giovedì 30 aprile 2015

Gennaro Migliore e l’odore (non di rose) della poltrona

Leopolda: oggi chiusura con RenziCaro on. Gennaro Migliore, ogni governo ha i suoi simboli, chi l’avrebbe detto che pure lei lo sarebbe diventato? Sia pure del (vecchio) trasformismo del (nuovo) renzismo. Per la verità, il salto sul carro del vincitore ha assunto con Renzi dimensioni tali da meritarsi di diventare specialità olimpica, ma – suvvia, non faccia il modesto – lei è da podio: il Migliore, appunto.
Devono essere stati durissimi i 5 anni in cui, insieme a Rifondazione comunista, è rimasto fuori dal Parlamento. Neanche una fatica letteraria – dal titolo profetico È facile smettere di perdere se sai come farlo, sottotitolo Idee di sinistra per la nostra sinistra. Subito – è riuscita ad alleviare il malessere. Ma almeno dimostra che lei sapeva davvero come ‘smettere di perdere’: semplicemente passando con chi vince. Facile. Con buona pace della sinistra. Di fronte all’annuncio della fiducia sull’Italicum, i suoi ex compagni di Sel hanno lanciato crisantemi dagli scranni della Camera in nome del ‘funerale della democrazia’.
Lei invece aveva preferito le rose quando, ancora con loro, si era scagliato contro la legge elettorale: “Quella che noi chiamiamo rosa, anche chiamata con un altro nome, avrebbe sempre lo stesso dolce profumo” – aveva detto citando Romeo e Giulietta – “ma quello che voi chiamate Italicum, anche con un altro nome, ha sempre il, non dolce, ma pesante olezzo di quello che chiamammo Porcellum. Le leggi si giudicano dall’odore“.
Poi però, nella più classica delle tradizioni italiane, si è tappato il naso: passato col Pd, è diventato relatore di quella stessa mefitica legge. “Siamo di fronte a un’occasione storica” – ha dichiarato inebriato dal nuovo profumo della poltrona – “quella di approvare una buona legge elettorale“. Un entusiasmo degno, come minimo, di una visita otorinolaringoiatrica.
Ora non me ne voglia, ma sebbene la sua inversione a U riguardi non solo la forma, ma anche i contenuti, e per questo – lo ripeto – valga il podio, non merita tuttavia un’intera lettera. Dopo le sue 15 righe di gloria, il finale deve essere per il vero vincitore: Renzi. Penso al sottile, cinico, sprezzante piacere del suo premier nel vederla smentire se stesso e la sua storia.
E chissà se il boyscout Dc penserà anche, godendo: “L’antagonista barricadero ora mi porta l’acqua con le orecchie”, “Altro che Marx, io ho capitalizzato la sinistra“. Soprattutto: chissà se dopo averle dato la sòla alle regionali in Campania e averle fatto aspirare a pieni polmoni, da relatore, l’Italicum (un po’ come se avesse nominato Berlusconi agente di scorta della Boccassini), poi la metterà nella rosa delle candidature nel Pd alle prossime elezioni.
Oppure se, per noia del gioco, in un rigurgito di senso di dignità della politica (ma questo è più difficile, conoscendo il tipo), o per banale mancanza di fiducia, le offrirà solo un crisantemo per il suo trapasso politico. Caro Migliore, credo che a questo punto nel suo bouquet non restino che le margherite: il profumo è quello che è, ma tanto ormai il suo olfatto è compromesso. Può però sfogliarle, e chiedersi: m’ama o non m’ama?
di , Il Fatto Quotidiano, 30 Aprile 2015

Italicum, l'appello di Paolo Ferrero: "Fondiamo una sinistra alternativa a Renzi"

Italicum, l'appello di Paolo Ferrero: 'Fondiamo una sinistra alternativa a Renzi'“È ora di passare a dalle parole ai fatti …creiamo insieme una sinistra alternativa”. Suona come un vero e proprio appello alla minoranza del Pd l’invito lanciato dal segretario del Prc, Paolo Ferrero, nel corso dell’intervista rilascia ad IntelligoNews. Secondo il leader di Rifondazione, che boccia tutta la riforma elettorale, Renzi ha ormai trasformato il Pd in un partito di destra...

Allora Ferrero, le spaccature nel Pd e le contestazioni dell’opposizione non hanno  fermato l’Italicum. Lunedì sarà legge con buona pace di tutti… “Siamo di fronte ad una svolta antidemocratica, un vero golpe bianco. Il Pd, che è minoranza nel Paese, possiede una maggioranza parlamentare grazie ad una legge anticostituzionale, e usa questa maggioranza per fare un’altra legge elettorale incostituzionale. Insomma usano il porcellum per fare una riforma che forse è persino peggiore. In questo hanno superato Berlusconi!"
Cosa sta facendo Renzi?

"Sta trasformando il Pd in un partito di destra. Sta rompendo con la minoranza per cambiare faccia al partito, d’altra parte lo ha detto chiaramente che vuole fare il partito della nazione”.

Una minoranza che abbaia ma non morde...

“Nella minoranza ci sono tante componenti diverse, ad ogni modo stanno portando avanti una battaglia che merita rispetto anche se inefficace. L’invito che faccio a chi non ha votato la fiducia è di costruire un’alternativa insieme. Non si può solo contestare, è arrivato il momento di costruire una sinistra alternativa sia alle destre razziste di Salvini sia alla destra bancaria di Renzi. Ribadisco, nutro il massimo rispetto per il sincero travaglio che sta attraversando la minoranza del Pd, si tratta di persone che hanno condiviso un lungo percorso politico, ma al momento non hanno alcuna prospettiva politica all’interno del Partito democratico”.

Perché nessuno parla del proporzionale? di Cosimo Francesco Fiori, Pandorarivista.it

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Il dibattito sulla nuova legge elettorale e la corsa per approvarla – cominciata come breve volata, e trasformatasi poi in mezzofondo se non in maratona – si sono sviluppati mettendo in ombra un dato fondamentale: una legge elettorale esiste, e non è il Porcellum (per inciso: la mania di dare alle leggi elettorali i nomignoli in “-um”, che costringe – per farsi capire – a parlare di Mattarellum, Consultellum e Italicum, è una colpa della quale Sartori e i suoi epigoni sciocchi dovrebbero rendere conto al tribunale della Storia).
La Corte Costituzionale (dopo una vicenda processuale lanciata ad arte – si può dire – proprio per condurre al giudizio di legittimità costituzionale) è intervenuta sul testo delle leggi elettorali di Camera e Senato1 trasformandole in senso nettamente proporzionale, con l’eliminazione dei premi di maggioranza (e, inoltre, introducendo le preferenze). Intervento politico, certo, come non può non essere quello di un giudice delle leggi. Il sistema risultante è simile a quello della cosiddetta Prima Repubblica. L’impellenza di cambiare il Porcellum, espressa talvolta persino dai suoi ideatori – impellenza tale che per anni non si è fatto nulla – oggi non ha più ragion d’essere, perché il Porcellum non esiste più. Ma del resto anche i motivi per i quali tale legge era considerata vergognosa erano sovente strumentali; la questione è tutt’altra.
Il dibattito attuale ha, come inespresso presupposto, il seguente: la legge ora vigente è una legge proporzionale, ancorché con soglie di sbarramento certo non indifferenti, e quindi con implicita torsione maggioritaria (a scapito soprattutto delle liste singole non coalizzate); si cerca invece di dare al sistema un carattere fortemente maggioritario (molto più di quanto non fosse prima). Poche voci sono discordi; tutto il resto – premio di maggioranza, doppio turno, preferenze, etc. – è dettaglio. Questo articolo vuole mettere in questione proprio questo presupposto implicito e inespresso della discussione, ovvero la preferenza indiscutibile per una legge maggioritaria. Il maggioritario è la formula magica che trasforma una maggioranza relativa in maggioranza assoluta; per essere più maliziosi, trasforma una minoranza in maggioranza, un 35% di voto popolare nel 55% dei seggi, per esempio. Insomma, l’acqua in vino: miracolo!
L’infatuazione per il maggioritario che ha colto la sinistra all’inizio degli anni ’90 è fenomeno innanzitutto opportunistico: noi minoranza, si riteneva, con un buon escamotage diventeremo maggioranza. Peccato che al primo tentativo (‘94) vinse comunque Berlusconi, e anche in seguito per vincere le elezioni si dovettero inventare coalizioni larghe stile Prima Repubblica (unica differenza: coalizioni pre-elettorali e non post-elettorali). Il tentativo attuale è più ardito: si tratta finalmente di far sì che possano esistere governi monocolore, monopartitici, a immagine e somiglianza di sistemi totalmente diversi dal nostro.
Bisogna per vero aver chiaro che tra maggioritario e proporzionale sussistono differenze di grado: si può dire che un sistema è tanto più maggioritario quanto più distorce il voto popolare favorendo la concentrazione dei seggi nelle mani di pochi gruppi partitici, e sfavorendo la rappresentanza dei partiti che ricevono meno voti (in tal senso la non proporzionalità di un sistema è misurabile). Certamente, un doppio turno con premio di maggioranza alla lista – che prelude a una maggioranza e a un Governo monocolore – e la permanenza di soglie di sbarramento non insignificanti introducono un grado maggioritario molto forte. Ma se si vuole andare alla radice della questione occorre mettere in discussione il principio del maggioritario.
La scelta del sistema maggioritario implica una presa di posizione in ordine ad almeno tre questioni. 
La prima di esse è quella che concerne il pluralismo (partitico ma anche sociale ed economico) e il conflitto tra interessi diversi che esistono nella società. Il primo effetto dei sistemi maggioritari, quasi per definizione, è il rafforzamento dei partiti maggiori e il taglio delle ali (si vedano Paesi diversamente maggioritari quali la Francia, il Regno Unito, gli Stati Uniti, etc.).
Ora, a prescindere dai motivi storici che fecero coincidere la Repubblica democratica col sistema proporzionale2, la questione teorica dirimente è se il pluralismo e il conflitto debbano essere rappresentati all’interno del massimo organo sovrano, oppure no. Il sistema proporzionale è volto a riprodurre dentro lo Stato il conflitto esistente a livello della società, assegnando al Parlamento il ruolo di mediazione suprema. Un sistema maggioritario presuppone invece quella mediazione come già avvenuta. Ha, cioè, l’effetto opposto di occultare il pluralismo, mediante la costituzione di partiti generalisti che sorgono dalla falsa idea di omogeneità sociale (partiti che non vogliono rappresentare una parte, ma aspirano al tutto). Ciò è implicitamente, benché celata, una scelta a favore di alcuni interessi a discapito di altri, non rappresentati come tali in sede parlamentare e quindi esclusi dal canale politico, o comunque fortemente depotenziati. Oltre a ciò, la contesa tra partiti maggioritari tende naturaliter verso il centro, acuendo la distanza di determinati interessi dalla rappresentanza politica; mentre lo Stato e i partiti maggiori negano in via di principio l’esistenza del conflitto, proponendo una visione unitaria della società.
Il conflitto nel Novecento era entrato dentro lo Stato, anche a norma della Costituzione vigente, e col maggioritario si cerca di espellernelo, virando verso un’idea di Stato molto simile a ciò che Marx definiva come «comitato esecutivo della borghesia». Il sistema proporzionale ricrea il conflitto esistente nella società (o almeno lo consente); il sistema maggioritario ha già scelto il vincitore.
La seconda questione su cui la scelta maggioritaria importa una precisa decisione è quella della forma di governo. In tale ambito il risultato del maggioritario è il rafforzamento dell’esecutivo sul Parlamento: il Governo, infatti, potendo disporre della maggioranza parlamentare assoluta, non è sottoposto alle insidie e alle perdite di tempo, e il rischio di perdere su una votazione è relativamente basso: sicché il Parlamento ha un ruolo prevalente di ratifica; il singolo parlamentare è totalmente fungibile, potendo benissimo essere una nullità assoluta; la minoranza parlamentare ha un mero diritto di tribuna.
L’argomento di solito usato contro il sistema proporzionale è quello della governabilità, cioè dell’efficacia dell’azione di governo. Partitucoli e coalizioni vaste, frammentate ed eterogenee non conducono a nulla di buono, si dice. La forma decisionale garantita dal tramite diretto Governo-Parlamento (meglio: Governo monocolore – maggioranza parlamentare monopartitica) permette decisioni più rapide. Ma il punto è: quali decisioni?
Senza volere (e potere) fare qui una valutazione comparatistica sulla qualità della legislazione tra le cosiddette Prima e Seconda Repubblica – che difficilmente avrebbe esiti favorevoli alla seconda – occorre ricordare che la decisione politica è decisione che regola interessi contrapposti. Meno tali interessi hanno occasione di mediazione, meno la decisione politica e legislativa risulta ponderata. Insomma, qualcuno dovrebbe dimostrare che un processo legislativo più veloce (e comandato direttamente dal Governo) sia perciò stesso migliore di un processo decisionale che invece si forma in Parlamento3. La politica, che è mediazione di interessi conflittuali, richiede dibattito e tempo; non certo per vezzo da clasa discutidora, per dirla con Donoso Cortés, bensì perché riducendo la mediazione parlamentare e propriamente politica da un lato la si ‘esternalizza’, rendendola affine al lobbismo, e dall’altro si privilegia implicitamente uno dei contendenti, quello già rappresentato e comunque quello più forte, spingendo interi gruppi sociali al di fuori dello spazio della politica.
E questo chiama in causa la terza e ultima questione: l’effetto pernicioso che i sistemi maggioritari hanno sulle organizzazioni partitiche. Il fatto che i partiti in epoca maggioritaria diventino generalisti, d’opinione, comitati elettorali, fattualmente o ex professo dimentichi dell’organizzazione politica delle masse, non è un caso ma una necessità. Il partito generalista non organizza gli interessi conflittuali perché pretende di riassumerli tutti dentro di sé, perciò non ha interesse a organizzare una collettività intorno a interessi parziali. Non vuole essere parte ma Tutto (un tutto, certo, pieno di vacche nere e gatti bigi). Ritenendosi espressione diretta e sufficiente di quel tutto, il rapporto concreto con la collettività è questione puramente accidentale, che ben può essere limitata a momenti puntuali come le elezioni.
Per riassumere: il sistema proporzionale riconosce in via di principio l’esistenza del conflitto e lo porta all’interno del massimo organismo rappresentativo, il Parlamento; costringe, per via della probabile mancanza di maggioranze assolute, a un serrato confronto parlamentare che produce non solo lungaggini, ma anche mediazione; costringe i partiti a rivolgersi con maggior forza all’organizzazione delle collettività e degli interessi sociali, e a fare più seriamente da tramite tra questi interessi parziali e conflittuali e il dibattito parlamentare non monopolizzato. L’equazione maggioritario = meno partiti, governi più forti, decisioni più rapide e dinamiche, decisioni più giuste conduce invece all’esclusione delle masse dalla vita politica e all’indebolimento della politica stessa.
Il mito della governabilità; il mito delle elezioni che in un giorno solo (la sera stessa) designano il Governo e assegnano la coppa del vincitore, a guisa di partita di calcio; il terrore per il Governo che si forma in Parlamento: tutti questi sono invero dogmi antipolitici. Imboccare il sentiero più semplice, che permette di governare in modo celere e indolore, è una scelta (non necessariamente inconsapevole) di subalternità agli interessi dei gruppi sociali dominanti. Il sentiero tortuoso è invece quello del conflitto, della mediazione, del pluralismo (sociale, elettorale, parlamentare).
Un ultimo cenno merita la questione delle preferenze, dei capilista ‘bloccati’ e delle liste ‘bloccate’ tout court. Essa invero è, come tale, una falsa questione. Che la scelta diretta di quel candidato generi una maggiore vicinanza tra elettore ed eletto (sia perché si esprime una preferenza, sia perché si vota un candidato in un collegio uninominale, etc.) è un’affermazione parziale. “Vicino” è termine ambiguo, che può essere inteso in senso empirico o in senso organico. Scegliere proprio quel candidato lo rende empiricamente più vicino, senza dubbio. Ma è questa la vicinanza tra elettore ed eletto di cui la sinistra si può accontentare, tanto più in un periodo di crudele disaffezione politica ed elettorale? Il candidato preferito fa parte di una lista di nomi scelta da un partito, così come sono scelti all’interno dei partiti i candidati alle primarie, come lo sono i capilista, etc. Ma se manca alla radice una vicinanza organica tra elettore-cittadino e partito, si può forse pensare che la vicinanza empirica al nome del candidato annulli in un sol colpo la distanza tra politica e società?
Si tratta di un tentativo di demandare l’organizzazione politica delle masse al mero momento elettorale, quando invece essa dovrebbe esistere prima di questo; e anzi il momento elettorale dovrebbe essere solo la conferma di un rapporto che preesiste, sia logicamente sia cronologicamente. L’idea di avvicinare l’elettore e l’eletto con l’ausilio di una formuletta elettorale è una colossale ingenuità.

1 Sentenza n. 1/2014, che interviene sul D.P.R. 361/1957 (sistema elettorale della Camera dei deputati) e sul D.Lgs. 533/1993 (Senato) così come modificati dalla legge 270/2005 (cioè il cosiddetto Porcellum).
2 L’Assemblea Costituente, pur non inserendo nel testo della Costituzione il sistema elettorale proporzionale, si espresse in suo favore – per la Camera – con due o.d.g., sia nella Commissione dei 75, sia in Aula. L’on. Giolitti, che difese la proposta in Aula, descrisse il proporzionale come «più idoneo e adeguato allo sviluppo della democrazia moderna. Non è il caso che io ricordi quale significato, anche rivoluzionario, abbia avuto l’introduzione del sistema proporzionale […]. E infine voglio anche ricordare la garanzia che il sistema proporzionale costituisce per i diritti delle minoranze» (Atti dell’Assemblea costituente, seduta del 23/9/1947, p. 436). Su analoga linea si espresse Mortati in Commissione.
3 Sulla maggior qualità legislativa di un modello proporzionalistico rispetto a uno maggioritario si veda A. Lijphart, Le democrazie contemporanee, Bologna, il Mulino, 2014.

Il PD di Renzi cambia verso alla storia

Pd, candidato revisionista nelle Marche: “25 Aprile? Sciacalli e traditori”

Pd, candidato revisionista nelle Marche: “25 Aprile? Sciacalli e traditori”
Continua la "mutazione genetica" del partito renziano. Nella regione "rossa" è in lista l'ex sindaco di Fermo Saturnino Di Ruscio (ex An, poi berlusconiano, tosiano e infine approdato all'Udc). Nel 70esimo della Liberazione ha condiviso su Facebook il post di stampo fascista "Io non festeggio". E il locale circolo dem insorge
di , Il Fatto Quotidiano
La mutazione genetica del Pd in Partito della Nazione pigliatutto, ma proprio tutto, procede di pari passo dal centro (Parlamento) alla “periferia” delle prossime elezioni regionali del 31 maggio. Si vota in sette regioni e in queste ore un po’ ovunque il Partito democratico renziano sta imbarcando ex berlusconiani e riciclati di destra in generale (eclatante il caso degli ex cosentiniani in Campania). Ma l’ultimo clamoroso acquisto riguarda le tranquille Marche, per decenni etichettata tra le regioni rosse. Qui il candidato del centrosinistra è Luca Ceriscioli, che ha anche l’appoggio dell’Udc. Ed è proprio nelle file del partito centrista di Casini che è scoppiato il caso di Saturnino Di Ruscio, ex sindaco di Fermo.
di ruscio-300Già aennino e berlusconiano, Di Ruscio a febbraio stava organizzando nelle Marche il movimento di Flavio Tosi, scissionista leghista. Poi la virata sull’Udc e la candidatura alle regionali per il 31 maggio. Ma il 25 aprile scorso, in occasione del settantesimo anniversario della Liberazione, Di Ruscio l’ha fatta davvero grossa e su Facebook ha condiviso un post fascista e revisionista che si apre così: “Io non festeggio, l’Italia non è libera. Il 25 aprile 1945 è iniziata l’occupazione. Siamo una colonia americana”. Poi tutta una serie di contumelie contro gli “Sciacalli Traditori della Patria” di oggi, dall’Unione Europea alla Bce e alle banche in generale.
L’uscita di Di Ruscio, in linea con le accuse di “fascismo renziano” lanciate alla Camera dal berlusconiano Renato Brunetta, ha provocato la rivolta del Pd di Fermo. Un altro segnale d’allarme per la linea pigliatutto del premier. Dice Sonia Marozzino, segretario del circolo Fermo est del Pd: “Se non si risolve la questione della candidatura Di Ruscio a sostegno di Ceriscioli qui i rappresentanti del partito dovrebbero procedere nell’ordine: dimissioni loro, non consegnare le firme, ritiro delle candidature del Pd in provincia di Fermo”. Anche nelle Marche il trasformismo della peggiore specie sembra il leitmotiv delle prossime regionali, come testimonia la candidatura nel centrodestra del governatore uscente di centrosinistra, Gianmario Spacca.

Bivacco di ridicoli di Marco Travaglio



La fiducia

Ma che cosa deve ancora accadere perché il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ritrovi la favella? Le scene di ieri a Montecitorio parlano da sole. Un’aula ridotta a bivacco di manipoli, o di ridicoli, da un governo che espropria definitivamente il Parlamento del   suo potere di legiferare, imponendo la fiducia su se stesso per far passare una legge elettorale di squisita competenza parlamentare. Una presidente della Camera, brava donna per carità, ma palesemente inadeguata al ruolo, che assiste impassibile ai funerali dell’istituzione che presiede e inghiotte supinamente il diktat di Palazzo Chigi, terrorizzata dai giannizzeri governativi pronti a fare con lei ciò che han già fatto con i parlamentari disobbedienti, destituendo prima al Senato e poi alla Camera chiunque si mettesse di traverso sulla strada del premier padrone. E invoca, con voce monocorde e burocratica, “i precedenti”. Ci sono sempre dei precedenti, nella patria di Azzeccagarbugli. È vero, la ministra Boschi non è la prima a imporre la fiducia su una legge elettorale: prima di lei l’avevano già fatto il ministro dell’Interno Mario Scelba nel 1953 sulla cosiddetta “legge truffa” (un bijou di democrazia, al confronto dell’Italicum) e il governo Mussolini nel 1923 sulla legge Acerbo (questa sì, degna progenitrice dell’Italicum).  
Nelle pieghe del regolamento, volendo, si trova sempre tutto e il contrario di tutto pur di sostenere le ragioni del più forte. Però, un po’ al di sopra dei regolamenti, ci sarebbe la Costituzione. E l’articolo 72 prescrive che “la procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale”. Che c’è di normale nella procedura che costringe il Parlamento a obbedire al governo sulla legge elettorale perché altrimenti cade il governo e il capo del governo, al prossimo giro, non ricandida più chi non vota la fiducia al suo governo? E che senso ha il voto segreto sulla legge elettorale, se poi il governo costringe i parlamentari al voto palese sulla fiducia al governo sulla legge elettorale? Oltre alle regole, poi, c’è la sostanza: oggi l’Italicum e domani il nuovo Senato approvati a colpi di maggioranza, che poi maggioranza non è se si toglie il premio del Porcellum già tolto dalla Consulta in quanto incostituzionale; e, anche volendolo ancora calcolare, la maggioranza non c’è lo stesso, perché senza i ricatti del premier i parlamentari del Pd contrari all’Italicum e al nuovo Senato sarebbero oltre un centinaio.
Ricordare questi dati di fatto a Mattarella è “tirare per la giacchetta il presidente della Repubblica”? Pazienza – diceva Giovanni Sartori quando richiamava Ciampi e Napolitano ai loro doveri – “alla peggio il presidente se ne comprerà un’altra”. Noi sappiamo per certo che Sergio Mattarella, su quanto accaduto ieri, ha le idee molto chiare. E non perché ci parliamo (per farlo, tra l’altro, bisogna essere in due). Ma perché quanto accaduto ieri è il replay (aggravato dalla fiducia, che neppure B. osò imporre) di quanto accadde nell’ottobre del 2005, quando il centrodestra cambiò la Costituzione e la legge elettorale a colpi di maggioranza. E Mattarella, allora deputato della Margherita, il giorno 20 pronunciò parole definitive,che abbiamo già citato ma continueremo a ricordare ancora per molto tempo: “Oggi voi del governo della maggioranza vi state facendo la vostra Costituzione, avete escluso di discutere con l’opposizione, siete andati avanti solo per non far cadere il governo, ma le istituzioni sono di tutti, della maggioranza e dell’opposizione”.    
Poi ci sono le parole dello Smemorato di Rignano, che per un anno intero se n’è riempito la boccuccia per giustificare il Patto del Nazareno con B. “Legge elettorale. Le regole si scrivono tutti insieme, se possibile. Farle a colpi di maggioranza è uno stile che abbiamo sempre contestato” (Renzi, Twitter, 15-1-2014). “L’idea di scrivere le regole del gioco con le opposizioni è un fatto fondamentale, un valore assoluto: la legge elettorale non si può approvare a colpi di maggioranza” (18-3-2014). E c’è la Smemorata di Montevarchi, al secolo Maria Elena Boschi: “Cerchiamo la più ampia condivisione, non abbiamo un modello elettorale preferito, per noi vanno bene allo stesso modo il Mattarellum o lo spagnolo corretto, o anche il sistema dei sindaci. L’importante è che un accordo ci sia e non si proceda a colpi di maggioranza. Ci interfacceremo con B. come con gli altri” (Ansa, 6-1-2014). “Le riforme, quelle costituzionali e quella elettorale, non si fanno a colpi di maggioranza” (Ansa, 21-6-2014). Poi ci sono i paggetti del Duo Toscano, come Ettore Rosato, capogruppo Pd “facente funzioni” (dopo le dimissioni di Speranza), figura tragicomica di quella “cupidigia di servilismo” denunciata da Paolo Sylos Labini. Ieri alla Camera, siccome la menzogna era all’ordine del giorno, ha portato anche lui il suo contributo spiegando che la fiducia era necessaria a causa di un Parlamento che “in 10 anni non è riuscito a riformare il Porcellum” e a dare agli italiani una legge elettorale decente. E lui lo sabene,vistoche del Parlamento fa parte da 12 anni (tre legislature). Purtroppo per lui, il Porcellum non c’entra nulla perché non c’è più da un anno e mezzo: nel dicembre 2013 è stato spazzato via dalla sentenza della Consulta, che l’Italicum tradisce. E una legge elettorale esiste: è il proporzionale con preferenza unica disegnato dalla Corte, lo stesso sistema con cui l’Italia andò alle urne nel ‘92. Ci sarebbero poi le bugie di Renzi dopo la cura, che dice l’opposto di prima della cura, quando girava l’Italia e mieteva consensi promettendo “una legge elettorale per scegliere direttamente gli eletti” (3-4-2011). Ma di balle, ieri, abbiamo già fatto il pieno: non c’è bisogno di rievocarne altre.
Da Il Fatto Quotidiano del 29/04/2015.

Esposizione universale del declino italiano Di ilsimplicissimus



67fdeb9b950a3ea694f610a697de5509Domani si inaugura in pompa magna l’Expo di un Italia vacua e corrotta che su un tema capitale come quello dell’alimentazione non è riuscita a costruire altro che una mega trattoria abborracciata alla meglio, futile e fangosa. Del resto essendo stata mangiatoia per ogni tipo di sottobosco la trasformazione della presunta esposizione in greppia fusion dove s’ingozzano i soliti noti, comprese le belle e lucide intelligenze travolte da insopprimibili istinti cortigiani oltre che  dalla numinosa reductio ad unum del maccarone reale e di quello metaforico.  Insomma costosissima cartapesta alla quale banchetta un Paese di cartapesta.
Ma chi di Expo ferisce, almeno mediaticamente, di Expo può anche perire. E in effetti il confronto con l’altra grande esposizione internazionale ospitata dall’Italia, quella milanese del 1906, è talmente impietoso da apparire una sconvolgente e desolante testimonianza di un declino probabilmente irreversibile. Parliamo di 109 anni fa, mica di ieri: l’italietta giolittiana i cui costumi non erano certo irreprensibili tra scandali bancari e trasformismo, volle festeggiare il completamento della galleria del Sempione con una grande esposizione dedicata ai trasporti. L’idea nata alla fine del 1902, prese via via concretezza e venne completamente realizzata nel giro di due anni grazie a una sottoscrizione pubblica che raccolse sei milioni di lire poi totalmente restituiti. Vi parteciparono 40 Paesi (praticamente tutti, tenendo conto che quasi metà del pianeta era sotto dominio coloniale) e 35 mila espositori, compresi quelli cinesi. Le aree espositive erano due, quella dietro il Castello sforzesco che oggi si chiama appunto parco Sempione e quella della Piazza d’armi che è stata poi per tanti decenni sede  della vecchia fiera, unite da una ferrovia sperimentale sospesa  primo esempio di metropolitana sopraelevata, copiata poi in tutto il mondo, tranne che da noi ovviamente.
In due anni furono realizzate 225 costruzioni tutte in stile liberty. All’ingresso principale si accedeva tramite un tunnel artificiale che riproduceva fedelmente la galleria del traforo del Sempione con materiali originali provenienti dal cantiere e documentazione fotografica, mentre a fianco dell’Arena Civica fu costruito l’Acquario, (unico edificio salvatosi dai bombardamenti della seconda guerra mondiale) che allora era il terzo realizzato al mondo, dopo quelli di Napoli (costruito con capitali tedeschi) e di Honolulu. Tra locomotive e vagoni spiccava un’area dedicata al volo con palloni aerostatici sui quali il pubblico poteva provare l’ebrezza di sollevarsi dal suolo, con i primi modelli di dirigibili esposti e perfino con i primi aeroplani ad appena tre anni dall’impresa dei fratelli Wright. C’erano poi padiglioni che proponevano esperienze multisensoriali come quello dedicato all’ambiente polare oppure all’Egitto con la ricostruzione integrale di una zona del Cairo con tanto di cammelli. E per non farsi mancare nulla fu inaugurato il primo ristorante cinese in Italia.
Ma  c’erano anche cose più serie in quel lontano 1906, anno nel quale nasce la confederazione Generale del lavoro e viene varato il primo contratto di categoria tra la Fiom e la Fabbrica Italiana automobili Torino. Un intero padiglione era dedicato alla previdenza sociale ed esponeva anche appartamenti tipo dell’edilizia popolare: proprio nei sette mesi di vita dell’esposizione (28 aprile – 11 novembre) la Società umanitaria aveva inaugurato a Milano, in via Solari, il primo complesso di edilizia economica , realizzato dall’architetto Broglio nel corso di un anno e mezzo. Non mancava infine un intero palazzo (considerato tra l’altro il più bello) dedicato ai temi e alle tecnologie della produzione agricola.
Insomma l’idea che veniva fuori dall’esposizione era di un Paese dinamico e aperto al mondo, moderno, laico (il manifesto ufficiale riprende il tema dell’inno a satana di Carducci)  e che era in grado di affrontare il legame tra evoluzione tecnologica e progresso sociale. Niente a che vedere con la squallida e atona mangiatoia dei Farinetti accoppiata alla dittatura delle multinazionali del cibo (in realtà due facce di una medesima medaglia), con l’esposizione nata fra ruberie senza fine, sperpero dei denari pubblici, segnata dalla vergogna del lavoro gratuito dalle speculazioni e dalla fatuità da ostaria che regna untuosa come odore di fritto.  Un insieme che nel complesso definisce un Paese marginale, corrotto e conformista che ha davvero poco da dire in qualsiasi campo.
Forse questo modo di vedere le cose deriva dal fatto che come molti altri sarò invidioso di Farinetti come suggerisce con folgorante intelligenza berlusconica tale Michele Serra in forza agli uffici stampi unificati di De Benedetti, Fazio e Renzi.  Però è più probabile che questi eccessi di imbecillità servile, non siano altro che un ulteriore aspetto del regresso che il  Paese esprime e che ha prodotto questa specie di Expo.
Ah dimenticavo… i visitatori nel 1906 furono 5 milioni che per le condizioni di del tempo possono tranquillamente essere equiparati oggi a 100 milioni. Ma si fa fatica anche a raggiungere il traguardo dei 10 come dimostrano i numeri che ci sono, quelli che vengono taciuti e le disperate svendite di biglietti che arrivano dal Pd come dalle società telefoniche, dai vari gestori di frecce ferroviarie e fra un po’ anche dai venditori di tappeti. Anzi no, quelli già ci sono per tagliare il nastro.

La legge del più forte. Democrazia: ultima chiamata di Lapo Berti

Perché il salvataggio delle banche è stato anteposto o, addirittura, contrapposto al salvataggio delle persone? C’è una sola risposta possibile: perché è prevalsa la legge del più forte. Una domanda semplice, forse banale, e una una risposta altrettanto semplice, che ai più appariranno ovvie. Ma che ovvie non sono
TogliattiNenniSaragat353 300Si poteva pensare che due secoli abbondanti di costituzionalismo e di espansione democratica avessero definitivamente espunto dal nostro orizzonte sociale l’esercizio senza limiti del potere, secondo la legge elementare del più forte. Sembrava che il potere assoluto e l’esercizio arbitrario della forza fossero stati definitivamente sottratti al sovrano assoluto e consegnati nelle mani del popolo, reso finalmente sovrano, che lo avrebbe esercitato nel rispetto della libertà di tutti. Si poteva supporre che nessun altro potere avesse diritto di cittadinanza all’interno del contesto democratico. La sopraffazione era bandita dalla sfera delle relazioni sociali. La democrazia rappresentativa doveva garantire che il popolo potesse eleggere i propri rappresentanti che avrebbero esercitato il potere di decidere per tutti nell’esclusivo interesse dei cittadini e secondo la volontà democraticamente espressa. L’unico potere che potesse essere legittimamente esercitato era, dunque, quello conferito dalla delega del popolo.
Non è così e, forse, non lo è mai stato. Il sogno della democrazia si è da tempo trasformato in un sonno tormentato da incubi. E i bruschi risvegli, che sempre più spesso ci toccano, ci disvelano un mondo in cui di democratico in senso proprio non c’è praticamente nulla, specialmente se guardiamo alla sostanza del processo democratico, che dovrebbe investire il modo in cui vengono prese le decisioni che coinvolgono le condizioni e l’interesse di tutti e che, quindi, dovrebbero quanto meno rispettare la volontà della maggioranza. Vediamo invece all’opera gruppi ristretti di persone, spesso in connessione fra di loro, che prendono decisioni la cui rilevanza è decisiva per il destino di tutti e lo fanno al di fuori di qualsiasi circuito democratico, senza essere sottoposti al alcuna verifica democratica, né prima né dopo. I processi decisionali che contano sono spesso occulti e tali restano anche dopo che le decisioni sono state assunte. In breve, si è formata un’oligarchia, formata dai vertici del potere economico-finanziario, politico, amministrativo, cui si rivolgono, in una logica di scambio politico, i gruppi di interessi dotati di sufficiente potere. A livello globale poi, ed è questa forse la cosa più inquietante, si sta formando, nelle più totale mancanza di trasparenza, un’élite del potere, un’oligarchia delle oligarchie, composta di esponenti della finanza, dell’industria, della politica e, forse, anche della comunicazione e delle religioni.
Questa evoluzione, che investe, seppur in forme diverse, tutti i paesi formalmente democratici, è giunta oggi a un punto di rottura. Viviamo in regimi formalmente democratici, in cui sono giuridicamente garantiti i diritti che fanno parte del patrimonio democratico e in cui si continuano a celebrare i riti caratteristici della democrazia: il voto per eleggere i rappresentanti al parlamento e, a seconda dei casi il capo del governo e il presidente della repubblica; le consultazioni referendarie; i congressi dei partiti; le manifestazioni di piazza
In tutto ciò, non vi è alcun esercizio concreto del potere democratico né vi è la formazione di una volontà collettiva che indichi un programma di governo. Vi è solo la possibilità di aderire alle opzioni elaborate all’interno delle oligarchie, schierandosi a favore di poteri e di soluzioni di cui spesso non si conosce nulla. È appena il caso di sottolineare che questo è il contesto in cui fiorisce la corruzione quale necessario corredo e fondamentale strumento di scambi occulti fatti sulla pelle e con i soldi dei cittadini.
Il potere economico
Tutto ciò è particolarmente vero e pertinente per quando riguarda l’ambito dell’economia e, soprattutto, della finanza. Frastornati dalla propaganda che elogia i mercati quali garanti della trasparenza e della libera scelta di produttori e consumatori, affascinati dai risultati delle imprese globali, abbiamo lasciato che nell’economia si formassero aggregazioni di potere inaudite, con una potenza economica e finanziaria che supera di gran lunga la forza della maggior parte degli stati nel mondo. Il problema del gigantismo industriale, di istituzioni bancarie e finanziarie gigantesche, è parte del capitalismo maturo e lo conosciamo da tempo. Ma il fenomeno delle strutture economiche too big to fail, troppo grandi per fallire, ha reso plasticamente evidente l’insostenibilità democratica di questo contesto economico. Siamo in una situazione limite, prossima al punto di rottura. Siamo di fronte a organismi economici di natura privata, che prendono le loro decisioni e compiono le loro scelte in vista di interessi esclusivamente privati, generalmente di cerchie assai ristrette, ma ci viene detto, dagli esponenti politici che abbiamo eletto, che quando questi organismi sbagliano e vengono a trovarsi in difficoltà è l’intera collettività che deve farsi carico di salvarle dal possibile fallimento. Profitti privati e pubbliche calamità. È la legge del più forte. È il più forte, più forte economicamente, che detta ai più deboli, il popolo, regole e condizioni nel nome del proprio esclusivo interesse. L’asserzione che, se il più forte fallisce, ne risente l’intera comunità e che, dunque, il suo salvataggio rientra nella tutela dell’interesse collettivo è una miserevole menzogna, che nessun argomento serio è in grado di sostenere. Lo ripetiamo: la compatibilità fra sistema democratico ed economia capitalistica è giunta a un punto di rottura. Dobbiamo esserne consapevoli e dobbiamo porre apertamente il problema. Potrebbe essere già troppo tardi per evitare passaggi difficili e socialmente costosi.
Il miraggio della concorrenza
La democrazia americana, che per prima si è esplicitamente confrontata con il problema del gigantismo economico, la bigness, ha tentato di domarlo imponendo le regole dell’antitrust, ritenendo che la disciplina della concorrenza fosse in grado di contrastare gli inevitabili abusi di potere cui la bigness dà luogo. Per più di un secolo, dal 1890 quando, sull’onda di una mobilitazione popolare, fu varata la prima normativa antitrust, si è combattuta una guerra che non poteva essere vinta. È stata vinta qualche battaglia, ma la guerra è stata persa, perché non si è riusciti a contrastare efficacemente l’espansione del potere economico e il suo traboccamento negli altri ambiti della vita sociale. Si è cercato penosamente di giustificare la bigness, sostenendo che non è la grande dimensione delle imprese, di per sé, che mette a rischio il corretto funzionamento dei mercati addomesticando la concorrenza, ma solo il suo abuso, che, dunque, va combattuto in quanto tale. Di fatto, ci si è arresi allo strapotere delle corporation, rinunciando a intervenire sulla loro crescita dimensionale, come pure qualche eroico sostenitore della concorrenza, come il giudice Brandeis, aveva suggerito un secolo fa. Oggi, il regime concorrenziale disciplina, paradossalmente, solo coloro che non avrebbero bisogno di essere disciplinati, in quanto privi di un effettivo potere di mercato.
L’antitrust, come tutti i sistemi di regole, rimane costituzionalmente debole e perdente fintanto che si limita a intervenire sugli effetti e non gli è consentito di aggredire le cause delle grandi distorsioni che ostacolano il funzionamento della concorrenza nei mercati. L’antitrust si riduce così a una narrazione che cerca di convincerci che siamo riusciti ad addomesticare il potere economico. L’antitrust, come tutti i sistemi di regolamentazione dei mercati, è esposto a pesanti asimmetrie informative che attribuiscono alle imprese, specialmente quelle più grandi, un vantaggio pressoché incolmabile, che non di rado tracima nella cattura del regolatore, costretto a decidere sulla base delle informazioni che gli fornisce il regolato e sempre esposto al rischio della corruzione.
Il risultato è che le mega-imprese che agiscono a livello globale hanno di fatto assorbito tutte le dimensioni del potere e ne dispongono a loro piacimento, senza dover rispondere a nessun sistema di regole, semplicemente perché non c’è nessun regolatore che abbia la forza di imporgli regole. Il potere politico e legislativo è interamente riassorbito nello spazio economico e assoggettato agli interessi delle grandi imprese. La mega-impresa globale è oggi di fatto un’entità extra-territoriale, nel senso che non è soggetta in senso proprio ad alcuna giurisdizione nazionale ed è, anzi, in condizione di mettere in atto una sorta di “arbitraggio regolamentare”, privilegiando le giurisdizioni più favorevoli sul piano giuridico e fiscale ed esercitando così un irresistibile potere di condizionamento sulle scelte dei governi.
Le imprese too big to fail semplicemente non dovrebbero esistere. Nessun discorso onesto sulla libertà economica può arrivare fino al punto di giustificare la formazione di queste abnormi aggregazioni di potere. E invece esistono ed esiste uno stuolo di economisti impegnati a dimostrarne l’inevitabilità o, addirittura, l’utilità e a ridimensionarne la pericolosità.
Il rischio dell’assuefazione
La cosa che preoccupa di più è la percezione molto bassa che si ha nell’opinione pubblica della pericolosità di questa deriva dell’economia capitalistica, in atto da decenni. Due fattori principali, probabilmente, vi contribuiscono. Da un lato, l’esaltazione del successo economico e della ricchezza che ne deriva che si è installata, a tutti i livelli, nella cultura di massa. Dall’altro, l’assuefazione a una sorta di intangibilità dei processi capitalistici, considerati alla stregua di eventi naturali cui è impossibile opporsi perché radicati nella natura delle cose. Fa da sfondo a questo clima culturale la sfiducia strisciante e sempre più diffusa nella possibilità di utilizzare efficacemente lo strumento della democrazia per contrastare e controllare la concentrazione del potere economico. La democrazia dovrebbe essere considerata un bene comune, ma, come spesso avviene per i beni comuni, quando si offusca o si perde il senso del vivere insieme, il bene comune si trasforma più o meno rapidamente nel bene di nessuno. È lì, a disposizione, e viene utilizzato, ma nessuno se ne prende cura, nella fiducia assolutamente irrazionale che resterà eternamente a disposizione. I beni comuni, invece, se non accuditi, rispettati, coltivati da tutti i cittadini, deperiscono e alla fine scompaiono. Non ci sono più, bisogna farne a meno. Solo allora, eventualmente, si avverte che c’è stata una perdita, perché la qualità della vita è peggiorata e non si riesce a capire perché. Questa è, oggi la condizione della democrazia. Ce n’è quel tanto che serve per non doversi occupare di creare alternative. Fornisce prestazioni mediocri, spesso insoddisfacenti, accrescendo l’indifferenza, se non l’insofferenza, per la dimensione collettiva, per tutto ciò che è pubblico, di tutti.
Il compromesso keynesiano
C’è stato un momento in cui il “secolo breve” ha deviato dalla sua traiettoria e si è proiettato su di un terreno sconosciuto, alla ricerca dei modi in cui domare il capitalismo oligopolistico delle grandi imprese che si ergeva come una minaccia mortale nei confronti della democrazia. Dopo il disastroso esperimento della Repubblica di Weimar, segnata dall’ingerenza dei grandi monopoli tedeschi, dopo le disastrose conseguenze della Grande crisi, di fronte all’insorgere del nazionalsocialismo e del fascismo, forte e impellente era la necessità di ragionare su di una via di uscita che non lasciasse il destino della democrazia nelle mani dei monopoli. Negli Stati Uniti venne il momento del New Deal di Franklin D. Roosevelt, con il suo impeto e il suo radicalismo innovatore. In Germania, con maggiori rischi e più sommessamente, un gruppo ristretto di persone, riunito a Friburgo, si mise all’opera per provare a immaginare un nuovo ordine economico e politico, una volta che il nazismo fosse stato sconfitto. I nomi degli artefici di quei tentativi sono oggi sconosciuti ai più: Henry Simons e Thurman Arnold negli USA, Walter Eucken e Franz Böhm in Germania, ma il loro lavoro è stato e rimane l’unico tentativo serio di affrontare il problema del potere economico in una società democratica. La formulazione più chiara, incisiva e anche drammatica del problema è quella consegnata a un messaggio del Presidente Roosevelt al Congresso del 29 aprile 1938. Essa ha al centro “due verità semplici sulla libertà di un popolo democratico. La prima verità è che la libertà di una democrazia non è al sicuro se il popolo tollera la crescita del potere privato fino al punto in cui esso diventa più forte dello stesso stato democratico… La seconda verità è che la libertà di una democrazia non è al sicuro se il sistema economico non fornisce occupazione e non produce e distribuisce beni in modo da sostenere un livello di vita accettabile” (Franklin D. Roosevelt, Message to Congress on the Concentration of Economic Power, April 29, 1938). Il problema, secondo Roosevelt, è che “oggi sta crescendo una concentrazione del potere privato che non ha uguali nella storia. Questa concentrazione sta compromettendo seriamente l’efficienza economica dell’impresa privata quale strumento per dare occupazione al lavoro e al capitale e quale strumento per assicurare una distribuzione più equa del reddito e dei guadagni fra le persone della nazione nel suo insieme” (ibid.).
Tutti i personaggi citati ritenevano che una concentrazione del potere economico tale da limitare o cancellare la concorrenza fosse incompatibile con un regime democratico e, più o meno apertamente, erano a favore di regole che ne prevedessero e imponessero la dissoluzione. Non si trattava, anche allora, di controllare gli abusi di quel potere, ma di eliminarne i presupposti. “Non sono da combattere i cosiddetti abusi del potere economico – sosteneva Eucken – ma il potere economico in quanto tale”.
Quei tentativi, per quanto lucidi e generosi, sono falliti. Hanno prodotto qualche temporanea correzione, hanno costretto il capitalismo oligopolistico a qualche momentanea concessione sulla cui scia si è riusciti, per un trentennio o giù di lì, a far vivere un compromesso nel nome del keynesismo. Ma il problema non è stato risolto, anzi, nel corso del ventennio della Grande moderazione, fra il 1987 e il 2007, si è aggravato fino a esplodere con la globalizzazione. L’intera parabola della Crisi finanziaria globale, dai processi che ne costituiscono il presupposto a quelli che ne costituiscono le conseguenze, mostra con tutta evidenza che essa si è prodotta nel segno dell’oligarchia finanziaria e delle imprese too big to fail, che l’ha, di fatto, imposta con i propri comportamenti, cui nessun governo, nessun potere politico, è stato in grado di opporsi. Il potere economico delle grandi istituzioni finanziarie si è mosso indisturbato, nel perseguimento dei propri obbiettivi, finché la realtà non si è ribellata. Il medesimo potere incontrollato, nel momento della crisi, ha imposto a noi tutti di pagare i conti del disastro che esso, è solo esso, aveva prodotto.
Un nuovo compromesso
Nella misura in cui il potere economico soppianta e soggioga il potere politico, viene meno la capacità del sistema politico di operare per garantire le condizioni della coesione sociale tramite il patto fiscale che è alla base di ogni sistema di governo. Se le politiche governative, sociali ed economiche, sono decise dell’oligarchia finanziaria, è assai improbabile che contengano quelle azioni di ridistribuzione del reddito che sono necessarie per compensare le disuguaglianze che sono il prodotto necessario dello sviluppo capitalistico. Vi è oggi un trade off irriducibile fra la permanenza del potere economico ai livelli raggiunti e l’ordinato funzionamento di una società democratica. Tertium non datur. Occorre scegliere. Occorre porre le basi di un nuovo compromesso che prenda il posto di quello, ormai svuotato e inadeguato, che va sotto il nome di Keynes.
Il presupposto di questo nuovo compromesso è lo smantellamento del potere economico nelle forme e nelle dimensioni che oggi conosciamo. Un’esperienza ormai secolare ci mostra che non c’è alcuna possibilità di domare il potere economico una volta che si sia installato all’interno di un sistema sociale. Ci si può tutelare dagli effetti perniciosi che ne derivano solo impedendo che si formi. Gli ordinamenti giuridici devono portare al proprio interno norme atte a impedire la formazione di un potere economico esorbitante. Non è semplice. E non lo è proprio per lo svuotamento delle dinamiche democratiche che è causa ed effetto della situazione in cui ci troviamo. È un circolo vizioso che solo una forte ed ampia mobilitazione dell’opinione pubblica potrebbe spezzare. Prima che un qualche disastro sociale ce lo imponga.
Alla ricerca del cambiamento che verrà
I cambiamenti rilevanti, in un sistema sociale, non sono quasi mai il frutto univoco di decisioni chiare e condivise assunte da qualcuno che è in grado di attuarle. Sono piuttosto il prodotto congiunto di una pluralità di decisioni e di scelte, e anche di non decisioni, di astensioni, che interagiscono fra di loro in modi che nessuno è in grado di prevedere e, tanto meno, controllare. Spesso tali cambiamenti prendono forma senza che nemmeno ce ne accorgiamo.
L’osservatore delle dinamiche sociali, dunque, se è intellettualmente onesto e consapevole, si astiene dal “prescrivere ricette… per l’osteria dell’avvenire” (Marx 1873) e si sforza piuttosto di individuare i fenomeni principali che sono suscettibili di combinarsi dando luogo a un cambiamento sociale di rilevanza sistemica. Oggi, di fronte al profluvio di ricette da cui siamo sommersi e confusi, è difficile tenere questa rigorosa linea di condotta, anche perché non è facile ritrovare un filo del cambiamento che da troppo tempo abbiamo perso, sedotti o sopraffatti da dottrine che avevano l’unico scopo di disarmarci intellettualmente.
Per tornare al nostro tema, il destino della democrazia, non vedo, allo stato delle cose, dinamiche emergenti, o anche consolidate, che possano far pensare a una riapertura dei processi di democratizzazione della vita sociale. La democrazia sostanziale appare destinata, per un periodo non breve, a restare inscritta nella sfera dell’utopia. C’è solo da sperare che la democrazia formale, l’unica che oggi possediamo, non degeneri ulteriormente, facendo avanzare sempre più il potere delle oligarchie.
L’offuscamento delle appartenenze di classe, che è il risultato del superamento del fordismo, ha fatto emergere una società indistinta, la società del 99%, dal potenziale enorme e dal potere nullo. Potenziale enorme, perché virtualmente in grado di delineare e praticare un nuovo ordine sociale; ma potere nullo, perché il 99% non riesce a darsi strumenti di azione politica che efficacemente la rappresentino, al di là dei tenui ed evanescenti legami istituiti dai network su internet. Non riesce a esprimere una cultura, tanto meno un programma politico, un’idea di società. Riesce solo e riconoscersi nella propria subalternità. L’impotenza del 99%, a sua volta, esalta e moltiplica il potere delle élite che, al contrario, possiedono efficacissimi e potentissimi strumenti di azione, primo fra tutti il potere economico che esercitano quasi indisturbate dai vincoli leggeri della democrazia formale.
Non dobbiamo farci illusioni. Oggi, più che mai, il potere di influire sui processi che disegnano l’ambiente economico e sociale, nonché politico, in cui viviamo è nelle mani di una ristrettissima élite globale che è totalmente impermeabile alle richieste e alle esigenze del 99%. Priva di qualsiasi cultura politica, semplicemente perché non ne ha bisogno, opera e decide nell’unica prospettiva di mantenere e accrescere il proprio potere e la propria ricchezza, convinta che “l’intendenza seguirà”. È la prospettiva plasticamente rappresentata dalla teoria economica del “trickle down”, non a caso impostasi nell’era della Grande moderazione, in cui si è formata l’attuale élite globale del potere. Quello che conta è che i ricchi continuino ad arricchirsi: qualcosa, alla fine, “gocciolerà giù” per consentire al 99% di sopravvivere. E basta così. Nessuno si ribellerà.
Conclusione pessimistica, quasi disperata. Il panorama che abbiamo davanti non consente visuali diverse. I venti di guerra che soffiano per ora a folate, la minaccia terribile di un ritorno delle guerre di religione, le più crudeli e sanguinose contribuiscono a rendere il quadro ancora più oscuro. Non dobbiamo perdere di vista, tuttavia, alcune linee di faglia che attraversano la società globale, partendo dalle scandalose disuguaglianze di reddito e di ricchezza, che un capitalismo senza freni e lo svuotamento della vita democratica hanno certamente favorito. La storia suggerisce che le disuguaglianze estreme sono fonte pressoché certa di reazioni. Si tratterà di vedere se dentro o fuori dal perimetro democratico.

Un paese in vendita di Claudio Conti, Contropiano.org


Un paese in vendita
Berlusconi si ritira e vende. O almeno cede quote rilevanti dei suoi gioielli. Mediaset e Milan sono sul mercato, anzi in fase avanzata di trattativa finale. Un tycoon thailandese (o forse uno cinese) prenderà in mano la squadra di calcio, che si porta dietro progetti multimilionari per stadio e accessori (diritti televisivi, merchandising, ecc). I più noti Rupert Murdoch e Vincent Bolloré trattano per entrare in Mediaset; e non certo da comprimari.
Non ce ne frega assolutamente nulla delle sorti del signor Caimano, qui cerchiamo semplicemente di capire  - attraverso un esempio rilevante per dimensioni del capitale "movimentato" - la tendenza, le direttrici di sviluppo o decadenza del paese in cui viviamo.
L'elemento principale, evidentissimo, è che questo è un paese in vendita. Si può discutere ogni volta se il prezzo è adeguato, ma non il senso di tutte le operazioni industriali che stanno avvenendo da qualche anno a questa parte. Non esise infatti una sola grande operazione, giocata intorno a un qualche pezzo pregiato del patrimonio industriale, che abbia visto protagonista un imprenditore "italico". 
Fiat è diventata americana e non mistero di mantenere in Italia una presenza minima soltanto per motivi di marchio (specie per quanto riguarda i brand a più alto margine di profitto: Ferrari e Maserati). Ha cambiato nome (Fca), sede legale e fiscale (Olanda e Gran Bretagna), ha in Chrysler il suo futuro (trainato soprattutto dal marchio Jeep)
Pirelli va in buona misura ai cinesi, Alitalia agli arabi di Etihad, i treni Breda (Finmeccanica, ovvero proprietà statale) ancora ai cinesi, Indesit è stata regalata agli americani di Whirlpool che infatti ora stanno chiudendo, Lamborghini e Ducati sono da anni in mano tedesca. Potremmo fare un elenco lunghissimo, ma non cambierebbe il segno: l'imprenditore "nazionale" vende, quello multinazionale compra. 
Nemmeno le società ad esclusivo valore simbolico-indentitario - come in fondo sono quelle del calcio - seguono un destino differente. La Roma è statunitense, il Milan sarà asiatico come l'Inter di Tohrir, la Juve è per ora ancora una controllata Fiat (con tutte le conseguenze legate al cambiamento di orizzonte della società madre). Vanno in mani multinazionali le squadre che hanno una notorietà internazionale per meriti sportivi o storico-culturali (Roma, per esempio). Restano per ora in mani locali le società senza appeal globale (Carpi, stai sereno!), ma devono temere incusioni - per esempio - Firenze e Napoli.
E' il mercato, bellezza! Tutto si vende e si compra, non esiste nulla di sacro e inviolabile (al massimo qualche asset strategico perché legato alla sicurezza militare, ma anche li...). Nulla che possa o debba essere "difeso" nazionalisticamente.
E noi siamo internazionalisti da sempre, dov'è lo scandalo?
Un paese la cui nervatura produttiva e anche simbolica è di proprietà delle multinazionali è un paese ributtato nel Terzo Mondo (non è insulto, ma una constatazione), ma senza più la possibilità di diventare "emergente". E' un paese che, qualsiasi sia la sua maggioranza politica, è privato della possibilità di decidere il come governarsi. L'esempio delle tribolazioni greche - la cui unica industria ancora "nazionale" è costituita dal commercio navale - dovrebbe essere illuminante. Se la "rappresentanza politica" egemone non corrisponde pienamente alle attese dell'impresa multinazionale, quell'impresa se ne va da un'altra parte, smobilita, depriva questo territorio degli strumenti per creare comunque ricchezza.
Diventa insomma un paese "irriformabile". Perché - per usare un'immagine banale e consunta - dalla "stanza dei bottoni" non si può più attivare quasi niente, tranne la polizia per reprimere le rivolte. 
E' una condizione generale, sul pianeta. Fanno eccezione i paesi o le aree geostrategiche forti (Usa, Cina, Russia, in parte le filiere produttive europee che fanno capo alle multinazionali "tedesche"), che mantengono programmaticamente una capacità autonoma di "fare industria", in barba ai princìpi del libero mercato che pure a parole difendono e in nome del quale pretendono "liberalizzazioni" e "privatizzazioni" nei territori altrui. Soprattutto in quelli altrui.
E' una condizione non nuova in linea di principio, ma lo è certamente come dimensione delle dinamiche che sono in atto. E che qui da noi, tra un guitto di Pontassieve e un Caimano in disarmo, non trovano alcuna resistenza. Anzi...

Una disoccupazione voluta, programmata, esaltata


Una disoccupazione voluta, programmata, esaltata
Ogni crisi economica presenta almeno due aspetti interconnessi, e l'evoluzione di un territorio governato da regole simili - un paese o una comunità di stati, che condividono anche la  stessa moneta - risulta dal combinato di questi due aspetti: entità oggettiva della crisi e gestione politico-normativa.
E i dati pubblicati stamattina dall'Inps smentiscono ancor una volta clamorosamente le menzogne spudorate di questo governo. Il tasso di disoccupazione torna a salire a marzo: cresce di 0,2 punti percentuali (da febbraio) al 13%. Lo comunica l'Istat nei dati provvisori, precisando che la risalita arriva dopo i cali registrati a dicembre e a gennaio e la lieve crescita a febbraio. Si tratta del livello più alto dal novembre scorso (13,2%). 
La disoccupazione giovanile a marzo risale oltre il 43%: il tasso segna un aumento di 0,3 punti percentuali a quota 43,1%, dal 42,8% di febbraio. Si tratta del livello più alto da agosto scorso.
Non basta: dopo la diminuzione di febbraio, a marzo 2015 gli occupati diminuiscono dello 0,3%, con 59 mila unità in meno rispetto a febbraio, tornando sul livello dello scorso aprile. Rispetto a marzo 2014, l'occupazione è in calo dello 0,3% con 70 mila unità in meno. Il tasso di occupazione scende al 55,5%.
A marzo le persone in cerca di occupazione sono 3,302 milioni, in aumento dell'1,6% da febbraio. Nello stesso mese gli occupati sono 22,195 milioni, in calo dello 0,3% su base mensile. Stabile la forza lavoro a 25,497 milioni di unità.
Il fatto che l'Italia sia idiventato il paese dell'Unione Europea con più alta disoccupazione giovanile, con un aumento della percentuale di "neet" (+22%) superiore persino alla Grecia post-cura della Troika, non è insomma colpa del "destino", ma un risultato di una politica. Ovvero delle scelte adottate per affrontare la crisi, orientando la pressione oggettiva verso un obiettivo preciso. E' in parte anche il frutto di errori e miserie di una classe dirigente (e degli imprendioti ancor più dei "politici", ormai ridotti a una piccola divisione di yesman senza competenza alcuna), ma domina l'impronta delle politiche di "austerità" volute dalla Troika (Bc, Fmi, Unione europea).
Un risultato voluto, dunque, che va innanzitutto misurato quantitativamente. Prendiamo i dati dall'inchiesta condotta da OpenPolis, che certificano come la disoccupazione in questo paese, negli anni della crisi - ovvero dal 2007 alla fine del 2014 (e non è che da capodanno sia "cambiato verso"!) - sia più che raddoppiata: +108,2%.
Solo nella povera Grecia è andata peggio, mentre in diversi paesi - l'esempio clamoroso resta la Germania, che si conferma così la principale beneficiaria dell'austerità imposta agli altri - l'ha ridotta addirittura del 41%, consentendo così alle imprese di collocamento tedesche di scendere nel Bel Paese a caccia di talenti laureati e anche di un po' di "faticatori" senza grandi competenze. Non è difficile, se tra i giovani il tasso di disoccupazione supera stabilmente il 40%...
Il dato dovrebbe apparire quasi paradossale. Sono infatti oltre venti anni che tutti i governi di questo paese tolgono diritti ai lavoratori attivi, precarizzano i rapporti di lavoro e di fatto comprimono i salari attuando politiche dichiaratamente mirate "a migliorare l'occupazione giovanile". O si è stati governati per un quarto di secolo da solenni imbecilli che si davano le arie da sapienti (e più d'uno ce n'è stato...), oppure l'obiettivo non era quello.
Di fatto ora abbiamo una precarietà universale (senza l'art. 18 non c'è contratto che ti possa salvare dal licenziamento a comando dell'impresa), salari fermi da anni e occupazione in calo. Le strabilianti cifre sulle "nuove assunzioni" sbandierate dal governo si sono sistematicamente dimostrate al massimo "trasformazioni" di contratti a termine in contratti a "tutele crescenti"; ma solo grazie ad incentivi governativi che possono arrivare anche ad 8.000 euro annui di decontribuzione.
Ma nonostante queste condizioni ambientali "ottimali" per l'impresa, nessuno assume. Anzi, si chiudono impianti storici come l'ex Indesit, Agnelli e Marchionne inaugurano la "nuova Mirafiori"... in Brasile, ecc.
E infatti in questo paese i dati vanno all'incontrario rispetto alle dinamiche continentali. Nella Ue, infatti, la disoccupazione è diminuita o aumentata di poco nelle aree industrialmente più avanzate, mentre è andata crescendo nei paesi più deboli. Qui il Sud ha pagato come prevedibile un prezzo alto (disoccupazione in cresicta del 100% circa), ma è andata ancora peggio nell'ex "triangolo industriale":  Lombardia +163%, il Piemonte +174,38 e addirittura l'Emilia-Romagna +286,06. I pilastri portanti della struttura produttiva, quindi anche occupazionale e di esistenza del movimento operaio, sono state svuotate a passo di carica. Il "modello emiliano" (ma a Giuliano Poletti nessuno mai chiede conto dei disastri operati come presidente della Lega Coop?) è adesso un esempio di declino industriale programmato.
Di conseguenza, anche il tasso di occupazione ha subito una contrazione violenta: ben il 7,1% in meno (dal 62,8 del 2007 al 55,7% nel 2014, il triplo della media europea (circa il 2 per cento in meno). Appare così decisamente utopistico l'obiettivo europeo del 70% di occupati, considerato dai "guru" dell'austerità come il livello minmo per pter finanziare un sistema di welfare sostenibile. Anche qui, peggio di noi solo la Grecia, con una tasso di occupazione crollato dei quasi il 20%.
Ma è il "potenziale di ripartenza" che appare decisamente sotto terra. Dall'inizio della crisi la capacità produttiva industriale è crollata di oltre il 25%. Significa stabilimenti, macchinari, linee produttive, reparti, che sono stati chiusi, abbandonati, lasciati arrugginire. Questi mezzi di produzione non verrano mai più rimessi in moto, perché in ogni caso sono stati tecnologicamente superati. Per ricostituire lo stesso livello di capacità produttiva ante crisi servirebbero anni di investimenti. Ma quelli pubblici sono vietati dall'Unione Europea (non a caso qui si costruiscono solo infrastrutture e grandi opere, dove lo Stato mette i soldi e le imprese private se li prendono, sganciando la mazzetta di prammatica) e quelli privati non arriveranno mai. Come si dice in quest'altro articolo, siamo un paese in vendita
Quindi la disocupazione non potrà che aumentare, qualsiasi favola venga congegnata per farcela raccontare da Renzi.