al sapere e alla cultura. Ebbene, se guardiamo alla realtà del mondo d’oggi chi potrebbe dire che questi obiettivi non sono più validi? Tante incrostazioni ideologiche (anche del marxismo) noi le abbiamo superate. Ma i motivi, le ragioni profonde, le ragioni profonde della nostra esistenza quelle no, quelle ci sono sempre e ci inducono ad una sempre più incisiva azione in Italia e nel mondo.”
Sì, perché per altro se si cita Berlinguer, sarebbe opportuno citarlo per intero, e non a metà; dice infatti Enrico, rispondendo ad un giornalista che gli chiedeva se si sentiva cambiato rispetto al passato:
Da questo punto di vista non mi è accaduto, e questa la considero la più grande fortuna della mia vita, di seguire quella famosa legge per la quale si è rivoluzionari a 18, 20 anni e poi si diventa via via liberali, conservatori e reazionari. Io conservo i miei ideali di allora.
Ecco, con tutto il rispetto per Bersani & company, ci pare che quella famosa legge l’abbiano seguita in pieno, altro che essere rimasti agli ideali di gioventù. A meno che, appunto, gli ideali di gioventù non fossero quelli liberisti di Monti, come ha ironizzato qualcuno.
Ha ragione Mario Benedetti, il meccanico di Berlinguer, quando dice che “Tutti citano Berlinguer, ma nessuno lo mette in pratica.
Forse il segretario del PD dovrebbe citare di meno e praticare di più, se non altro non contribuirebbe a fare infuriare il suo elettorato (basta farsi un giro per la sua bacheca fb per vedere cosa ne pensano i più del suo riferimento ad Enrico). Soprattutto mettere in pratica quella perla contenuta nell’intervista a Scalfari:
Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l’operazione non può riuscire.
Caro Bersani, insomma: su Berlinguer citare di meno e praticare di più. La figura (e il risultato) saranno certamente migliori, fidati.

venerdì 23 marzo 2012

Prove di alleanza tra Pd e Terzo Polo Ma gli elettori di Bersani stracciano le tessere

Comacchio era una sorta di esperimento. Andato male, perché molti militanti del Pd hanno platealmente protestato. Casini sta a guardare e al Fattoquotidiano.it dice: "Se sono rose fioriranno". Ferrero (Rifondazione): "Quello accaduto nel Ferrarese dimostra che son già fiorite. Noi con l'Idv, Bersani al centro"

Comacchio era una sorta di esperimento. Andato male, perché molti militanti del Pd hanno platealmente protestato. Casini sta a guardare e al Fattoquotidiano.it dice: "Se sono rose fioriranno". Ferrero (Rifondazione): "Quello accaduto nel Ferrarese dimostra che son già fiorite. Noi con l'Idv, Bersani al centro"
Che a Comacchio, paese di 25mila abitanti in provincia di Ferrara, si facciano delle prove per il futuro non c’è dubbio. E Bersani però sa bene che dovrà fare i conti con quello che è accaduto: singoli tesserati del Pd hanno approfittato delle primarie del centrosinistra (Prc, Pdci, Sel e Idv) per manifestare nel modo più spontaneo ed eclatante la propria contrarietà alla possibile deriva centrista dei bersaniani.
Che a Comacchio, paese di 25mila abitanti in provincia di Ferrara, si facciano delle prove per il futuro non c’è dubbio. E Bersani però sa bene che dovrà fare i conti con quello che è accaduto: singoli tesserati del Pd hanno approfittato delle primarie del centrosinistra (Prc, Pdci, Sel e Idv) per manifestare nel modo più spontaneo ed eclatante la propria contrarietà alla possibile deriva centrista dei bersaniani.
E invece qualcosa è cambiato. Oggi a Comacchio, domani chissà. Per quanto riguarda il comune comacchiese atteso al voto amministrativo di maggio (commissariato dopo le dimissioni di massa di più della metà dei consiglieri della passata legislatura di targa Pdl) il centrosinistra di memoria ulivista sarà solo un ricordo. Il Pd, memore della sconfitta del 2010, non si vuole lasciar scappare l’ago della bilancia che deciderà con ogni probabilità gli esiti delle urne, Alessandro Pierotti. Lui, già sindaco ed ex assessore provinciale al Turismo fatto fuori proprio dal Pd per ragioni di equilibrio “territoriale” del partito, è a capo della lista L’Onda. E con essa si candida a risalire sullo scranno più alto del municipio lagunare. Il Pd, nonostante le dichiarazioni di indipendenza della prima ora, ha sposato il suo programma e la sua corsa per non rischiare di farselo scippare dal Pdl.
Ora l’appoggio a Pierotti si fonda non solo sul consenso dell’Onda e del Pd, ma anche di Udc, Fli e Api. Insomma il Terzo Polo al gran completo. Il Pdl correrà da solo, con la Lega Nord che punta sul vicesindaco uscente. Dall’altra parte dell’emiciclo Sel, Rifondazione, Comunisti italiani e Italia dei valori si sono uniti per provare a giocare la carta di terzo incomodo.
Il 18 marzo si sono tenute le prime primarie in assoluto in Italia di questa nuova forma di alleanza. Ne è uscito vincitore Fabio Cavallari, 31 anni, già consigliere comunale della precedente amministrazione per il Prc. A lui è andato il 71% delle preferenze provenienti dal 5% dell’elettorato attivo. Con la ciliegina sulla torta di aver conquistato parte degli scontenti del Partito democratico.
Ma il rumore di quelle tessere andate in frantumi potrebbe andare bel al di là dei confini ferraresi. Ne è sicuro Paolo Ferrero, che vede nel caso comacchiese un paradigma di quanto potrebbe avvenire di qui a breve a livello nazionale. E questo sulla base di una “semplice riflessione: gli accordi con il terzo polo snaturano qualsiasi profilo progressista. Di questo evidentemente se ne sono accorti molti elettori del Pd”. Comacchio diventerebbe un “caso sintomatico della scelta che Bersani e i suoi sono chiamati a compiere: sostenere il governo Monti insieme a Casini, Fini o Rutelli oppure guardare a sinistra, dove le battaglie sono ancora quelle della gente: pensioni, articolo 18, rifiuto di liberalizzazioni e privatizzazioni brutali”.
In fondo il segretario del Prc la sua scelta l’ha già in mente, con o senza Bersani: “una sinistra che si mette insieme all’Idv per proporre una alternativa”. Non un partito, “sarebbe follia”, ma “un polo politico che si opponga alle visioni neoliberiste che stanno devastando il Paese. Vogliamo evitare di far indossare il loden a tutta l’Italia”.
Non entra nel caso specifico di Comacchio ma allarga il discorso a livello nazionale Giuseppe Civati, che individua “il problema vero nel chiarire subito qual è la coalizione che il Pd intende scegliere e dire agli elettori che non ci saranno più equivoci”. Ossia “dire chiaramente se si vuole andare con il terzo polo oppure con la sinistra e in questo caso con quale parte di sinistra”. Non ultimo, per evitare altre tessere in frantumi, “rispettare il risultato delle primarie se si vogliono fare le primarie, altrimenti si finisce solo per recitare a soggetto. E su questo l’insegnamento di Palermo deve far riflettere”.
E il terzo polo? “Non voglio entrare nelle questioni della sinistra”, mette le mani avanti Casini, che trova comunque “singolare che si facciano delle primarie per poi non rispettare il loro esito se non gradito”. Quanto alla possibilità ventilata da Ferrero, invece, il leader Udc non nega che “come terzo polo collaboriamo con il Pd anche in molte realtà locali e collaboriamo bene; e non nascondo che su molte materie abbiamo trovato convergenze”.

A PALERMO LA SINISTRA CORRE DA SOLA. SENZA SEL E SENZA MpA

Contrordine. Sel appoggerà Ferrandelli nonostante le primarie siano state una truffa.  La decisione è stata presa quasi all'unanimità nella tarda serata di ieri per alzata di mano, nel corso di un vertice tra i coordinatori regionale, provinciale e dirigenti del partito di Nichi Vendola. A questo punto Ferrandelli verrà sostenuto per le amministrative da tutto il Pd, Sel e dalla sua sfidante Antonella Monastra, arrivata quarta alle Primarie. Rita Borsellino, appoggiata alle Primarie da Pd e Orlando, ha fatto sapere che non sosterrà Ferrandelli. Sempre oggi presenterà ufficialmente la sua candidatura Leoluca Orlando, ex sindaco di Palermo, che non ha mai accettato il risultato delle primarie del centrosinistra parlando di «irregolarità e mancata trasparenza».  Orlando sarà sostenuto da Idv, Verdi e Federazione della Sinistra, più liste civiche di movimento. A quanto pare sembrerebbe che la decisione di Sel sia stata imposta direttamente da Vendola per non compromettere il rapporto con il PD a livello nazionale in vista delle future allenze (evidentemente quanto succede sull'art 18 è una variabile secondaria). Così facendo il partito di NIKI dà il via libera alla "sperimentazione" siciliana che vede un rapporto sempre più organico tra Pd e Mpa di Lombardo. Evidentemente la lezione di Napoli non è servita, invece di unire la Sinistra Sel preferisce il rapporto organico con il Pd. Chissà come la prenderà Claudio Fava?

La nuova Imu sarà il triplo della vecchia Ici...anche a TORGIANO

di Gianni Trovati da Il sole 24 ore
ROMA - Il primo tassello è imposto dallo Stato, il secondo è chiesto dai Comuni che nella grande maggioranza stanno studiando incrementi di aliquota per cercare di far quadrare i bilanci. Chiusa la prima fase della partita del decreto fiscale, che non ha portato le correzioni chieste dai sindaci ma solo un impegno del Governo a concedere agevolazioni in agricoltura, le amministrazioni iniziano a fare i conti e i responsi sono spesso a senso unico: aumenti dell'aliquota, salvando quando si può l'abitazione principale che comunque già paga lo scotto di uscire dall'esenzione quasi totale in vigore fino allo scorso anno.
Le decisioni non sono definitive, perché l'ennesima proroga (obbligata) ha spostato al 30 giugno i termini entro cui chiudere i preventivi 2012 e fissare le aliquote di tributi e addizionali, ma la strada pare segnata, soprattutto al Nord dove il lavoro sui bilanci è più avanti. Una strada accidentata per i contribuenti: per avere idea degli effetti basta pensare che, oltre a reintrodurre il prelievo sull'abitazione principale, il nuovo sistema fa crescere (in genere del 60%) le basi imponibili e alza le aliquote di riferimento. Applicando la richiesta base prevista dal decreto «Salva-Italia», il conto per una seconda casa o un negozio raddoppia rispetto all'Ici 2011. Tutti gli aumenti locali mettono un carico aggiuntivo a questa base.
A Milano, per esempio, ci sono da recuperare quasi 600 milioni di euro (si veda anche Il Sole 24 Ore di ieri) e non c'è molto da scialare. Evitato, almeno per ora, l'aumento dell'addizionale Irpef, sono i proprietari di immobili a dover assicurare lo sforzo maggiore per tenere in piedi i conti di Palazzo Marino. L'ipotesi più accreditata mantiene al 4 per mille fissato dalla legge statale l'aliquota sull'abitazione principale, e assegna il 9,6 per mille (quella «di base» prevista dal decreto «salva-Italia» è il 7,6 per mille) agli altri immobili: i tecnici lavorano anche a una disciplina di favore per gli affitti a canone concordato (4,6 per mille) e una di "sfavore" (10,6 per mille, tetto massimo di legge) per banche e assicurazioni, sulla falsariga di quanto accade per l'Irap, ma la fattibilità di queste articolazioni è ancora tutta da confermare. Sempre in Lombardia, aumenti locali in vista anche a Monza, Bergamo e Lecco, mentre le aliquote di Brescia e Mantova dovrebbero assestarsi ai livelli indicati dalla legge statale; lo stesso dovrebbe accadere a Lodi, dove il Comune pensa di puntare sulle imposte "minori" appena scongelate dal decreto fiscale (dall'imposta sulla pubblicità a quella sull'occupazione di suolo pubblico), nel tentativo anche di mantenere al 2 per mille l'addizionale Irpef.
A Torino, invece, è a rischio incrementi anche l'abitazione principale, perché a Palazzo di Città le esigenze di finanza locale sono impellenti (come mostra anche l'annunciato sforamento del Patto di stabilità 2011) e spingono gli amministratori a calcolare il 5 per mille per le abitazioni principali, e a portare 9,6 per mille l'aliquota per gli altri immobili: tra le opzioni sul tavolo c'è però anche una mini-tutela per gli affitti a canone concordato, che potrebbero attestarsi all'aliquota di riferimento nazionale del 7,6 per mille. Partita chiusa invece ad Aosta: aliquote nazionali per tutti, tranne che per le 800 case tenute vuote in città, che vanno incontro a una penalizzazione con aliquota al 9,6 per mille. A Trento, infine, è stata decisa un'Imu al 4 per mille per le abitazioni principali e pertinenze, al 7,83 per gli altri immobili, al 10,6 sugli immobili sfitti da oltre due anni.
Molto più indietro è Roma, dove però l'allarme conti è ancora più alto e potrebbe portare al 6 per mille anche l'aliquota sulla prima casa, oltre ad alzare quella riservata al resto del mattone (nell'attesa che dal 2013 parta anche l'Imu sui beni ecclesiastici, che a Roma pesano parecchio). Tutto al massimo anche a Caserta, dove i conti locali non lasciano alternative, mentre a Napoli la partita è ancora tutta da giocare: le prime ipotesi potrebbero iniziare a circolare dalla prossima settimana, appena si chiuderà la vicenda della gestione del patrimonio comunale, perché il destino delle aliquote napoletane dipende anche dalla possibilità di dare una svolta concreta nella valorizzazione del mattone di Palazzo San Giacomo.

ANCHE A TORGIANO IL SINDACO NASINI NON SI E' LASCIATO SFUGGIRE L'OCCASIONE DI SCARICARE SULLA POPOLAZIONE I COSTI DELLE SCELTE SBAGLIATE DELLA SUA AMMINISTRAZIONE




giovedì 22 marzo 2012

Il Pd e l’articolo 18

di Romina Velchi
Il nodo scorsoio si stringe sempre più attorno al collo del Pd. La riforma del lavoro, con a corredo il boccone avvelenato della modifica (leggi cancellazione) dell'articolo 18 rischia di diventare per il partito di Bersani un vero Vietnam. Quello che, approfittando della ghiotta occasione per sottrarre voti ai Democratici, promette Antonio Di Pietro "in Parlamento e in piazza" per fermare il provvedimento del duo Monti-Fornero.
Il Pd è nell'angolo, proprio mentre, al contrario, il Pdl può permettersi il lusso di prendere le difese di Napolitano, il quale con il suo intervento a favore dell'accordo ha suscitato molte polemiche soprattutto a sinistra - da Cremaschi a Ferrero – e ancora insiste a promuovere le mosse del governo (ieri ha detto che la riforma del mercato del lavoro "non può essere identificata con la sola
modifica dell'articolo 18: per poter dare un giudizio bisogna vedere il quadro di insieme" e che occorre "attenzione e misura da parte tutti"). Tra il pressing del presidente della Repubblica e il no della Cgil (che oltretutto adesso annuncia lo sciopero generale), i margini di manovra per il partito di Bersani sono ridotti al minimo, al punto che al Pd non resta che chiedere a Monti di tentare ancora l'intesa. Lo fa il presidente dei deputati democratici, Dario Franceschini, secondo il quale "di tutto il paese ha bisogno tranne che di un periodo di tensioni" e dunque il premier farebbe bene a utilizzare le prossime ore per "ricercare una sintesi sull'art.18", un ulteriore tentativo che "non sarebbe un cedimento ma un atto di buonsenso". Lo fa la sua collega del Senato, Anna Finocchiaro, la quale auspica "che il governo utilizzi le prossime ore per ricercare il consenso più largo".
Così come al Pd non resta che sperare, almeno, che il governo, per approvare la riforma, non ricorra a decreti e voti di fiducia. Lo chiede esplicitamente Stefano Fassina: il parlamento, dice il responsabile economia del partito, deve essere messo in condizione di esaminare il nuovo assetto del mercato del lavoro; per questo Fassina "si augura" che "la riforma del lavoro arrivi in Parlamento sotto forma di disegno di legge". Un iter più lento e più lungo, ma che permetterebbe al Pd almeno di tentare di ottenere qualche modifica, specie per quanto riguarda il nodo dei licenziamenti per motivi economici (ieri si è svolta nella sede del partito una riunione per cominciare a mettere a punto gli emendamenti correttivi).
Sperano, auspicano, si augurano. Tutta qui l'opposizione del Pd. Ma le contraddizioni sono lì dietro l'angolo, pronte ad esplodere. Per esempio: come si comporteranno i democratici nei confronti dello sciopero della Cgil? Replicheranno la magra figura della manifestazione della Fiom alla quale non hanno partecipato perché erano invitati i NoTav? Quale scusa inventeranno, stavolta, per chiamarsi fuori? E cosa faranno "quando verrà calendarizzata al Senato la nostra mozione che chiede di togliere l'art.18 dal tavolo delle trattative e chiederemo al Pd di votare a favore" come annuncia Di Pietro? Ma soprattutto, qual è il vero Pd: quello di Fassina che ieri sulla Stampa sosteneva che "l'art.18 è stato svuotato, sembrava di sentire Sacconi" o quello di Fioroni che dalle stesse colonne esultava: "Questa è una riforma seria e noi dobbiamo appoggiarla"?
Che il momento per il Pd sia grave lo dimostra lo sfogo di Bersani, colto nel Transatlantico (il lungo salone adiacente all'Aula) di Montecitorio mentre con l'ex ministro Damiano esclama: "Non morirò monetizzando il lavoro". E lo dimostrano i messaggi non esattamente di complementi lasciati via web da militanti ed elettori inferociti, mentre Rosy Bindi quasi ringhia: "Questo governo è sostenuto da diverse forze politiche e può andare avanti se rispetta la dignità di tutte le forze che lo sostengono"; e auspica (anche lei) che "il Parlamento sia davvero sovrano e possa modificare profondamente la riforma del lavoro". Brucia, in particolare, l'evidente poco impegno del premier a ricercare l'accordo anche con la Cgil, visto che "il mandato a Monti era di chiudere con tutte parti sociali". Invece, niente.
Monti non può non sapere che se i democratici dovessero implodere, anche per lui le cose potrebbero mettersi male, tanto più con le elezioni amministrative alle porte. Ma evidentemente, lui guarda ai mercati, di fronte ai quali i mal di pancia del Pd devono sembrargli ben poca cosa. E stupisce che i democratici non l'abbiano capito. Resta che anche il premier sta rischiando grosso. Casini, annusato il pericolo, rinfocola il suo ruolo di mediatore e paciere: "La riforma del lavoro è coraggiosa", dice il leader Udc, il maggior sostenitore di Monti, ma "il Parlamento potrà migliorarla" (senza però "annacquarla"). Anche Angeletti (Uil) avvisa che sull'art.18 il giudizio è condizionato alle modifiche e che la fine dell'unità sindacale non è "definitiva". Come dire che, se Monti pensa di portare a Bruxelles la riforma del lavoro sventolando lo scalpo della Cgil, potrebbe avere brutte sorprese.
E' in questo clima che ora Monti deve decidere come muoversi. A giudicare dalle parole di Napolitano ("Il governo decida la forma legislativa, poi la parola passerà al Parlamento") il Quirinale avrebbe consigliato al premier di non ricorrere al decreto, che significherebbe andare allo scontro frontale con mezzo Parlamento. Una mossa di "igiene", che oltretutto permetterebbe all'esecutivo di scavallare l'insidioso appuntamento di primavera con le urne. In ogni caso, per il Pd il problema è solo rinviato, perché c'è da dubitare che Monti accetterà modifiche sostanziali.

LODI: IL GRUPPO DI ACQUISTO POPOLARE ARRIVA A 5 MILA ISCRITTI.

LA RICETTA ANTICRISI
di LAURA DE BENEDETTI, Il Giorno

 
L’IDEA
IL GRUPPO D’ACQUISTO POPOLARE COMPRA PRODOTTI «IN BLOCCO» DAI PRODUTTORI A PREZZI BASSI

—LODI— QUASI 12MILA chili tra pasta, pane e riso, oltre 10 mila chili tra frutta e verdura, 6mila bottiglie tra vino e olio e 1.800 chili di formaggi. Sono i numeri dei prodotti venduti dal Gap (Gruppo di acquisto popolare) di Lodi nel 2011 in provincia. In realtà già acquista quantitativi maggiori per altre 6 realtà (due piemontesi, due bergamasche e due milanesi). E proprio ieri a Roma, in un incontro della rete Gap nazionale, era in discussione la proposta di fare del Gap lodigiano la base di approvvigionamento dell’intero Nord Italia. «Se così sarà dovremo trovare un altro magazzino, rispetto a quello attuale in città bassa», ragiona Andrea Viani, segretario provinciale di Rifondazione.
AL DI LÀ dell’aspetto logistico, l’ampliamento dell’attività non spaventa i referenti del Gap. «Quando abbiamo iniziato, nel gennaio 2009, erano impegnate solo 7 persone—spiega Viani, mentre ha davanti a sé una lunga lista di persone da contattare per le consegne —; oggi sono circa 30 e l’organizzazione è più strutturata. Continueremo ad acquistare solo generi di prima necessità: il più richiesto da anziani e famiglie resta infatti il pacco da un chilo di riso, un chilo di pasta e mezzo chilo di pane: tutto a 2,70 euro. Oggi abbiamo 4.768 iscritti: la tessera è indispensabile ai fini fiscali, per giustificare l’assenza di scontrino. Acquistando anche per altri, aumenta il potere di contrattazione con i fornitori. Rivendiamo la merce ai soci ricaricandola solo dell’1%: ciò che ci serve per pagare costi di trasporto e magazzino. Solo le arance biologiche hanno un ricarico maggiore, destinato a iniziative di sostegno: quest’anno gireremo il ricavato alla Società generale operaia di Mutuo soccorso, la cui sede è stata devastata da un rogo.
Stiamo pensando di offrire altre opportunità: incontreremo a breve i “dentisti sociali” toscani che praticano prezzi molto ridotti rispetto a quelli di mercato».
«LA DISTRIBUZIONE — aggiunge Enrico Bosani, segretario di Lodi di Rifondazione, nella cui sede di via Lodino c’è una distribuzione ogni lunedì mattina — avviene secondo un calendario prestabilito nei mercati e in alcuni circoli di partito. Ma distribuiamo i prodotti, tramite le Rsu, pure a dipendenti di ospedale Fatebenefratelli di San Colombano, Solchem di Cassino d’Alberi, Marcegaglia di Graffignana, Comune di Codogno».
Nel 2011 sono stati distribuiti 3.785 chili di pasta (a 1,2 euro al kg), 4.436 chili di riso (1,3 euro), 3.738 chili di pane (1,8), 24 chili di pane biologico (da dicembre, a soli 2,6 euro al kg, grazie all’acquisto di una farina biologica e alla produzione di un gruppo di panificatori piacentini), 10.047 chili di frutta e verdura, 1.201 di arance bio, 3.512 bottiglie di vino (Barbera, Bonarda, Croatina, Reasling a 2 euro); 1.174 bottiglie da 1 litro di olio bio (5 euro); 236 lattine di olio pugliese (5 euro), 442 bottiglie di olio e salsa pugliesi (3,5), 1.308 di grana (11 euro al kg); 465 di pecorino (12 euro).
I CLIENTI TANTI VORREBBERO CHE I COMUNI INCENTIVASSERO IL SERVIZIO

«Tanta qualità. E poi si risparmia» Mercato solidale promosso a pieni voti
LA FORMULA dei Gruppi di acquisto popolare (Gap) è semplice: reti di cittadini che si uniscono e decidono l’acquisto collettivo di beni (nel caso specifico generi alimentari) contrattando il prezzo direttamente con i produttori e poi crea una rete di distribuzione alternativa a quella delle grandi catene. E sta conquistando sempre più i lodigiani, che ieri hanno formato una catena ininterrotta alla bancarella organizzata in via Umberto Primo a Lodi. «Vengo qui ormai da un anno—racconta Giovanni Pallone — perché so che è un’iniziativa a fin di bene.
Qualche prodotto è anche conveniente, ma tutti hanno in comune la qualità. Se no non ci tornerei.
Hanno anche un locale in via Lodino, aperto tutti i lunedì, che è molto comodo per fare la spesa».
«HO PROVATO il Gap qualche tempo fa, e da allora mi sono trovata molto bene — dice anche Laura Coci —. Vengo anche per motivi etici, perché credo in una distribuzione più equa e solidale. Ho preso il formaggio e le arance, e credo di aver risparmiato. Sarebbe bello se i comuni aiutassero queste iniziative a svilupparsi di più, malo vedo difficile. La bancarella a cadenza settimanale in corso Umberto comunque resta comoda ». «Vengo qui da tanto — conferma anche Maria Curti —. Sono gentili, e mi trovo bene. Vedo che la qualità è buona, e non sono mai rimasta delusa. Servirebbe forse una maggiore sponsorizzazione da parte delle istituzioni, perché queste iniziative sono lasciate adesso al solo volontariato di queste persone che si spendono per farci risparmiare. è un peccato non aiutarli».
«CI TELEFONANO a casa per dirci quando e dove saranno in strada le bancarelle—spiega Nadia Martinenghi—e fanno un ottimo servizio. Li ho scoperti grazie a mio fratello: ora sono contenta,
perché la qualità è ottima e in più risparmia». «Io facevo già parte di un Gas del Sudmilano (Gruppo di acquisto solidale organizzato spontaneamente, che parte da un approccio critico al consumo applicando agli acquisti i principi di solidarietà ed equità) — spiega Francesco Stillitano, accanto alla moglie — ed ho provato anche il Gap lodigiano per curiosità. Poi ci siamo iscritti alla mailing list, abbiamo visto che la qualità ed i prezzi erano ottimi e allora siamo tornati. Servirebbe più informazione per diffondere queste iniziative nel territorio: credo che in questo periodo di crisi siano utili davvero per tutti».
«DOBBIAMO dare un aiuto a chi si impegna — spiega Maurizio Zanaboni dopo aver acquistato ben 4 sacchetti di alimentari —. Sono cose buone, che vengono acquistate direttamente dai produttori. Frutta fresca, pane di cooperative etiche, prodotti a chilometri zero: cosa si vuole di più? Io sono associato anche ad un Gas in Brianza, ma vedo che lì vengono aiutati molto di più anche dalle istituzioni. Perché qui questo non accade? Qui non siamo clienti anonimi come al supermercato. Ma diventiamo tutti consumatori responsabili».
ReteGAP.org, benvenuti nel sito della rete dei Gruppi di Acquisto Popolare
Rete dei Gruppi di Acquisto Popolare
Sovranità popolare, solidarietà, mutualismo...
...perchè resistere al carovita serve come il pane

Lo strappo di Monti e il voto del Pd, Stefano Feltri, Il Fatto Quotidiano

La cravatta rossa, anzichè il classico blu bocconiano, alla fine è l’unica vera concessione di Mario Monti alla Cgil. Il lungo negoziato sul lavoro si è chiuso ieri lasciando sul campo molte vittime. Le prime, un po ’ a sorpresa, sono le ambizioni iniziali del governo.

Flashback
novembre 2011, Monti è appena arrivato a palazzo Chigi. Pietro Ichino, senatore del Pd, gongola nei corridoi del Senato perché il premier, nel suo discorso di insediamento, ha fatto suoi i principi della riforma che il giuslavorista predica da anni. I nuovi assunti devono essere tutti a tempo indeterminato ma licenzia-bili con facilità, accompagnati nelle fasi transitorie da sussidi pagati dalle imprese. Per questo bisogna superare il tabù dell’articolo 18, che finora aveva paralizzato tutte le riforme. “La riforma del lavoro arriverà entro la fine di marzo e ci ispireremo al modello della flexsecurity adottato nei paesi del Nord Europa”, dice il premier nella famosa puntata di Matrix sulla monotonia del posto fisso.

Marzo 2012: alla vigilia del viaggio (auto) promozionale in Asia, per vendere Btp e attirare investimenti, Monti ha bisogno di un successo. Il modello Ichino è stato archiviato da quel pezzo, le imprese non vogliono farsi carico di maggiori oneri per gli ammortizzatori, il ministro Elsa Fornero ha capito subito (ma dopo un paio di improvvide dichiarazioni) che non ci sono soldi per il reddito di cittadinanza. E allora bisogna ridimensionare le ambizioni, tutti i partecipanti al negoziato sanno che non ci sono le condizioni per una rivoluzione, per scardinare l’”aprtheid” tra garantiti e non garantiti. L’obiettivo cambia in corsa, si punta all’immagine: il 7 febbraio il più filogovernativo dei giornali, la Repubblica, cita imprecisate stime governative secondo cui lo scalpo dell’articolo 18 vale 200 punti di spread. La riforma diventa più un messaggio per i mercati che un intervento profondo, la riforma degli ammortizzatori va rinviata e annacquata perché costa troppo (nessuno ha ancora spiegato da dove arriveranno i 2 miliardi che servono per gli interventi minimi).


Ai mercati non piacciono i compromessi al ribasso, se lo scopo è dimostrare che si fa sul serio, meglio accompagnare la riforma con le proteste della Cgil. E infatti Susanna Camusso, in conferenza stampa, annuncia: “Siamo nella stagione in cui dobbiamo decidere la mobilitazione”. Ma anche questa linea minima-ista, per Monti comportava dei rischi: il Pd, con Pier Luigi Bersani, aveva detto in tutti i modi che per i democratici sarebbe un problema votare una riforma non condivisa dall Cgil. “Se fallisce il tavolo, liberi tutti”, ha bluffato. Monti non gli ha creduto. E ha architettato uno stratagemma per non umiliare il segretario del Pd: la riforma non è un testo sotto cui i sindacati devono mettere la firma, ma una raccolta di pareri, una proposta da sottoporre al Parlamento che è sovrano e decide. Niente testo, niente strappo. E adesso il Partito democratico che fa? Discute alla Camera una riforma contro cui la Camusso scende in piazza? Fulmineo il supermontiano Enrico Letta, vicesegretario del Pd, dichiara alle agenzie: “Lavoreremo ancora fino alla fine per soluzioni più condivise, ma il nostro voto favorevole, pur con tanti distinguo, non può essere messo in discussione”. I democratici ingoieranno anche questa. Interviene anche Bersani che commenta anodino: “É chiaro che su quel che c’è di buono nell’impostazione del governo e su quel che c’è da migliorare e da correggere, a questo punto dovrà pronunciarsi seriamente il Parlamento”. Non chiarisce la linea del suo partito, per quello ci sarà tempo, in fondo ci sono abbastanza novità positive sul precariato, gli stage e le finte partite Iva da permettere al Pd di difendere la riforma.


Certo, sarà piuttosto complesso spiegare agli elettori del Pd che la riforma è accettabile, con la Cgil che riempie Roma, magari con uno sciopero generale, con la Camusso che si trova costretta a lottare a fianco della Fiom di Maurizio Landini e dei movimenti, con Emma Marcegaglia e la Confindustria soddisfatta. Il Pdl esulta, in silenzio, sapendo che ora l’esito delle elezioni amministrative di maggio è un po ’ meno scontato. Lo aveva detto Angelino Alfano: “Le nostre tre priorità sono lavoro, lavoro, lavoro”. Non era diventato di sinistra, spiegava solo che da questa riforma può dipendere la crisi dei suoi avversari.

Le balle del governo sull’articolo 18 di Paolo Ferrero

Attorno alla vicenda dell’articolo 18 raccontano un mucchio di balle. La principale è che la tutela dei licenziamenti discriminatori sarebbe stata estesa a tutti i lavoratori e le lavoratrici, anche quelli che lavorano in aziende con meno di 15 dipendenti. Dipinta in questo modo sembrerebbe che l’articolo 18 sia stato addirittura migliorato. Vediamo perché è una balla:

Il governo ha deciso di togliere l’applicazione dell’articolo 18 per quanto riguarda i licenziamenti individuali motivati da ragioni economiche o tecnico organizzative. Che cosa succederà se questa norma andrà in vigore? Il datore di lavoro che vuole licenziare Paolo Ferrero che fa? Semplicemente licenzia il sottoscritto motivandolo con ragioni organizzative, ad esempio che il mio lavoro non c’è più, oppure che la mia professionalità non serve più all’azienda. Dopodiché, io faccio ricorso contro il licenziamento perché la motivazione è falsa in quanto l’azienda ha semplicemente messo un altro lavoratore a fare il lavoro che prima svolgevo io. Il tribunale verifica che ho ragione io e dichiara nullo il licenziamento ma a quel punto non può più ordinare la mia reintegrazione sul posto di lavoro ma solo condannare l’azienda a pagarmi una indennità. In quel modo io non ho più il posto di lavoro e l’azienda mi ha fatto fuori pagando una “multa” di alcune decine di migliaia di euro. Questo perché la motivazione adottata dall’azienda nel licenziarmi non sarebbe più “coperta” dall’articolo 18 che è proprio la norma che permette al magistrato di ordinare la reintegrazione sul posto di lavoro.

L’articolo 18 infatti, al contrario di quel che viene detto, non è una norma contro le discriminazioni ma una norma che prevede la reintegrazione sul posto di lavoro del lavoratore licenziato ingiustamente. Se si toglie la copertura dell’articolo 18, non è più possibile per la magistratura riportare al lavoro chi viene ingiustamente licenziato.

In queste condizioni è evidente che qualsiasi datore di lavoro voglia licenziare un dipendente perché comunista, omosessuale o perché fa rispettare la legge sulla sicurezza nei luoghi di lavoro o si rifiuta di svolgere mansioni non previste dal contratto o perché si lamenta che il padrone non gli paga tutto lo stipendio, non dovrà far altro che licenziare questa persona per ragioni economiche o tecnico organizzative e il gioco è fatto. Quella persona non rientrerà mai più nel suo posto di lavoro.

Qualcuno potrebbe dire: ma a quel punto si fa una causa per dimostrare che il padrone ti ha licenziato non per ragioni economiche ma per ragioni politiche. Sembra facile, ma è pressoché impossibile provare questo fatto, sarebbe una specie di processo alle intenzioni, alle opinioni del datore di lavoro.

La manomissione dell’articolo 18 operata dal governo coincide quindi alla totale libertà di licenziamento da parte dei datori di lavoro in ogni azienda, grande o piccola che sia. Invece di ridurre la precarietà il governo ha reso precari di colpo tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici.
In pratica il governo ha tolto ai lavoratori la possibilità di essere cittadini nell’ambito del rapporto di lavoro riducendoli a una merce, che ha un certo costo -la multa- ma nessun diritto. Un’altra buona ragione per mandare a casa il più in fretta possibile questo governo dei poteri forti.

Parigi marcia verso la Repubblica di Mélenchon?

 
Una trita liturgia nostalgico-rivoluzionaria o l’inizio di una vera e propria insurrezione civica? Non saprei rispondervi, non così su due piedi. Ma domenica 18 marzo 2012 decine di migliaia di persone – una forbice compresa tra le cinquanta e le centomila – hanno letteralmente invaso la piazza della Bastiglia a Parigi. Il motivo? Assistere al comizio di Jean-Luc Mélenchon, candidato alle Presidenziali per il Front de Gauche, schieramento che rappresenta una parte della sinistra radicale transalpina. Per spiegare l’altissima partecipazione a questa “Marcia verso la VI Repubblica” non basta il mojito a due euro venduto da alcuni militanti lungo il tragitto che dalla Place de la Nation portava fino alla Bastiglia.

Ma andiamo per ordine. Mélenchon è salito sul palco intorno alle 17, e vedendo davanti a sé la “marea rossa” inneggiante alla resistenza – come l’ha definita Le Figaro, – è scoppiato a ridere. Una risata sonora, di gioia, di sorpresa, di tensione. Una risata che confermava la riuscita dell’operazione “Riprendiamo la Bastiglia”: la prova di forza di una sinistra divisa e umiliata dai risultati elettorali degli ultimi anni.

«Ci siamo mancati, ci siamo attesi, ci siamo ritrovati!». Mélenchon ha parlato per circa mezzora, con il suo usuale lirismo da tribuno navigato, esponendo brevemente alcuni punti cardine del suo programma: indipendenza della giustizia garantita dal Parlamento, estensione dei diritti agli omosessuali, diritto all’aborto e all’eutanasia, protezione del pianeta attraverso l’ecologia, ma soprattutto una Costituente paritaria per «la VI Repubblica».

Non sono mancati gli accenni alla Costituzione del 1793 e i riferimenti a Saint-Just e Robespierre, nonché l’invito a dare il via «alla primavera dei popoli», iniziando ad aprire una breccia in Francia attraverso lo scrutinio del 22 aprile e del 6 maggio prossimi.

La piazza ha ascoltato, catturata dal carisma dell’oratore. E in quella piazza domenica non c’erano solo i militanti e gli elettori del Front de Gauche, ma c’era tutta una parte della sinistra che giocoforza voterà per François Hollande – anche in Francia non si sottraggono alla teoria del “voto utile”, – pur sentendosi lontana e in parte non rappresentata dal Partito Socialista e dai verdi.

Cesar, trentenne presente al comizio, dichiarava su Rue89.com: «Voterò per Hollande, anche se Mélenchon mi interessa. Sono sensibile alle sue idee, mi sembrano più ancorate a sinistra. […] Tentenno, ma alla fine credo che favorirò il voto utile». Altri invece, come il sessantenne Yves, che per una vita ha votato PS, voteranno per il Front de Gauche «perché abbiamo bisogno di più pepe!»

Insomma, quello che alcuni elettori di sinistra apprezzano in Mélenchon è la sua verve, il suo parlare franco, senza peli sulla lingua, una dialettica ai limiti del politicamente corretto. E non è un caso se negli ultimi tre mesi i sondaggi sulle intenzioni di voto hanno registrato una crescita costante del candidato del Front de Gauche, che ad oggi è dato all’11% al primo turno.

Ma Jean-Luc Mélenchon, effige onnipresente in questa domenica di piazza, non ha fatto di certo l’unanimità. Il Partito Socialista trema all’idea di un suo exploit, e non ha tardato ad affermare, attraverso la portavoce della campagna di Hollande Delphine Batho, che il PS resta comunque la vera colonna vertebrale della sinistra. Sarkozy in parte gongola per un’eventuale emorragia di voti per i socialisti, mentre una personalità di spicco come Michel Onfray, un tempo sostenitore di Mélenchon, si smarca definitivamente dal candidato del Front ritenendo inconcepibili le sue idee sulla politica estera, in particolare le posizioni su Cuba: Mélenchon non ha mai nascosto di non considerarla una dittatura.

Più aspro invece l’intervento attraverso le colonne di Slate.fr del giornalista Eric Le Boucher, che definisce Jean-Luc Mélenchon «un Hugo Chavez senza petrolio», aggiungendo che il programma del Front de Gauche «è pieno di stupidaggini». «Non c’è niente di serio – continua Le Boucher, – eccetto i sogni. Il salario minimo a 1700 euro, la pensione a sessant’anni, la sanità gratuita al 100%, 800.000 assunzioni nella funzione pubblica. Un sogno!».

E allora, trita liturgia nostalgico-rivoluzionaria o l’inizio di una vera e propria insurrezione civica? La piazza si è svuotata, i dubbi restano, ma questa giornata ha comunque lanciato un segnale chiaro: la sinistra radicale giocherà la sua parte alle prossime elezioni.

Intanto batto sul mio pc lo slogan di Mélenchon, “Riprendiamo la Bastiglia”, e il correttore automatico continua a correggerlo in “Riprendiamo la Pastiglia”. Un semplice caso o è anche lui un fervente sostenitore del voto utile?
 
di Roberto Lapia , Il Fatto Quotidiano

Lavoro, la fine del Pd

di Fabio Sabatini
L’attacco all’articolo 18 da parte di un governo sostenuto dal Pd promette di porre fine alla lenta agonia di un partito che non ha più ragione di esistere. Ecco, forse questo è l’aspetto più apprezzabile della proposta presentata ieri da Monti e Fornero.
Allo stato attuale, la riforma del mercato del lavoro disegnata dal governo comporta uno schiacciamento della forza contrattuale dei lavoratori dipendenti e lascia sostanzialmente inalterato il potere delle imprese e dei lavoratori autonomi. Che sono i veri vincitori di questa prima stagione politica del governo Monti, nato e vissuto finora con l’appoggio a tratti entusiastico del Partito Democratico.
È una situazione paradossale. Con il crollo del Pdl, il centrosinistra oggi è maggioranza relativa nel Paese, e vincerebbe le elezioni. Se volesse, Bersani potrebbe ribaltare il tavolo. Impedire al governo di cambiare l’articolo 18 oppure, meglio, presentare una proposta alternativa di riforma del mercato del lavoro.
Il leader del Pd potrebbe affermare che non è possibile cancellare la più importante forma di tutela del lavoro dipendente se contemporaneamente non si ridimensionano i privilegi delle categorie sociali antagoniste. Se non si svuotano di ogni potere monopolistico gli ordini e le associazioni professionali, se non si argina la prepotenza di Confindustria e se non diventa possibile licenziare per motivi economici anche i manager delle grandi imprese. Se non si elimina una volta per tutte la miriade di forme contrattuali che oggi consentono ai datori di lavoro di praticare le più becere forme di sfruttamento dei propri dipendenti. Se non si istituisce uno schema organico di assicurazione pubblica contro la disoccupazione corredato da interventi efficaci a sostegno della formazione professionale e del ricollocamento in posizioni dignitose, perché i lavoratori, anche i più svantaggiati, siano messi in condizione di maturare la capacità, gli incentivi e la possibilità materiale di adattarsi ai cambiamenti della domanda di lavoro.
Una controriforma con tali contenuti avrebbe dovuto essere già pronta nel cassetto di Bersani, specie in un momento tanto favorevole dal punto di vista elettorale (negli ultimi due decenni il centrosinistra non è mai stato così avanti nei sondaggi).
Oggi invece il Pd sta perdendo una occasione storica, probabilmente l’ultima, per guidare il cambiamento del paese e porre le basi di una nuova stagione politica che, dopo venti anni di dominio del peggior centrodestra del mondo occidentale, avrebbe potuto ripristinare un briciolo di equità sociale in Italia.
Per Bersani sarebbe stato una sorta di match point. Non ci state? Bene, costruiamo una alleanza con tutte le forze di centrosinistra che condividono il nostro programma, scegliamo con le primarie di coalizione il candidato premier, vinciamo le elezioni e realizziamo il nostro progetto dai banchi del governo.
Un sogno. Il segretario continua a traccheggiare immerso in un brodo di “se” e di “ma”, tentando di mettere d’accordo un partito sostanzialmente diviso tra montiani entusiasti, montiani tiepidi, non montiani e anti-montiani. Sul sito del Pd stamattina l’apertura era dedicata all’ennesimo comunicato vuoto e scialbo, che riporto per intero perché a suo modo esemplare: “Credo che il governo abbia tutti gli elementi per capire le distanze da colmare e trovare i possibili punti di caduta. Spero che vada bene, che si trovi un punto di sintesi. E come sempre nei momenti difficili, l’Italia riesce a costruire la coesione sociale che mette il Paese sulla strada della fiducia per me questo è il messaggio che deve arrivare al mondo”.
Insomma non ha detto niente. Il leader del primo partito di centrosinistra italiano sembra inerme di fronte al più significativo indebolimento dei diritti dei lavoratori mai realizzato nel dopoguerra. L’immagine più incisiva di Bersani che le cronache ci hanno regalato in questi giorni rimane il sorriso un po’ imbarazzato e di circostanza con cui è stato ritratto nella foto a casa Monti postata da Casini su Twitter, della serie: “sono qui ma anche lì, vedremo, ragazzi, non mettetemi in mezzo” (come lo ha felicemente descritto Alessandro Gilioli sul suo blog).
Il Pd non è il partito dei lavoratori, questo era chiaro da un pezzo. È una scelta legittima, ci mancherebbe, ognuno è libero di adottare la linea politica che più gli è congeniale. Né del resto è il partito dei padroni, i cui interessi sono ben più efficacemente tutelati altrove. L’unica categoria sociale fedelmente rappresentata dal Pd oggi sono i dirigenti del Pd, che dettano la linea ignorando, a volte smaccatamente, le aspirazioni dei loro elettori.
Un partito del genere le prossime elezioni non può che perderle. Anche perché il lavoro non è certo l’unico tema su cui il Pd difetta di una posizione ufficiale. Basti pensare ai diritti civili degli omosessuali, su cui nessuno ha corretto la posizione nauseante espressa da Rosy Bindi qualche giorno fa, o al conflitto di interessi, che sembra diventato addirittura un tabù.
Nel frattempo Berlusconi si prepara a incassare. E ci riuscirà senz’altro, visto che il suo potere mediatico ed economico è intatto, e la sua strategia politica è per ora ben più accorta e lungimirante di quella del centrosinistra. L’ex premier sa che oggi non ci sono le condizioni per tornare al governo in prima persona. Quindi l’unica strada per rimanere al potere è allearsi col governo in carica, sommando quanto resta dei propri consensi con quelli di una ipotetica forza centrista guidata da Monti o da altri esponenti dell’esecutivo (un 20-25 per cento, secondo i sondaggi). Tale alleanza avrebbe l’appoggio incondizionato dell’impero mediatico di famiglia, e darebbe in cambio le consuete garanzie sul piano giudiziario e della tutela di Mediaset e delle sue consorelle.
Contro questo centrosinistra, la vittoria sarebbe assicurata. Il Pd subirebbe l’ennesimo, decisivo, ridimensionamento, e l’Italia rimarrebbe ancora, forse definitivamente, impantanata nel conflitto di interessi che ha paralizzato l’economia e la società negli ultimi venti anni.
Fonte: micromega - Da controlacrisi.org

Articolo18. Divaricazioni a cielo aperto nel Pd

22/03/2012 - 11:03
di Sergio Cararo
Alla fine è sbottato anche Bersani. Il Pd rischia di spaccarsi in Parlamento sull'art.18? Difficile ma al momento le posizioni interne non coincidono del tutto. Monti e Napolitano si sono presi il tempo necessario per “cucinare” le eventuali opposizioni e presentare un piatto indigerible senza troppe rotture.
“Non morirò dando il via libera alla monetizzazione del lavoro” si è sfogato oggi il leader Pd, consapevole che sull'art.18 si gioca anche la tenuta del partito - diviso tra chi è orientato a votare no al diktat di Monti e chi non mette in discussione il sostegno al governo. La tensione tra una parte del Pd, più sensibile alle proteste degli elettori di sinistra, e il governo sembra raggiungere livelli di guardia. Per Rosy Bindi “Questo governo può andare avanti se rispetta la dignità di tutte le forze che lo sostengono”. Il no al governo Monti sulla riforma del lavoro è una parola al momento ancora indicibile ma dentro il Pd le aree dei lettiani e dei veltroniani temono che Bersani possa mettersi di traverso se la riforma in Parlamento non verrà modificata e cominciano a pensare ad una rottura del Pd stesso.
“Ci sono parti positive quando si parla di riduzione della flessibilità in entrata, tuttavia c'è il punto caldo dell'articolo 18 che non va bene perchè è profondamente sbagliato aumentare la possibilità di licenziamento per motivi economici” commenta oggi il dirigente del Pd (ed ex sindacalista Cgil) Cesare Damiano, il quale aggiunge “Io non so se il Pd rischia di spaccarsi, dico solo che non prendiamo a scatola chiusa quello che decide il governo. Noi lavoreremo per trovare un punto d'incontro comune dentro al partito», conclude Damiano. “Quando Monti in conferenza stampa ha parlato di accordo di tutti, tranne che della Cgil, mi è parso di risentire Sacconi” è il giudizio di Stefano Fassina del Pd in un'intervista a Repubblica “il Pd sarà in prima linea per cercare di modificare la riforma in Parlamento, valuterà autonomamente nel merito e proporremo i nostri emendamenti”.
Se quelle segnalate sopra sono le valutazioni di esponenti del Pd scettici o contrari al diktat del governo Monti sull'art.18, c'è un'altra parte del Pd che suona una musica completamente differente.”Lavoreremo ancora, fino alla fine, per soluzioni più condivise ma il nostro voto favorevole, pur con tanti distinguo, non può essere in discussione” afferma ad esempio il vicesegretario del Pd Enrico Letta in merito alla trattativa sulla riforma del mercato del lavoro. Ed ancora “se il governo presenterà un testo conforme ai principi finora largamente condivisi, il Pd non potrà che sostenerlo” sostiene un altro dirigente del Pd come Beppe Fioroni a Repubblica. L'esponente del Pd giudica positivamente la trattativa sulla riforma del lavoro. Non poteva mancare il commento positivo di uno dei mandanti politici e intellettuali dell'abolizione dell'art.18 “Vivere questo progetto di riforma dell'articolo 18 come una medicina amara e indigesta da ingerire con il naso tappato da parte del Pd a me sembra molto fuori luogo” ha detto il senatore Pietro Ichino questa mattina ai microfoni di Rcf. Secondo il giuslavorista “è necessario combattere prioritariamente una battaglia contro il dualismo del mercato tra protetti e non protetti. Questa battaglia – ha comentato Pietro Ichino - è il cuore di questo progetto del governo Monti che attinge in larga parte a materiale programmatico elaborato in questi anni all'interno del Pd”.
Fonte: contropiano.org