venerdì 29 aprile 2016

Sinistra Europea. Appello


Sinistra Europea. Appello



Sul Manifesto oggi un appello all’adesione individuale al Partito della Sinistra Europea sottoscritto da un gruppo di autorevoli compagne e compagni, molti dei quali hanno condiviso con noi l’esperienza dell’Altra Europa. Come noto il nostro partito è tra i fondatori e fa parte della Sinistra Europea insieme a Izquierda Unida, Syriza, Linke, PCF e tante altre formazioni comuniste e della sinistra radicale. L’iscrizione al PRC comporta anche l’adesione al Partito della Sinistra Europea. Da anni proponiamo che la scelta di quel riferimento europeo sia uno dei terreni su cui costruire una soggettività unitaria della sinistra antiliberista italiana. Giudichiamo quindi molto positivamente questo appello e auspichiamo che segni il rilancio del progetto della Sinistra Europea in Italia.
Il dramma dei migranti, l’assedio della austerità, la messa in mora della democrazia, lo smantellamento delle conquiste sociali, il ricorso sistematico alla guerra praticati dalle «classi dirigenti europee» ci dicono che una intera civiltà, quella di un compromesso sociale avanzato, frutto di decenni di lotte e passato anche attraverso gli orrori del secolo, viene rottamata.
 Noi che da molto tempo ci impegniamo in tanti movimenti e tante lotte che hanno attraversato lo stesso scenario europeo sentiamo però un enorme divario nei rapporti di forza. Le «classi dirigenti» hanno costruito un sistema di potere post democratico e a-democratico che ha messo insieme i tratti peggiori dei poteri della globalizzazione in un accordo scellerato che dismette ogni idea di bene comune e mette in conto la rovina dei più.
 Purtroppo questo processo non ha trovato capacità di risposta adeguata da parte del movimento operaio, delle sinistre, dei democratici, la cui efficacia è rimasta confinata nelle vecchie dimensioni. Essi hanno finito per dividersi tra una parte, maggioritaria, cooptata dai poteri dominanti e ormai corresponsabile e una parte, minore, che ha tentato la resistenza.
 Ci sono stati e ci sono grandi movimenti, dai pacifisti, ai social forum, alle lotte contro l’austerità, ai migranti, a quelli per una nuova centralità mediterranea. La Francia sta conoscendo una nuova stagione di conflitti sociali. Ci sono resistenze come quella greca. Ma non si è ancora costruita una nuova dimensione europea del movimenti dei lavoratori e delle lavoratrici, dei movimenti ambientalisti, sociali, dei diritti e della sinistra.
 Ci sono tentativi importanti che provano ad andare in questa direzione. Tra loro il Partito della Sinistra Europea. Nato dall’impegno di molte forze di alternativa in tutta Europa tra cui, in Italia, Rifondazione Comunista. Il Partito della Sinistra Europea è l’unico partito che nella sua interezza si è schierato e ha lottato contro l’austerità, il liberismo, le guerre, per i migranti. Che ha sistematicamente lavorato con e per i movimenti. Che fa prevalere le logiche sociali a quella della sommatoria degli interessi delle singole realtà. Inoltre prevede anche l’iscrizione individuale ad indicare la volontà di voler essere un soggetto che non è solo punto di incontro di forze organizzate ma pienamente e democraticamente a disposizione di tutte e tutti.
 Di questa importante facoltà decidiamo di chiedere di avvalerci e proponiamo di farlo alle tantissime persone che condividono l’esigenza di un nuova dimensione della politica. Chiediamo e proponiamo cioè di iscriverci individualmente al Partito della Sinistra Europea. Vogliamo cosi contribuire a un salto di qualità della politica che non può avvenire se non in una chiave europea, ponendosi all’altezza della sfida di oggi che vive precisamente nei territori e nella dimensione continentale.
Vogliamo cosi contribuire anche alla crescita, al rafforzamento, all’allargamento e all’espansione del Partito della Sinistra Europea, come punto di riferimento per una alternativa indispensabile e al suo divenire compiutamente un soggetto che esprime una politica europea e mediterranea animata direttamente dai suoi aderenti.
Nanni Alleva, Francesco Auletta, Sergio Brenna, Elisabetta Cangelosi, Loris Caruso, Paolo Favilli, Alfonso Gianni, Guido Liguori, Andrea Maccarrone, Graziella Mascia, Giovanni Mazzetti, Sandro Medici, Eugenio Melandri, Roberto Musacchio, Edda Pando, Luigi Pandolfi, Monica Pasquino, Gabriele Pastrello, Tonino Perna, Marco Revelli, Gianni Rinaldini, Tiziano Rinaldini, Mimmo Rizzuti, Giulia Rodano, Antonia Romano, Bia Sarasini, Massimo Torelli, Giovanna Vertova
Per adesioni: info@sinistraeuropea.eu

giovedì 28 aprile 2016

Stop TTIP 7 maggio Manifestazione Nazionale a Roma


Stop TTIP 7 maggio  Manifestazione  Nazionale a Roma


INSIEME PER FERMARE 
IL TTIP
7 maggio  
Manifestazione  Nazionale
Roma h 14,30 corteo da p.za Repubblica a p.za del Popolo+ Concerto
 Unione Europea e USA stanno negoziando da quasi tre anni il Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (TTIP), il cui obiettivo, al di là della riduzione dei già esigui dazi doganali, è soprattutto quello di ridefinire le regole del gioco del commercio e dell’economia mondiale, anche attraverso l’armonizzazione di regolamenti, norme e procedure su beni e servizi prodotti e scambiati nelle due aree.
L’Unione Europea e gli Stati Uniti presentano questo accordo come una questione tecnica, invece si tratta di argomenti che toccano da vicino la quotidianità di tutti: l’alimentazione e la sicurezza alimentare, le prospettive di sviluppo economico e occupazionale, soprattutto delle piccole e medie imprese, il lavoro e i suoi diritti, la salute e i beni comuni, i servizi pubblici, i diritti fondamentali, l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge e la democrazia.
Da ora al prossimo giugno, i negoziati entrano in una fase decisiva. Infatti, nonostante gli incontri negoziali siano ben lungi dall’aver trovato un accordo su molti dei punti in agenda, esiste una forte pressione per produrre una sintesi prima che le elezioni statunitensi entrino nel vivo con il rischio di regalare ai cittadini un esito molto pericoloso: un accordo quadro generico, che permetta ad USA e UE di sbandierare il risultato raggiunto, per poi procedere alla sua applicazione dettagliata attraverso tavoli “tecnici”, che opereranno con ancor più segretezza eopacità di quelle che da tempo denunciamo.
In questo modo inoltre il governo degli Stati Uniti, la Commissione Europea e le multinazionali che spingono il TTIP vorrebbero ottenere il risultato di depotenziare la protesta, che in questi tre anni si è estesa a macchia d’olio su entrambe le sponde dell’Atlantico, mettendo assieme comitati, associazioni di movimento, organizzazioni contadine e sindacali, consumatori, cittadine e cittadini, che hanno rivendicato trasparenza e sfidato la segretezza che ha circondato lo sviluppo del negoziato sul TTIP.
Una campagna che denuncia il delinearsi di un nuovo quadro giuridico pericoloso per i diritti e la democrazia, nel quale i profitti delle lobby finanziarie e delle grandi imprese multinazionali prevarrebbero sui diritti individuali e sociali, sulla tutela dei consumatori, sui beni comuni e sui servizi pubblici, negando nei fatti un modello di sviluppo e di economia attento ai lavoratori, alla qualità e all’ambiente.
Il TTIP minaccia i diritti dei lavoratori, la tutela dell’ambiente e la sicurezza alimentare, mette sul mercato sanità, istruzione e servizi pubblici, pone a rischio la qualità del cibo e dell’agricoltura e l’attività di gran parte delle piccole e medie imprese.
Il TTIP è anche un attacco alla democrazia, permettendo alle imprese multinazionali di chiamare in giudizio tramite strumenti di arbitrato estranei alla magistratura ordinaria e ad esse riservati in esclusiva, qualsiasi governo che con le proprie normative pregiudichi i loro profitti, limitando e disincentivando di fatto l’esercizio del diritto a legiferare di parlamenti, governi e amministrazioni locali democraticamente eletti.
In questi tre anni anche in Italia è nata e si è diffusa la campagna Stop TTIP, costruendo – territorio per territorio – informazione, sensibilizzazione e mobilitazione sociale.
Data la fase in cui sta entrando il negoziato TTIP, è arrivato il momento di costruire, tutte e tutti assieme, un grande appuntamento nazionale sabato 7 maggio 2016 a Roma.
Chiediamo a tutte le donne e gli uomini da sempre attivi in difesa dei diritti e dei beni comuni, ai sindaci, ai comitati, alle reti di movimento, alle organizzazioni sindacali, alle associazioni contadine e consumeristiche, agli ambientalisti e al mondo degli agricoltori e delle piccole imprese e a tutti quanti hanno a cuore la democrazia, di costruire assieme a noi una grande manifestazione nazionale e promuovere iniziative di informazione dei cittadini e di approfondimento sulle conseguenze del TTIP con la partecipazione dei diversi soggetti coinvolti.
Per fermare il TTIP. Per tutelare i diritti e i beni comuni. Per costruire un altro modello sociale ed economico, per difendere la democrazia.
Tutte e tutti insieme è possibile.
CAMPAGNA STOP TTIP ITALIA
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webhttp://stop-ttip.italia.net _ facebookhttps://www.facebook.com/StopTTIPItalia/ _ twitter: StopTTIP_Italia
Le organizzazioni promotrici 
AAM Terra Nuova, Abruzzo Social Forum, Adista, ADL Varese, Agices, Aiab, l’Altracittà – giornale di periferia, Altragricoltura, AltragricolturaBio, Altramente, Amici della Terra Versilia, ANS XXI, Arci, Arcs, Associazione Agri.Bio Emilia-Romagna, Associazione Botteghe Del Mondo, Associazione Culturale Punto Rosso, Associazione InFormazione InMovimento Legnano, Associazione Italia Nicaragua, Associazione La Fierucola APS, Associazione La Goccia, Associazione Malattie da Intossicazione Cronica e/o Ambientale (A.M.I.C.A.), Associazione Medici per l’Ambiente – ISDE Italia, Associazione Monastero del Bene Comune, Associazione Politico Culturale LA ROSSA – Lari, Associazione Rurale Italiana, Associazione “SI alle energie rinnovabili NO al nucleare”, Associazione Sonia per un mondo nuovo e giusto, Associazione Utoya- Luoghi di Espressione Politica, A Sud, Attac Grosseto, Attac Italia, Ca’ Mariuccia – Agricoltura Etica, Banca Etica, Cambiamo Messina dal basso, Centro di documentazione e di progetto “don Lorenzo Milani” di Pistoia, Centro Internazionale Crocevia, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, CETRI-Tires, CGIL Camera del Lavoro di Brescia, CGIL Flai Alessandria, CGIL Flc Emilia Romagna, CGIL Funzione Pubblica nazionale, Cipax, Cipsi, Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa, Circolo Giordano Bruno – Milano, Circolo Legambiente “Gaia” di Foggia, Civiltà Contadina, Comisión Europea Derechos Humanos Y Pueblos Ancestrales, Comitato acqua pubblica Salerno, Comitato Beni Comuni Monza e Brianza, Comitato Bolognese del Forum Salviamo il Paesaggio, Comitato Lavoratori Cileni Esiliati, Comitato per la Pace Rachel Corrie (Valpolcevera Genova Bolzaneto), Comitato Roma 12 per i Beni Comuni, Commissione Audit Parma, Comune-Info, Comunità Cristiane di Base – Torino, Comunità delle Piagge – Firenze, Confederazione Cobas, Consorzio CAES, Consorzio della Quarantina, Cooperativa agricola Valli Unite, Cooperativa Fair, Coordinamento Nord Sud Del Mondo, Coordinamento SCI Italia, Cospe, Coordinamento Zero OGM, Costituzione Benicomuni, Difendiamo i Territori Monopoli, Distretto di Economia Solidale Alt(r)oTirreno – Pisa, Ecomapuche – Amicizia Con Il Popolo Mapuche,  Econo)mia:)Felicità – Associazione di Promozione Sociale, EPIC (Economia Per I Cittadini), eQual, Ennenne, Fabbrikando l’Avvenire, Fairwatch, Federazione nazionale Pro Natura, Fiom, Flai CGIL, Fondazione Capta onlus, Fondazione Cercare Ancora, Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Forum cittadini del mondo R. Amarugi, Forum Italiano Dei Movimenti Per L’acqua, Forum per una nuova finanza pubblica e sociale, Fratelli dell’uomo, GAS BioRekk, GAS Filo di Paglia, Global Project, Ibfan Italia, Il Bolscevico, Il Fatto Alimentare, Incontro fra i Popoli Ong, Indipendenti per Cardano, Laboratorio Urbano Reset, LAV, Legambiente, Legambiente circolo Terre di Parchi, Libera, Libera Federazione Donne- Casa delle Donne di Lecce, Libera Tv Lazio, LIDU – Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo, Link – Coordinamento Universitario, Mag 4 Piemonte, Mais, Mani Tese, Maurice GLBTQ, Medici Senza Camice, Medicina Democratica Onlus, M.I.R. Movimento Internazionale della Riconciliazione, Movimento Civico Noi ci Siamo – Francavilla Fontana, Movimento Consumatori, Mst-Italia, Movimento Decrescita Felice, Municipio Dei Beni Comuni – Pisa, NATs per… Onlus, NaturalMENTE Monopoli, No Austerity – Coordinamento delle lotte, No Scorie Trisaia, Osservatorio Italiano Sulla Salute Globale, Pax Christi Taranto, People Health Movement, Progetto Rebeldia – Pisa, Progressi, Re:Common, REES Marche, Reorient, Retepopolare – Istituto Generale del Buon Governo, Rete Della Conoscenza, Rete per l’Economia Solidale della Valdera, Rete Semi Rurali, Ri-Costituzione, #Salvaiciclisti Monopoli, Salviamo il paesaggio Monopoli, Sbilanciamoci, Scup, Sindacato Italiano Lavoratori, Sinistra contro l’euro, Slow Food, Sos Geotermia – Coordinamento Dei Comitati In Difesa Dell’Amiata, Sos Rosarno, Spazi Popolari – Agricoltura-Organica-Rigenerativa, Teleagenzia 1, Terra d’Egnazia, Terra Nuova, TerraViva, Transform! Italia, Un Ponte Per, Unione Degli Studenti, Unione Sindacale di Base, Unione Sindacale Italiana, Viviconsapevole, Yaku, WWF Monopoli, WWOOF Italia
I sostenitori
ALBA – Alleanza Lavoro Beni Comuni Ambiente, Comitati trentini per l’altra Europa con Tsipras, Comitato Tsipras Etruria, Convergenza Socialista, Isabella Adinolfi (Eurodeputata Movimento 5 Stelle), Roberto Cotti (Senatore Movimento 5 Stelle / Sardegna), Federica Daga (Deputata Movimento 5 Stelle / Lazio 1), Dario Tamburrano (Eurodeputato Movimento 5 Stelle), Ecologisti Democratici (Circolo di Firenze), Lista Civica Indipendente Pianezz@ttiva, Lista L’Altra Europa con Tsipras, MeetUp Cosenza “Amici di Beppe Grillo”, Meetup Udine Sud – Cussignacco, Movimento 5 Stelle Cecina, Partito EcoAnimalista, Partito Marxista Leninista Italiano, Partito Pirata Italiano, Partito Umanista, perUnaltracittà – laboratorio politico Firenze, Rifondazione Comunista, Rifondazione Comunista Biella, SEL, Sinistra Anticapitalista, Sinistra Italiana, Speranza per Caserta, Verdi

Che cos'è, semplicemente, il neoliberismo di Alessandro Gilioli


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Ieri un'amica economista, per divertirsi, ha calcolato che, per guadagnare quello che Marchionne prende in un anno, un voucherista italiano dovrebbe lavorare 2.500 anni tutti i 365 giorni dell'anno. Un rapporto 1 a 2.500, pertanto, ipotizzando generosamente che anche Marchionne non riposi nemmeno un giorno.
Diceva Adriano Olivetti che «nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l'ammontare del salario minimo». Il capitalismo italiano è insomma passato in mezzo secolo dalla teorizzazione di un rapporto 1 a 10 alla pratica di un rapporto 1 a 2.500.
Quella che vedete qui sopra è una delle tabelle più note del libro con cui Thomas Piketty, nel 2013, ha preso d'assalto tre decenni di egemonia culturale, politica e fattuale della destra economica. Mostra la quota di reddito in percentuale del 10 per cento più ricco nell'ultimo secolo e illustra in modo immediato quello che è successo in Europa e negli Stati Uniti.
Ci sono diverse cose, in questo grafico.
Ad esempio c'è la rappresentazione plastica della parola "neoliberismo", su cui alcuni ironizzano come se fosse un'invenzione dietrologica, una proiezione da complottisti, invece qui si palesa in tutta la sua chiarezza: è, semplicemente, quella cosa che ha iniziato a far schizzare in su le due linee, dopo che i vari new deal, patti sociali, socialdemocrazie o altre forme di mediazione tra alto e basso le avevano fatte gradualmente scendere, per mezzo secolo abbondante. Ad esempio a quelli del Foglio, che si baloccano con la rubrichetta "Tutta colpa del neoliberismo", bisognerebbe ogni volta sbattergli in faccia questa tabella: magari, con un disegnino, capiscono.
Curiosamente - e questa è un'altra cosa che emerge dal grafico qui sopra - il mezzo secolo in cui diminuiva il distacco tra più ricchi e più poveri ha coinciso con il periodo di maggior avanzamento complessivo delle società.
Forse non è un caso: una buona parte della letteratura economica, negli ultimi tempi, sta avanzando seriamente l'ipotesi che oltre un certo livello le disuguaglianze producano danni per tutti. Lo ha fatto Robert Reich, in un libro già citato in questo blog. Lo fanno ora anche Maurizio Franzini e Mario Pianta nel loro ultimo saggio, "Diseguaglianze", da poco uscito per Laterza.
La loro analisi su questo punto - basata soprattutto su dati Fmi e Ocse (quindi non proprio fonti di estrema sinistra) - è prettamente di carattere economico, cioè relativa agli effetti sulla crescita di un Paese. Qualche anno fa, Richard Wilkinson e Kate Pickett - in un libro che andrebbe fatto studiare in tutte le scuole - mostrarono dati alla mano come una forbice sociale eccessiva genera anche più violenza, più ignoranza e maggiore disagio psichico. È di questi ultimi mesi invece l'evidenza che, oltre a tutto questo, l'eccesso di disparità sociali si ripercuote in crescenti espressioni politiche di tipo nazionalista e neofascista, dagli Stati Uniti all'Europa.
A proposito di Europa: oggi nel Vecchio continente, scrivono Franzini e Pianta, «il 20 per cento delle persone ha un patrimonio pari a zero (o debiti che superano i risparmi), mentre il secondo quintile possiede una ricchezza media di 29.400 euro, il terzo di 111.900 euro, il quarto di 235 mila euro: fino al quinto degli europei, che ha ricchezze per 780.700 euro, possedendo così il 68 per cento della ricchezza totale.
Il tutto in un quadro di capitalismo sempre più oligarchico, cioè riservato a pochi, e sempre più dinastico, cioè con un ascensore sociale quasi fermo.
Quest'ultimo è un problema di cui in Italia si parla poco. Anche a sinistra, devo dire. Ed è un po' uno scandalo: tra l'altro, dopo la riforma Berlusconi appena ritoccata da Monti, siamo e restiamo uno dei paesi al mondo con le tasse di successione più basse. E, come si vede dalla tabella sotto, siamo secondi tra i Paesi sviluppati nella pessima classifica di trasmissione generazionale delle disuguaglianze (grafico tratto dal libro di Franzini e Pianta). Schermata 2016-04-28 alle 15.34.05
Insomma "la famiglia conta", come nel titolo di uno dei capitoli del saggio in questione. Conta per eredità, ma anche per istruzione (tasse universitarie comprese) e rete di relazioni. E questa realtà, oltre a essere un fattore chiave del capitalismo oligarchico, fa un po' di chiarezza sulle tante balle che si sentono in giro relative alle "uguali opportunità" come forma che rende accettabili, se non giuste, le disuguaglianze.
Le posizioni di rendita invece sono il primo tratto caratterizzante dell'economia contemporanea e del capitalismo oligarchico.
Accanto al quale, s'intende, ci sono anche altri motori di diseguaglianza, spiegano Franzini e Pianta: ad esempio, la maggiore rilevanza nella produzione di redditi assunta dal capitale rispetto al lavoro, soprattutto per via finanziaria e per trasformazioni tecnologiche (tema su cui in questo blog ho rotto le scatole spesso); ma anche, terzo punto, l'individualizzazione delle condizioni economiche, cioè la fine delle classi organizzate, delle loro categorie, dei loro sindacati: con la riduzione del lavoratore a monade solitaria e disperata che ogni giorno mette insieme pezzettini di reddito molecolare.
Il quarto motore delle troppe disuguaglianze contemporanee individuato da Franzini e Pianta è l'arretramento della politica: che interviene sempre meno con politiche redistributive (e quanto ha contato, in questo, la sbornia trentennale contro i "lacci e laccioli"!) e taglia sempre di più i servizi universali o destinati ai ceti più poveri (salute, istruzione, etc), sempre con l'altro mantra liberista del "bisogna ridurre la spesa pubblica".
Naturalmente poi, come sempre, anche quella della disuguaglianza e dell'uguaglianza è questione di misura, di punto in cui fissa l'asticella.
In genere, chi parla di diseguaglianze viene accusato di essere utopista, perché nessuna società realizza mai un'uguaglianza assoluta: il che è evidente, ma diventa quasi sempre un alibi per non fare alcun passo verso una riduzione della forbice sociale, anzi per andare nella direzione opposta.
Che è quella delle diseguaglianze crescenti. Delle società più arrabbiate, infelici, conflittuali, atomizzate, instabili. Dei Paesi in cui per rabbia confusa dilagano quindi i neofascismi, i nazionalismi, i razzismi, i Trump e Le Pen.
Del neoliberismo, insomma.

mercoledì 27 aprile 2016

L'aspetto criminale dell'austerità pensionistica di Leonardo Mazzei

La nuova beffa firmata Renzi: volete la pensione? Pagatevela. E pure con gli interessi...Si torna a parlare di pensioni. Stavolta per annunciare "flessibilità", nome in codice che significa fregatura. L'ennesima.
Leopolda13 RenziLorsignori hanno scoperto l'acqua calda: aumentare a dismisura l'età pensionabile porta ad un aumento della disoccupazione giovanile. Strano, avremmo detto tutti il contrario...
Quattro notizie in tre giorni hanno riportato il tema previdenziale alla ribalta. La prima: secondo il presidente dell'Inps Boeri i nati nel 1980 rischiano di andare in pensione a 75 (settantacinque) anni
La seconda: a causa dei nuovi scalini scattati per le donne (legge Fornero) e dei calcoli Istat sulla "speranza di vita" (legge Dini), nel primo trimestre 2016 i pensionamenti sono diminuiti (rispetto allo stesso periodo del 2015) del 34,5%
La terza: nello stesso trimestre il valore medio mensile delle pensioni dei lavoratori dipendenti è sceso di ben 72 euro, passando dai 1.236 euro (ovviamente lordi) del 2015 agli attuali 1.164. 
La quarta, di cui ci occuperemo in questo articolo, è che il governo sta studiando la cosiddetta "flessibilità" in materia pensionistica.
Insomma, si va in pensione sempre più tardi e con un assegni previdenziali sempre più poveri. Dov'è la notizia? Non sapevamo tutti che è esattamente questo il futuro disegnato per gli anziani da un ventennio di controriforme, diciamo da Amato a Monti? Certo che è così, e per la verità il peggio deve ancora venire, come ha dovuto ammettere Boeri parlando della «paura della classe politica» a far conoscere agli italiani - con le cosiddette "buste arancioni" - le stime del loro estratto conto contributivo e la loro prevedibile data d'uscita.
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Andare verso una massa crescente di anziani poveri, in una società che invecchia e sempre più priva delle tradizionali reti di solidarietà familiare, non è solo un crimine, è anche una follia. Che si cominci a prenderne coscienza - peraltro senza riconoscerlo apertamente - con vent'anni di ritardo, grida semplicemente vendetta. Chi, come noi, si è sempre opposto alla logica antisociale delle tante "riforme" taglia-pensioni, ha sempre denunciato non solo le conseguenze immediate, ma ancor di più quelle di una prospettiva futura che definire cupa è troppo poco.
Ma veniamo a quel che bolle in pentola dalle parti di Palazzo Chigi. Anche nei piani alti del potere, da qualche tempo si comincia ad ammettere - ma guarda un po'! - che lo spropositato aumento dell'età pensionabile, decretato in particolare dalle norme della "Legge Fornero", ha come contraltare l'aumento della disoccupazione giovanile. Se gli anziani non escono dal mercato del lavoro, come possono i giovani entrarvi?
Che una simile banalità venga annunciata adesso quasi fosse una scoperta dovuta a lunghi studi, è una cosa che fa solo prudere le mani. Ma, dirà l'ingenuo che è in ognuno di noi: meglio tardi che mai! E invece no. Perché nelle misure in preparazione non c'è nulla, ma proprio nulla di buono. E invece che chiudere un occhio sul passato sarà bene aprirli tutti e due sul presente e sul futuro.
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Per ora non c'è nulla di preciso. Secondo una tecnica ben collaudata si fanno uscire ipotesi, si analizzano le risposte, si misurano le reazioni. Poi, passo dopo passo, si arriverà alle misure concrete, da inserirsi con ogni probabilità nella prossima Legge di Stabilità.
L'idea di fondo è quella di permettere, ad una platea di lavoratori attualmente non ancora definita, un'uscita anticipata rispetto alla maturazione del diritto a pensione in base alla legislazione vigente. Secondo alcune ipotesi la misura potrebbe riguardare solo precise categorie (lavoratori in esubero per crisi aziendali, disoccupati over 62, soggetti impiegati in attività usuranti); secondo un'altra ipotesi, invece, la norma potrebbe essere applicata (sembrerebbe quindi su base volontaria) a tutti i lavoratori che si trovano a 2/3 anni dal raggiungimento dell'età pensionabile.
Dice: che bello, finalmente si potrà anticipare un po' il momento della pensione! Peccato che il costo dell'operazione (ed anzi qualcosa di più) sia tutto a carico del lavoratore.
Oggi la "fantasia al potere" non è quella immaginata nel 1968, bensì quella dei peggiori trucchi della finanza. Esattamente quella evocata dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Tommaso Nannicini, che ha parlato di «sforzo creativo» per motivare il coinvolgimento delle banche nell'attivazione della mitica "flessibilità". Da notare che il creativo Nannicini sa bene di cosa sta parlando, visto che Renzi lo ha messo alla guida della cosiddetta "cabina di regia" che ha in mano il dossier pensionistico.
L'idea è molto semplice. Vuoi anticipare la tua pensione? Te la paghi per intero, anzi un bel po' di più, vista la penalizzazione, più il pagamento degli interessi alla banca che ti ha finanziato l'anticipo.
Ecco come ci parla del meccanismo in preparazione la Repubblica del 20 aprile:
«Un lavoratore al quale mancano due o tre anni all'età della quiescenza potrebbe chiedere all'Inps di calcolargli l'importo della pensione con una penalizzazione che - secondo il ragionamento dei tecnici - potrebbe arrivare al 3-4 per cento per ogni anno di anticipo. L'assegno, fino al compimento dell'età per la pensione di vecchiaia, verrebbe erogato da una banca come fosse un prestito. L'Inps agirebbe solo da garante del prestito. Una volta raggiunta l'età pensionabile, l'assegno verrebbe pagato dall'Inps e il lavoratore comincerebbe a restituire a rate il prestito delle banche. Per questa soluzione, che non avrebbe impatto sui conti pubblici, servirebbe preventivamente un accordo tra il governo (o l'Inps) e l'Abi, l'associazione delle banche».
Chiaro? Fin troppo, direi. Primo, il lavoratore che vorrà anticipare la quiescenza si pagherà per intero (restituendolo a rate) il valore della pensione percepita nel periodo di "anticipo" della stessa. Secondo, egli pagherà una pesante penalizzazione (3-4%) per ogni anno di anticipo, più gli interessi dovuti alla banca. Terzo, le banche si ritroverebbero con una massa non disprezzabile di prestiti totalmente garantiti dall'Inps, e dunque a rischio zero.
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Avete capito il capolavoro che si sta preparando?
Da quel che si legge sui giornali non è chiaro se la penalizzazione rappresenti una quota di quanto il pensionato dovrà restituire alla banca, oppure sia invece una decurtazione aggiuntiva a se stante. L'esperienza ci dice che l'ipotesi peggiore è quasi sempre quella più vicina alla realtà, ma anche volendo essere ottimisti i costi per il pensionato "anticipato" si presentano in ogni caso pesantissimi.
Facciamo l'esempio di un lavoratore che voglia lasciare l'attività due anni prima della scadenza legale. Avendo davanti una speranza di vita di circa vent'anni, i due anni di anticipo gli costerebbero una decurtazione del 10% del valore della pensione vita natural durante. Questo senza calcolare gli interessi ed ipotizzando - come detto - che non vi siano ulteriori penalizzazioni. Se invece volessimo calcolare il tutto con gli interessi e le probabili penalizzazioni arriveremmo alla fine ad una pensione tagliata di circa il 20%.
Quanti lavoratori potranno eventualmente permetterselo? Quanti sceglierebbero volontariamente una simile soluzione? Pochi, decisamente pochi. Due sono le categorie di lavoratori che potrebbero fare una simile scelta. In primo luogo, quelli sufficientemente benestanti per potersi permettere un simile taglio. In secondo luogo, quelli spinti da precise esigenze familiari, come ad esempio la necessità di assistere in maniera più o meno continuativa un familiare non più autosufficiente.
Nel primo caso va però tenuto presente che i lavoratori con reddito più alto sono quelli che svolgono lavori meno pesanti e più gratificanti, di conseguenza sono anche quelli meno propensi ad andare in pensione. All'opposto - nel secondo caso - i lavoratori interessati sono quelli che non possono permettersi altre forme di assistenza (ad esempio una badante), e che dunque potrebbero ben difficilmente sopportare un taglio così pesante della propria pensione.
Vedremo alla fine quale sarà la strada scelta, ma in queste condizioni di anticipi volontari ce ne saranno di sicuro pochi. Una "flessibilità" completamente scaricata sulle tasche dei futuri pensionati non può certo funzionare. Il fatto è che non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. E dunque la contraddizione tra un riequilibrio dell'età pensionabile - visto con favore anche da lorsignori, altro non fosse perché le aziende non vogliono maestranze troppo anziane - e il rigore delle politiche di bilancio è semplicemente irrisolvibile.
L'aspetto criminale dell'austerità pensionistica sta nel non voler far crescere in alcun modo, cercando semmai di diminuirla, la quota di Pil destinata al sistema previdenziale. Ora, se io destino una quota fissa della ricchezza nazionale ad una platea per motivi demografici irrimediabilmente in crescita, è evidente che i componenti di quella platea non potranno che impoverirsi sempre più. Eppure, il rifiuto di accrescere la suddetta quota è un dogma intangibile per i liberisti di tutte le latitudini. Per quelli europei, visti i precetti della religione eurista, lo è ancor di più.
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In questo quadro la "flessibilità" di Renzi non poteva certo fare eccezione. Ma questa rigidità sulle regole di bilancio implica il fallimento sostanziale dell'operazione. Che, anche per questo, si concentrerà probabilmente sulle categorie più deboli che abbiamo già citato (esuberi, disoccupati anziani, addetti a lavori usuranti). Categorie sotto ricatto, impossibilitate a scegliere, costrette ad accettare i costi della trovata renziana.
Netto dev'essere dunque il giudizio politico. Sempre di più, quello attuale si conferma come il governo delle grande finanza. Di fatto Renzi chiede ai lavoratori non di andare in pensione, bensì di andare in banca per ottenere un prestito da restituire con gli interessi. Una porcata che non ha bisogno di altri commenti. Un regalo senza rischi per i banchieri, visto che la rata verrà detratta direttamente dall'Inps.
Ma c'è di più. C'è che si vuol dare un'altra picconata al sistema previdenziale pubblico, per andare sempre più verso una pensione fai da te. Visto che la previdenza integrativa gli ha funzionato solo in parte - i lavoratori non sono cosi stupidi come lorsignori se li immaginano -, ecco che ci riprovano con la "flessibilità".
Il detto dice che "al peggio non c'è limite". E quasi sempre è così. Con Renzi e la sua cricca possiamo togliere il "quasi".

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Elena Mazzoni, ,

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Quando lo conosci lo eviti

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Nel giugno 2013, il presidente degli Stati Uniti Obama e il presidente della Commissione europea Barroso hanno lanciato ufficialmente i negoziati per l’Accordo di libero scambio transatlantico: il TTIP. Un trattato che, attraverso liberalizzazioni e privatizzazioni, porterebbe a una ulteriore riduzione dei diritti dei lavoratori, del welfare, della tutele dell’ambiente e della salute. In questi anni si sono svolti dieci round negoziali nella più assoluta segretezza, con l’intenzione, da parte di Stati Uniti e Unione Europea, di arrivare alla firma del trattato entro l’autunno 2016. Le ragioni di tanta fretta e mancanza di trasparenza sono semplici: i contenuti del TTIP, man mano che le opinioni pubbliche ne vengono a conoscenza, incontrano una sempre maggiore opposizione. L’obiettivo dell’accordo è infatti duplice: da un lato ridisegnare la mappa del mondo, che sfocerebbe in una nuova Guerra fredda; dall’altro creare una super-costituzione transnazionale che metta la libertà di commercio e di investimento al di sopra di ogni diritto sociale, costituzione statale e al riparo da ogni forma di controllo democratico. Questo libro è un contributo alla conoscenza di un trattato, non ancora ratificato, del quale occorre impedire la firma: con un’estesa mobilitazione.

Un Assaggio

«Il TTIP si pone l’obiettivo di rendere stabile l’abolizione di ogni limite alla libertà del capitale. Con l’assolutizzazione della piena e sovrana libertà di commercio e investimento non esisterebbero più limiti «esterni» alla dittatura che le grandi imprese esercitano, attraverso il mercato, sulla maggioranza delle popolazioni. Assumendo il criterio della libertà di commercio e di investimento come principio cardine, come super legge da cui discende tutto il resto, è evidente che la follia delle politiche neoliberiste verrebbe codificata senza possibilità di future modifiche. Non mi voglio qui dilungare, ma è evidente che la proibizione dei soli investimenti che siano in modo chiaro e provato nocivi per la salute sovvertirebbe completamente il principio di precauzione che ci ha sin qui guidati. Anziché partire dalla certezza della nocività di un prodotto o di una lavorazione, si ribalta l’onere della prova di nocività a carico degli Stati: è del tutto evidente che così avremo una serie infinita di disastri ambientali e di catastrofi sanitarie. Anche perché, con il potere e le risorse che hanno le multinazionali, ci saranno sempre scienziati disposti a negare il vero per poter sdoganare questo o quel prodotto. Basti pensare al dibattito sugli ogm o a quello sull’aumento della temperatura del pianeta: molti esponenti della comunità scientifica negano che ci sia un rapporto causale tra le attività industriali dell’umanità e l’aumento della CO2 e della temperatura del pianeta. In questo modo costruiscono un facile alibi alle industrie estrattive che vogliono continuare a guadagnare dallo sfruttamento dei loro giacimenti di petrolio e carbone, anche se questo determina un disastro per l’umanità e per il pianeta.
Il ttip si pone quindi l’obiettivo di impedire che l’intervento pubblico possa ripresentarsi come intervento organico e fisiologico. Il TTIP vuole abolire la possibilità di dar vita a un welfare che garantisca diritti sociali a tutti e tutte».

lunedì 25 aprile 2016

Attacco alla Costituzione, una lunga storia di Luciano Canfora

L'attacco alla Costituzione partì già quasi all'indomani del suo varo. Il 2 agosto 1952 Guido Gonella, all'epoca segretario politico della Democrazia cristiana, chiedeva - in un pubblico comizio - di riformare la Costituzione italiana, entrata in vigore appena tre anni e mezzo prima, il 1 gennaio 1948. Si trattava di un discorso tenuto a Canazei, in Trentino, e la richiesta di riforma mirava - come egli si espresse - a «rafforzare l'autorità dello Stato», ad eliminare cioè quelle «disfunzioni della vita dello Stato che possono avere la loro radice nella stessa Costituzione». E concludeva, sprezzante: «la Costituzione non è il Corano!» (Il nuovo Corriere, Firenze, 3 agosto 1952).
Nello stesso intervento, il segretario della Dc, richiamandosi più volte a De Gasperi, chiedeva di modificare la legge elettorale, che - essendo proporzionale - dava all'opposizione (Pci e Psi) una notevole rappresentanza parlamentare. L'idea lanciata allora, in piena estate, era di costituire dei «collegi plurinominali», onde favorire i partiti che si presentassero alle elezioni politiche «apparentati» (Dc e alleati).
Come si vede, sin da allora l'attacco alla Costituzione e alla legge elettorale proporzionale (la sola che rispetti l'articolo 48 della Costituzione, che sancisce il «voto uguale») andavano di pari passo.
Pochi mesi dopo, alla ripresa dell'attività parlamentare fu posto in essere il progetto di legge elettorale (scritta da Scelba e dall'ex-fascista Tesauro, rettore a Napoli e ormai parlamentare democristiano) che è passata alla storia come «legge truffa». Imposta, contro l'ostruzionismo parlamentare, da un colpo di mano del presidente del senato Meuccio Ruini, quella legge fu bocciata dagli elettori, il cui voto (il 7 giugno 1953) non fece scattare il cospicuo «premio di maggioranza» previsto per i partiti «apparentati».
L'istanza di cambiare la Costituzione al fine di dare più potere all'esecutivo divenne poi, per molto tempo, la parola d'ordine della destra, interna ed esterna alla Dc, spalleggiata dal movimento per la «Nuova Repubblica» guidato da Randolfo Pacciardi (repubblicano poi espulso da Pri), postosi in pericolosa vicinanza - nonostante il suo passato antifascista - con i vari movimenti neofascisti, che una «nuova Repubblica» appunto domandavano.
La sconfitta della «legge truffa» alle elezioni del 1953 mise per molto tempo fuori gioco le spinte governative in direzione delle due riforme care alla destra: cambiare la Costituzione e cambiare in senso maggioritario la legge elettorale proporzionale. Che infatti resse per altri 40 anni. Quando, all'inizio degli anni Novanta, la sinistra, ansiosa di cancellare il proprio passato, capeggiò il movimento - ormai agevolmente vittorioso - volto ad instaurare una legge elettorale maggioritaria, il colpo principale alla Costituzione era ormai sferrato. Ammoniva allora, inascoltato, Raniero La Valle che cambiare legge elettorale abrogando il principio proporzionale significava già di per sé cambiare la Costituzione. (Basti pensare, del resto, che, con una rappresentanza parlamentare truccata grazie alle leggi maggioritarie, gli articoli della Costituzione che prevedono una maggioranza qualificata per decisioni cruciali perdono significato). Ma la speranza della nuova leadership di sinistra (affossatasi più tardi nella scelta suicida di assumere la generica veste di partito democratico) era di vincere le elezioni al tavolo da gioco. Oggi è il peggior governo che l'ex-sinistra sia stata capace di esprimere a varare, a tappe forzate e a colpi di voti di fiducia, entrambe le riforme: quella della legge elettorale, finalmente resa conforme ad un tavolo da poker, e quella della Costituzione.
Ma perché, e in che cosa, la Costituzione varata alla fine del 1947 dà fastidio? Si sa che la destra non l'ha mai deglutita, non solo per principi fondamentali (e in particolare per l'articolo 3) ma anche, e non meno, per quanto essa sancisce sulla prevalenza dell'«utilità sociale» rispetto al diritto di proprietà (agli articoli 41 e 42). Più spiccio di altri, Berlusconi parlava - al tempo suo - della nostra Costituzione come di tipo «sovietico»; il 19 agosto 2010 il Corriere della sera pubblicò un inedito dell'appena scomparso Cossiga in cui il presidente-gladiatore definiva la nostra costituzione come «la nostra Yalta». E sullo stesso giornale il 12 agosto 2003 il solerte Ostellino aveva richiesto la riforma dell'articolo 1 a causa dell'intollerabile - a suo avviso - definizione della Repubblica come «fondata sul lavoro». E dieci anni dopo (23 ottobre 2013) tornava alla carica (ma rimbeccato) chiedendo ancora una volta la modifica del nostro ordinamento: questa volta argomentando «che nella stesura della prima parte della Costituzione - quella sui diritti - ebbe un grande ruolo Palmiro Togliatti, l'uomo che avrebbe voluto fare dell'Italia una democrazia popolare sul modello dell'Urss». Di tali parole non è tanto rimarchevole l'incultura storico-giuridica quanto commovente è il pathos, sia pure mal riposto.
Dà fastidio il nesso che la Costituzione, in ogni sua parte, stabilisce tra libertà e giustizia. Dà fastidio - e lo lamentano a voce spiegata i cosiddetti «liberali puri» convinti che finalmente sia giunta la volta buona per il taglio col passato - che la nostra Costituzione sancisca oltre ai diritti politici i diritti sociali. Vorrebbero che questi ultimi venissero confinati nella legislazione ordinaria, onde potersene all'occorrenza sbarazzare a proprio piacimento, come è accaduto dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
La coniugazione di libertà e giustizia era già nei principi generali della Costituzione della prima Repubblica francese (1793): «La libertà ha la sua regola nella giustizia». Ed è stata poi presente nelle costituzioni - italiana, francese della IV Repubblica, tedesca - sorte dopo la fine del predominio fascista sull'Europa: fine sanguinosa, cui i movimenti di resistenza diedero un contributo che non solo giovò all'azione degli eserciti (alleati e sovietico) ma che connotò politicamente quella vittoria. Nel caso del nostro paese, è ben noto che l'azione politico-militare della Resistenza fu decisiva per impedire che - secondo l'auspicio ad esempio di Churchill - il dopofascismo si risolvesse nel mero ripristino dell'Italia prefascista magari serbando l'istituto monarchico.
La grande sfida fu, allora, di attuare un ordinamento, e preparare una prassi, che andassero oltre il fascismo: che cioè tenessero nel debito conto le istanze sociali che il fascismo, pur recependole, aveva però ingabbiato, d'intesa coi ceti proprietari, nel controllo autoritario dello Stato di polizia, e sterilizzato con l'addomesticamento dei sindacati. La sfida che ebbe il fulcro politico-militare nell'insurrezione dell'aprile '45 e trovò forma sapiente e durevole nella Costituzione consisteva dunque - andando oltre il fascismo - nel coniugare rivoluzione sociale e democrazia politica. Perciò Calamandrei parlò, plaudendo, di «Costituzione eversiva» (1955), e perciò la vita contrastata di essa fu regolata dai variabili rapporti di forza della lunga «guerra fredda» oltre che dalle capacità soggettive dei protagonisti. C'è un abisso tra Palmiro Togliatti e il clan di Banca Etruria. Va da sé che l'estinguersi dei «socialismi» con la conseguente deriva in senso irrazionalistico-religioso delle periferie interne ed esterne all'Occidente illusoriamente vittorioso hanno travolto il quadro che s'è qui voluto sommariamente delineare. La carenza di statisti capaci e la autoflagellazione della fu sinistra non costituiscono certo il terreno più favorevole alla pur doverosa prosecuzione della lotta.

Pensioni: le pecore dei cattivi pastori Di ilsimplicissimus


Inps: Boeri, non a tutti 'busta arancione' entro 2015
Se vi dicessero, al bar sport o nella redazione di un grande e paludato giornale, due ambienti ormai paralleli, che  gli anziani, notoriamente più bisognosi di cure, “rubano” la  sanità alle generazioni più giovani pensereste a uno scherzo o di trovarvi in un covo di minus habens. Però se lo stesso ragionamento, si fa per dire, viene applicato alle pensioni dove le dinamiche sono più complicate  e meno immediate allora diventa vendibile e spendibile a una platea di persone che non ha nessuna voglia di pensare:  gli anziani, i milioni di anziani che hanno pagato per decenni i loro contributi pensionistici rubano la pensione alle nuove generazioni che per colpa loro non l’avranno e oltretutto a causa di questo e non della loro mancanza di senso sociale, di palle e di fegato, guadagnano poco.  E se qualche esagerazione c’è stata nel concedere pensioni troppo presto ciò riguarda il livello di governo del Paese che ha tenuto bassi gli anni di contribuzione delle categorie di sostegno a cominciare dagli stessi deputati per passare agli strapagati funzionari  della Banca d’Italia per finire con i dipendenti pubblici quale compenso di retribuzioni ampiamente inferiori alla media europea.
Se ne parla da vent’anni e passa ma io non ho mai sentito qualcuno come nella fiaba dell’imperatore nudo chiedere perché. Infatti sarebbe interessante sapere perché gli attuali giovani pagando gli stessi contributi non dovrebbero avere il trattamento di quiescenza (forse perché la produttività non cresce visto il livello infimo della classe dirigente e i dettami della globalizzazione?), perché le pensioni sociali che sono un intervento assistenziale, una specie di reddito di cittadinanza che parte al declino della vita sono stati messi nel calderone dell’Inps per trascinarne volutamente i conti al rosso interno quando invece quelli che riguardano contribuzioni ed erogazioni sono in attivo,  perché  se vi sono difficoltà legate all’aumento della vita media non si alzano semplicemente i contributi dei lavoratori e delle aziende invece di salassare i cittadini con aumenti della fiscalità generale che servono soltanto a mantenere il conto del sistema politico affaristico prima  ancora di aderire ai demenziali diktat europei. E poi perché il meccanismo dovrebbe funzionare nel sistema privato delle pensioni integrative che agisce sul medesimo mercato, con i medesimi criteri, ma che deve fare anche molto profitto per garantire ricchi premi agli azionisti, stipendi stellari a nugoli di cosiddetti manager oltre che percentuali all’esercito di venditori, mentre tutto questo, senza nemmeno il carico del profitto senza limiti non dovrebbe funzionare nel sistema pubblico?
No queste domande non si fanno sia perché la maggior parte di chi dovrebbe informare non è in grado di farle nemmeno a se stesso e soprattutto non farà carriera se per caso dovette mettere in imbarazzo i soliti esperti, quei tronisti della chiacchiera e del servilismo giornalistico, politico o accademico che sono entrati nella compagnia di giro. Facendole si potrebbe decostruire e mandare nel bugliolo che merita sia  la presunta guerra generazionale, sia le altre favole per bambini che vengono ossessivamente raccontate. Come sapevano i filosofi greci niente è più efficace per la conoscenza che fare la domanda giusta. Del resto in generale dire che non ci sono i soldi quando le banche centrali stampano tonnellate di carta moneta al giorno per sostenere esclusivamente un sistema finanziario marcio e bacato meriterebbe la fucilazione senza nemmeno l’ultima sigaretta.
In ogni caso tutto questo è il preambolo, lo spirito, la palude in cui possono nascere i vari progetti  di diminuire il “salario da pensione” che non è stato possibile attuare con la precarietà imposta ai giovani, l’ultimo dei quali è la demenziale flessibilità proposta dallo scaduto Boeri, uno. spacciato per freschissimo che come tutto l’ottuso bocconismo sembra concretizzare la favola dei pirati decapitati che tuttavia continuavano a camminare per un po’ dopo la decollazione. Con la differenza che lui senza testa continua a fare il boia. Che idea meravigliosa: siccome aumentando sempre di più l’età della quiescenza si assumono meno giovani ecco l’idea del prepensionamento per cui il pensionando dovrebbe chiedere un prestito alla banca ( a cui il denaro costa zero) da restituire con gli interessi una volta arrivato l’assegno previdenziale. Insomma una vera presa in giro, come se i neo assunti dovessero pagarsi lo stipendio tramite un prestito bancario. E’ la quadratura del cerchio per una classe dirigente e accademica di straordinaria modestia che ha fatto carriera dietro le gonne della politica politicante. La quadratura del coglione, se non fosse che i veri coglioni sono quelli che credono a questo fantastico universo di non sensi e non pongono che siano i Monti, i Renzi, i Boeri e le Fornero  ad andarsene finalmente in pensione.
E molti purtroppo  rischiano  di credere a questi deliri: per fortuna anche i giovani invecchiano e prima o poi si accorgeranno di essere caduti in una trappola mentre si masturbavano col cellulare.

L’ultimo 25 Aprile? La deforma Renzi e il tradimento della Resistenza

di Domenico Gallo

Anche quest’anno verrà il 25 aprile e come tutti gli anni celebreremo la festa della liberazione. Però questo sarà l’ultimo anno che potremo festeggiare perché stiamo per perdere il lascito più prezioso della Resistenza: la Costituzione. Con la riforma approvata dal Parlamento il 12 aprile e con la nuova legge elettorale, i tratti salienti dell’ordinamento di democrazia costituzionale, che ci hanno lasciato in dote i padri costituenti, saranno spazzati via e sostituiti dalla nuova Costituzione di Renzi/Boschi/Verdini, partorita da una minoranza arrogante con lo scopo di dare all’esecutivo un potere straordinario, senza troppo preoccuparsi di equilibrarlo con poteri di garanzia e di controllo.
Quelli che hanno esultato per questa riforma ci hanno detto che aspettavano questo momento da 70 anni. Evidentemente per loro era sbagliata la lezione della Resistenza.
 
Il 25 aprile è la festa della liberazione, cioè della riconquistata libertà del popolo italiano. Perché quella libertà, così faticosamente conquistata, non andasse perduta, è stata insediata nel sangue e nella carne di una comunità di uomini liberi, che si è riconosciuta in un orizzonte comune nel quale sono istituiti il pluralismo, l'eguaglianza, la giustizia sociale, la pace, il rispetto della dignità umana.

Quest'orizzonte comune è la Costituzione della Repubblica italiana. La Costituzione è la traduzione nell'ordinamento giuridico dell'annuncio portato dalla Resistenza di una nuova società umana, cioè di un tempo e di una storia nuova in cui fossero risparmiate per sempre alle generazioni future le sofferenze inenarrabili che avevano patito quelle precedenti attraverso le due guerre mondiali, l'olocausto e l'asfissia di una società priva di libertà.

Il 25 aprile ci chiama a confrontarci con il dono della libertà che ci è stato consegnato dalla Resistenza, con quel patrimonio di beni pubblici repubblicani che ci è stato tramandato dalle generazioni passate, come testamento di centomila morti, perché noi lo curassimo, lo mettessimo a frutto e lo consegnassimo, a nostra volta, alle generazioni future.

Ebbene, in quel patrimonio, la giustizia, l'eguaglianza, la dignità umana non sono solo rivendicate, ma sono istituite e garantite attraverso una trama istituzionale che le rende resistenti alle insidie e alle sfide del tempo. Se i principi fondamentali della Costituzione sono antitetici rispetto a quelli proclamati o praticati dal fascismo, tuttavia è l’architettura del sistema istituzionale che fa la differenza ed impedisce degenerazioni autoritarie.
La Costituzione ha insediato la libertà che ci è stata donata dalla Resistenza, rendendo impossibile ogni forma di “dittatura della maggioranza”.

Lo scopo di questa straordinaria revisione della Costituzione approvata dal Parlamento il 12 aprile e della riforma elettorale è proprio quello di neutralizzare l’impostazione antitotalitaria della Costituzione del 48, accentrando il potere nell’esecutivo e nel partito unico al governo ed indebolendo i contrappesi e le garanzie. Si può discutere se queste riforme costituiscano di per se stesse una svolta autoritaria ovvero se ne siano solo le premesse. Non v’è dubbio, però, che indebolendo i meccanismi antitotalitari, si indeboliscono le garanzie della libertà.

Tutto questo avviene in un quadro internazionale che non è mai stato così oscuro. È tornata la maledizione della guerra che è diventata endemica in vaste aree del pianeta a noi  vicine; è ritornata in auge la tortura; sono tornate le discriminazioni fino al punto da alimentare nuovi genocidi; è tornata la disperazione di milioni di profughi che cercano scampo dalla guerra e si trovano circondati dal filo spinato delle frontiere bloccate. I valori, patrimonio dell’umanità, affermati dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, non solo vengono disprezzati ma addirittura sono apertamente rovesciati nel loro contrario e viene rivendicata la disuguaglianza, la discriminazione, la schiavitù.    

Sono ritornate di stringente attualità le considerazioni che cinquant’anni fa scriveva Thomas Mann nella prefazione delle lettere dei condannati a morte della resistenza europea: “Viviamo in un mondo di perfida regressione, in cui un odio superstizioso e avido di persecuzione si accoppia al terror panico; in un mondo alla cui insufficienza intellettuale e morale il destino ha affidato armi distruttive di raccapricciante violenza, accumulate con la folle minaccia di trasformare la terra in un deserto avvolto da nebbie venefiche. L’abbassamento del livello intellettuale, la paralisi della cultura, la supina accettazione dei misfatti di una giustizia politicizzata (id est: asservita al potere), il gerarchismo, la cieca avidità di guadagno, la decadenza della lealtà e della fede, prodotti o, in ogni caso promossi da due guerre mondiali, sono una cattiva garanzia contro lo scoppio della terza, che significherebbe la fine della civiltà. Una costellazione fatale sovverte la democrazia e la spinge nelle braccia del fascismo, che essa ha appena abbattuto solo per aiutarlo, non appena a terra, a risollevarsi in piedi per calpestare, ovunque li trovasse, i germi del meglio, e macchiarsi con ignobili alleanze.

Di conseguenza è ritornato d’attualità l’interrogativo che si poneva Thomas Mann: “Sarebbe vana, dunque, superata e respinta dalla vita, la fede, la speranza, la volontà di sacrificio di una gioventù europea che, se ha assunto il bel nome di Résistence, contro l’onta di un’europa Hitleriana e l’orrore di un mondo hitleriano, non voleva semplicemente “resistere”, ma sentiva di essere l’avanguardia di una nuova società umana? Tutto ciò sarebbe stato invano? Inutile, sciupato il loro sogno e la loro morte?”.
Tocca a noi batterci perché ciò non succeda.

Questo 25 Aprile

 
di Angelo d’Orsi

L’anno scorso abbiamo festeggiato il 70° della Liberazione; e noi di MicroMega un piccolo, ma non irrilevante contributo, lo abbiamo dato, con un fascicolo speciale (un primo “Almanacco di Storia”), intitolato, semplicemente, “Ora e sempre Resistenza”. Quel titolo rinvia al testo, celebre, dettata da Piero Calamandrei per la lapide affissa nel cortile del municipio di Cuneo (“Lo avrai camerata Kesserling /il tuo monumento…”); ma quel titolo, al di là della sua giustificata enfasi retorica, ci richiama a un dovere, che oggi, più di un anno fa, più di cinque o dieci anni fa, appare imprescindibile e cogente. Il dovere di difendere quella libertà, quei diritti politici, quello Stato sociale che la lotta dei partigiani ci ha consegnato.

Certo la liberazione dal nazifascismo fu opera anche delle truppe alleate (non dimentichiamo tuttavia il prezzo pagato dalle popolazioni civili italiane, dalle città distrutte dai bombardamenti…), ma il contenuto sociale dell’Italia repubblicana nacque esclusivamente dall’opera sapiente e preveggente dei Costituenti, che raccoglievano le istanze profonde del partigianato. E quel contenuto fu espresso in un documento, un testo di poche essenziali e densissime pagine, senza fronzoli, che si chiama Costituzione Italiana: il prodotto, certo imperfetto, ma nell’insieme di straordinario valore, su tutti i piani (non escluso quello stilistico-lessicale, come proprio Calamandrei mise in evidenza), del lavoro rapido e intenso di un pugno di rappresentanti delle forze politiche che avevano costituito il tessuto antifascista del Paese; ma nel contempo quel testo raccoglieva il bisogno di rinnovamento, le ansie persino palingenetiche di vastissime masse popolari, di ceti medi, di contadini, di classe operaia e della parte più illuminata della borghesia.

Quel testo, nella sua forma quasi perfetta, bilanciava quasi perfettamente, pure con qualche forzatura in un senso o nell’altro, le diverse anime dell’Assemblea Costituente: la laica, la cattolica, la socialista, la comunista. Quel documento era, insieme, un trattatello di diritto pubblico (che disegnava mirabilmente ruoli e funzioni dei soggetti istituzionali, equilibrando con sagacia i diversi poteri dello Stato), un saggio storico (che seppelliva la pagina fascista della vicenda italiana), un manifesto programmatico (che impegnava la Repubblica di cui era carta costitutiva a disegnare un futuro di pur relativa giustizia e progresso sociale).

Perché ho detto che oggi l’anniversario del XXV Aprile è persino più importante di quello “tondo” del 70°? Perché, addirittura, ritengo che sia più importante di tutti quelli che lo hanno preceduto? La risposta è ovvia. Neppure nei tempi peggiori dello scelbismo, del craxismo, del berlusconismo, la Costituzione è stata in pericolo come ora. Quando Berlusconi e sodali tentarono di alterarla, furono fermati dal voto popolare. E comunque quel voto, allora, godeva del sostegno del principale partito di opposizione, il cosiddetto “Partito democratico”. Ma se guardiamo a quel medesimo partito oggi, a ben riflettere, non possiamo esclamare: “Quam mutatus ab illo!”: Matteo Renzi, in fondo, non ha fatto che portare a termine la mutazione genetica del partito, che oggi ha perso qualsiasi residuo aggancio non soltanto con la tradizione del comunismo italiano (ben diversa da quella del comunismo staliniano), ma con l’intero bagaglio della sinistra; da barriera fondamentale contro i tentativi di manomissione della Carta costituzionale ne è diventato il primo artefice.

Oggi, perciò, la battaglia  per difendere quella che il guitto Benigni aveva decantato come “la (Costituzione) più bella del mondo”, salvo poi saltare sul carrarmato renziano che sparava contro quella stessa Costituzione, parte da un handicap: in Parlamento, in sostanza, ci sono forze di minoranza, e per di più eterogenee, che proveranno a resistere, ossia a fare opposizione; su fronte opposto, forza di maggioranza, c’è il PD: la sua dirigenza, incredibile erede, di buona parte delle anime dell’Assemblea Costituente, è il motore primo della “riforma” costituzionale, portata avanti in modo arrogante, contro la quasi totalità dei costituzionalisti italiani, e larghissima parte del mondo intellettuale.

Per preparare il terreno a questo terremoto istituzionale, ci hanno detto che la Costituzione è antiquata: eppure non ha ancora compiuto il settimo decennio. Quelle dei Paesi di grande tradizione democratica, dal Regno Unito agli Usa, durano da secoli.  E per abolire il Senato (finta abolizione, peraltro, come quella delle Province) hanno usato la propaganda antipolitica più becera, quella che dovrebbe toccare il cuore dell’italiano medio, che si indentifica  nel portafogli: ridurre i costi della politica. Ma chiunque sa che i costi sono ridicoli, e che alla fine, non diminuiranno affatto, ma in compenso accanto a una Camera di nominati dal partito di maggioranza relativa che prende la maggioranza assoluta dei seggi, si affiancherà un Senato di designati dai Consigli regionali e dalle principali città: doppio incarico, con quale beneficio per l’efficienza del sistema non si vede. Ma con una perdita secca della possibilità di quel controllo incrociato fra le due Camere che è fondamentale per evitare errori, sviste, svarioni…

Il PD, che questa “impresa” ha portato avanti con determinazione degna di miglior causa, a prezzo di rompere ogni tessuto sociale, di frantumare definitivamente lo spirito residuale della stessa unità “ciellenistica”, si presenta come la vera destra “perbene” in Italia: dato che non è riuscito alla sua leadership del PD di “aiutare” la trasformazione di Forza Italia e della Lega Nord in forze di destra “moderna” ed “europea”, oggi quella dirigenza ha deciso, in fondo coerentemente, che toccava al PD rappresentare quella destra che in Italia latitava. Ed ecco, appunto che il PD diventa, nella sua larga maggioranza, con qualche brontolio discorde della cosiddetta “minoranza interna”, il guastatore della Costituzione.

La Costituzione che alcuni dei più vecchi esponenti di quel partito si ostinano a riconoscere essere “nata dalla Resistenza”, e vengono tollerati, nell’attesa che la natura faccia il suo corso e li spazzi via. Come Renzi, la sua potentissima e incompetentissima ministra Boschi, con l’ausilio di impresentabili figure pubbliche a cominciare da Denis Verdini, si apprestano a fare non solo con la Costituzione, ma con lo Stato liberaldemocratico: il combinato disposto legge elettorale (il famigerato Italicum) e “riforma costituzionale”, pone le basi per un “superamento” morbido della stessa forma democratica. Se poi aggiungiamo il controllo che ormai in modo quasi totale Renzi esercita sulla Rai (più in generale direi sulla radiotelevisione italiana), gli accorpamenti di testate giornalistiche, le nomine alla testa delle grandi holding pubbliche, delle istituzioni (dal Consiglio superiore della Magistratura alle diverse forze armate e servizi di sicurezza), il regime è disegnato.

Oggi, perciò, in attesa dei referendum d’autunno, la celebrazione della Liberazione deve rappresentare un monito e un impegno per quanti si rendono conto che la posta in palio è enorme. E si chiama Welfare, si chiama diritti sindacali, princìpi di libertà, possibilità di effettiva partecipazione alla cosa pubblica, sovranità del Potere legislativo (il Parlamento, ridotto a manipolo di ascari obbedienti), indipendenza del “Terzo Potere” (l’ordine giudiziario, non a caso sottoposto ormai ad attacchi quotidiani dal presidente del Consiglio o da suoi emissari, come ai tempi di Berlusconi)…; l’elenco è troppo lungo.

In breve, oggi ribadire, in ogni situazione e contesto, il motto “Ora e sempre Resistenza”, è tutt’altro che un gesto rituale: oggi è e deve essere un grido di battaglia. Che è appena cominciata. E va portata fino alla sua conclusione. Difendere la Resistenza, oggi, salvaguardare la Costituzione che è il frutto più rilevante di quella stagione eroica del ’43-45, significa dire NO alla “deforma” renziana, no all’Italicum, no alla fine dello Stato di diritto, anche se l’operazione ci viene presentata come esempio del necessario ricupero di una “modernità” della “vecchia” Italia. Se questa è la modernità, se questo è essere riformatori, ebbene, proclamiamoci francamente conservatori. Ci sono cose da conservare, senza vergognarsene; e la Costituzione repubblicana (con il suo patrimonio politico, culturale e sociale, frutto della lotta armata contro il regime mussoliniano) è al primo posto tra esse.