lunedì 30 aprile 2012

Il nuovo che ritorna di Enzo Costa, L'Unità


I partiti sono tutti uguali. 
I partiti fanno tutti schifo. 
I partiti sono tutti uguali e fanno tutti schifo tranne il nostro, che difatti non è un partito, e si presenta alle elezioni per non dare nell’occhio. 
I partiti sono superati, fatti di gente vecchia, morta, che processeremo, e già dicendo questo, che più o meno dicevano fascisti e nazisti ai loro esordi, dimostriamo come noi invece siamo postmoderni, giovani e vivi. 
I partiti sono il Sistema, però ora indagano il tesoriere della Lega perché quel partito si oppone a Monti (mentre il tesoriere della Margherita, il cui leader Rutelli ora è il primo fan di Monti, non lo indaga nessuno). 
I partiti sono tutti verticistici, proprietà dei capi, mentre da noi, che non facciamo congressi, uno vale uno, e nel simbolo abbiamo scritto un nome e un cognome a caso. 
I partiti sono tutti pieni di pregiudicati che vanno cacciati dalla politica, mentre per dileggiare all’ingrosso tutti i partiti essere pregiudicati non osta.

Brancaccio e Passarella: oltre il mainstream, a sinistra, di Francesca Coen, Il Fatto Quotidiano

Uno standard retributivo europeo, che consenta di contrastare la deflazione competitiva dei salari e di riattivare la domanda all’interno dei confini europei; il ridimensionamento del ruolo della finanza privata; un più ambizioso piano di politica industriale continentale; il rilanico della pianificazione pubblica dello sviluppo: sono queste le proposte di Emiliano Brancaccio e Marco Passarella in L’austerità è di destra (Il Saggiatore, 2012), il testo che in sole due settimane ha scalato le classifiche dei saggi di economia più letti in Italia.
Questo pamphlet, diverso dai testi analitici cui gli autori ci hanno abituato, dialoga con l’oggi a partire da firme fuorilegge, come Keynes, Marx o Hyman Minsky, sino a divenire una sorta di manuale del presente, un lavoro di generosità divulgativa che si propone di risalire pazientemente dagli effetti alle cause della metamorfosi sociale in corso. Già ne La crisi del Pensiero Unico Emiliano Brancaccio aveva tentato di ricucire la distanza tra la teoria economica e il vissuto sociale, aprendo varchi nella nebbia del paradigma dominante. Così L’austerità è di destra è un testo ricco di suggestioni da leggere dalla fine all’inizio, dalla rassegna bibliografica all’introduzione, nel tentativo di spiegare analiticamente quanto è avvenuto negli ultimi trent’anni.
Cominciamo dalla rassegna bibliografica, dove Oliver Blanchard ci ricorda che “la condizione della macroeconomia è buona” (p. 140), e il premio Nobel Robert Lucas ci rassicura che “il problema centrale della prevenzione della depressione è stato risolto” (p. 140). Il silenzio colpevole del mainstream fa da sfondo al testo, che dietro ai mantra di innovazione, efficienza, competitività, svela i processi di emoragia occupazionale e deflazione salariale che costellano gli ultimi tre decenni.
Gli autori richiamano così la mezzogiornificazione d’Europa, ciò che oggi Gallino definisce la terzomondializzazione d’Europa, e che Krugman già nel 1991 presentava come probabile conseguenza dell’introduzione della moneta unica nel continente. All’epoca, questi avvertimenti s’infrangevano sulle rassicurazioni di Oliver Blanchard e Francesco Giavazzi (2002), che di fronte al terremoto sociale in erba rassicuravano che l’ampliamento degli squilibri commerciali tra i paesi europei avrebbe rappresentato uno stimolo virtuoso all’integrazione finanziaria della zona euro. Erano anni di ottimismo, quelli. Le riviste di economia con più alto Impact Factor negavano alcun pericolo imminente, e i redattori de la voce.info non avevano ancora confessato che “questa è la più grande crisi della storia. [...] Nessuno di noi redattori, dobbiamo ammetterlo, l’aveva prevista” (p. 140).
L’ottimismo termina nel 2008. Fino ad allora la finanza privata era stata il primo motore della domanda. “La Banca Centrale creava moneta e la iniettava nel circuito delle istituzioni finanziarie private, così finanziando a debito una spesa destinata all’acquisto di ingenti volumi di titoli, azioni e immobili”. Quando scoppia la bolla immobiliare, il sistema economico si trova non solo “orfano di una robusta fonte di domanda e di una bussola per la produzione” (p. 15), in grado di assorbire come una spugna le eccedenze produttive mondiali, ma di interpretazioni teoriche condivise e sensate. La riluttanza ad accettare la fallibilità dei principi liberali, l’indebolimento dell’influenza marxista e keynesiana nelle accademie, legittimano austerità, pareggio di bilancio e contrazione della spesa proprio nel momento in cui le conseguenze del paradigma liberale diventano palesi a tutti.
Fatto il danno, evitateci almeno le soluzioni, verrebbe da dire. Va detto chiaro: non v’è soluzione all’attuale impasse entro il paradigma dominante. Oggi il paradigma dominante ha solo due cose da offrire: depressione e destra. Nei giorni in cui Tremonti mette in guardia contro il “fascismo finanziario”, il primo difensore delle pensioni in Olanda è Wilders, il leader xenofobo del Partito olandese delle libertà (Pvv), e in Francia il 35% dei voti delle classi popolari è andato a Marine Le Pen, gli autori giustamente ricordano come Keynes già nel 1919 ammonisse: “se diamo per scontata la convinzione che […] per anni e anni la Germania debba essere tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza, il paese circondato di nemici […], oso farmi profeta, la vendetta non tarderebbe”.
Rovesciare le ricette del paradigma dominante per uscire dal sadismo sociale: è questa, infondo, la lucida proposta dei due autori. Un processo coordinato di pianificazione produttiva, un motore economico che assolva al compito di trainare la domanda, il coordinamento e bilanciamento della contrattazione salariale e delle relazioni europee. Infondo, lo diceva anche Milton Friedman: in tempi di crisi “questa, io credo, è la nostra funzione principale: sviluppare alternative alle politiche esistenti, mantenerle in vita e disponibili finché il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile” (1982).

venerdì 27 aprile 2012

Deruta - Elezioni Comunali del 6 e 7 maggio 2012

Eolo Barcaccia
Vivo a Deruta dove sono nato 60 anni fa. Sono diplomato presso l'Istituto D'Arte di Deruta e dal 1980 sono impiegato presso l'Università Per Stranieri di Perugia. Dal 1996 al 2006 sono stato membro del consiglio d'amministrazione della stessa.
Da sempre sono stato impegnato nel lavoro sindacale e in politica, prima in Democrazia Proletaria e poi in Rifondazione Comunista, partito che rappresento nella lista "Uniti per Deruta – Una città in Comune”".
Sono molto appassionato di sport che, da giovane, ho praticato a livello agonistico e che ora invece svolgo a livello amatoriale.
CARA ELETTRICE CARO ELETTORE
MI CANDIDO perché credo che in questo periodo di profonda crisi economica, sociale e politica c'è bisogno una ventata di aria nuova in grado di affrontare con decisione e determinazione i problemi che affliggono tutti noi: mancanza di lavoro e di sviluppo, iniquità fiscale, eccessiva burocrazia, scarsa trasparenza amministrativa, poca sicurezza sociale e personale dei cittadini.
MI CANDIDO per combattere la rassegnazione che vedo crescere fra i cittadini di fronte al degrado della politica attuale.
MI CANDIDO per città sempre più aperta al mondo, attrattiva e innovativa, accogliente e solidale. Una città capace di garantire un futuro meno incerto nel lavoro e nelle aspirazioni di ogni cittadino, facendo una chiara scelta politica rispetto alle condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori.
MI CANDIDO per una città che sempre più si distingua per qualità della vita, opportunità e senso civico. Una città che fa della persona umana, soprattutto quella che fatica di più, il centro e il metro della politica amministrativa.
MI CANDIDO per una città che valorizzi ad ogni livello le risorse dell'associazionismo e del volontariato, cuori pulsanti della comunità civile. Una città capace, nell'elaborazione delle politiche comunali, di raccogliere, rielaborare e far proprie le istanze provenienti dai quartieri e dalle frazioni, armonizzando le loro specificità in un disegno unitario e coerente.
MI CANDIDO per una città caratterizzata dalla difesa dei beni comuni (acqua, territorio, servizi sociali) e capace di impostare un nuovo modello di sviluppo locale basato su piano rifiuti zero, risparmio energetico, energie ecosostenibili, valorizzazione dell'ambiente, del territorio e delle tradizioni culturali e artigianali del nostro comune.
MI CANDIDO per un modello di città orientata alla democrazia partecipativa, alla solidarietà, all'equità e alla giustizia sociale.
Mi candido: per un'altra politica, 
per “una città in comune”

ANGELO D’ORSI – Tutti pazzi per Gramsci

“The Gramscian Moment” è il titolo di un recente libro del britannico Peter Thomas vincitore del Premio internazionale Sormani. E di autentico “momento gramsciano” si deve parlare, gettando lo sguardo ben oltre le frontiere. Ma sarebbe un errore ritenere che questo momento sia cominciato tra il 2011 e i primi mesi del 2012, quando un’autentica profluvie di libri, richiamati più o meno correttamente dai media, si è abbattuta nelle librerie italiane, e l’alluvione continua.
La Gramsci-Renaissance data dal 2007, quando si celebrarono, in una misura e con una intensità mai viste, i 70 anni dalla morte. Fu un anno eccezionale, con convegni che cominciarono in Australia e percorsero il globo, toccando decine di Paesi. E, mentre cominciavano a uscire a stampa i primi volumi dell’Edizione Nazionale degli Scritti, si presentava, anche grazie al lavoro nell’ambito di quella impresa gigantesca, e a quello svolto per la Bibliografia Gramsciana Ragionata (BGR) e per il Dizionario Gramsciano, una nuova generazione di studiosi, che a Gramsci guardava con occhi freschi, non condizionata dai dibattiti del passato. Qualcuno disse: finalmente si potrà semplicemente leggere Gramsci come “un classico”. Ma così non è e così in fondo non può essere.
Antonio Gramsci fu e rimase un rivoluzionario e un comunista fino all’ultimo suo giorno – che cadde esattamente 75 anni or sono, in una clinica romana dopo un decennio di detenzione e patimenti inenarrabili – il 27 aprile 1937. Ma fu anche un pensatore, sicuramente il più profondo e originale pensatore dell’Italia del Novecento; ma anche uno dei più stimolanti analisti del “moderno”: storico e storiografo, filosofo e pedagogista, teorico della lingua e della letteratura, scienziato politico. E, last but not least, uno scrittore impareggiabile, che nelle sue lettere ha toccato altissimi vertici di umanità e di multiforme capacità letteraria.
Sono queste le ragioni della rinascita di attenzione a Gramsci, oggi uno degli autori italiani di ogni epoca più tradotti e studiati nel mondo? Indubbiamente. Ma come testimoniano le polemiche ricorrenti, scatenate da sedicenti nuove interpretazioni o pretese “rivelazioni”, non si discute solo in merito al teorico e lo scrittore, ma sempre comunque sui connotati politici della sua opera teorica e pratica: dei risultati che ebbe quando egli era un giovane giornalista del Partito socialista, o quando divenne direttore del settimanale poi quotidiano L’Ordine Nuovo, colonna del Partito comunista, fondatore de l’Unità, fino a quando giunse, dopo un’aspra battaglia interna, a prendere la guida del Partito, poco prima dell’arresto nel novembre ’26. Di quei tempi fu la rottura con Togliatti, su cui poi tanta speculazione si fece. Il dissenso nasceva dalla differente valutazione, positiva per Togliatti, critica e preoccupata per Gramsci, delle lotte interne al Partito sovietico.
È la vicenda della lettera da Gramsci scritta per i compagni russi e affidata a Togliatti, che, d’accordo con Bucharin non la consegnò, suscitando l’aspra reprimenda di Gramsci e una greve risposta di Togliatti. Fu quello, dell’ottobre ’26, l’ultimo contatto fra i due, che non ebbero più modo di parlarsi. Del resto mentre Gramsci cominciava il suo calvario, Togliatti vestì i panni di dirigente dell’Internazionale Comunista, condividendone responsabilità, anche se non fu mai un piatto esecutore degli ordini di Stalin, spesso anzi cercando di portare avanti una linea di riserva. Ma certo fu completamente dentro quella storia, da cui Gramsci invece fu escluso. E non come qualcuno ha scritto, scioccamente, perché “per sua fortuna” era in carcere, ma perché il suo comunismo, su cui continuò a riflettere, era oggettivamente diverso. E lo era stato fin dal suo affacciarsi alla Torino industriale, dove conobbe gli operai, “uomini di carne ed ossa”, quando mise l’accento sul fattore umano e quello culturale. E cominciò a elaborare un socialismo che ne tenesse conto. Doveva essere un movimento di liberazione il socialismo, di uomini (e donne: la sua attenzione all’altra metà del cielo fu costante), non sostituire un’oppressione ad un’altra.
Quel socialismo era umanistico, e tale rimase anche dopo la trasformazione in comunismo. Ma l’umanesimo gli giungeva non solo dal contatto diretto con i proletari, ma dalla stessa attenzione alla cultura. E anche quando, nei primi anni Venti, la bolscevizzazione toccò tanto il Pcd’I, quanto lo stesso Gramsci, egli non perse lo zoccolo duro, umanistico e insieme critico, della propria concezione di comunismo . Perciò, quando crollò il Muro, nel 1989, trascinando sotto le macerie la quasi totalità della tradizione marxista, Gramsci non solo si salvò, ma ne emerse come un trionfatore.
Era il portatore di un altro socialismo possibile. Sconfitto politicamente, in una determinata fase storica, ma non filosoficamente ed eticamente. Dunque, il momento gramsciano, sia nel livello alto degli studi, sia in quello basso, talora infimo, e persino volgare, di polemiche spicciole, e infondate, magari ammantate di scientificità, non accenna a finire: perché dietro l’analista acuto e sofferto della sconfitta della rivoluzione in Occidente, nella lunga meditazione carceraria, emerge il teorico di un’altra rivoluzione possibile, magari attraverso gli strumenti culturali, capaci di sostituire al dominio fondato sulla coercizione l’egemonia basata sul consenso. E il suo motto fondamentale rimane pur sempre il primo dei tre che campeggiano sulla testata de L’Ordine Nuovo: “Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”.

La rigenerazione necessaria di Salvatore Cannavò, www.Ilmegafonoquotidiano.it

La discussione sul "soggetto politico nuovo" si anima e si intreccia con i risultati del voto in Francia. Alcune note sull'assemblea di Firenze a partire da un articolo di Luca Casarini

In un articolo di Luca Casarini sul manifesto del 25 aprile c'è una frase importante: "In questa fase la grande questione è come organizzare fuori dalla finalità elettorale un blocco sociale capace di leggere la crisi e affrontarla da sinistra senza cadere nel populismo. Invece la vicenda elettorale viene utilizzata come motore per organizzare un soggetto sociale e politico "nuovo". Ciò che accade in Francia e che si ripeterà probabilmente in Italia ci dimostra che il problema non si aggira: è fuori e prima delle elezioni che il soggetto politico e sociale deve prendere forma, organizzarsi attraverso processi che hanno al centro la capacità di esercitare una forza attraverso il conflitto, contro la governance della crisi". Si tratta, par di capire, di trovare un'autosussistenza per un nuovo blocco di forze, radicate ed efficaci socialmente, tale da fondarne senso e percorso al di là di qualsiasi speculazione elettorale. Dal mio punto di vista questa espressione si completa di un altro concetto: l'autosufficienza di questo progetto politico, - che oggi potrebbe prendere, in Italia e non solo, le forme di una vasta alleanza plurale di forze anche con natura diverse accomunate dalla critica al capitalismo e a questa democrazia e legate dalla assoluta indipendenza dalle attuali "governance" di destra e di sinistra - si fonda su una prospettiva tanto difficile quanto ineludibile: la costruzione di un'autorganizzazione di massa dei soggetti sociali, delle forze reali in vista di un confronto-scontro con gli apparati e le istituzioni dominanti per fondare un'altra democrazia e una diversa società sostenibile. Senza questo corollario, infatti, senza l'ambizione di inverare, nelle forme più moderne possibile, quanto scrisse Marx nel primo saluto dell'Associazione internazionale dei lavoratori - "l'emancipazione dei lavoratori è opera dei lavoratori stessi" - l'autosussistenza non avrebbe scelta tra divenire forma, sia pure intelligente, di "antipolitica" oppure auto-marginalizzazione. In qualche modo, occorre declinare, anche nelle forme moderne che la nuova struttura di classe e le nuove forme dell'accumulazione impongono, quel concetto dell'autodeterminazione delle figure proletarie per dare a questa prospettiva una forma comunque "politica" e non meramente "sociale" o addirittura "sindacale". L'autorganizzazione, in questo senso, non è una "pratica di lotta" o un obiettivo interno alla struttura dei movimenti sociali, ma l'obiettivo, e l'architrave, di un'altra idea della società e quindi un fine politico che regge l'insieme di una piattaforma sociale e politica per l'alternativa. In questo senso, oggi, nell'attuale crisi della politica e delle forme istituzionali date, un discorso "alto" sulla democrazia, sull'esercizio della delega, sull'applicazione di forme efficaci di "revoca", su istituzioni di partecipazione diretta, è divenuto indispensabile proprio per dare senso e prospettiva a una politica alternativa.
Tutta la premessa serve per spiegare perché non sembra condivisibile, al contrario della frase citata, l'impianto dell'articolo di Luca e il giudizio sul soggetto politico "nuovo" che vedrà luce, sia pure in forma embrionale, sabato a Firenze. L'impianto del ragionamento, infatti, fa leva su altre affermazioni che, per lo meno, restano equivoche e non aiutano a dissipare l'equivoco, o l'errore, di fondo della sinistra italiana degli ultimi dieci-quindici anni.
Casarini, infatti, scrive che la Francia dimostra che ormai si vota non tanto per dotarsi di un "diritto di tribuna" in Parlamento ma perché "la grande massa degli elettori vota per il governo, non per essere rappresentata". Tanto che, fa notare, per Mélenchon non c'è alternativa che dare subito indicazione di voto per Hollande.
"Oggi chi sceglie di presentarsi alle elezioni dovrebbe avere il coraggio di dire perché lo fa. E se ci racconta che è per uscire dalla Nato o nazionalizzare le banche ci sta prendendo per il culo" scrive ancora Casarini. "Da fuori possiamo e dobbiamo interloquire con chi sceglie di proporsi alle elezioni come alternativo a ciò che esiste ora. Ma senza tanti discorsi. Su questioni concrete. Come concreta è la constatazione che con il 2% dei voti o il 4 non stai discutendo con niente, ma solo con qualcuno che ha il problema della rappresentanza propria". Il ragionamento è senz'altro vero nella maggior-parte dei casi ma non chiarisce se la prospettiva avanzata sia quella di pensare alle elezioni solo nel momento in cui è possibile porre la questione del governo - e quando arriverebbe? - o se invece l'unica opzione utile per "chi sta fuori" è intrecciare il proprio destino con, per citare ancora l'articolo, "dinamiche di governance che possono incepparsi a causa di contraddizioni che rivelano opposte tendenze intercapitalistiche di gestione della crisi. Questi cambi - scrive ancora Casarini - inceppamenti e fibrillazioni a chi sta fuori possono far bene. Senza mai pensare che risolvano, in radice, i problemi". Questo induce a ritenere che l'ipotesi più interessante non sia tanto (per iniziare a chiamare le cose con il loro nome) il 2 o 4 per cento che il Soggetto politico nuovo - o un altro progetto analogo - potrebbe darsi come obiettivo quanto dialogare, influenzare, relazionarsi a una coalizione - il centrosinistra in questo caso e la sua componente vendoliana nello specifico - che può offrire spazi di interlocuzione a chi lavora per il cambiamento. E che magari resta fuori. Insomma, un'ipotesi in cui il "soggetto" è sostanzialmente sociale dotato di interlocuzioni politiche e non un "soggetto politico" a tutto tondo.
Se questa è l'ipotesi, allora non regge nemmeno ai fini della prospettiva che in premessa abbiamo detto di condividere. L'esperienza degli ultimi anni mostra che non può esserci una scissione tra progetto politico e comportamento sociale, anzi, proprio questa divaricazione ha prodotto lo sfacelo in cui siamo. L'esperienza, italiana ed europea, dice, invece, che il problema fondamentale cui siamo costretti a dare una risposta è quello di costruire un processo di accumulazione di forze progressive, una stabile alleanza che possa porre la questione del governo in termini di un altro governo, un'altra politica, un'altra società. La questione è davvero di grande spessore, tanto che forse nessuno dei soggetti in campo è in grado di dare la risposta giusta. Ma l'esempio più convincente viene proprio dalla destra in Francia che pure Casarini cita a proposito. Marine Le Pen non cede alla logica del "voto utile" o di coalizione e nemmeno chiede il voto di testimonianza o di mera rappresentanza: avanza un progetto politico per la Francia, e l'Europa, e chiede consenso per arrivare a praticarlo. La strategia del Front National - sconfiggere Sarkozy per prenderne il posto - è esattamente quella che manca alla sinistra radicale: fare i conti fino in fondo con il socialismo europeo e il centrosinistra per avanzare direttamente la propria proposta politica. Una strategia che richiede tempo, saldezza, idee, e gambe sociali. Un'operazione di "ricostruzione storica" di cui in Italia non si vede traccia. Ma questa sembra essere l'unica strada. E una volta imboccata, se la via elettorale possa servire o meno a rafforzarla, è secondario. Visto il grado di partecipazione al voto che si registra ancora in Europa, le elezioni sembrano rimanere un passaggio importante per segnare degli avanzamenti progressivi: a patto, e qui siamo d'accordo, di non accontentarsi della propria specifica visibilità ma della realizzazione di un progetto alternativo di società, dotato di una significativa massa critica. Ma questo richiede lo sforzo di tanti che oggi invece non si parlano nemmeno.
Il "soggetto politico nuovo" che si presenta a Firenze aiuta in questo cammino? In gran parte andrà verificato. Se da un lato non è chiarito ancora il progetto di fondo, la società per cui lavorare e nemmeno il rapporto con quel centrosinistra che è parte integrante dell'attuale "governante", dall'altro l'idea di rimettere in circolo le forze, di favorire il confronto, di aiutare a dialettizzare il "sociale" e il "politico" può essere positiva. Ma se la Francia ci dice qualcosa è che uno spazio a sinistra dei centrosinistra è ancora possibile e che per riempirlo davvero e proporre una via di uscita, autonoma e indipendente, alla crisi del capitalismo, occorre imboccare la strada di una rigenerazione complessiva.

Francia chiama Italia


Come era prevedibile il primo turno delle presidenziali francesi ha suscitato un ampio dibattito. La rielezione di Sarkozy o la vittoria di Hollande possono confermare o mettere in discussione le scelte economiche di fondo di tutta Europa. Va considerato inoltre che il loro esito può condizionare elezioni altrettanto importanti che si terranno tra meno di un anno in Germania e in Italia.
Occorre quindi aspettare l’esito del ballottaggio per fare una valutazione che prenda in esame questi scenari. Intanto però – sulla base del risultato dei vari candidati al primo turno – si possono fare alcune considerazioni.
Hollande, una vittoria risicata
Quasi tutti i commentatori ritengono che, con grande probabilità, il vincitore al secondo turno sarà il candidato socialista. A sostegno di questa tesi essi portano due argomenti: non era mai successo che il presidente uscente nelle elezioni per il secondo mandato venisse superato dallo sfidante e, mentre le forze alla sinistra di Hollande lo voteranno   (hanno dato infatti immediatamente indicazione di voto a suo favore), altrettanto non succederà per Sarkozy, poiché sia  Marine Le Pen sia Bayrou non hanno dato alcuna indicazione di voto. Questa situazione – nonostante che la differenza del risultato tra i due candidati sia risicata – ha fatto sì che molti esponenti politici di sinistra nel nostro Paese abbiano dato una valutazione positiva del primo turno delle presidenziali francesi.
Per quanto mi riguarda ritengo più corretta la valutazione – assai più cauta – data da Marco d’Eramo nell’editoriale de Il Manifesto del 24 aprile. Infatti se è vero che Hollande ha superato Sarkozy e il Front de Gauche ha avuto un ottimo risultato, è altrettanto vero che il sorpasso è molto risicato – poco più di un punto in percentuale – e che vi è stato un risultato forte della estrema destra (il successo di Marine Le Pen è il dato più rilevante di questo primo turno).
Per quanto riguarda i contenuti proposti dal candidato socialista è significativo sottolineare come essi si discostino significativamente da quelli proposti in Italia da Pd. Infatti mentre nei giorni scorsi in Italia è stato votato l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione (art. 81), la proposta più forte avanzata da Hollande è stata proprio la promessa di rivedere il Fiscal Compact. Altra differenza: mentre in Italia si è votata una controriforma pensionistica che ha portato  a 66 anni per uomini e donne l’accesso alla pensione – anche in questo caso con il voto del Pd – la proposta del candidato socialista è stata quella di riportare a 60 anni l’età con la quale si può accedere alla pensione (con una anzianità di lavoro di 42 anni).
Vedremo – qualora Hollande dovesse vincere le elezioni – se queste promesse saranno rispettate. Sappiamo che spesso ciò non avviene, come abbiamo dovuto constatare amaramente sia con l’esperienza del Governo Prodi sia con quella di Zapatero. Resta il fatto che queste proposte il Pd non si azzarda nemmeno ad avanzarle, e già questo è di per sé significativo.
Il Fronte Nazionale
Il risultato di Marine Le Pen è assai rilevante. Non può essere letto con l’argomentazione che la stessa percentuale la raggiunse il padre nel 2002. In questi 10 anni sono cambiate tantissime cose e, come giustamente sostiene Dominique Vidal, l’elettore-medio che ha votato oggi Marine Le Pen è in larga parte cambiato. Il voto a Le Pen è oggi profondamente collegato alla crisi economica, alla frantumazione del mondo del lavoro e alla crisi generale delle identità e delle ideologie. I messaggi di Le Pen che hanno fatto breccia hanno parlato direttamente alla pancia dei settori più deboli e più soli della periferia francese (non è un caso che a Parigi la percentuale del FN sia molto bassa, attorno al 6%). L’individuazione di diversi capri espiatori (l’Europa dei banchieri, gli immigrati, i partiti in egual misura corresponsabili di non aver fatto nulla) ha funzionato da obiettivo polemico per tutta quella parte di società francese che non vede prospettive e non crede che la politica possa dargliele. In questo senso si può dire che il Front National, molto probabilmente, ha intercettato un elettorato che avrebbe potuto riporre nella astensione le sue insoddisfazioni. Il fatto che la percentuale dei votanti sia stata – nonostante tutto – molto alta conferma questa ipotesi. Tuttavia l’errore più grave che la sinistra potrebbe fare nel valutare questo voto sarebbe quello di considerarlo un voto organicamente di destra, quindi irrecuperabile. Certo, è stato anche un voto xenofobo e neo-fascista, ma Le Pen ha fatto breccia anche e soprattutto perché le sinistre in questi decenni non sono state capaci  di dare una prospettiva ai settori più colpiti dalla crisi e non sono riuscite a costruire, dopo il crollo dei paesi dell’ Est, una nuova identità e una nuovo progetto di trasformazione che – pur riconoscendo il fallimento di quei tentativi – non rinunciasse a proporre una alternativa di società.
Il Front de Gauche
Il risultato di Melenchon è un bel risultato. È sciocco rapportarlo agli ultimi sondaggi che lo davano al 16% e, sulla base di questo, parlare di un risultato deludente. Anzi proprio questi dati hanno testimoniato una crescita – rispetto al dato di partenza – talmente impetuosa che nessuno aveva saputo prevederla. Il candidato del Front de Gauche, quando è iniziata la campagna elettorale, era accreditato tra il 3 e il 5%. Alle precedenti presidenziali la candidata del Pcf non raggiunse il 2%. Melenchon ha ottenuto più dell’11%, ha riempito le piazze, ha riportato al voto e all’impegno politico molti giovani. Per avere un risultato a due cifre bisogna tornare a trenta anni fa, quando il Pcf candidò Marchais: un’altra epoca storica!
È vero che alle presidenziali scorse ebbero un ottimo risultato le liste trotskiste e che questa volta sono praticamente scomparse. Tuttavia, anche sommando tutti i voti ottenuti dalle sinistre nelle presidenziali scorse, si arriva ad un consenso nettamente più basso di quello attuale.
Non penso di avere sufficienti elementi di conoscenza per spiegare il successo del Front de Gauche. Quello che posso dire è che le forze coinvolte e le modalità organizzative sono molto simili a quelle della Federazione della Sinistra e che quindi se tutto questo è stato possibile in Francia, può esserlo anche in Italia. Azzardo tre elementi che – a mio parere – hanno contribuito a conseguire questo risultato molto positivo. Il primo è stato l’aver proposto un programma elettorale radicalmente alternativo anche rispetto a quello proposto da Hollande, ma non di rottura con esso. La conferma di questo atteggiamento si è concretizzata la sera stessa del primo turno alla chiusura dei seggi quando Melenchon, senza nemmeno aspettare i risultati, ha dato indicazioni di voto per il candidato socialista. Il secondo elemento è stato quello di aver investito molto nella comunicazione, costruendo un messaggio innovativo, allegro, ironico. Distante anni luce dalla cupezza e dal grigiore con cui solitamente la sinistra si propone. Basta vedere questo cliccatissimo video per rendersene conto. In terzo luogo ha funzionato il personaggio. Anche su questo basta guardare il video del comizio di chiusura della campagna elettorale per rendersi conto del carisma e della capacità comunicativa del candidato del Front de Gauche.
In conclusione, a maggior ragione dopo questo risultato elettorale, ci sentiamo di affermare due concetti. In tutta Europa si possono determinare ciclicamente degli arretramenti o degli avanzamenti della sinistra comunista o di alternativa, ma è un dato di fatto che essa abbia uno spazio politico rilevante da rappresentare come si vede in Francia, Spagna, Germania, Portogallo, Grecia, per citare i Paesi più importanti, dove raggiunge – mediamente – consensi attorno al 10%.  Resta quindi valida la tesi delle due sinistre. Pensare che quella di alternativa possa entrare in quella moderata è un errore madornale non solo perché espunge qualsiasi progetto di superamento del sistema capitalistico, ma perché consegnerebbe all’astensionismo milioni di persone e farebbe scivolare ancor più a destra le forze di sinistra moderata.
Il secondo elemento è che se in un decennio in Germania, Francia e Spagna le sinistre comuniste e di alternativa sono riuscite ad uscire da una crisi che sembrava irrisolvibile, ciò significa che la stessa cosa può avvenire anche in Italia. Ma per farlo occorre avere l’umiltà di “mettersi a disposizione” per questo progetto. La Federazione della Sinistra deve farlo, riconoscendo che ben pochi dei suoi obiettivi iniziali si sono realizzati. Ma la stessa cosa dovrebbe farla anche Sel, visto che tutto il suo progetto (dentro al centrosinistra per competere attraverso le primarie alla guida del centrosinistra stesso) è completamente saltato. Se si mettesse in campo reciprocamente questa volontà si materializzerebbe immediatamente anche in Italia quanto avvenuto in Francia, Spagna e Germania. Al momento, purtroppo, qualcuno pensa di fare tutto da solo. Ma è una illusione, un ragionamento miope. Facciamo il possibile per evitarlo!
 
Claudio Grassi - www.claudiograssi.org

Intervista a Nichi Vendola

Hollande o Monti: Bersani decida

Intervista a Nichi Vendola: «A Firenze per approfondire, pronti a interloquire con il ‘soggetto politico nuovo’». «Il leader Pd parla di Italia bene comune? Difenda il paese dal rigorismo. E ascolti: il governo ha fallito, il prezzo rischia di pagarlo il centrosinistra»
La discussione italiana sulla vittoria di Hollande, dice Nichi Vendola al telefono, dalla macchina con cui in questi giorni sta girando l’Italia per la campagna elettorale ogni volta che può lasciare la Puglia, «è tutta allusiva e simbolica, non considera i programmi. C’è la gara a intestarsela, fino persino all’hollandismo di Tremonti. Non ci si accorge che il profilo politico-programmatico di Monti è quanto di più distante da Hollande. È anche un po’ più a destra di Sarkozy. E questo perché i politici liberisti, a differenza dei tecnici liberisti, un qualche problema di rapporto con il welfare ce l’hanno. Le cose che dice Hollande, per esempio la tassazione dei patrimoni, l’abbassamento dell’età pensionabile, la rinegoziazione del fiscal compact, in Italia sarebbero definite ‘una deriva estremistica’».

Sta dicendo che Bersani dovrebbe decidere se stare con Hollande o con Monti?
Dobbiamo riflettere sul Front national, su quei 6 milioni e mezzo che hanno scelto la politica della collera e del sentimento. Anche in Italia siamo in presenza di una miscela esplosiva: recessione senza un varco di luce, disoccupazione di massa, crollo di credibilità dei partiti. A Bersani dico: le ricette del governo Monti si rivelano un fallimento, e il prezzo può essere messo per intero sulle spalle del centrosinistra. Occorre dare un segnale forte, non con la politica-spettacolo o con il marketing elettorale. Occorre convocare gli stati generali del futuro con tutti i soggetti portatori di domanda di alternativa. I partiti del centrosinistra debbono mobilitare tutte le forze in campo, connettersi ai mondi che nell’associazionismo, nel volontariato, nell’intellettualità, nell’università, nella fabbrica, nelle reti degli amministratori, provano a ragionare sull’uscita dal liberismo.

Oggi Bersani dice: sì a ratificare il fiscal compact, purché integrato con politiche di crescita.
Io sottoscrivo il programma di Hollande che critica il dogma liberista. Che comanda, per esempio, agli stati nazionali di mettere in Costituzione il pareggio di bilancio.

Altro provvedimento a cui il Pd ha detto sì.
Errore gravissimo. E comunque ormai è evidente che le ricette dell’austerità sono catastrofiche. Portano alla Grecia, un paese che dopo gli incalzanti salassi sociali ed economici si ritrova con un debito doppio rispetto all’inizio della crisi. Infatti è scomparsa dai Tg. Molti si vergognerebbero di parlarne.

In Francia Mélenchon dice cose simili a queste, sulla Grecia.
Mélenchon ha fatto un risultato importante. Ma la mia priorità è l’idea di invertire la tendenza in Europa. Puntando sul fatto che le sinistra in Europa cominciano a mettere a tema la fuoriuscita dal liberismo. L’Italia è in ritardo. Se io dicessi le cose che dice un premio Nobel come Paul Krugman, qualche cicisbeo presunto progressista mi taccerebbe di radicalismo.

Questi suoi stati generali sono parenti del soggetto politico nuovo che farà la sua prima assemblea a Firenze sabato prossimo?
Sel è nata sulla pratica di una ricerca senza paletti, nominando l’inadeguatezza della forma partito, inclusa la propria. Sono interessato al soggetto nuovo. Chi lo promuove ragiona in chiave metodologica e con molti argomenti, alcuni dei quali condivisbili, altri meritevoli di approfondimento. Un asse culturale che Rossana Rossanda ha criticato con veemenza, segnalando uno scivolamento fuori dalla centralità della questione del lavoro.

La pensa anche lei così?
Voglio discuterne. A Firenze non ci sarò, in questi giorni sono in campagna elettorale. Ma Sel ci sarà. Ascolteremo, parleremo. Vogliamo essere interlocutori. Lo siamo sempre di chi si chiede come aggregare forze, energie, massa critica di esperienze e desideri per mettere in campo una sinistra libertaria, non testimoniale e anche affascinata dalla sfida del governo.

Ma l’obiettivo di Sel resta quello di un’alleanza più vasta?
Al centro della costruzione dell’alleanza bisogna metterci che Italia vogliamo. Occorre un supplemento di riflessione a proposito dei moderati e del moderatismo, categorie assunte dalla discussione pubblica alla stregua di formule magiche. La realtà ci dice che non ci sono più spazi di compromesso con il liberismo, e che il liberismo è una minaccia per gli equilibri ambientali, sociali e democratici.

La campagna delle amministrative del Pd si intitola «Italia bene comune». I «beni comuni», asset programmatico del «soggetto politico nuovo» fanno nuovi adepti, oppure Bersani si è appropriato di uno slogan che funziona?
Sono contento dell’arricchirsi del vocabolario del centrosinistra. Ma se il lavoro è un bene comune bisogna lottare contro la legge 30 e in difesa dell’art.18. E se l’Italia è un bene comune bisogna salvarla dal rigorismo furioso di chi la sta portando in una drammatica depressione economica. E bisogna avere il coraggio di imporre la tassazione patrimoniale sui grandi redditi e le grandi ricchezze. Non è possibile ascoltare da un esponente del governo che ‘la patrimoniale l’abbiamo già fatta con l’Imu’, come ha detto il viceministro Grilli. Quella è la patrimoniale sui ceti medio-bassi: ma ne aveva già fatte Berlusconi.

Il manifesto del ‘soggetto nuovo’ fa una dura critica ai partiti. La sentite anche su di voi?
Siamo un ‘soggetto’, non gonfio di boria di partito, nato tematizzando la necessità della ricerca per un nuovo soggetto politico. L’obiettivo di Sel non è Sel, è contribuire alla nascita di una sinistra popolare, plurale, innovativa. Possiamo portare un contributo. Intanto dicendo che i rischi da evitare sono due: un dibattito tutto metodologico e le scorciatoie organizzativistiche.

Fate parte di un’area, un ‘quarto polo’ in cerca, come dice Arturo Parisi, di un nuovo Prodi?
Abbiamo bisogno di leader e non di leaderismo. Di progetti collettivi più che di demiurghi. Il carisma necessario al cambiamento dev’essere quello della democrazia, non quello delle virtù individuali.

Il Bersani che ha appoggiato Monti ma ora tifa per Hollande è ancora l’uomo giusto per guidare la prossima alleanza di centrosinistra?
Bersani è un interlocutore prezioso, il popolo democratico è fondamentale per la prospettiva di alternativa di governo. L’alleanza non è un fermo-immagine, è un processo politico. Come è successo nei referendum, l’irruzione di un protagonismo largo e orizzontale può spostare in avanti l’asse programmatico e culturale di una coalizione. Per questo parlo di stati generali del futuro. Anche il centrosinistra ha bisogno di proiettarsi nel futuro.

Berlusconi dice che la sinistra, intendendo però Bersani, vuole andare al voto a ottobre senza fare nuova legge elettorale. A lei l’idea non dispiacerebbe.
A proposito della legge elettorale, ricordo che il mestiere della politica non è quello del Gattopardo. Quanto al voto, l’inconcludenza del governo Monti dal punto di vista delle politiche di sviluppo e di crescita, e la pesantezza depressiva delle sue scelte, implementa la sofferenza del paese. Prima si interrompe quest’esperienza meglio è.

Daniela Preziosi - il manifesto 

Caro Niki il PD ha scelto l'austerity, non il futuro

«A Bersani dico: le ricette del governo Monti si rivelano un fallimento, e il prezzo può essere messo per intero sulle spalle del centrosinistra. Occorre dare un segnale forte, non con la politica-spettacolo o con il marketing elettorale».
Dalle pagine de «Il Manifesto» Nichi Vendola, rilancia l'accordo con il PD. «Occorre convocare gli Stati Generali del futuro - prosegue il leader di Sel - con tutti i soggetti portatori di domanda di alternativa. I partiti del centrosinistra debbono mobilitare tutte le forze in campo, connettersi ai mondi che nell'associazionismo, nel volontariato, nell'intellettualità, nell'università, nella fabbrica, nelle reti degli amministratori, provano a ragionare sull'uscita dal liberismo. Non è possibile poi - insiste Vendola - ascoltare da un esponente del governo che 'la patrimoniale l'abbiamo già fatta con l'Imù, come ha detto il viceministro Grilli. Quella è la patrimoniale sui ceti medio-bassi: ma ne aveva già fatte Berlusconi». «L'inconcludenza del governo Monti dal punto di vista delle politiche di sviluppo e di crescita, e la pesantezza depressiva delle sue scelte, implementa la sofferenza del Paese. Prima si interrompe quest'esperienza meglio è».
Non sappiamo se Vendola mentre scriveva questo appassionato articolo contro Monti abbia visto l'ultima svolta di Bersani rispetto all'approvazione del Fiscal Compact da parte del PD. Altro che Hollande, in Italia invece di rompere con le ricette della Merkel il PD le approva per intero. Per chi non lo sa il Fiscal Compact prevede il rientro forzato del debito con una ventina di manovre da 40 miliardi, in un quadro in cui le scelte saranno determinate dall'Europa. A questa cifra occorre sommare il risanamento imposto dal vincolo di bilancio che impone la costituzione recentemente manomessa. Onestamente non vediamo molto futuro in un cantiere con una forza politica che in questi giorni sta consegnando il nostro paese alla recessione certa con scelte così fondamentali. Più che organizzare convegni e cantieri con il PD noi pensiamo che sia molto più utile che la sinistra scenda in piazza unita ed organizzi l'opposizione a Monti.

mercoledì 25 aprile 2012

Elezioni 6 7 maggio 2012


Eolo Barcaccia
Vivo a Deruta dove sono nato 60 anni fa. Sono diplomato presso l'Istituto D'Arte di Deruta e dal 1980 sono impiegato presso l'Università Per Stranieri di Perugia. Dal 1996 al 2006 sono stato membro del consiglio d'amministrazione della stessa.
Da sempre sono stato impegnato nel lavoro sindacale e in politica, prima in Democrazia Proletaria e poi in Rifondazione Comunista, partito che rappresento nella lista "Uniti per Deruta – Una città in Comune”".
Sono molto appassionato di sport che, da giovane, ho praticato a livello agonistico e che ora invece svolgo a livello amatoriale.

CARA ELETTRICE CARO ELETTORE
MI CANDIDO perché credo che in questo periodo di profonda crisi economica, sociale e politica c'è bisogno una ventata di aria nuova in grado di affrontare con decisione e determinazione i problemi che affliggono tutti noi: mancanza di lavoro e di sviluppo, iniquità fiscale, eccessiva burocrazia, scarsa trasparenza amministrativa, poca sicurezza sociale e personale dei cittadini.
MI CANDIDO per combattere la rassegnazione che vedo crescere fra i cittadini di fronte al degrado della politica attuale.
MI CANDIDO per città sempre più aperta al mondo, attrattiva e innovativa, accogliente e solidale. Una città capace di garantire un futuro meno incerto nel lavoro e nelle aspirazioni di ogni cittadino, facendo una chiara scelta politica rispetto alle condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori.
MI CANDIDO per una città che sempre più si distingua per qualità della vita, opportunità e senso civico. Una città che fa della persona umana, soprattutto quella che fatica di più, il centro e il metro della politica amministrativa.
MI CANDIDO per una città che valorizzi ad ogni livello le risorse dell'associazionismo e del volontariato, cuori pulsanti della comunità civile. Una città capace, nell'elaborazione delle politiche comunali, di raccogliere, rielaborare e far proprie le istanze provenienti dai quartieri e dalle frazioni, armonizzando le loro specificità in un disegno unitario e coerente.
MI CANDIDO per una città caratterizzata dalla difesa dei beni comuni (acqua, territorio, servizi sociali) e capace di impostare un nuovo modello di sviluppo locale basato su piano rifiuti zero, risparmio energetico, energie ecosostenibili, valorizzazione dell'ambiente, del territorio e delle tradizioni culturali e artigianali del nostro comune.
MI CANDIDO per un modello di città orientata alla democrazia partecipativa, alla solidarietà, all'equità e alla giustizia sociale.
Mi candido: per un'altra politica, 
per “una città in comune”

Ma la Resistenza non è stata un pranzo di gala - di Matteo Pucciarelli, Micromega


Dietro al concetto politicamente corretto del “rispetto dell’avversario” che tanto va di moda, e che parifica idee diverse tra loro come egualmente legittime, si nasconde la grande bugia – resa verità a buon mercato – di questi ultimi venti-trenta anni di sdoganamento storico e morale del neofascismo italiano.
Il disegno insito nella più grande ideologia moderna – spacciata come dottrina anti-ideologica per eccellenza – è quello degli opposti estremismi. Utile e finalizzato a mettere sullo stesso piano partigiani e ragazzi di Salò. Studenti del liceo di “estrema sinistra” e di “estrema destra”. La curva con la bandiera del Che Guevara e quella con gli slogan nazisti. I libri neri sul comunismo e quelli sul nazifascismo. Le foibe da una parte, i rastrellamenti a Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e tutto il resto dall’altra. Tutti colpevoli, e allora tutti uguali. E quindi, se i ”rossi” possono parlare perché non posso farlo anche i “neri”?
Di un fraintendimento del genere è rimasta vittima anche la sinistra. Il primo a legittimare il Msi fu, non a caso, un socialista: Bettino Craxi. Oggi ci si accontenta dei Piero Sansonetti, dei Giampaolo Pansa, dei Luciano Violante, dei grillini che citano Pertini a sproposito: perché la tolleranza – secondo loro – va applicata sempre e a tutti, anche verso chi dell’intolleranza fa il proprio credo.
Invece – vaglielo a spiegare – i nostri padri costituenti ci avevano spiegato già tutto, ben prima che questi novelli guru si erigessero a paladini delle libertà (di far danno). Se avessero vinto i ragazzi di Salò, quelli come Togliatti, Nenni e De Gasperi sarebbero stati confinati a Lipari, a voler essere buoni. Vinse la democrazia, e gli Almirante, i Romualdi e i Michelini poterono accomodarsi tranquillamente in parlamento. Ecco qual è stata la differenza, la riprova di chi allora stava nel giusto e chi nel torto.
La Resistenza non è stato un pranzo di gala. È stata sangue, violenza e sacrificio. Sangue di innocenti contro sangue di colpevoli. Il buonismo da salotto di settanta anni dopo è partigiano. Partigiano dalla parte sbagliata. Chi crede ancora in quei valori non fa paragoni né celebra riti di equidistanza. Le cose vanno dette per quel che sono, senza derubricarle a folklore: chi non festeggia il 25 aprile, oggi come allora, è un nemico della democrazia.