venerdì 31 agosto 2012

Crisi, banche e saggio di profitto di Luca Lombardi*, www.sinistrainrete.info

È comune defetto degli uomini, non fare conto, nella bonaccia, della tempesta.
N. Machiavelli
 
1. Introduzione

La crisi finanziaria internazionale ha messo a nudo le debolezze dello sviluppo del capitalismo negli ultimi decenni, dimostrando la natura propagandistica delle teorie economiche che ne magnificavano le sorti. Come ha osservato Paul Krugman: “la maggior parte della teoria macroeconomica degli ultimi 30 anni è stata, nel migliore dei casi, clamorosamente inutile, attivamente dannosa nei peggiori”. I governi sono stati costretti a intraprendere politiche ritenute fino a poco prima preistoriche dai fan del libero mercato arrivando alla nazionalizzazione delle banche. Si sono levati cori di critiche per le politiche economiche dominanti di questo ultimo quarto di secolo e sono partite molteplici iniziative di riforma del sistema finanziario. Non si tratta però di un cambio di rotta. Passata la tempesta, si tornerà indietro, perché le cause della crisi sono radicate nell’essenza del modello di accumulazione capitalistico.

Per anni, è sembrato che non ci fosse alternativa teoria e pratica alla globalizzazione capitalistica. La crisi ha dimostrato quanto invece sia necessario sviluppare o meglio riscoprire una teoria e una politica radicalmente differenti che possano fornire, tra l’altro, una spiegazione efficace delle ricorrenti crisi finanziarie. L’ampiezza e la pervasività della crisi sono tali da far spesso dimenticare che si tratta dell’ultima di una serie di crisi che hanno colpito i mercati finanziari negli ultimi decenni. Ad esempio, in un recente lavoro della Banca dei Regolamenti Internazionali, vengono identificate 40 crisi bancarie sistemiche solo negli ultimi 35 anni e gli autori devono concludere che: “le crisi finanziarie sono più frequenti di quanto si creda e portano a perdite che sono molto maggiori di quanto si spererebbe”1. Così come con l’esplosione della bolla dei subprime, dopo ogni crisi sono emerse riflessioni teoriche e politiche sulla fragilità dei mercati, sull’inadeguatezza delle regole, sull’eccesso di leva finanziaria delle banche. Queste riflessioni si sono rivelate effimere, poiché una nuova bolla finanziaria ha messo a tacere i malumori. La crescita economica mondiale è sembrata una risposta sufficiente a ogni osservazione critica sull’architettura dei mercati finanziari internazionali e dunque, per estensione, una conferma della teoria che ne spiegava il funzionamento.

D’altra parte, anche le crisi principali risultavano comunque circoscritte geograficamente o settorialmente. Una crisi generalizzata della finanza, sul modello del ‘29, era ritenuta impossibile. Ciò perché quella crisi, nella spiegazione mainstream, era stata determinata da errori grossolani dei governi e delle banche centrali che nessuno avrebbe più commesso. Questa ipotesi, legata soprattutto ai nomi di Milton Friedman e Anna Schwartz, era considerata a tal punto inattaccabile che l’attuale Presidente della Federal Reserve nel 2002, in una conferenza per l’appunto in onore di Friedman concluse così: “Vorrei dire a Milton e Anna: riguardo alla Grande Depressione. Avete ragione, lo abbiamo fatto. Siamo molto dispiaciuti. Ma grazie a voi, non lo rifaremo un’altra volta”2. Sarebbe interessante sapere se vorrebbe ringraziarli ancora.

Ancora nel 2007, proprio alla vigilia dell’esplosione della bolla subprime, è stato pubblicato il testo The Economics of the Great Depression, che raccoglie le interviste con alcuni degli economisti più famosi al mondo, specialisti della materia, a cui è stato chiesto di delineare una spiegazione della crisi del ‘29 (che di solito era vicina a quella sopra indicata). A chiusura di ogni colloquio, il curatore del testo, Parker, domanda se, a giudizio dell’intervistato, una crisi del genere potrebbe ripetersi. Tutti categoricamente lo escludono, ad eccezione proprio di Bernanke, che formula giudizi meno perentori. Il prof. Cecchetti osserva, ad esempio: “oggi lasciamo fallire le banche ma lo facciamo in una maniera pensata per evitare il panico. Il fallimento di una banca oggi sarebbe quasi invisibile ai suoi clienti perché finirebbe in un week end” (AA VV, a cura di Parker, 2007, p. 165). Dopo il fallimento di Northern Rock o Lehman Brothers, pochi manterrebbero questa posizione. Allo stesso modo, nella sua autobiografia, pubblicata nel settembre del 2007, Alan Greenspan spiegava: “dirò ai miei lettori che abbiamo di fronte non una bolla ma un po’ di schiuma – molte piccole crisi locali che non cresceranno mai a una scala tale da minacciare la salute dell’economia nel suo complesso” (Greenspan, 2007). Ancora durante la crisi, un esito catastrofico appariva impossibile. Il 22 agosto del 2008 a una cena tra personalità dell’economia, discutendo dell’eventualità di una situazione “giapponese” di anni di stagnazione, Bernanke spiegò che “abbiamo capito così tanto dalla Grande Depressione e dal Giappone che non avremo nessuna delle due” (Sorkin, 2009, p. 221). Se questo era il clima tra i cosiddetti esperti di economia, la stampa, soprattutto quella specializzata, andava oltre, contribuendo a creare un clima di euforia in cui sembrava che tutti potessero arricchirsi facilmente, sapendo cogliere le giuste occasioni.

Quando la crisi è esplosa, dopo un primo momento di incertezza e di negazione, sono fiorite molteplici spiegazioni la cui base comune risiede nell’escludere che il problema sia nelle basi stesse dello sviluppo economico e abbia invece natura esogena. Non avendo un’analisi seria del problema, le spiegazioni estemporanee si sono moltiplicate, affollandosi una accanto all’altra senza nemmeno un tentativo di connetterle. In definitiva, nulla di serio. C’è da dire che sotto la spinta della necessità di capire la crisi, sì è tornati a parlare di autori borghesi eterodossi, come Minsky e Kindleberger, che hanno fornito osservazioni interessanti sulle crisi finanziarie. All’apice del panico bancario, sono anche stati pubblicati articoli che citavano le analisi di Marx, mentre Keynes è stato nuovamente sdoganato, ma in fondo si tratta di un economista liberale, seppure eterodosso3. Appena il panico si è attenuato, il tutto è stato dimenticato e i paladini del mercato hanno riconquistato saldamente le posizioni. Certo, come per gli economisti della scuola austriaca negli anni ‘30, anche all’apice della crisi attuale c’erano economisti che continuavano a difendere la bontà delle politiche di laissez-faire e proponevano una totale non interferenza pubblica, e proprio come allora, gli strateghi della borghesia li hanno abbandonati al loro mondo immaginario, scegliendo strade che consentissero al capitalismo di sopravvivere, che è ciò che interessa alla classe dominante, al di là delle ideologie e delle teorie.

In questo lavoro cercheremo di gettare uno sguardo sui meccanismi della crisi ricorrendo a quello che per gli economisti classici e per Marx era il principio unificatore della dinamica del sistema capitalistico e che consente di fornire una spiegazione endogena della crisi e degli effetti che essa ha sui comportamenti degli agenti economici: la dinamica del saggio di profitto. Vedremo che, una volta compresa questa dinamica, le altre tessere del mosaico trovano la loro giusta collocazione. In definitiva avremo una spiegazione endogena, unitaria e di lungo periodo della crisi, tutto ciò che le spiegazioni ufficiali non possono darci.

2. Il meccanismo della crisi: la parabola del saggio di profitto settoriale

Gli economisti classici comprendevano bene le basi della dinamica capitalistica, anche se non ne vedevano le contraddizioni, all’epoca solo iniziali. La contraddizione fondamentale tra lo sviluppo continuo delle forze produttive e la forma limitata che a questo sviluppo danno i rapporti di produzione borghesi determina che, con il procedere dell’accumulazione di capitale, il saggio di profitto tende a ridursi. Ciò spinge i capitalisti alla ricerca di innovazioni che contrastino tale tendenza, sia all’interno dei settori economici già stabiliti, sia con la creazione di nuovi settori. Ogni singolo capitalista cerca le occasioni di investimento a maggiore saggio di profitto; la ricerca del profitto più elevato, attraverso lo spostamento dei capitali tra i settori, determina la convergenza verso un saggio medio del profitto. Il saggio di profitto dei nuovi settori economici, maggiore della media, tende, con l’affluire di nuovi investimenti, a ridursi sino al saggio medio generale. Abbiamo dunque due dinamiche convergenti: i saggi di profitto dei nuovi settori tendono, con il maturare del settore, a ridursi; il saggio di profitto generale tende a ridursi per il maturare complessivo del capitalismo. Marx ha approfondito queste tendenze ma il meccanismo è già in Adam Smith:

“L’introduzione di una nuova industria, di un nuovo ramo di commercio o di una qualsiasi nuova pratica agricola è sempre una speculazione dalla quale l’imprenditore si attende profitti straordinari. Questi profitti sono talvolta molto elevati, talaltra, più spesso, non lo sono affatto; ma in generale essi non sono proporzionati a quelli delle altre vecchie attività della zona. Se il progetto riesce, all’inizio essi sono normalmente altissimi. Ma via via che l’attività o la pratica diventa bene affermata e conosciuta, la concorrenza li riduce al livello delle altre” (Smith, 1776, 2006, p. 214).

La concorrenza è il meccanismo attraverso il quale i saggi di profitto settoriali sono perequati a una media che tende di per sé a scendere. Come noto, Smith, Ricardo e Marx propongono cause differenti per il trend discendente (la concorrenza, la rendita fondiaria, l’aumento della composizione organica del capitale). Non ci interessa qui approfondire tali differenze ma ne cogliamo, invece, l’aspetto comune. Poiché il saggio generale del profitto si riduce, e nei nuovi settori la concorrenza tende a riportare il saggio del profitto a quello medio, i capitalisti innovano per arginare la diminuzione dei profitti mettendo in atto quella che Schumpeter chiamava “distruzione creatrice”. L’innovazione, la nascita di nuovi processi produttivi e prodotti sono ciò che consente la sopravvivenza al singolo capitalista.

Partendo dal fatto che l’innovazione e la concorrenza determinano la nascita di nuovi settori e la parabola del relativo saggio di profitto, è possibile comprendere la dinamica delle bolle speculative che accompagnano le ondate di nuovi investimenti. È la proprietà privata dei mezzi di produzione che determina la natura decentrata e individuale degli investimenti e dunque, attraverso l’operare della concorrenza, produce le bolle speculative. Ogni capitalista persegue la massimizzazione del proprio profitto e ciò genera, a livello generale, ondate di sovra-investimenti nei nuovi settori che conducono alla formazione e allo scoppio delle bolle finanziarie. Sintetizza efficacemente Kindleberger: “l’azione di ciascun individuo è razionale, o meglio lo sarebbe, se non fosse per il fatto che altri si comportano allo stesso modo” (Kindleberger, 2005, p. 78). La razionalità nell’affrettarsi sta nel fatto che il primo innovatore ottiene un saggio di profitto superiore alla media e, per le banche, è razionale finanziare tali investimenti perché produrranno per loro maggiori profitti. Tuttavia, la generalizzazione dell’utilizzo dell’innovazione ne riduce la profittabilità fino a pareggiare, almeno come tendenza, i saggi di profitto settoriali.

Il concreto dispiegarsi di questo meccanismo è strettamente legato alle modalità con cui sono finanziati gli investimenti, ossia al ruolo delle banche quali finanziatrici della bolla. Come osservò Minsky, soltanto ciò che è finanziato può avvenire. Non basta che un inventore sviluppi un nuovo prodotto o processo produttivo se questa novità non trova finanziamenti. Per questo, spesso intercorre un notevole lasso di tempo tra un’invenzione scientifica e il boom del corrispondente settore. Non sono le idee che muovono in avanti il capitalismo, ma gli investimenti e i profitti.

La fase ascendente di un ciclo deriva dalla nascita di una nuova attività (sia essa un prodotto, un procedimento produttivo) che incorpora una profittabilità maggiore della media. In questa prima fase, il nuovo settore vede un pullulare di micro-imprese in lotta per imporsi, quelle che nel settore informatico vennero definite aziende-garage, le cui sopravvissute sono Apple, Microsoft, Google. Quando l’attività inizia a richiamare l’attenzione dei consumatori, la capacità produttiva è ancora ridotta, in quanto dimensionata su un mercato di nicchia. È questo il momento in cui “tutti vogliono entrare”. Questo vale per i produttori ma anche per i finanziatori. Per questo può succedere che i titoli connessi a questa nuova attività crescano ancor prima che il settore diventi profittevole, perché le banche e gli altri intermediari finanziari, ma anche i risparmiatori, si attendono di fare buoni affari in seguito. Il maggior saggio di profitto del settore garantisce e, dal lato del finanziamento, esige, un rendimento maggiore dell’investimento. Anche questa caratteristica era ben nota ai classici:

“…sebbene possa essere impossibile determinare con qualche grado di precisione quali siano o siano stati i profitti medi del capitale…ci si può formare una nozione di essi considerando l’interesse del denaro. Si può assumere come massima che ovunque si possano fare molti profitti con l’uso del denaro, sarà normalmente dato molto per il suo uso”4.

Dunque, il saggio d’interesse su quei crediti sarà più elevato, le obbligazioni di quel settore avranno un rendimento maggiore, le sue azioni pagheranno dividendi più alti o saliranno più della media e così via.

La fase del picco del boom è quella in cui si sviluppa facilmente la mania, come la definì Kindleberger. Tutti investono nella nuova attività, ampliando la capacità produttiva e, le banche, finanziando l’ampliamento. La mania si esprime, innanzitutto, con un aumento massiccio della capacità produttiva nell’attività e della sua domanda. Poiché l’output sta aumentando, ma il saggio settoriale del profitto è ancora maggiore della media, i profitti sono eccezionali, attirando investitori e finanziatori. Nella fase di ascesa della bolla, il rush degli investitori per finanziare l’espansione produttiva è tale che il valore dei titoli legati all’attività inizia a sganciarsi dal sottostante economico perché la domanda continua a eccedere l’offerta. La maggiore redditività consente di attirare una domanda che, a sua volta, aumenta i profitti che tali titoli generano.

Sebbene possa già essere chiaro a molti operatori l’insostenibilità a medio termine del trend, rimanere fuori non assicura di trovarsi in una situazione migliore nella fase successiva, mentre provoca critiche da parte di azionisti e clienti perché come osserva Keynes: “la saggezza del mondo insegna che è cosa migliore per la reputazione fallire in modo convenzionale anziché riuscire in modo anticonvenzionale”. Quando il boom dura da un sufficiente periodo di tempo, comincia a trasmettersi ai settori vicini. Ciò ha innanzitutto una componente reale, perché, ad esempio, si investe in aziende che producono merci input per il settore che sperimenta l’euforia iniziale. Inoltre, vi è un aspetto finanziario: l’afflusso massiccio e immediato di finanziamenti non può subito scaricarsi interamente sul nuovo settore, che necessita di tempo per espandere la capacità produttiva e beneficia dunque i settori limitrofi. Con il passare del tempo, il fronte della speculazione contagia tutti i settori economici. Col senno di poi, si vedrà che i progetti hanno un contenuto economico sempre meno razionale, i criteri di erogazione del credito sono sempre meno stringenti. All’apice della mania si verificano comportamenti euforici, più interessanti per l’analisi della psiche che per quella dell’economia, che si esprimono in forme tipiche e ricorrenti, dalla ricerca di ogni mezzo per investire nel settore alle truffe5.

All’acme della bolla, la base reale da cui il ciclo si era sviluppato è ormai solo un pretesto, che si trattasse delle ricchezze di paesi lontani, dell’uso di una nuova tecnologia o di un’invenzione di primaria importanza. La funzione del credito, che consente di moltiplicare gli investimenti, consente alla bolla di raggiungere picchi maggiori e in minor tempo. Una volta raggiunto l’apice, non c’è alcun modo per evitare che la bolla esploda in modo dirompente. Il singolo investitore può salvarsi, uscendo prima del crollo, ma quanto prima tale comportamento si generalizza, tanto più rapidamente si scatena la crisi.

La transizione precipitosa verso l’uscita dal settore fa emergere allo scoperto la contraddizione incarnata da ogni bolla speculativa, ossia la presunzione che la nuova attività incorpori strutturalmente un saggio di profitto maggiore della media, il che va contro la logica inesorabile della perequazione dei saggi di profitto settoriali a sua volta frutto della ricerca della massimizzazione del profitto, la molla che muove il mondo.

In questa fase si assiste al consolidamento delle aziende del settore, che si riducono drasticamente di numero aumentando le loro dimensioni, stabilizzando la capacità produttiva e i profitti. Ciò avviene in maniera disordinata nel singolo settore e spesso più in generale. La possibilità di circoscrivere la crisi dipende da una serie di circostanze, tra cui la situazione del sistema bancario. Quanto maggiore è la leva finanziaria, ossia l’indebitamento di stati, famiglie imprese e banche, quanto più l’esplosione della bolla può trasformarsi in una crisi generale del capitalismo. L’esito finale della bolla, stagnazione prolungata o rapida ripresa, dipende da una serie di fattori. Keynes, nel sintetizzare i metodi per uscire dalla recessione indicava: “il normale processo delle invenzioni e del progresso; il deperimento del capitale esistente; una caduta del saggio d’interesse; la libera attuazione di programmi di investimento da parte del governo, oppure la guerra”6. In sintesi, a meno che un’altra innovazione sufficientemente pervasiva non inverta la rotta, l’unica via di uscita dalla crisi è l’intervento dello stato. Tale intervento può anche consistere nel produrre, finanziare o incoraggiare l’innovazione stessa o una sua maggiore pervasività. La necessità dell’intervento statale e la profondità di tale intervento dipendono dalla dimensione del crollo della profittabilità delle aziende, oltre che da aspetti politici di cui non tratteremo qui. In questo senso, mentre la politica monetaria espansiva compare, a rimedio della crisi, sin dagli inizi dell’analisi del ciclo, una politica fiscale espansiva è la vera differenza emersa nel XX secolo, soprattutto a seguito della grande crisi. Infatti, nel ‘29, a due anni dallo scoppio della crisi, il bilancio degli Stati Uniti si manteneva in pareggio. Basti pensare allo stato delle finanze americane o dei paesi europei a partire dal 2008-2009 per vedere la differenza. Ad ogni modo, la politica fiscale e monetaria frenano o invertono la crisi prendendo a prestito risorse dal futuro, perciò l’intervento dello stato, sostanziandosi nel contrarre nuovi debiti, non fa che rimandare i problemi ampliandoli, il che è tutto ciò che chiede la generazione di capitalisti a cui tocca in sorte la crisi.

3. Euforia e cicli della regolamentazione

L’euforia finanziaria contagia tutto e tutti, come ben descritto già da molti classici dell’economia finanziaria7, a dimostrazione che la tv o internet non hanno inventato nulla. Quando la bolla è in fase di ascesa, tutti i mezzi di comunicazione celebrano il momento. Eventuali profeti di sventura vengono emarginati dai giornali, dall’accademia come nelle aziende. I giornalisti sono invitati a moderarsi o zittiti, i professori eretici sbeffeggiati e non pubblicati, i risk manager riottosi non considerati o licenziati. Occorre sottolineare che questa euforia ha del tutto senso, in questo sistema. È un comportamento razionale, per il singolo investitore, dimenticarsi le lezioni del passato e credere a ogni nuovo fenomeno euforico, perché studiare i crolli del passato non lo aiuta nelle scelte presenti. Come detto, restare fuori dal nuovo settore non garantirà più profitti. Basta solo uscirne in tempo e il singolo investitore può farlo, se è sufficientemente scaltro o fortunato. È la società che non può uscire indenne dalla bolla, ma gli effetti sociali delle scelte individuali sono irrilevanti per il singolo massimizzatore di profitti. È altrettanto tipico e per certi versi razionale che, con il procedere della bolla, la crescente difficoltà nel continuare a fare più profitti della media renda sempre più labile il confine tra il lecito e l’illecito. Osserva Kindleberger trattando del tema delle frodi:

“Un excursus nelle truffe e in altri crimini da colletto bianco forse ci conducono lontano dall’analisi economica di manie, panici e dal ruolo del prestatore di ultima istanza. Tuttavia, è inevitabile. Le crisi commerciali e finanziarie sono intimamente connesse con transazioni che superano il confine della legge e della moralità, per quanto tenui siano questi confini. La propensione a truffare ed essere truffati corre parallela alla propensione di speculare durante un boom. Crolli e panici, con il loro motto si salvi chi può, inducono ancor più a imbrogliare per salvarsi. E il segnale del panico è spesso l’emergere di qualche truffa, furto, malversazione o frode” (Kindleberger, cit., p. 86).

Valeva ai tempi di Luigi XV, vale nel XXI secolo, come il caso Madoff, tra gli altri, ha dimostrato.

Dialetticamente, quando la bolla crolla, tutti i comportamenti descritti si invertono nel loro contrario. La gente è inferocita per i soldi persi e poiché il boom giunge al suo apice quando vi partecipano più persone che in ogni altro periodo, il crollo colpisce molti più risparmiatori di quanti il boom ne avesse beneficiati. L’irritazione generale può condurre persino a rivolte, come in Albania nel 1996. Il nuovo clima dell’opinione pubblica si riflette nei media, che guidano crociate di moralizzazione ed esecrano banchieri, imprenditori e politici. Questi ultimi, dal canto loro, promettono un giro di vite dichiarandosi scandalizzati per i comportamenti degli squali della finanza. Le ondate di entusiasmo e di panico che plasmano l’opinione pubblica contribuiscono a una politica economica fortemente pro-ciclica. Anziché, come parrebbe razionale da parte dei governi e delle banche centrali, frenare gli eccessi delle bolle, le istituzioni le ingigantiscono adeguandosi all’opinione di chi li comanda (ossia il grande capitale) ma anche dei piccoli risparmiatori, che durante l’euforia, sperano di ricavarne qualcosa, mentre sono manovrati come burattini dai grandi investitori. Elettori che razionalmente si disinteressano del passato, eleggeranno governi che promettono di fare altrettanto. La cecità delle istituzioni, osservata a ogni scoppio di bolla finanziaria, è del tutto razionale. Quando il boom è in pieno svolgimento, tutti pensano di arricchirsi facilmente, e possono riuscirci per anni. Sotto il profilo della politica economica prevalgono il laissez-faire e la deregulation come portato della più generale idea che basta far andare le cose per produrre ricchezza generalizzata. Quando la bolla esplode, tutto ciò si trasforma nel suo opposto e per alcuni anni si impone un giro di vite alla regolamentazione finanziaria. I cicli economici sono dunque anche “cycles of regulation versus innovation” (Ward e Wolfe in AA VV, a cura di Mullineux e Murinde, 2003). Poi arriva il crollo e cominciano i pentimenti. Perché furono eliminate leggi così sagge?, si legge sui giornali economici o si sente nei talk-show finanziari. I banchieri giurano di aver capito la lezione e non si oppongono alle leggi draconiane che vengono varate. Il tutto, però dura molto poco, il tempo per dare inizio a una nuova bolla finanziaria.

Nel dopoguerra, l’epoca di repressione finanziaria, con controlli sull’attività delle banche, sui movimenti di capitale, sui tassi di cambio, è durata molto più del solito, in alcuni paesi oltre quarant’anni. Ciò per una serie di ragioni, tra cui le conseguenze politiche della crisi del ‘29, che aveva condotto all’ascesa del nazi-fascismo e alla seconda guerra mondiale, la minaccia dell’Unione Sovietica stalinista, che costringeva a concedere qualcosa alla classe lavoratrice e il boom post-bellico, che consentiva di rimandare l’impellenza di fare profitti a qualunque costo. Finite queste circostanze speciali, sostanzialmente già negli anni settanta, la regolamentazione finanziaria cominciò a mutare. Negli anni ottanta, la deregulation era tornata dominante e con essa le crisi finanziarie. Il crollo dello stalinismo e la svolta di Deng in Cina, aprendo interi continenti agli investimenti e allo sfruttamento della relativa manodopera, hanno rafforzato il clima politico e ideologico liberista. La deregolamentazione finanziaria ha trionfato, ogni residuo controllo (come, negli Stati Uniti, la uptick rule, o il Glass-Steagall Act) è stato eliminato e le crisi, che pure continuavano a prodursi quasi ogni anno, venivano attribuite a questo o quel fattore contingente. All’ingresso nel nuovo millennio, nemmeno l’esempio del Giappone, che versava in una stagnazione cronica ormai da un decennio, dopo l’esplosione di una colossale bolla finanziaria e immobiliare, servì a imporre cautela8. Non sono sufficientemente liberisti, era la diagnosi, qualunque fosse la prognosi. Alla fine, come in una tragedia greca, la Nemesi è giunta a distruggere le opinioni prevalenti.

Nonostante la tradizionale prudenza dei banchieri centrali, gli elementi di ottimismo panglossiano hanno pienamente trionfato anche nella regolamentazione bancaria9 che, nel corso degli ultimi decenni, si è basata sempre di più sull’idea che le banche, soprattutto le più grandi, non solo sapessero da sole ciò che è meglio per loro, ma, secondo la nota vulgata smithiana, che il loro egoismo producesse una situazione ottimale per tutta la società. In questo contesto, il compito delle autorità pubbliche era, in definitiva, non disturbare.

Quando è scoppiata la crisi, vi è stato un primo momento di difesa della regolamentazione market friendly e si attribuivano i problemi al fatto che l’ultimo grido in fatto di vigilanza light touch, ossia l’accordo sul capitale noto come “Basilea 2”, non fosse ancora entrato in vigore. Con l’intensificarsi della crisi, si è rovesciata questa linea di ragionamento e le colpe della crisi sono state attribuite alla regolamentazione troppo morbida. Mano a mano che la crisi si infittiva, le critiche divenivano più feroci. Tutto ciò che era stato introdotto in quanto market friendly, dalla possibilità per le banche di adottare modelli interni di valutazione dei rischi, al principio contabile del fair value, è stato messo sotto accusa per i suoi effetti “pro-ciclici”, ossia aggravanti della crisi. Queste critiche, giunte come sempre a cose fatte, rimangono comunque sulla superficie dei fenomeni. Prendiamo il problema della “fallacia della composizione”, come viene definita nella storia della logica l’idea balzana che l’insieme si comporti come le parti che lo compongono. È emersa l’ovvia verità che se una tecnica di gestione dei rischi può risultare efficace per una singola banca, essa non elimina il rischio stesso, ma semplicemente lo sposta in maniera imprevedibile: “il vero pericolo non è nato perché un certo trader ha adottato il modello, ma perché la totalità dei traders lo ha fatto. Nei mercati finanziari, quando tutti fanno la stessa cosa, è inevitabile che si arrivi a una bolla e alla sua esplosione” (Gandolfo, 2010). Questa osservazione è giusta, ma non tocca ancora il punto chiave, ossia perché tutti sono costretti a fare la stessa cosa nello stesso momento. È la natura decentrata delle scelte di investimento, legata alla massimizzazione del profitto e alla proprietà privata, che produce comportamenti di gregge (“herd behaviour”) e normative pro-cicliche.

Come sempre, dopo l’esplosione della bolla, la reazione delle autorità è stata formalmente severa. Non sono mancati i rapporti ufficiali che hanno criticato ferocemente le grandi banche per aver precipitato il mondo nel baratro e, almeno nei mesi più acuti di panico bancario, sono anche state fatte proposte piuttosto radicali, compresa la scomposizione dei grandi gruppi, tuttavia, le banche non si sono spaventate più di tanto. Non a caso, il giorno in cui sono stati resi noti i dettagli del nuovo accordo (“Basilea 3”), le azioni delle banche hanno avuto forti guadagni in borsa e il Financial Times ha osservato: “le Autorità sembrano aver ceduto alle pressioni dell’industria bancaria”. Ciò è particolarmente visibile per quel che riguarda i tempi di applicazione, per alcune parti dell’accordo dilatati sino al 2023. Questa gentilezza non tiene però conto del funzionamento dei mercati. Le grandi banche hanno fatto a gara per cercare di soddisfare le condizioni del nuovo accordo per mostrare la propria forza rispetto ai concorrenti. Come sempre, dato che tutti gli operatori hanno fatto la stessa cosa nello stesso momento, l’esito finale è stato assai più misero del previsto.

Nel loro complesso, le nuove norme avranno effetti negativi sulla redditività delle banche che dovranno mantenere un capitale maggiore e di migliore qualità, più attività liquide e una leva finanziaria minore, senza contare le norme che potrebbero limitarne direttamente alcune attività, come la “Volcker rule”. L’inasprimento della legislazione, l’ambiente di critica ai profitti facili, la crisi produttiva, contribuiranno a ritardare il finanziamento di una nuova bolla, ma questi stessi fattori, pesando sul saggio di profitto, renderanno la ricerca di alternative sempre più impellente. La tendenza alla standardizzazione delle procedure di mercato e dei prodotti finanziari, visibile ad esempio nel dibattito sulla creazione di clearing house sui derivati OTC, produrrà gli stessi effetti. Queste esigenze hanno iniziato a riflettersi nei circoli che contano e sui media economici, che già dal 2010 hanno cominciato a rilevare che si è esagerato con le critiche e che bisogna ammorbidire o invertire l’inasprimento. Come è stato osservato: “la spinta verso riforme incisive della regolamentazione finanziaria si sta indebolendo man mano che il comparto finanziario sembra riacquisire profili di maggiore solidità e migliori performance.” (Tonveronachi, 2010). Le grandi banche, inferocite dal calo dei profitti, cercheranno in ogni modo di recuperare redditività. Il quadro perfetto per una nuova fase di “innovazione finanziaria”. Paradossalmente, quanto più il giro di vite regolamentare avrà successo, riducendo i profitti delle banche, tanto prima le pressioni dei grandi gruppi finanziari ne decreteranno la fine. Le banche cominceranno ad aggirare le norme costituendo società non bancarie (“shadow banking”) o sviluppando l’attività in centri off-shore (“arbitraggio normativo“); comincerà anche una ricerca spasmodica di nuovi prodotti finanziari che aiutino a sostenere i profitti. Alla fine, dotti articoli sui quotidiani economici e ben curati paper universitari dimostreranno l’inutilità delle nuove norme e la necessità di dare una svolta alla situazione. Le banche americane protesteranno che quelle europee sono avvantaggiate per come le norme sono applicate in Europa e viceversa. Tutte e due se la prenderanno con quelle giapponesi che restituiranno le critiche. Un bel giorno, qualcuno noterà che per tagliare la testa al toro è meglio eliminare del tutto la normativa e controllare caso per caso come sono gestite le banche. Il ritorno della deregulation almeno fino al prossimo crollo mondiale, posto che si riesca a superare quello attuale.

4. La politica monetaria nell’era del debito

La caduta del saggio di profitto influenza l’economia anche in altri modi. Quello più eclatante, che molti commentatori hanno visto come causa scatenante della crisi, senza comprenderne l’origine, è l’aumento inarrestabile, del debito, di tutto il debito. Infatti, quello delle imprese aumenta per sopperire al calo dell’autofinanziamento aziendale, conseguenza della riduzione della redditività; quello delle famiglie aumenta perché i salari non riescono a tenere dietro all’aumento dei prezzi. Infine, aumenta anche il debito statale, nel tentativo dei governi di attenuare gli effetti del calo tendenziale sia dei salari che del saggio del profitto, aumentando la spesa pubblica, politica che rende la situazione delle finanze pubbliche sempre più precaria, fino a una vera e propria crisi fiscale10. L’aumento del debito è causato dal calo del saggio del profitto. Questo spiega perché i paesi più evoluti finanziariamente sono anche quelli dove la composizione organica del capitale (ossia la proporzione capitale/lavoro) è più elevata: la finanziarizzazione dell’economia è la conseguenza del declino della redditività del capitale investito. Ciò spiega anche perché lo sviluppo dei paesi emergenti porta con sé l’aumento del loro debito pubblico e privato, mano a mano che la composizione organica della loro economia si avvicina a quella dei paesi avanzati, proprio come il saggio di profitto dei nuovi settori si avvicina, nel tempo, al saggio medio.

Lo sviluppo dell’economia, aumentando la composizione organica, diminuisce la produttività dei finanziamenti e del debito, per così dire, costringendo le banche centrali a sorreggere il sistema con iniezioni sempre più rilevanti di liquidità. Questa colossale massa di denaro fittizio alimenta permanentemente la speculazione. Da qui le continue bolle e crisi finanziarie. Questa tendenza spiega anche il ruolo crescente dello stato nell’economia. Al di là delle mode del momento, “il mercato”, nel senso del capitalista individuale, conta sempre meno, mentre la politica economica è caratterizzata da una situazione di pseudo-keynesismo permanente: spesa pubblica, bassi tassi di interesse ne sono componenti fissi, pur con alti e bassi.

La tendenza declinante di lungo periodo del saggio di profitto determina le direttrici di fondo entro cui i governi e le banche centrali devono condurre la politica economica. Per rallentare gli effetti del calo del saggio di profitto, i governi e i privati aumentano il debito, elevando la leva finanziaria complessiva dell’economia. Le banche centrali sono costrette ad attutire gli effetti di un aumento del ricorso al debito abbassando i tassi e accrescendo la liquidità del sistema. Le banche centrali e le altre autorità di vigilanza sono anche costrette ad ammorbidire la regolamentazione per alleviarne l’effetto sui profitti delle banche. Il legame tra declino della redditività e peso della vigilanza prudenziale è stato osservato già molti anni fa. Ad esempio: “in recent years, concern has been increasingly voiced about the implications for bank’s capital adequacy of a perceived decline in the profitability of international operations” (Pecchioli, 1983, p. 11). I poteri pubblici hanno sempre ben presenti gli interessi delle banche, ma l’aumento della concentrazione finanziaria aumenta ulteriormente il peso contrattuale delle banche verso gli stati perché i governi non hanno davanti a sé molti piccoli e medi operatori, ma pochi gruppi giganteschi che decidono le sorti di interi continenti. Alla fine, la profittabilità si riduce a tal punto da annullare gli spazi di manovra della politica monetaria. Questo si è già visto in Giappone, dove da vent’anni i tassi d’interesse sono nulli. Questo è il futuro che aspetta tutti i paesi. Ovviamente la teoria ortodossa, che lega l’andamento della politica monetaria all’inflazione, si conferma del tutto futile a spiegare il mondo reale.

5. Conclusioni: e ora?
Banche e banchieri sono per loro natura ciechi
J. M. Keynes

I fenomeni di euforia finanziaria sono ricorrenti nella storia del capitalismo, in quanto intimamente legati al funzionamento del ciclo economico e alla tendenza dominante del processo produttivo, la caduta del saggio di profitto, conseguenza dello sviluppo stesso del capitalismo. Gli episodi di mania, panico e crisi vengono ridotte dalla teoria economica a fattori più o meno estemporanei, comunque non strutturali. Quando il capitalismo attraversa un boom, queste spiegazioni sembrano convincenti, mentre quando torna in crisi, si ricomincia a parlare degli economisti che Keynes definiva il “mondo sotterraneo”, compreso il più sotterraneo di tutti, Marx. Tuttavia, questo recupero, che può sembrare superficialmente gratificante a chi considera importante la teoria marxista per capire l’economia, ne presenta una visione distorta e mutilata, in cui Marx il rivoluzionario diviene al massimo Marx lo scienziato eterodosso e le conclusioni politiche della teoria economica di Marx sono lasciate completamente fuori dal quadro.

Eliminando il Marx politico, la sua analisi teorica può servire, al massimo, a impostare qualche riforma dell’esistente, che si rivelerà effimera. Nel sistema finanziario, in particolare, le crisi conducono a riflessioni sull’importanza della stabilità rispetto all’innovazione. Si arriva a concludere che la prima deve essere garantita a scapito della seconda fino all’idea che “l’unico modo per eliminare la probabilità di una crisi è eliminare la possibilità dell’innovazione finanziaria” (Thakor, 2010). Questa soluzione però è impensabile, perché senza innovazione non c’è possibilità di risollevare i profitti, dunque le bolle sono l’alternativa meno dolorosa, essendo l’altra un calo senza sosta della profittabilità aziendale. Il legame tra innovazione e crisi era ovviamente del tutto sfuggito all’ortodossia teorica, non solo accademica, il che spiega perché, dopo anni in cui i governatori delle banche centrali e gli economisti avevano affermato che l’innovazione finanziaria permetteva alle banche una più efficiente gestione dei rischi, è arrivata la più pesante crisi finanziaria del dopoguerra. In realtà, la maggiore efficienza operativa del singolo intermediario era la conseguenza della pressione sui margini reddituali e ciò rendeva il sistema più instabile, una conclusione che oggi appare scontata, anche se in ritardo.

Questa contraddizione tra situazione della banca e situazione delle banche è la chiave di volta per capire il rapporto che intercorre tra il singolo capitalista e il suo sistema. Il movimento del saggio di profitto è il ponte che li lega. Le aziende (industriali o di credito) sono costrette a innovare per aumentare la propria redditività ma quando si generalizza attraverso la concorrenza, l’innovazione trasforma un maggior saggio di profitto individuale in un abbassamento sistemico del saggio di profitto. Questa è la micro-fondazione delle dinamiche del capitalismo, il sacro Graal cercato da decenni dalla teoria economica ortodossa senza successo.

La teoria marxista della dinamica economica spiega anche, con efficacia, la connessione tra crisi reale e crisi finanziaria. Spiega innanzitutto, che questa divisione è artificiale e non coglie il cuore del problema: ai fini del saggio medio del profitto, ossia degli investitori, ogni settore è reale. Ciò che cambia è la forma che la crisi prende al suo sorgere ma essa è sempre connessa alla profittabilità: se la bolla è stata maggiore dal lato finanziamento, salteranno prima le banche, se è stata maggiore nella capacità produttiva del settore innovativo, salteranno prima le imprese industriali. Detto diversamente, se all’apice dell’euforia, il divario tra saggio settoriale e saggio generale del profitto è maggiore del divario tra saggio d’interesse settoriale e generale (compendiando nel saggio d’interesse ogni tipo di rendimento finanziario di un’attività), i problemi sorgeranno prima dal lato “reale”. Naturalmente, la logica dell’eterno ritorno al saggio medio farà sì che queste differenze tenderanno ad appianarsi.

In questo quadro è possibile analizzare l’efficacia delle politiche anti-crisi. Idealmente, a crisi finita, il saggio medio di profitto è minore del saggio medio iniziale ma più uniforme tra i settori. Ciò avviene per effetto della distruzione di capacità produttiva, innanzitutto, nei nuovi settori e poi più in generale. L’esito della crisi è una combinazione di due aspetti: la riduzione della capacità produttiva e un aumento della domanda, indotto dalle politiche espansive. Tali politiche si sostanziano, nell’immediato, in un maggior indebitamento pubblico o privato. L’aumento del debito, come si è detto, non è che un sottoprodotto della tendenza di fondo del capitalismo a generare una riduzione del saggio di profitto.

Come già era chiaro ai classici, questa tendenza non opera come fosse una legge naturale perché i capitalisti vi si oppongono. Sorgono dunque delle controtendenze11. Ai nostri fini, interessa osservare che spesso queste non influiscono direttamente sui profitti del sistema bancario ma, creando un ambiente migliore per i profitti di tutti i settori economici, hanno poi effetti positivi anche per le banche. Ad esempio, una consistente riduzione del livello salariale e del costo del lavoro in genere, può risollevare gli animal spirits, anche se il costo del lavoro, di per sé, incide poco sui profitti delle banche.

In questo senso, ogni controtendenza al calo del saggio del profitto presenta opportunità per le banche. Un calo dei salari costringe le famiglie ad aumentare la propria domanda di credito, incrementando i profitti delle banche. Allo stesso modo, se per resistere al calo del saggio di profitto, le aziende aumenteranno le spese in ricerca e sviluppo e per fusioni, crescerà anche il loro ricorso al credito e alle consulenze delle banche e così via. Gli stessi interventi pubblici sono occasioni di profitti per le banche, che collocano e negoziano titoli del debito pubblico, finanziano le opere infrastrutturali, e così via.

Tuttavia, la controtendenza più importante al calo del saggio di profitto, in tutti i settori economici, è la concentrazione del capitale. Tutte le aziende, comprese le banche, contrastano il calo del saggio di profitto con un aumento della sua massa, espandendosi. La parabola di ogni settore economico, compresi i diversi comparti finanziari, è composta da un’infanzia fatta di molti piccoli concorrenti e una fase matura di pochi giganti. La crisi produce un’accelerazione del processo di consolidamento per l’uscita di scena di molte aziende che falliscono o si fondono con i vincitori. Nel sistema bancario internazionale, il processo ha assunto un carattere particolarmente accentuato. Questo ha comportato, con lo scoppio della bolla, che la crisi di alcuni intermediari è diventata crisi della nazione perché questi intermediari erano più grandi dei paesi che li ospitavano. Per alcune piccole nazioni europee questo fatto è risultato eclatante. Ad esempio le due principali banche islandesi (Kaupthing e Landsbanki) avevano, prima di fallire ed essere nazionalizzate, un attivo superiore a dieci volte il Pil del paese; nel caso di UBS, il rapporto con la Svizzera era 1 a 5, per il gruppo ING con l’Olanda 1 a 3, e così via. Se in questi casi parlare di too big too fail è persino riduttivo, poiché è il paese a rischiare la bancarotta, tutti i paesi principali hanno ormai intermediari a rilevanza sistemica. A crisi scoppiata, organismi internazionali e commentatori si sono resi conto che la situazione è ingestibile, dando implicitamente ragione a Marx, e si sono moltiplicate le proposte di riforma12. Qualunque riforma venga attuata, le banche continueranno a diventare più grandi e potenti, perché non hanno altro modo per sopravvivere.

L’eredità della crisi è pesante. Anni di stagnazione, tagli, disoccupazione di massa. Le banche, colpite nei profitti e criticate dall’opinione pubblica, sono come tigri in gabbia alla ricerca di un modo per sfuggire alle nuove regole e tornare ai saggi di profitto di prima della crisi. I governi, di qualunque colore siano, non hanno soluzioni durature e si limitano a scontate operazioni di macelleria sociale peggiorando il problema. Le banche centrali possono muovere con sempre più difficoltà le leve della politica monetaria. Chi conta ha capito poco della crisi e sta solo rimandando al futuro i problemi. Soluzioni più durature non si possono trovare in questo sistema.

*Laureato in Economia Politica, Dottorato di Ricerca in Economia Politica, si occupa professionalmente di banche e normativa bancaria. 
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Note
1 Cecchetti et al, 2009. In Rogoff e Reinhart, 2009, si identificano centinaia di questi episodi negli ultimi secoli.
2 http://www.federalreserve.gov/BOARDDOCS/SPEECHES/2002/20021108/default.htm.
3 Si vedano, ad esempio, “The return of Keynes” (Wall Street Journal, 9.1.2009), “A present, nous sommes tous de keynésiens” (Le Monde, 6.1.2009), “As capitalism stares into the abyss, was Marx right all long?” (The Independent, 2.3.2009) e anche “Marx was right” (http://www.marxist.com/marx-was-right.htm).
4 Smith, op. cit. p. 181. Sull’analisi classica del saggio d’interesse si veda Boffito, 1973.
5 Ad esempio, i favori sessuali come mezzo per ottenere l’attività finanziaria agognata punteggiano questa fase dei boom almeno dai tempi di John Law ed erano di moda anche con i subprime (vedi “Sex, Lies, and Mortgage Deals”, Business Week 19.11.2008).
6 Keynes, La meccanica interna della depressione, ora nella raccolta di scritti Come uscire dalla crisi.
7 Vedi, ad esempio, MacKay, 2000.
8 Vedi La lezione giapponese. Un paragone con la crisi odierna, in “In difesa del marxismo” n. 10, 2009.
9 Sulla storia della regolamentazione bancaria a partire dagli anni ‘80, e per l’aggiornamento sulle proposte di riforma, si rimanda al sito web della Banca dei Regolamenti Internazionali (www.bis.org).
10 Questo tema è già trattato in O’Connor, 1977.
11 Aspetti delle tendenze e controtendenze del saggio di profitto si trovano già in Smith, nei capitoli IX e X del I libro della Ricchezza delle nazioni, e in Ricardo, nel capitolo XXI dei Principles. Nel materiale poi sistemato da Engels per il III libro del Capitale di Marx, le controtendenze sono trattate nei capitoli XIV e XV.
12 I siti della Banca dei Regolamenti Internazionali e del Financial Stability Board contengono numerosi documenti in proposito. Vds. In particolare, i documenti sulle banche cosiddette G-SIB.

Amo Scicli e Guccione: intervista con Giorgio Agamben

Peppe Savà intervista Giorgio Agamben, www.ragusanews.com

E’ uno dei più grandi filosofi viventi. Amico di Pasolini e di Heidegger, Giorgio Agamben è stato definito dal Times e da Le Monde una delle dieci teste pensanti più importanti al mondo. Per il secondo anno consecutivo ha trascorso un lungo periodo di vacanza a Scicli, concedendo una intervista a Peppe Savà

Il governo Monti invoca la crisi e lo stato di necessità, e sembra essere la sola via di uscita sia dalla catastrofe finanziaria che dalle forme indecenti che il potere aveva assunto in Italia; la chiamata di Monti era la sola via di uscita o potrebbe piuttosto fornire il pretesto per imporre una seria limitazione alle libertà democratiche? 

“Crisi” e “economia”  non sono oggi usati come  concetti, ma come parole d’ordine, che servono a imporre e a far accettare   delle misure e delle restrizioni che la gente non ha alcun motivo di accettare. “Crisi” significa oggi soltanto “devi obbedire!”. Credo che sia evidente per tutti che la cosiddetta “crisi”  dura ormai  da decenni e  non è che il modo normale in cui funziona il capitalismo  nel nostro tempo. Ed è un funzionamento che non ha nulla di razionale.
Per capire quel che sta succedendo, occorre prendere alla lettera l’idea di Walter Benjamin, secondo la quale il capitalismo è, in verità,  una religione e la più feroce, implacabile e irrazionale religione che sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua. Essa celebra un culto ininterrotto la cui liturgia è il lavoro e il cui oggetto è il denaro. Dio non è morto, è diventato Denaro.
La Banca –coi suoi grigi funzionari ed esperti- ha preso il posto della Chiesa e dei suoi preti e , governando il credito (persino il credito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro sovranità), manipola e gestisce la fede –la scarsa, incerta fiducia- che il nostro tempo ha ancora in se stesso. Del resto, che  il capitalismo sia oggi una religione, nulla lo mostra meglio del titolo di un  grande giornale nazionale qualche giorno fa: “salvare l’Euro a qualsiasi costo”. Già “salvare” è  un concetto religioso, ma che significa quell’ “a qualsiasi costo”?  Anche a prezzo di “sacrificare” delle vite umane? Solo in una prospettiva religiosa (o, meglio, pseudoreligiosa) si possono fare delle affermazioni così palesemente assurde e inumane.

La crisi economica che minaccia di travolgere buona parte degli Stati europei è riconducibile alla condizione di crisi di tutta la modernità?

La crisi che l’Europa sta attraversando non è soltanto un problema economico, come si vorrebbe far credere, è innanzi tutto una crisi del rapporto col passato. La conoscenza del passato  è la sola via di accesso al presente. E’ cercando di comprendere il presente, che gli uomini - almeno noi uomini europei - ci troviamo costretti a interrogare il passato. Ho precisato “noi europei”, perché mi sembra che, ammesso che la parola “Europa” abbia un senso, esso, com’ è oggi evidente,  non può essere né politico, né religioso e tanto meno economico, ma consiste forse in questo, che l’uomo europeo –a differenza, ad esempio, degli asiatici e degli americani, per i quali la storia e il passato hanno un significato completamente diverso- può accedere alla sua verità solo attraverso un confronto col passato, solo facendo i conti con la sua storia. Il passato non è, cioè, soltanto un patrimonio di beni e di tradizioni, di memorie e di saperi, ma anche e innanzitutto una componente antropologica essenziale dell’uomo europeo, che può accedere  al presente solo  guardando a ciò che di volta in volta egli è stato. Di qui il rapporto speciale che i paesi europei (l’Italia, anzi la Sicilia è, da questo punto di vista, esemplare) ha con le sue città, con le sue opere d’arte, col suo paesaggio: non si tratta di conservare dei beni più o meno preziosi, ma comunque esteriori e disponibili: in questione è la realtà stessa dell’Europa, la sua indisponibile sopravvivenza. Per questo distruggendo col cemento, le autostrade e  l’Alta Velocità  il  paesaggio italiano, gli speculatori non ci privano soltanto di un bene, ma distruggono la nostra stessa identità. La stessa dicitura “beni culturali” è ingannevole, perché suggerisce che si tratti di beni fra gli altri, che possono essere sfruttati economicamente e magari venduti, come se si potesse liquidare e mettere in vendita la propria identità.
Molti anni fa, un filosofo che era anche un alto funzionario dell’Europa nascente, Alexandre Kojève, sosteneva che l’homo sapiens era giunto alla fine della sua storia e non aveva ormai davanti a sé che due possibilità: l’accesso a un’animalità poststorica (incarnato dall’american way of life) o lo snobismo (incarnato dai giapponesi, che continuavano a celebrare le loro cerimonie del tè, svuotate, però, da ogni significato storico). Tra un’America integralmente rianimalizzata e un Giappone che si mantiene umano solo a patto di rinunciare a ogni contenuto storico, l’Europa potrebbe offrire l’alternativa di una cultura  che resta  umana e vitale anche dopo la fine della storia, perché è capace di confrontarsi con la sua stessa storia nella sua totalità e di attingere da questo confronto una nuova vita.

La sua opera più nota, Homo Sacer, indaga il rapporto tra potere politico e nuda vita e evidenzia le difficoltà presenti nei due termini, qual è il punto di mediazione possibile tra i due poli?

Quel che le mie ricerche hanno mostrato è che il potere sovrano si fonda fin dall’inizio sulla separazione fra nuda vita (la vita biologica, che in Grecia, aveva il suoi luogo nella casa) e vita politicamente qualificata (che aveva il suo luogo nella città). La nuda vita viene esclusa dalla politica e, nello stesso tempo, inclusa e catturata attraverso la sua esclusione. In questo senso, la nuda vita è il fondamento negativo del potere. Questa separazione raggiunge la sua forma estrema nella biopolitica moderna, in cui la cura e la decisione sulla nuda vita diventano la posta in gioco della politica. Quel che è avvenuto negli stati totalitari dl novecento, è che è  il potere (sia pure nella forma della scienza) a decidere in ultima analisi che cosa è una vita umana e che cosa non lo è. Contro questo, occorre pensare una politica delle forme di vita, cioè di una vita che non sia mai separabile dalla sua forma, che non sia mai nuda vita.

Il fastidio, per usare un eufemismo, col quale l'uomo comune si pone di fronte al mondo della politica è legata alla specifica condizione italiana o è in qualche modo inevitabile?

 Credo che siamo oggi di fronte a un fenomeno nuovo che va al di là del disincanto e della diffidenza reciproca fra i cittadini e il potere e che riguarda l’intero pianeta. Quel che sta avvenendo è una trasformazione radicale delle categorie con cui eravamo abituati a pensare la politica. Il nuovo ordine  del potere mondiale si fonda su un modello di governamentalità che si definisce democratica, ma che non ha nulla a che fare con ciò che questo termine significava ad Atene. Che questo modello sia, dal punto di vista del potere, più economico e funzionale  è provato dal fatto che è stato adottato anche da quei regimi che fino a pochi anni fa erano dittature. E’ più semplice manipolare l’opinione della gente attraverso i medi e la televisione che dover imporre ogni volta le proprie decisioni con la violenza.  Le forme della politica che noi conosciamo –lo stato nazionale, la sovranità, la partecipazione democratica,i partiti politici, il diritto internazionale- sono ormai giunte alla fine della loro storia. Esse rimangono in vita come forme vuote, ma  la politica ha oggi la forma di una “economia”, cioè di un governo delle cose e degli uomini. Il compito che ci attende è dunque pensare integralmente da capo ciò che abbiamo finora definito coll’espressione, del resto in sé poco chiara, “vita politica”.

Lo Stato di Eccezione che lei ha connesso al concetto di sovranità oggi pare assumere il carattere di normalità, ma i cittadini rimangono smarriti dinanzi all'incertezza nella quale vivono quotidianamente, è possibile attenuare questa sensazione?

Noi viviamo da decenni in uno stato d’ eccezione che è diventato la regola, proprio come nell’economia la crisi è la condizione normale.Lo stato di eccezione- che dovrebbe essere sempre limitato nel tempo- è oggi invece il modello normale di governo e questo  proprio negli stati che si dicono democratici. Pochi sanno che le norme introdotte in materia di sicurezza dopo l’11 settembre (in Italia si era cominciato già a partire dagli anni di piombo) sono peggiori di quelle che vigevano sotto il fascismo. E i crimini contro l’umanità commessi durante il nazismo sono stati resi possibili proprio dal fatto che Hitler, appena assunto il potere, aveva proclamato uno stato di eccezione che non è mai stato revocato. Ed egli non aveva certo le possibilità di controllo (dati biometrici, telecamere, cellulari, carte di credito) proprie degli stati contemporanei. Si direbbe che oggi lo Stato consideri ogni cittadino come un terrorista virtuale. Questo non può che deteriorare e rendere impossibile quella partecipazione alla politica che dovrebbe definire la democrazia. Una città le cui piazze e le cui strade sono controllate da telecamere non è più un luogo pubblico: è una prigione.

La grande autorevolezza che tanti riconoscono a studiosi che come lei indagano la natura del potere politico può farci sperare che, per dirla banalmente, il futuro sia migliore del presente?

Ottimismo e pessimismo non sono categorie utili per pensare .Come scriveva Marx in una lettera a Ruge, “la situazione disperata dell’epoca in cui vivo, mi riempie di speranza”.

Possiamo porle una domanda sulla lectio che lei ha tenuto a Scicli? qualcuno ha letto la conclusione che riguarda Piero Guccione come un omaggio ad una amicizia radicata nel tempo, altri vi hanno visto una sua indicazione su come uscire dallo scacco nel quale l'arte contemporanea sembra incatenata.

Certo si trattava di un omaggio a Piero Guccione e a Scicli, una piccola città in cui risiedono alcuni fra i più importanti pittori viventi. La situazione dell’arte oggi è forse il luogo esemplare per comprendere la crisi nel rapporto col passato di cui abbiamo parlato. Il solo luogo in cui il passato può vivere è il presente e se il presente non sente più il proprio passato come vivo,  il museo e l’arte, che di quel passato è la figura eminente, diventano luoghi problematici. In una società che non sa più che cosa fare del suo passato, l’arte si trova stretta fra la Scilli del museo e la Cariddi della mercificazione. E spesso, come in quei templi dell’assurdo che sono i musei di arte contemporanea, le due cose coincidono.  Duchamp è stato forse il primo a accorgersi del vicolo cieco in cui l’arte si era chiusa. Che cosa fa Duchamp quando inventa il ready-made?  Egli prende un  qualsiasi oggetto d’uso, per esempio un orinatoio, e, introducendolo in un museo, lo forza a presentarsi come un’opera d’arte. Naturalmente –tranne che per il breve istante che dura l’effetto dell’estraneazione e della sorpresa- in realtà nulla viene qui alla presenza: non l’opera, perché si tratta di un oggetto d’uso qualsiasi prodotto industrialmente, né l’operazione artistica, perché non vi è in alcun modo poiesis, produzione – e nemmeno l’artista, perché colui che sigla con un ironico nome falso l’orinatoio non agisce come artista, ma, semmai, come filosofo o critico o, come amava dire Duchamp, come “uno che respira”, un semplice vivente. In ogni caso è certo che egli non intendeva produrre un’opera d’arte, ma  sbloccare la via dell’arte,  chiusa fra il museo e la mercificazione. Come sapete, quel che invece è avvenuto è che una congrega, purtroppo tuttora attiva, di abili speculatori e di gonzi ha trasformato il  ready-made in opera d’arte. E la cosiddetta arte contemporanea non fa che ripetere il gesto di Duchamp, riempiendo di non-opere e di performances dei musei, che non sono altro che organi del mercato, destinati ad accelerare la circolazione di merci, che, come il denaro, hanno ormai raggiunto lo stato della liquidità e vogliono tuttavia ancora valere come opere. Questa è la contraddizione dell’arte contemporanea: abolire l’opera e insieme pretenderne il prezzo.

Il manifesto politico di Mario Draghi (e i suoi limiti) di Vladimiro Giacchè



È un segno dei tempi che sia un banchiere, anzi IL banchiere europeo per eccellenza, Mario Draghi, a proporre all’opinione pubblica europea il più importante manifesto politico di questi mesi. Perché l’articolo del presidente della BCE pubblicato sul settimanale tedesco “Die Zeit” (con un titolo cretino che la dice lunga sulle ossessioni monomaniacali dell’establishment di quel paese: “Così l’euro resta stabile!”) è un vero e proprio manifesto politico.
Certo, tutti i commentatori sono andati a cercare, in fondo al testo di Draghi, le parole sulla BCE e su quello che intende fare per evitare l’implosione dell’area valutaria. E non sono stati delusi. Draghi infatti afferma, a beneficio dei lettori tedeschi, che la BCE “farà quanto necessario per garantire la stabilità dei prezzi. Resterà indipendente. E opererà sempre nell’ambito del proprio mandato”. Ma aggiunge, a beneficio dei lettori di quasi tutti gli altri paesi europei, che “la fedeltà al proprio mandato può richiedere di andare oltre le consuete misure di politica monetaria”. Questo avviene quando “nei mercati dei capitali predominano paura e irrazionalità, quando il mercato finanziario comune torna a suddividersi lungo le linee tracciate dai confini nazionali”: ossia quando, come sta accadendo in questi mesi, il mercato europeo dei capitali si balcanizza, con gli stati finanziariamente più solidi che riportano i soldi a casa e diventano rifugio di capitali in fuga dagli altri.
Ma il merito principale del discorso di Draghi consiste nel rifiutare l’alternativa che i Tedeschi stanno imponendo nel dibattito sul futuro della moneta unica e dell’Europa: “o si torna al passato o si fa un salto qualitativo e si va verso una specie di Stati Uniti d’Europa”. È proprio questa alternativa secca, dice Draghi, che rende insoddisfacenti molte proposte di soluzione dei problemi attuali.
È vero che l’architettura istituzionale dell’Unione Europea si è dimostrata carente, ma – ricorda Draghi – il modello politico ispirato agli stati nazionali fu esplicitamente rifiutato quando si decise di dar vita alla moneta unica (e qui c’è una polemica implicita, perché fu in primis Kohl a non volere una più stretta integrazione politica). Il problema, insomma, non è l’assenza di un’unione politica, ma il fatto che a fronte di una politica monetaria unica le politiche economiche e fiscali dei diversi stati sono state e sono malamente coordinate tra loro. Bisogna quindi procedere verso “il completamento dell’unione economica e valutaria”, ivi inclusa una regolamentazione europea dei mercati finanziari che preveda tra l’altro la possibilità di liquidare le banche fallite (quello che non si è voluto fare nel 2008/2009).
Questo non significa “in prima istanza un’unione politica”. Integrazione economica e politica possono però senz’altro procedere in parallelo, e la sovranità può essere condivisa a fronte di un rafforzamento della legittimazione democratica a livello europeo.
Il punto più debole del ragionamento di Draghi è quello che riguarda i contenuti concreti della politica economica e di bilancio. A questo proposito leggiamo che i bilanci nazionali devono essere soggetti a supervisione europea, e “dovrebbero essere fissati standard minimi di competitività”.
Che squilibri e debiti maturati dai vari stati non devono essere eccessivi e tali da minacciare la moneta unica (qui Draghi si dimentica di precisare che un attivo eccessivo della bilancia commerciale, come quello che la Germania vanta attualmente nei confronti degli altri paesi dell’eurozona, non è meno pericoloso per l’area valutaria di quanto lo siano i disavanzi degli altri). E poi seguono le tautologie e i mantra preferiti dalla nomenklatura europea: “nessun paese potrà vivere ulteriormente al di sopra dei propri mezzi. I mercati del lavoro devono funzionare in modo tale da creare occupazione e diminuire la disoccupazione”. Tutto questo, promette Draghi, “non significa la fine dello stato sociale europeo. È invece la base per un suo rinnovamento”. Ora, queste sono parole molto belle. Senz’altro migliori di quelle dell’infelice intervista dello stesso Draghi al Wall Street Journal, in cui si dava per morto il modello sociale europeo.
Ma il problema è che tutto questo non tiene. Quello che serve all’Europa non sono “standard minimi di competitività” (qualunque cosa questa oscura locuzione significhi), ma standard minimi nel campo della fiscalità e dei diritti del lavoro.
In assenza di questi standard, la competitività continuerà ad essere tutta giocata sul dumping fiscale (tasse alle imprese più basse che negli altri paesi dell’Eurozona) o sul dumping sociale (minori diritti e minori salari). E l’alternativa continuerà ad essere quella che oggi affligge l’Europa: o una generalizzata erosione progressiva dei diritti e dei salari diretti o indiretti, oppure la creazione di divergenze alla lunga insostenibili tra un paese e l’altro. (O magari, come sta avvenendo in Italia a causa delle politiche di austerità – che colpiscono i redditi, ma anche l’attività economica – entrambe le cose).
In tal caso anche le “misure non convenzionali” della BCE che oggi sono necessarie, ossia l’acquisto dei titoli di stato di paesi sotto attacco speculativo per ridimensionarne i rendimenti, serviranno nel migliore dei casi a tamponare l’emergenza. Senza risolvere i problemi di fondo che stanno distruggendo la moneta unica.

Lista unica degli "anti Monti" anche senza falce e martello


"Proponiamo ai movimenti, ad Alba e a tutte le forze della società civile e quelle sindacali di fare una lista comune e aperta". Il portavoce della Fed vorrebbe il rosso, ma ai movimenti civici piace l'arancione
 
Se Sel allontana la prospettiva della lista unica con il Pd, il coniuge separato Rifondazione comunista (che aderisce alla federazione della sinistra) invece lo avvicina. A grandi passi e persino a prescindere dalla legge elettorale. «Noi siamo contro il porcellum e contro la legge finto proporzionale che Pd, Pdl e Udc stanno preparando al solo scopo di rendere necessarie le alleanze dopo il voto», ha detto mercoledì sera a Modena Paolo Ferrero (nella foto), durante un dibattito con Giuliana Beltrame dell'Alleanza lavoro benicomuni ambiente. «E tuttavia, comunque vada a finire il balletto della legge elettorale, proponiamo ai movimenti, ad Alba e a tutte le forze della società civile e quelle sindacali di fare una lista comune, aperta, scelta dal basso e in maniera democratica, con il criterio di una testa un voto. Rifondazione comunista certo non si scioglie. Ma è disponibile anzi propone di ragionare su una lista comune, con un simbolo immediatamente riconoscibile dal popolo della sinistra. E un programma che ci candidi a governare in alternativa alle politiche neoliberiste di Monti, di Merkel e della Bce».
Il simbolo, per il segretario Prc, potrebbe essere una semplice bandiera rossa, o qualcosa che identifichi una sinistra senza aggettivi. In realtà Alba al rosso preferisce l'arancione, come tutti i movimenti civici sulla scia della primavera dei sindaci. Ma intanto la proposta del Prc è lanciata. E domani a Roma una riunione dell'esecutivo di Alba, la prima dopo le vacanze, valuterà la road map dell'autunno, che porterà alla decisione finale di se e come partecipare al voto. 

Daniela Preziosi, Il Manifesto

Usa. Interessi e ideologia nella convention repubblicana di Marco D'Eramo, Il Manifesto

Il capitale non è tutto uguale, gli interessi sono differenziati quanto i campi di investimento. Nelle elezioni Usa, altrimenti incomprensibili, si manifestano con qualche chiarezza. Al di là dell'obamismo dell'autore.
 
 
 
 
 
 
 
L'ideologia e gli interessi
Se (come le azioni) i delegati «non si contano, ma si pesano», alla Convention repubblicana di Tampa (Florida), chiusasi all'alba di oggi ora italiana, sedeva un delegato (eletto nello stato di New York) che pesa più di tutti gli altri 4.400 delegati (tra titolari e supplenti) messi insieme. Pesa più del candidato presidente Mitt Romney e del candidato vicepresidente Paul Ryan.
Questo delegato si chiama David Koch (pronunciato Kok), 72 anni, comproprietario insieme al fratello Charles (78 anni) e vicepresidente esecutivo delle Koch Industries. CONTINUA|PAGINA7 Si tratta di un conglomerato dal fatturato annuo di 98 miliardi di dollari, con quartier generale a Topeka in Kansas, che include raffinerie di petrolio ed etanolo, gasdotti e oleodotti, industrie chimiche, minerarie, fertilizzanti, fibre, polimeri, polpa cartacea e persino allevamenti di bestiame, tutti settori che dipendono fortemente dalle materie prime. Secondo l'agenzia finanziaria Bloomberg, la fortuna combinata dei due fratelli ammonta «almeno» a 70 miliardi di dollari: ma quel che più interessa è che martedì 6 novembre (giorno del voto) i fratelli Koch avranno investito nella campagna elettorale repubblicana di quest'anno ben 400 milioni di dollari, secondo le informazioni raccolte da Politico: il contributo di una sola famiglia ammonta a più dei 350 milioni di dollari che aveva raccolto in tutto il candidato repubblicano John McCain per la sua campagna nel 2008, e più della metà di quanto avesse raccolto il candidato democratico Barack Obama (750 milioni di dollari) che con quella cifra aveva stabilito il nuovo record di finanziamenti. E questi fondi non includono le cifre che i fratelli Koch hanno sborsato dal 2009 per non solo finanziare, ma organizzare, addestrare, mobilitare, insomma creare di sana pianta il Tea Party.
Certo, i fratelli Koch sono finanziatori di lungo corso di tutte le possibili e immaginabili cause di estrema destra negli Stati uniti, ma lo sforzo di quest'anno è eccezionale, tanto che c'è da chiedersi cosa pensano di ricavare da questo investimento due abili businessmen come loro. Una parte della risposta ce la fornisce sempre Bloomberg. I due fratelli infatti sono anche protagonisti del mercato dei derivati sulle materie prime attraverso una filiale, la Koch Supply and Trading LP, uno dei maggiori operatori mondiali sui derivati dell'energia (futures e swaps) che scambiano anche per conto di fondi pensione ed hedge funds: nel 1986 i Koch furono i primi a introdurre swaps del petrolio. Il problema è che, dopo la crisi del 2008, il Congresso ha imposto regole più strette - maggiori riserve di capitale e condizioni collaterali più cogenti - per quegli operatori di swaps il cui volume di scambi aperti superi gli 8 miliardi di dollari annui. Questa norma costa alla Koch Supply and Trading somme dell'ordine dei miliardi di dollari. Da anni i Koch cercano di farla abrogare con un martellante lavoro di lobby affidato a Greg Zerzan, già responsabile delle politiche pubbliche per la International Swaps and Derivatives Association. Ma invano. Come stupirsi se il candidato Romney ha già promesso di deregolamentare questo settore di attività borsistica?
Ma i Koch non sono i soli a essere spinti da un proprio personale tornaconto. A tutt'oggi il finanziatore più generoso nei confronti di Romney e dei repubblicani (con 36 milioni di dollari) è Sheldon Adelson, 79 anni, imprenditore di case da gioco sia a Las Vegas che a Macao: i casinos di Macao hanno generato 2,95 miliardi di dollari di introiti, su un fatturato totale annuo di 5,34 miliardi di dollari per il gruppo. Se Romney vincesse e mettesse in atto le promesse elettorali per costringere la Cina a rivalutare lo yuan, Adelson ne ricaverebbe consistenti profitti: basterebbe una rivalutazione del 5% del renminbi per far guadagnare ad Adelson circa 150 milioni di dollari in più all'anno. E poi, una vittoria i Romney libererebbe Adelson dall'inchiesta del Dipartimento di Giustizia Usa per corruzione di funzionari cinesi a Macao.
Né è per disinteressata generosità che Harold Simmons (81 anni) ha finanziato il Political Action Commettee (Pac) di Romney con 15,7 milioni di dollari: Simmons, la cui fortuna è stimata a 5,6 miliardi di dollari, possiede la Simmons's Contran Corp basata a Houston (Texas). Che a sua volta detiene il 90% della Valhi Inc. in crisi per la sua filiale di gestione dei rifiuti, Waste Control Specialists, che perde denaro ininterrottamente da 5 anni, ma potrebbe generare utili record se con una presidenza Romney la società riuscisse a vincere il contratto per un nuovo deposito di scorie radioattive nella sua discarica da 535 ettari nel Texas Occidentale, dopo che la precedente soluzione a Yucca Mountain (Nevada) è stata scartata. Romney infatti, a differenza dei presidenti che l'hanno preceduto, è favorevole a far gestire le scorie radioattive dai privati.
La lista potrebbe essere ancora lunga, ma ogni nome mostra che dietro le battaglie "ideali" si celano interessi materiali precisi, corposi.
Del resto non è una situazione sconosciuta all'Italia, proprio come ha fatto sussultare tutti gli italiani la promessa di creare «12 milioni di nuovi posti di lavoro» che il 42enne Paul Ryan ha lanciato nel suo discorso di accettazione della candidatura alla vicepresidenza. Noi già abbiamo sentito da Silvio Berlusconi un'identica promessa (anche se in scala più ridotta, un milione solo: l'Italia è molto più piccola degli Stati uniti), una promessa che celava la difesa di interessi personali altrettanto corposi. Sappiamo come è andata a finire. E anche gli Usa rischiano la stessa fine, nel malaugurato caso dovesse vincere Romney: dal suo cilindro uscirebbero non milioni di posti di lavoro ma miliardi di dollari per i Koch, gli Adelson, i Simmons e confratelli.
Per fortuna la vittoria di Romney è improbabile. E non solo perché questa Convention è stata un mezzo fiasco, e non solo a causa del ciclone Isaac (ora ridimensionato a semplice tempesta) che ha ridotto di un giorno la durata dei lavori e per un altro giorno ha dirottato l'attenzione dei media. Ma perché la fiducia sembra non essere di casa a Tampa. In attesa di conoscere il discorso di Mitt Romney (previsto per stamane all'alba ora italiana), l'unico oratore che ha suscitato entusiasmo è stato appunto Paul Ryan, perché giovane e di bell'aspetto. Ma neanche lui è riuscito a infervorare gli animi come aveva fatto Sarah Palin quattro anni fa (e anche allora si sa come andò a finire).
Nelle elezioni presidenziali Usa vittoria o sconfitta dipendono non tanto dagli indecisi, quanto dal tasso di astensione delle proprie truppe. Il rischio per Obama sta nello scontento della sua base democratica e per Romney nel sospetto e nella sfiducia della destra che lo considera un voltagabbana. Se il partito democratico è demoralizzato dalla sconfitta elettorale subita nel 2010, il partito repubblicano, che dovrebbe avere il vento in poppa, è in realtà spaccato dalle lancinanti divisioni tra i suoi moderati e i conservatori: nel ticket repubblicano Romney dovrebbe "coprire" i centristi e Ryan la destra estrema, il Tea Party, ma col rischio che l'estremista Ryan dissuada i moderati dal recarsi alle urne e il centrista Romney disgusti e spinga all'astensione gli esagitati del Tè.
Ecco perché Obama cerca di presentarsi come l'ultimo baluardo contro la barbarie di un fascismo razzista e Romney si offre come l'unica possibilità per difendere l'America dal «socialismo spendaccione» di Obama. Come si ama dire oggi, sono due "narrazioni" divergenti: la vittoria dipenderà da quale narrative prenderà il sopravvento. Se Romney riuscirà a fare di queste elezioni un referendum sul (deludente) bilancio di Obama (cosa che per esempio non riuscì - a parti invertite - a John Kerry nel 2004 con George Bush), allora i repubblicani avranno una speranza di vittoria. Se al contrario Obama riuscirà a fare delle elezioni un referendum sull'inconsistenza, le menzogne, le giravolte di Romney, allora Obama ha la rielezione in tasca. Nonostante le benedizioni del Cardinale di New York che dovrebbero concludere la Convention repubblicana, con un'ingerenza inaudita (e inedita) della Chiesa cattolica nella politica Usa. Sempre che l'economia europea non trascini con sé nel baratro non solo l'economia Usa ma anche le speranze di rielezione del primo presidente nero.

Deutschland über alles di Moreno Pasquinelli



L’euro 2.0, la Bce e la questione tedesca
«Il fatto è che contro questo “destino di eterodirezione” (De Rita) non sorge alcun sussulto in seno alla borghesia italiana che conta, all’interno della quale prevale anzi la tendenza ad inchiodarsi al ceppo tedesco come ineluttabile e salvifica condanna. Un cupio dissolvi anti-nazionale, una pulsione di morte, una eutanasia della classe dominante. Non la rimpiangeremo».


Quindi anche Mario Monti ha ammesso [1] che l’effetto annuncio deliberatamente cercato da Mario Draghi nella sua conferenza stampa del 26 luglio alla City londinese  è stato determinante, ben più delle sue misure draconiane, per evitare la tempesta finanziaria che si stava abbattendo sull’eurozona, in particolare sui debiti sovrani di Spagna e Italia, con relativa impennata degli spread.

Grazie alle promessa di Draghi che la Bce non si sarebbe limitata all’uso di “armi convenzionali” (azione sulla leva del tasso dì interesse) ma sarebbe ricorsa a quelle “non convenzionali” (acquisto dei titoli spagnoli e italiani per tenerne bassi i rendimenti, ciò che avrebbe fatto finalmente la Bce prestatore di ultima istanza), Spagna e Italia hanno passato quasi indenni… la nottata.

Il fatto è che tutti i fattori di crisi, tutti i motivi patogeni che stanno minando la stabilità e la sopravvivenza dell’eurozona, stanno lì, intatti, pronti a scatenare il collasso. Potenziati dalla recessione che non attanaglia solo i cosiddetti “paesi cicala”, ma anche quelli “formica”, e che quindi pregiudica a fortiori l’efficacia delle terapie per evitare che l’eurozona vada in pezzi.

Mario Draghi e Jens Weidmann 
L’eurozona spaccata

A dispetto dell’ottimismo di circostanza, quello all’insegna del quale si è svolto l’incontro tra la Merkel e il suo gauleiter questuante Monti, le stesse aste degli ultimi due giorni confermano che la situazione è drammatica. La riduzione dei rendimenti dei Bot e Btp è stata poco più che irrisoria. Le casse dello Stato, grazie a questa provvisoria riduzione, dovranno sborsare qualche decina di milioni in meno (rispetto ai tassi di un mese fa) «una goccia nel mare del debito pubblico italiano che viaggia invece diritto verso i 2 mila miliardi». [2] 

La seconda tempesta finanziaria, dopo quella che fece secco Berlusconi, quella che probabilmente azzopperà il governo Monti-Napolitano, è stata rimandata non eliminata. Una tempesta che si manifesterà con nuove impennate dello spread, cioè con una diminuzione del valore dei titoli italiani e il contestuale aumento degli interessi per lo Stato. Una tempesta che, come andiamo ripetendo da almeno un anno e mezzo, travolgerà il sistema bancario italiano — le banche dello Stivale hanno in pancia 343 miliardi di titoli del Tesoro e solo tra febbraio e maggio ne hanno acquistati, grazie alla liquidità offerta dalla Bce altri 45 miliardi (dati Bankitalia di fine agosto).

Ma non sono solo le banche a soffrire a causa dell’alto costo del debito pubblico italiano, e quindi a dovere pagare interessi che si aggirano attorno al 7% per poter piazzare proprie azioni e obbligazioni. A cascata tutta l’economia ne soffre, ovvero il sistema capitalistico italiano. Andrea Franceschi ce ne da un esempio: «Nei giorni scorsi Volkswagen ha collocato sul mercato obbligazioni decennali per un miliardo di euro ad un tasso estremamente basso (2,37%). Decisamente più alto il costo di rifinanziamento del debito della concorrente Fiat che lo scorso mese ha piazzato 600 milioni di titoli a quattro anni con un tasso del 7,75%». [3] 

Morale della favola: ha voglia Marchionne a spremere come limoni gli operai di Pomigliano o Mirafiori! Occorrerebbe ridurli in schiavi per compensare quello che gli economisti definiscono con ingannevole eufemismo “svantaggio competitivo” tra l’industria tedesca e quella italiana.
I capitalisti tedeschi sanno benissimo che traggono un vantaggio indiscutibile dalla crisi dei debiti sovrani e dallo spread alto: «In Germania c’è molta gente a cui fa comodo questa situazione e non escludo che dietro ai recenti attacchi tedeschi al presidente della Bce Mario Draghi, ci sia una banale difesa di uno status quo che conviene a molti». [4]  

“Banale difesa”, una metafora per nascondere le verità che in nome della narrazione europeista era finita nel dimenticatoio e il cui vero nome è concorrenza, competizione intercapitalista. Sotto i nostri occhi sta tirando le cuoia l’illusione che la concorrenza  spietata inter-capitalista, per quanto allo stadio monopolistico, tra aziende e sistemi nazionali, fosse stata derubricata in nome di una kantiana pace europeista perpetua. Marx, il cane morto, si prende una bella rivincita, mentre l’irreversibilità della costruzione eurista di cui parlò Draghi andrà a farsi friggere. Pensare che possa esistere un capitalismo senza concorrenza, e quindi conflitto tra capitali e sistemi nazionali, è come immaginare che una tigre diventi erbivora.

Bce: scontro al vertice

E’ scontato che il Direttivo della Bce del 6 settembre non prenderà decisioni risolutive, tantomeno quella (che certa stampa, con sicumera, considera la "volontà di Draghi") di una nuova e più massiccia operazione SMP di acquisto di titoli spagnoli e italiani. Ammesso e non concesso che questo sia tra gli effettivi desiderata di Draghi (del che noi continuiamo a dubitare), egli non potrà vincere l’opposizione tedesca e in specifico quella tetragona della Bundesbank, vera sentinella di ultima istanza del capitalismo tedesco. Non le prenderà per la semplice ragione che dovrà attendere le decisioni della Corte Costituzionale tedesca in merito al fondo salva-stati Esm-Mes e ciò a dimostrazione che è ai tedeschi che spetta l’ultima parola.

Beninteso, che la Corte tedesca bocci il fondo salva-stati non pregiudica, di per sé, che la Bce ricorra alla “arma non convenzionale” dell’acquisto diretto di titoli spagnoli e italiani. Si tratta di due operazioni di diversa natura, la prima chiama in causa gli Stati e i governi, la seconda la banca centrale appunto. Teoricamente la Bce potrebbe intervenire anche ove il fondo salva-stati non entrasse in vigore nei tempi e con le dotazioni attese, ma Draghi ha già ripetuto a iosa che la Bce interverrà eventualmente solo dopo l’attivazione dell’Esm/Mes, ovvero solo dopo che Berlino abbia dimostrato una volta per tutte la sua determinazione a salvare l’eurozona.

Teoricamente, i tedeschi si oppongono su tutta la linea ad un’operazione Smp da parte della Bce. Le dichiarazioni di Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, sono state inequivocabili: «La Bce non deve acquistare titoli di stato, è del tutto fuori dal suo Statuto e dal mandato affidatole dai Trattati europei. (…) perché i finanziamenti della Bce assomiglierebbero a un finanziamento degli Stati stampando moneta, e renderebbero i governi tossicodipendenti, come una droga». [5] 

La domanda è: potrà Draghi vincere le resistenze tedesche? La nostra risposta è: non impossibile ma altamente improbabile, talmente improbabile che è quasi impossibile. Per cui si fa tanto rumore per nulla su queste “armi non convenzionali” della Bce, una storia che farà la stessa fine che fece a giugno l’ipotesi, data per certa, degli Eurobond, seppelliti per sempre dalla Merkel in persona.

Resta quindi solo il fondo salva-stati dell’Esm/Mes, quello sottoposto a giudizio della Corte costituzionale tedesca, la cui sentenza è attesa per il 12 settembre. Noi azzardiamo un’ipotesi su quella che sarà la decisione ultima. Né un sì né un no ma un nì. La Corte dirà che in linea di principio la Germania potrà aderire al fondo, ma ponendo una serie di condizioni politiche che il Parlamento tedesco dovrà rispettare scrupolosamente, tali e tante condizioni che non potranno far scattare il fondo nei tempi stretti necessari, ovvero entro l’autunno. Del resto la stessa Merkel aveva già messo due paletti invalicabili: l’Esm non avrà una dotazione superiore a quella prevista [6] né, come ha dichiarato l’altro ieri, licenza bancaria [7]

Insomma il fondo salva-stati nasce zoppo e tutto potrà fare meno che salvare l’eurozona ed evitare che vada in frantumi.

Su cosa si dividono in Germania?

Mentre scrivo i quotidiani italiani tessono lodi sperticate di Monti, perché nel suo incontro con la Merkel, avrebbe ammansito la Cancelliera e, udite udite, spezzato l’asse carolingio franco-tedesco. Ovviamente sono balle, minchiate, fatte per abbindolare gli italiani e portare consenso a questo tecno-cardinale liberista che oramai la maggioranza degli italiani detesta. Alcuni Tg particolarmente zelanti si sono spinti a dire che “Monti ha convinto la Merkel” i(il Tg2) , lasciando intendere che la Merkel ha smentito il presidente della Bundesbank.

Come stanno effettivamente le cose? Che in Germania sia in atto all’interno della classe dominante e ai vertici del sistema uno scontro durissimo, questo è noto. Quel che i media non dicono agli italiani è in cosa consistano le divergenze, quali siano le strategie dei due fronti giunti a singolar tenzone e cosa implichino per l’Italia (non solo per il popolo lavoratore ma per il futuro del paese).

Quali sono queste due strategie rispetto alle sorti dell’euro e del ruolo della Germania? La cosa è ben descritta da Antonio Pilati nell’articolo Che fare con la Merkel, apparso su IL FOGLIO del 29 agosto, e di cui raccomando vivamente la lettura.

Per adesso prevale la linea Merkel, che vuole sì difendere l’eurozona (ma la Grecia se ne deve andare per dare una lezioni a tutti gli altri) ma a condizioni terribili per i paesi indebitati, tra cui il loro definitivo commissariamento e la cessione della sovranità a Bruxelles e Francoforte, l’imposizione di politiche deflattive draconiane, la caduta verticale di ricchezza con annesso crollo dei salari e dei diritti, i deflussi di capitale verso la Germania, lo sfaldamento degli assetti proprietari in settori cruciali dell’economia nazionale, così da favorire lo shopping teotonico. L’annessione progressiva dell’Italia e degli altri “paesi deboli” come
province tedesche.

La seconda strategia è quella dei nemici giurati dell’euro nostalgici del marco. Convinti che l’eurozona è destinata all’implosione, che i differenziali tra i paesi sono incolmabili, che l’euro è stato un grave errore, essi sostengono che l’uscita degli “stati deboli” è ineluttabile, nella logica delle cose, che quindi questa uscita va agevolata non facendo alcuna concessione, né sul fronte della Bce né su quello del fondo salva-stati.

Come sostiene giustamente Pilati “le due strategie condividono i principi di fondo e differiscono sulla terapia”. «Da questo nucleo concettuale emerge la visione di un’area euro 2.0 (copyright Ollì Rhen) a bassi divari strutturali, unita nell’ideologia monetaria e di bilancio e quindi con divergenze di politica economica ridotte al minimo, segnata da un esplicito marchio tedesco». [8]

 Terapie che conducono entrambi, seppur per vie diverse, all’annessione del nostro paese alla Germania. Da nazione “imperialista stracciona” o sub-imperialista (ovvero sottomessa al dominio nordamericano, l’Italia diventerebbe una satrapia di Berlino con comproprietà yankee, con le conseguenze sociali, economiche e politiche che ognuno può immaginare.

Il fatto è che contro questo “destino di eterodirezione” (De Rita) non sorge alcun sussulto in seno alla borghesia italiana che conta, all’interno della quale prevale anzi la tendenza ad inchiodarsi al ceppo tedesco come ineluttabile e salvifica condanna. Un cupio dissolvi anti-nazionale, una pulsione di morte, una eutanasia della classe dominante. Non la rimpiangeremo.

Note

[1] intervista ad Il Sole 24 Ore del 29 agosto
[2] Maximilian Cellino, Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2012
[3] Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2012
[4] Angelo Drusiani, gestore obbligazionario. Citato da Andrea Franceschi. Ibidem
[5] La Repubblica, 27 agosto 2012
[6] Corriere della Sera, 17 marzo 2012
[7] Ansa.it del 29 agosto 2012
[8] Antonio Pilati, Ibidem