venerdì 10 aprile 2015

Bolle mostro: riemerge la crisi rimandata del capitalismo d’azzardo




Se c’è una lezione nella lunga storia delle manie, panici e crolli finanziari è che i banchieri non risolvono mai le proprie crisi: semplicemente le spostano, passando eternamente ad altri la patata bollente della catastrofe imminente e trasferendo sistematicamente l’onere della correzione ai membri più deboli della società. In conseguenza il modo in cui una particolare crisi è “risolta” inevitabilmente finisce col gettare i semi della successiva. Questa volta non è stato diverso.
In mesi recenti, in mezzo al crescente entusiasmo per un’imminente ripresa globale, alcuni investitori e regolatori hanno cominciato a esprimere preoccupazione per il gonfiamento di una serie di grandi bolle speculative diffuse in tutta l’economia mondiale. Che si tratti dei prezzi alle stelle delle proprietà a Londra, di un mercato a rialzi record a Wall Street o di investitori che fanno a gara per finanziare imprese energetiche e tecnologiche in frenesia negli Stati Uniti e governi pesantemente indebitati in Europa, una cosa è chiara: ci troviamo nel mezzo di ancora un’altra grossa frenesia speculativa.
Questa osservazione può parere strana ad alcuni. Non dovremmo ancora essere nelle fasi finali dell’ultima crisi? Perché tutti vorrebbero giocare d’azzardo il loro capitale se le opportunità di investimenti redditizi sono ancora così rare? Bene, è precisamente questo il problema: i prezzi delle attività sono oggi completamente scollegati dai loro fondamentali sottostanti. La crisi del capitalismo d’azzardo è stata rimandata con successo grazie al rigonfiamento artificiale da parte delle banche centrali di un nuovo insieme di bolle mostro nei beni immobili, nel mercato azionario e in quello obbligazionario. Mentre il resto di noi permane nella “stagnazione secolare”, gli speculatori di Wall Street vivono una giornata campale.
In altre parole le cause fondamentali della crisi finanziaria del 2008 non sono mai state veramente risolte; i decisori della politica hanno semplicemente spostato alcuni dei sintomi (e neppure tutti!). I governi hanno salvato banche insolventi con fondi dei contribuenti, indebitandosi pesantemente nel farlo, e le banche centrali hanno dato il via alle presse per pompare trilioni di dollari nel sistema finanziario. Il risultato, in parole povere, è stato l’accumulo di un vasto eccesso di liquidità nel settore finanziario e un’acuta carenza dovunque, fuori da esso.
Ciò di cui ci stiamo occupando, dunque, è un esempio classico di ciò cui David Harvey si riferisce come al problema dell’assorbimento del surplus di capitale: un eccesso di capitale inattivo sta fianco a fianco a un eccesso di manodopera e in qualche modo il sistema non è in grado di combinare i due per generare risultati produttivi. Come ha dichiarato un banchiere al Financial Times, “ciò che realmente muove tutta questa attività è la disponibilità di capitale piuttosto che i fondamentali sottostanti. Si riduce semplicemente a gente che ha bisogno di impiegare il capitale”.
Gli investitori hanno affrontato questo problema di surplus di capitale nello stesso modo in cui hanno fatto sempre: passando al setaccio la superficie del pianeta in una ricerca frenetica di rendimenti più elevati possibili. E fintanto che la domanda rimarrà bassa e la crescita stagnante, i rendimenti degli investimenti cosiddetti “produttivi” non saranno molto attraenti per il giocatore d’azzardo medio. Così gli investitori si sono rivolti allo stesso tipo di investimenti ad alto rischio/alto rendimento che, tanto per cominciare, hanno causato il crollo finanziario del 2008.
Le conseguenze sono state impressionanti. Solo tre anni dopo che la Grecia ha concluso la più vasta ristrutturazione del debito sovrano della storia mondiale, i mercati obbligazionari sono nuovamente in fiamme. In un’indagine britannica quasi quattro gestori di fondi obbligazionari globali su cinque hanno manifestato preoccupazione per il fatto che i titoli sono attualmente “più sopravvalutati che mai prima e i titoli governativi sono la classe più sopravvalutata di tutte”. John Plender del Financial Times accusa la BCE di alimentare direttamente questa bolla obbligazionaria mediante l’alleggerimento quantitativo:
I mercati dei titoli governativi dovrebbero essere luoghi tranquilli, privi dei brividi e dei rovesci che caratterizzano le azioni. Non più. Da quando le banche centrali hanno cominciato a gonfiare i propri bilanci i titoli sovrani sono diventati eccitanti al punto che gli investitori hanno acquistato più di due trilioni di dollari di essi a rendimento negativo, principalmente in Europa. Persino nella Depressione degli anni ’30 i tassi d’interesse non scesero mai sotto lo zero. Siamo in presenza di quell’evento raro, la bolla del mercato obbligazionario?
E non sono solo i debiti governativi che stanno esplodendo. Soltanto l’anno scorso le imprese statunitensi hanno emesso l’importo stupefacente di 1,43 miliardi di dollari di obbligazioni industriali; il 27 per cento in più di quelle collocate al picco dell’ultima bolla nel 2007. Di fatto si potrebbe sostenere la tesi ragionevole che la supposta ripresa statunitense degli ultimi anni è stata basata interamente su una bolla energetica – già scoppiata a causa del crollo del prezzo del petrolio – e su una ancor più grossa bolla tecnologica. L’investitore miliardario Mark Cuban ha recentemente avvertito che quest’ultima è “peggiore della bolla tecnologica del 2000” e ora è anch’essa sull’orlo dell’esplosione.
Quando crollerà il sovreccitato mercato statunitense delle obbligazioni industriali trascinerà giù con sé’ inevitabilmente la borsa. I valori delle azioni sono aumentati costantemente da quando avevano toccato il fondo nel marzo del 2009 in seguito all’ultimo crollo. I 500 titoli di Standard and Poor’s sono saliti di uno stupefacente duecento per cento da allora, mentre il Nasdaq ha recentemente superato i 5.000 punti per la prima volta dopo il crollo della bolla punto-com del 2000. Il fatto che questi sei anni di mercato al rialzo siano coincisi con la più profonda caduta economica dalla Grande Depressione dovrebbe essere sufficiente a indurre a riflettere.
Infine, con ancora fresco il ricordo della crisi dei mutui ipotecari spazzatura, gli investitori stanno già manifestando paure per lo sviluppo di una nuova bolla immobiliare. Il Wall Street Journal segnala che i prezzi delle proprietà nel Regno Unito sono un terzo superiori al loro picco ante crisi, mentre anche le proprietà in Australia, Canada, Svezia e Norvegia sono molto sopravvalutate. Città come San Francisco, Miami, Londra, Berlino, Parigi, Milano e Amsterdam stanno tutte assistendo a una rapida crescita dei prezzi delle case senza alcun miglioramento parallelo dei fondamentali sottostanti. Persino i prezzi delle proprietà in Spagna e in Irlanda risultano oggi di nuovo in ascesa.
La conclusione è chiara: plus ça change, plus c’est la meme chose. Per tutto questo tempo i decisori della politica hanno armeggiato ai margini con misure fiacche, ma nessuno dei problemi sottostanti è stato risolto. I governi, invece, hanno salvato i giocatori d’azzardo mentre le banche centrali hanno gonfiato un nuovo insieme di bolle per ammortizzarne la caduta, coprire le macerie e rimandare il momento finale della resa dei conti. Tuttavia, giù nel mondo reale, gonfiare bolle non può che portare a esso. Quasi sette anni dopo l’ultimo crollo finanziario gli investitori e i decisori della politica sono già ben in cammino verso il prossimo.

di Jerome Roos, dottore in ricerca in Economia Politica Internazionale presso l’Istituto Universitario Europeo e redattore fondatore di ROAR Magazine. Seguitelo su Twitter @JeromeRoos.

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