lunedì 29 maggio 2017

Partito, movimento politico organizzato, programma minimo. Sul progetto politico dei comunisti, di Enzo Gamba

lenin 5aecIn Italia si sta ripresentando, per l’ennesima volta, nel dibattito politico dei comunisti (siano essi organizzati o no) in riferimento al progetto politico da perseguire in questa fase di sconfitta storica (in altre parole: quale obiettivo porre per i comunisti, il “cosa fare” adesso), l’alternativa secca tra partito/unità dei comunisti da una parte e movimento/unità delle “sinistre” dall’altra. Da anni la riproposizione di questo dibattito avviene con una puntualità ricorrente, segnata in primo luogo dalle scadenze elettorali, poi dalle loro successive sconfitte e in ultimo dalle fasi congressuali dove i nodi solitamente vengono al pettine.
Per chi ha anche una minima memoria storica si ricorderà che un dibattito simile ci fu, tra le altre volte, anche verso la fine degli anni ‘80, dopo la batosta elettorale del 1988, e dopo il secondo governo Prodi e l’allora congresso del Prc. Le ipotesi che venivano messe in campo allora per uscire dalla crisi nera in cui ci eravamo cacciati (al punto che in parlamento non vi era più nemmeno una forza organizzata che si richiamasse al comunismo), erano l’ipotesi della “Costituente dei comunisti” in contrapposizione alla “costituente della sinistra”. Se dopo quasi trent’anni, con una situazione che per i “comunisti” si è fatta talmente tragica che più tragica non si può, si è ancora fermi alle opzioni politiche di allora forse qualche ripensamento dovrebbe (im)porsi nella testa di coloro che si richiamano, se non al comunismo, alla sinistra, sia essa di classe, anticapitalistica, antiliberista, antagonista, ecc.: qua gli aggettivi necessariamente si sprecano per tentare di connotare un termine così generico!
 
Questa autocritica riflessione dovrebbe essere ineluttabile se si considera che le due “opzioni/necessità” politiche di allora (e che ci ritroviamo tra le mani tuttora basti pensare al dibattito interno al Prc tra coloro che ripropongono la necessità di discriminanti programmatiche comuniste da partito comunista in contrapposizione alternativa con il progetto di un “soggetto unitario e plurale della sinistra” alternativo al PD) hanno portato in questi anni, non solo ad un bel nulla, ma ad un ulteriore arretramento politico, frammentazione, minoritarismo al limite dell’estinzione, dei comunisti. Ambedue gli obiettivi che si ponevano allora i due progetti politici non si sono concretizzati. Non si è formato nessun partito comunista degno di questo nome, né tantomeno si è formato a livello politico un movimento/partito unitario di sinistra.
Stante tale situazione si imporrebbero quantomeno due domande. La prima è la seguente: se non è stata possibile la realizzazione di quelle ipotesi politiche, quali furono le motivazioni del loro insuccesso? Forse è il caso di pensare che non era possibile che si concretizzassero o che non lo erano in quelle condizioni? La seconda domanda, forse più importante, è: ci sono le condizioni attualmente perché ciò si verifichi? Iniziamo con il tentare di dare risposta a queste due domande.
 
Dopo trent’anni di continue sconfitte a tutti i livelli dello scontro di classe, dal livello teorico, ideologico, a quello politico fino a quello economico sociale, tra coloro che più coerentemente si richiamano al comunismo l’obiettivo e il progetto della “costruzione del partito” o quanto meno di una organizzazione che risolva il problema dell’unità dei comunisti, viene sentito prioritario e preliminare rispetto all’ennesima riproposizione “movimentista”, “politicista” e spesso solo “elettoralistica” di una “unità delle sinistre”. Ciò è comprensibilissimo. Un partito comunista (almeno come storicamente lo abbiamo conosciuto nel secolo scorso nel movimento operaio e comunista), coeso attorno ad un solido gruppo dirigente unito, significa storicamente (e non solo nell’immaginario collettivo dei militanti) garanzia di una autonomia teorica rivoluzionaria, condizione prioritaria e fondamentale per ipotizzare, in relazione sia alla conquista delle “avanguardie di classe” che all’egemonia di settori fondamentali della società, un progetto di rivoluzione e trasformazione sociale che apra una fase di transizione socialista.
Il problema che però fin dall’inizio si pone nell’affrontare questa questione, è se e come sia possibile concretizzare l’unità dei comunisti attorno alla teoria rivoluzionaria, dando per scontato comunque che, pur contraddittoria, disomogenea e sfilacciata, nel suo complesso essa ancora ci sia. E qui sta il problema, visto che nessuna unità è possibile ad un livello così alto e complessivo, il partito appunto, senza un minimo di omogeneità teorica e di progettualità politica strategica. Ecco che allora il problema si delinea in maniera chiara concretizzandosi in una fondamentale questione: quella dello stato del variegato e disomogeneo patrimonio teorico conoscitivo posseduto dai comunisti ( cioè del marxismo inteso nella sua accezione storica più vasta) e del più generale patrimonio ideologico-politico di conoscenza e trasformazione sociale della classe. Ora, se c’è qualcosa che in questi ultimi decenni ha sempre più evidenziato i segni del logoramento e della crisi, a fronte della reazione-restaurazione neocorporativa del capitale imperialistico transnazionale che ha saputo trasformare la sua crisi ormai quarantennale nella più grave crisi del potenziale blocco sociale proletario e popolare e delle forze politiche che ad esso si rifacevano, è il nostro patrimonio teorico e ideologico politico.
Nell’iniziare la disamina della questione, considerata la vastità e la complessità dell’argomento, per comodità di analisi e di ragionamento tralasceremo il riferimento al blocco e alla sconfitta dei processi di transizione socialista in quei paesi dove, in vario modo, vi era stata una presa del potere politico delle forze comuniste (l’inadeguatezza teorica nel comprendere e gestire le contraddizioni e le difficoltà della fase di transizione sono indubitabili). Ciò, pur consapevoli dell’importanza della fase di transizione quale riferimento strategico a cui relazionare anche la complessiva tattica delle forze rivoluzionarie in una fase non rivoluzionaria (ivi compreso tutta la tematica del programma minimo). Per restare nel contesto storico-sociale più vicino a noi e in particolare nel nostro paese, il segno della crisi del patrimonio ideologico-politico di conoscenza e trasformazione sociale e del patrimonio teorico conoscitivo che lo sostanzia, si evidenzia e si esplicita da un lato nell’incapacità di comprendere le modalità nuove e “creative” con cui, cambiando pelle, l’imperialismo transnazionale ha riattivato tutte le varie controtendenze alla crisi. L’accoglimento nel nostro complessivo patrimonio di concezioni teoriche che sono l’espressione, (a livello teorico-scientifiche appunto), del campo sociale a noi antagonista è figlio di questa situazione: la lotta di classe avviene a maggior ragione anche nell’ambito teorico e culturale (là dove vince chi convince). Ragionare con le teorie economiche-sociali del capitale non può che portare a una sua ennesima vittoria (e alla nostra ulteriore sconfitta) e, nella sostanza, all’idea dell’ineluttabilità del rapporto sociale capitalistico.
Dall’altro lato la crisi del nostro patrimonio si palesa nell’incapacità ideologica e politica di comprendere i processi neocorporativi a tal punto che sembra essersi persa ogni visione classista dei processi sociali e di conseguenza dei processi politici che su questi si basano, con il risultato di aver inanellato sconfitte a non finire ad ogni livello dello scontro di classe, da quello ideologico- politico a quello economico rivendicativo: si pensi, per fare solo un esempio, a quanto si sia ridotto contemporaneamente il livello di coscienza della classe e il livello del suo salario sociale complessivo.
Anche se in misura non così accentuata come oggi, tale inadeguatezza e tali limiti del nostro complessivo patrimonio erano presenti già più di una trentina di anni fa nelle forze che riproponevano un percorso unitario rifondativo riconducibili, schematicamente, l’una alla cosiddetta “sinistra rivoluzionaria” (quantomeno a quello che ne restava) e l’altra alla “sinistra” dell’ormai defunto Pci. Infatti, a fronte dell’inadeguata conoscenza del marxismo che accomunava tutti o quasi, la ripresa dello storico patrimonio teorico e politico del movimento comunista e proletario avveniva attraverso le “lenti” dei precedenti impianti teorico politici di riferimento dei vari gruppi. Vi era chi, come nel caso della “sinistra rivoluzionaria”, si riferiva al patrimonio marxista-leninista, terzo internazionalista (nelle sue varianti più o meno staliniste o maoiste), chi alla sinistra comunista, chi al trotskismo o all’operaismo, e nel contempo, ed è il caso di coloro che provenivano dall’esperienza del Pci, vi era chi si riferiva al patrimonio del Pci togliattiano/berlingueriano o ancor prima a quello del Kominform. In sintesi quella ripresa fu viziata, contemporaneamente, da estremismo infantile e da concezioni revisioniste e socialdemocratiche. Il risultato era quanto di più disomogeneo si potesse pensare. Il tentativo di risoluzione dei problemi teorici e il contemporaneo progetto di rifondazione di un complessivo e unitario impianto teorico e politico in ogni caso sortirono due risposte. Da un lato il teoricismo che, sull’onda di quella che allora veniva chiamata “crisi del marxismo” ipotizzava una “prassi teorica” che, “lavorando” sulle categorie ne enucleasse i limiti e le contraddizioni per poi superarli. Dall’altra la concezione che fosse possibile avanzare “assemblando” i migliori contributi che i nuovi movimenti sociali in quegli anni, di volta in volta proponevano (da quello ambientalista a quello terzomondista, da quello di genere a quello studentesco e via discorrendo). Tali risposte, che apparentemente sembravano agli antipodi, ebbero però lo stesso negativo risultato: non risolsero il problema dell’approfondimento/sviluppo del patrimonio teorico conoscitivo, né seppero garantire l’unitarietà dei comunisti in una unica organizzazione/partito.
Tale esperienza storica non può essere accantonata come un incidente di percorso, che sostanzialmente non inficia la possibilità di riprovarci e di riprovarci con le stesse modalità. Essa ci impone di rivedere quell’impostazione politica e di riacquisire e approfondire meglio le modalità con cui sia possibile la ripresa e lo sviluppo del patrimonio teorico conoscitivo.
In quanto scienza sociale esso non si auto sviluppa categorialmente (dalla teoria alla teoria come ritenevano i teoricisti), né si sviluppa nella sommatoria meccanica di spezzoni di altre scienze e ideologie sociali (con le quali ci si rapporta in maniera dialettica sulla base della propria teoria). Esso si approfondisce nel rapporto dialettico con la prassi sociale, quella prassi, sociale e politica, che si pone l’obiettivo della trasformazione e che ha valenza storica, oltre che tempi storici. L’approfondimento e lo sviluppo del patrimonio teorico comunista quindi non può che essere pensato quale risultato di una fase storica, in relazione dialettica col patrimonio ideologico/politico di conoscenza e trasformazione della realtà sociale di cui è parte integrante e, conseguentemente, con le avanguardie rivoluzionarie che questo patrimonio lo “praticano”, sulla base del fatto che nella sua contraddittorietà esso mantiene elementi di “verità” e di “certezza” che lo rendono comunque in parte usabile e praticabile. Ecco perché un progetto politico dei comunisti in questa fase dovrà essere un progetto che possa contemporaneamente far ripartire il processo rivoluzionario di classe nel nostro paese e la centralizzazione delle avanguardie, processo quest’ultimo che potrà portare alla formazione del gruppo dirigente del futuro partito. Il tentare di saltare o ovviare a queste modalità e a questi tempi perseguendo altre strade porta (come dimostrato da questi ultimi trent’anni) al fallimento, come è dimostrato dalla creazione, nel frattempo, di diversi partitini e/o organizzazioni di comunisti. Dobbiamo materialisticamente essere consapevoli che rimarremo per anni con le diversità e contraddizioni all’interno del nostro patrimonio (e conseguentemente con i diversi gruppi, forze e partitini, ognuno con i loro piccoli gruppi dirigenti). Tali diversità e contraddizioni saranno risolte in parte, di volta in volta, solo quando il processo rivoluzionario procederà sia in generale che in particolare nel nostro paese.
Partendo quindi dall’assunto che, senza omogeneità teorica non vi può essere per i comunisti nel loro complesso l’unità in un unico partito o organizzazione, tale obiettivo, ancor più oggi e in questa fase storica, non è nemmeno lontanamente possibile ipotizzarlo e (ri)proporlo. Quindi, lungi dal riprendere scorciatoie fondative o rifondative di partito, financo sotto la mentita spoglia di cartelli elettorali, quello che, in quanto comunisti è possibile e necessario attuare (ognuno con le proprie strutture e organizzazioni), è, per ritornare al progetto politico dei comunisti di cui sopra, un confronto serrato sui quei problemi teorici e politici che sottendono la possibilità di ripresa di un movimento di classe nel nostro paese: dall’analisi della fase a livello economico e sociale all’interno della più generale crisi/ristrutturazione dell’imperialismo finanziario transnazionale, all’analisi delle classi (in particolare del proletariato e del “lavoro subordinato”), alle forze motrici sociali e politiche, alla individuazione delle linee guida (tattiche e strategiche) che devono orientare il progetto politico dei comunisti. Cominciando a entrare nel merito a questi problemi potremo verificare anche se l’ipotesi politica contrapposta a quella del “Partito”, cioè quella di un movimento/partito che sia “soggetto unitario e plurale della sinistra” sia funzionale allo svolgimento di questi compiti.
Il dato da cui dobbiamo partire, è quello che caratterizza la fase storica di scontro di classe in cui ci troviamo ad operare. Tale fase è, se relazionata all’obiettivo rivoluzionario dell’instaurazione del socialismo, indubitabilmente una fase non rivoluzionaria. A fronte di una potenza dell’avversario di classe che ribalta la sua crisi e le sue contraddizioni sul proletariato e gli strati popolari della società, abbiamo nel nostro campo un proletariato (nazionale e non) che dal punto di vista materiale e sociale è disgregato, frantumato e, quando non rientra nelle diverse forme di esercito industriale di riserva, differenziato nelle innumerevoli forme con cui vende la sua forza-lavoro. Ben si comprende che in questa condizione, in relazione alla crisi dell’autonomia teorica di classe comunista, la coscienza di classe sia regredita a livelli pre novecenteschi. L’egemonia neocorporativa (coercizione e consenso) che la grande borghesia finanziaria sovranazionale mantiene sulla classe proletaria e sulle classi popolari, di semi proletariato e piccola borghesia è tale che in questi strati sociali sono maggioritarie e spesso egemoni ideologie aclassiste e piccolo borghesi, reazionarie, scioviniste e razziste. Le stesse ideologie riformiste e socialdemocratiche che conoscevamo fino al secolo scorso sono in netta minoranza. Nel contempo, a livello ideologico e politico, non esistono quasi più forze politiche connotate in termini di classe e di “sinistra”.
In riferimento a tale situazione emergono due considerazioni, l’una strettamente connessa dialetticamente all’altra. La prima consiste nel fatto che i comunisti, pur in riferimento strategico ad una fase prerivoluzionaria, in questa fase, proprio perché non è rivoluzionaria, devono praticare una tattica tesa a modificare e invertire gli attuali rapporti di forza tra le classi, accumulare le forze conquistando la maggioranza della classe al nostro progetto di cambiamento sociale e stabilendo, sulla base di quello, rapporti di “alleanza” sociale e politica con settori popolari non immediatamente riconducibili al proletariato, ma che, in forza dei processi di espropriazione ed oppressione economico-sociale connaturate alla fase imperialista del capitalismo (si pensi a tutta la problematica sulla difesa del salario sociale di classe o all‘opposizione alle tendenze reazionarie), si rendono disponibili appunto ad un processo di cambiamento. La seconda considerazione è riferita al programma con cui si concretizza la tattica sopra indicata. In questo contesto non rivoluzionario, che esclude a priori la praticabilità di obiettivi di transizione socialista, si pone la necessità di ricostruire l’unità della classe e le sue alleanze attorno ad un “programma minimo” che (in riferimento strategico ad una prima fase di transizione dopo la rottura rivoluzionaria) deve assumere in questa fase un carattere popolare, democratico e di resistenza sociale di massa; un programma che sia capace, agendo sulle contraddizioni e divisioni del fronte avversario, non solo di ricompattare il potenziale blocco sociale anticapitalistico, ma anche di strappare quegli obiettivi che di volta in volta si rendano praticabili in base ai reali rapporti di forza.
La tattica che sopra sinteticamente delineavamo necessariamente può articolarsi solo attorno ad un programma minimo di classe e un programma minimo non può che concretizzarsi mediante una tattica come quella sopra indicata, tattica che nel movimento operaio, in concomitanza con gli sviluppi che, dopo Marx ed Engels, ne diedero Lenin e i primi congressi della Terza Internazionale, venne chiamata di “Fronte Unico” ed in seguito, nei suoi aspetti più legati al problema delle alleanze, di “Fronte Unito”. Qui però è fondamentale capire che il livello sociale in cui “agisce” questo “fronte” è quello politico della lotta di classe (quindi né teorico ideologico comunista, né pan sindacale rivendicativo), e la forma che assume il suo essere soggetto politico in grado di dirigere e nel contempo essere espressione del processo sociale che si pone l’obiettivo di una alternativa socialista, in grado di concretizzare e “personificare” il livello dell’unità politica della classe e di questa con le masse popolari (financo nei suoi aspetti istituzionali e parlamentari), di essere struttura operativa, organizzativa, contenitiva delle masse, non può che essere quello di un movimento politico organizzato e non quella di un partito ideologicamente comunista (che tra l’altro non c’è e non potrà esserci per molto, come abbiamo visto), neanche nell’ambigua forma del partito comunista di massa, così come è stata acriticamente ripresa dalla tradizione del Pci. Su obiettivi quali quelli del programma minimo che pongono discriminanti politiche anticapitalistiche di classe e non ideologiche comuniste, tale soggetto non può che essere un soggetto politico unitario connotato politicamente (dalle discriminanti anticapitaliste, antiliberiste, democratiche ecc.), “largo”, espressione diretta della classe e delle sue “avanguardie”, un soggetto che assomigli di più a un organismo di “fronte” più che a un partito politico ideologicamente contrassegnato; un organismo di “fronte” che sappia essere coagulo e organizzazione dal basso dei diversi movimenti e lotte che, appunto sulla base del programma minimo e della sua articolazione, devono sorgere nel paese ai vari livelli, da quello economico sindacale (fondamentale), a quello politico democratico fino a quello culturale e strutturarsi come organismi di massa e di base (come provarono a essere per un certo periodo oltre ai consigli di fabbrica anche i consigli di zona). Quindi un movimento politico organizzato e centralizzato su un progetto di cambiamento politico, che si dovrà dotare di strutture consiliari, territoriali, democratiche (una testa un voto). Strutture/comitati che possano esercitare minimi rapporti di forza in contrapposizione all’avversario di classe, la grande borghesia sovranazionale e i suoi subalterni alleati, al suo stato, al suo governo e alle sue politiche liberiste e antidemocratiche. Tali strutture dovranno essere in grado innanzitutto in questa fase di raccogliere il vasto fronte del lavoro subordinato al capitale. Le iniziative per la costruzione di un movimento di tal genere sono concettualmente parte integrante degli obiettivi immediati dei comunisti. Come nell’ambito sindacale, proprio l’impegno in questi organismi di massa della classe rappresenta il principale lavoro politico della “parte” dei comunisti. I comunisti, quelli che siano, devono porsi il problema di far crescere questo “movimento politico organizzato” che come discriminante politica (non ideologica) ha il “programma minimo”e devono porsi il compito di egemonizzarlo in termini di analisi, di indicazioni politiche, di obiettivi e di lotte, di presenza di compagni che ai vari livelli il movimento selezionerà come quadri dirigenti.
 
Diventa a questo punto necessario una precisazione. Spesso, fraintendendo l’esperienza storica del movimento operaio e comunista, la cosiddetta “politica di massa” dei comunisti, quando non significava accodarsi alla ciclicità spontanea delle lotte rivendicative, veniva intesa come la propria riproposizione in quanto partito o organizzazione in ogni contesto in cui era possibile organizzare momenti di lotta di classe. Tale impostazione, che non vede nessuna mediazione politica tra il tuo essere “partito” (o il ritenersi tale) e la lotta politica e rivendicativa sociale, è la base del settarismo che ha portato e porta all’isolamento dalle avanguardie sociali e dalle masse in genere. Anche quando, in passato, si tentavano momenti “unitari” questi non erano nient’altro che organismi “interpartitici” o “intergruppi” che non andavano oltre la sommatoria momentanea delle rispettive forze. Bisogna invece pensare che negli organismi di massa, di base, unitari e democratici di un movimento politico che sviluppa lotta politico-sociale, noi comunisti non agiamo come “delegati” di un partito, non “rappresentiamo” un partito o un gruppo, ma contiamo per noi stessi, con le nostre analisi e idee (quelle si “comuniste”), con le nostre indicazioni e il nostro impegno (quello si militante), negli organismi di massa unitari vige, fin dai tempi dei soviet, la democrazia di “una testa un voto”.
 
In questa fase l’obiettivo della costruzione di un “movimento politico organizzato” può rappresentare l’obiettivo e l’ambito in cui i comunisti operano politicamente in prima persona fin da subito, misurandosi con i reali problemi politici di un processo di alternativa sociale, affrontando i problemi teorici sottesi alla formulazione del “programma minimo”, ristabilendo il rapporto con le avanguardie di classe e innescando un generale processo di crescita politico-sociale che le sappia centralizzare. Questo è il “progetto politico” dei comunisti in questa fase.
 
 
Sulla scorta di quanto detto, di come si concretizzi il progetto politico dei comunisti (un movimento politico organizzato imperniato attorno ad un programma minimo e strutturato su organismi di base di ”unità popolare”) e possibile valutare meglio anche l’altro progetto politico, quello della costruzione di una “soggettività unitaria della sinistra” che, in opposizione a quello della “costruzione del Partito”, si muove nel dibattito dei comunisti e non solo.
Il primo aspetto che colpisce è quello per cui questo progetto ripropone, con l’obiettivo di un soggetto unitario della sinistra, una unità tra forze politiche i cui patrimoni teorici, ideologici e strategici sono ben diversi (a volte contrapposti) gli uni dagli altri. Sappiamo bene quanto sia rischiosa di per sé questa proposta e ancor più a quale rischi e fallimenti si vada incontro qualora la si voglia piegare e snaturare per riproporre e ricercare un impossibile livello di unità più alto (in termini di partito comunista). A questo livello l’unità dei comunisti non è possibile. Là invece dove è possibile raggiungere una unità tra i comunisti, ma non solo tra loro (vedi l’ampio arco di forze e militanti di “sinistra”), è a livello tattico politico. Su tutta una serie di battaglie politico sociali e obiettivi (quali quelli del programma minimo) è possibile e necessario arrivare a momenti unitari non saltuari, ma organizzati, arrivando financo a livello elettorale e parlamentare. In tal senso la proposta del soggetto unitario della sinistra ha in generale una indiscutibile validità, anche se con dei limiti che ora proveremo ad illustrare.
Infatti questo progetto prevede una ipotesi di soggetto unitario della sinistra quale risultato dell’unità delle forze di sinistra alternative al PD, comuniste e non, senza pensare (o lasciando molto in ombra questo aspetto) alle strutture sociali nelle quali, in termini programmatici, sia possibile e necessario essere unitari, quelle che nel progetto del movimento politico organizzato individuavamo come le strutture di base (comitati, consigli, circoli, ecc.) su cui potesse reggersi e organizzarsi il movimento politico organizzato che a questo punto può essere il soggetto politico unitario che agisce anche sul piano istituzionale e elettorale (con un nome e un simbolo che ne evidenzi i caratteri di “fronte unitario popolare” nella prospettiva socialista). Senza questa impostazione e strutturazione che permetta fin dalla base una effettiva unità democratica che scongiuri rischi di rottura e scissione, l’unità tra le varie forze alla sinistra del PD rischia di essere una fusione a freddo: raggruppa solo l’esistente in termini di gruppi dirigenti e di militanti e non è in grado di ristabilire il rapporto con le avanguardie politico-sociale della classe e iniziare una fase di radicamento sociale.
A tale limite poi si aggiunge quello relativo al programma, al suo orizzonte e caratterizzazione politica, alle sue modalità di elaborazione. In tal senso se ci rapportiamo a quello che abbiamo definito “programma minimo”, un “programma di attuazione della Costituzione Repubblicana”, pur cogliendo la necessaria minimalità di un programma di obiettivi che sono tutti interni alle regole capitalistiche borghesi, sembra essere estremamente riduttivo nel momento in cui non fa i conti con la contraddittorietà di classe insita in un patto costituzionale frutto di una fase storica di compromesso tra le forze che uscirono dalla resistenza. Sull’impostazione e sui limiti della proposta di un soggetto unitario e plurale della sinistra antiliberista è giusto che si discuta anche al fine di precisare diversità e assonanze col progetto politico da noi qui proposto e far fare un passo in avanti al dibattito sul progetto politico tra tutti i comunisti nel loro complesso.
Riteniamo infatti che l’obiettivo della costruzione di un “movimento politico organizzato” per i comunisti non annulla o sostituisce, ma bensì conferma la necessità di mantenere nel contempo il loro riferimento teorico e ideologico organizzato (in quanto partito, organizzazione, associazione, rivista, gruppo o giornale comunista che sia), questo perché nel loro complesso essi rappresentano l’ambito in cui è possibile affrontare e dibattere dal punto di vista teorico e politico le problematiche che maturano nel “movimento politico organizzato” in relazione allo scontro di classe, riavviando così sia il processo di elaborazione teorica (per non parlare dell’alfabetizzazione teorica), che il processo unitario tra gli stessi comunisti.

mercoledì 24 maggio 2017

Una lista unitaria e alternativa della sinistra

Lettera aperta di amministratrici e amministratori promossa dalla “Rete delle Città in Comune” per un percorso che, dopo le elezioni amministrative, possa contribuire a costruire – a partire dalle...
 
 
Siamo amministratrici e amministratori di città e regioni. Siamo stati e siamo protagonisti di esperienze politiche e elettorali nate sui territori e rappresentate da liste unitarie della sinistra diffusa e di alternativa. Da circa un anno, insieme a tante energie dell’associazionismo, abbiamo passo dopo passo tessuto la rete de “Le Città in Comune”. Siamo stati in prima linea nella straordinaria iniziativa di popolo per il No al referendum costituzionale del 4 Dicembre scorso. Portiamo ogni giorno nei consigli comunali e regionali le voci e i conflitti di chi spesso è dimenticato dal circuito della politica tradizionale. Da ultimo, in oltre 100 consigli comunali, abbiamo presentato ordini del giorno per contrastare i cosiddetti Decreti Minniti-Orlando, organizzando iniziative di protesta in molte città nella giornata dell’8 aprile.
Siamo convinti che anche nel nostro Paese vi siano enormi potenzialità per rappresentare il variegato popolo delle periferie economiche, sociali e culturali in una proposta di governo credibile per dare attuazione alla nostra Costituzione. Incontriamo ogni giorno, nelle città, straordinarie esperienze di solidarietà, cooperazione sociale, innovazione condivisa, mutualismo diffuso, giustizia ambientale. Siamo, pertanto, preoccupati/e per l’autoreferenzialità e il soffocante politicismo nel dibattito nazionale in vista delle elezioni per il Parlamento italiano.
Consideriamo definitivamente conclusa la lunga stagione del centrosinistra e de L’Ulivo. Siamo in un’altra fase storica. La geografia politica del trentennio alle nostre spalle è stata terremotata dall’offensiva liberista. Si sono aperte faglie profonde sul terreno economico e sociale.
In tale quadro con il Partito Democratico non sono praticabili alleanze elettorali in nome di astratti e generici “valori comuni” perché va messa in campo un’alternativa progressiva al liberismo che tutt’ora domina in Europa. Un’alternativa orientata dai principi e dagli obiettivi programmatici della nostra Costituzione.
Sono altrettanto impraticabili proposte per una competizione rassegnata e forzata con il Pd per arrivare a un’alleanza post voto in nome di astratti valori di centrosinistra e di una retorica eredità ulivista.
Sono impraticabili imposizioni dall’alto di programmi e presunti leader pre-confezionati da qualche grande giornale e poi “autenticati” da tavoli più o meno trasparenti di ceto politico sopravvissuto.
Per la preparazione di una proposta politica e elettorale e per la selezione di una classe dirigente adeguata alle sfide di fronte a noi è necessaria, innanzitutto, discontinuità di modi e forme della politica.
Chiediamo a tutte le donne e a tutti gli uomini disponibili di essere protagonisti/e di un percorso partecipato, a partire dai territori. Proponiamo di avviare subito, in ogni comune, un percorso per discutere dal basso il programma e per far sì che i territori siano i protagonisti nella scelta dei candidati.
A tal fine, proponiamo alle forze politiche, alle associazioni, ai movimenti, alle forze sindacali di incontrarci per condividere le modalità del percorso partecipato da avviare al più presto.
Basilio Rizzo, Consigliere Comune di Milano – MILANO IN COMUNE – SINISTRA E COSTITUZIONE
Elena Coccia, Consigliera Città Metropolitana Di Napoli – NAPOLI IN COMUNE
Eleonora Artesio, Consigliera comune di Torino – TORINO IN COMUNE – LA SINISTRA
Stefano Fassina, Consigliere Comune di Roma – SINISTRA X ROMA
Tommaso Fattori, Consigliere Regione Toscana – SI TOSCANA A SINISTRA
Adriano Labbucci, Consigliere Municipio I Roma – SINISTRA X ROMA
Alberto Montelaghi, Consigliere Comune di Casalgrande – SINISTRA PER CASALGRANDE
Andrea Guerrieri, Consigliere Comune di San Giustino – SAN GIUSTINO DOMANI
Andrea Viaro, Consigliere Municipalità del Lido-Pellestrina del Comune di Venezia – VENEZIA2020
Angelo Santicchia, Consigliere Comune di Santa Maria Nuova – PARTECIPAZIONE E TRASPARENZA
Antonella Coloru, Consigliera Comune di Solaro – INSIEME PER SOLARO
Antonia Romano, Consigliera Comunale Comune di Trento – ALTRA TRENTO A SINISTRA
Antonino Leotta, Consigliere Comune di Latina – LBC LATINA BENE COMUNE
Carola Carpinello, Consigliera Comune di Aosta – L’ALTRA VALLE D’AOSTA SINISTRA PER LA CITTÀ
Costanza Boccardi, Assessore Decima Municipalità – Napoli – NAPOLI IN COMUNE
Daniela Alfonzi, Consigliera circoscrizionale  – TORINO IN COMUNE – LA SINISTRA
Diego Sabbi, Consigliere Comune di Arquata Scrivia – ARQUATA BENE COMUNE
Domenico Angelini, Consigliere Comune di Castel di Lama – CASTEL DI LAMA PER TUTTI
Donella Verdi, Consigliera Comune di Firenze – CONSILIARE FIRENZE RIPARTE A SINISTRA
Edmondo Bucchioni, Consigliere Comune di La Spezia – RIFONDAZIONE COMUNISTA-COMUN. ITALIANI
Enrico Raimondi, Consigliere Comune di Chieti – L’ALTRA CHIETI
Fabrizio Dellepiane, Consigliere Comune di Arquata Scrivia – SINISTRA ITALIANA
Federico Martelloni, Consigliere Comune di Bologna – COALIZIONE CIVICA
Francesco Auletta, Consigliere Comune di Pisa – UNA CITTA’ IN COMUNE
Francesco Rubini, Consigliere Comune di Ancona – SEL-ANCONA BENE COMUNE
Giacomo Trombi, Consigliere Comune di Firenze – CONSILIARE FIRENZE RIPARTE A SINISTRA
Giacomo Zacconi, Consigliere Comune di Agugliano – SINISTRA PER AGUGLIANO
Giorgio Airaudo, Candidato Sindaco di Torino  – TORINO IN COMUNE – LA SINISTRA
Giovanni Lambiase, Consigliere Comune di Salerno – SALERNO DI… TUTTI
Giuliano Parodi, Sindaco Comune di Suvereto – ASSEMBLEA POPOLARE
Giuseppe Lama, Sindaco Comune di Borgo San Giacomo – LISTA CIVICA PER BORGO SAN GIACOMO
Ilaria Paladini, Candidato sindaco Comune di Carrara – LA COMUNE
Iole Murruni, Presidente Municipio 5 Genova Valpolcevera – RETE A SINISTRA
Jacopo Zannini, Consigliere Circoscrizione 12 – Trento – ALTRA TRENTO A SINISTRA
Lorenzo Rossi, Assessore Comune di Grottammare – SOLIDARIETA’ E PARTECIPAZIONE
Luca Grasselli, Consigliere Comune di Albinea – L’ALTRA ALBINEA SINISTRA UNITA
Luca Barbuti, Consigliere Comune di San Giuliano Terme – L’ALTRA SAN GIULIANO
Lucia Calò, Assessore Comune di Carosino –
Luigino Nespeca, Consigliere Comune di Offida – OFFICINA OFFIDA
Marco Ravera, Consigliere Comune di Savona – #RETE A SINISTRA – SAVONA CHE VORREI
Marco Ricci, Consigliere Comune di Pisa – UNA CITTÀ IN COMUNE PISA
Marco Chiriaco, Consigliere Comune di Roccavignale – RIFONDAZIONE COMUNISTA
Massimiliano Manfroni, Assessore Ai Lavori Pubblici Comune di San Giustino – SAN GIUSTINO DOMANI
Massimiliano Sforzi, Consigliere Comune di Pistoia – SINISTRA ECOLOGIA LIBERTÀ
Massimo Rossi, Consigliere Comune di Fermo –  FERMO MIGLIORE
Matteo Spadaro, Consigliere Comune di San Giorgio Ionico – PATTO DEMOCRATICO
Mauro Colaianni, Consigliere Comune di Barisciano – BARISCIANO BENE COMUNE
Michele Antognoli, Consigliere Comune di San Giuliano Terme – L’ALTRA SAN GIULIANO
Nello Fierro, Consigliere Comune di Cuneo – CUNEO PER I BENI COMUNI
Nicola Cavazzuti, Consigliere Comune di Massa – PRC – SINISTRA PER MASSA
Paolo Sarti, Consigliere Regione Toscana – SI TOSCANA A SINSITRA
Pierluigi Zuccolo, Consigliere Comune di Diano castello – UNITI PER CASTELLO
Pietro Giansoldati, Consigliere Comune di Cadelbosco di sopra – RIFONDAZIONE COMUNISTA
Riccardo Allegria, Consigliere Comune di Monte Santa Maria Tiberina – SINISTRA UNITA PER IL MONTE
Riziero Zaccagnini, Sindaco Comune di Tocco Da Casauria – PRIMAVERA TOCCOLANA
Roberto Pavarini, Consigliere Comune di Fabbrico – SINISTRA PER FABBRICO
Roberto Perin, Consigliere Comune di Fagnano Olona – FAGNANO BENE COMUNE
Sonia Coloru, Consigliera Comune di Cesate – SINISTRA PER CESATE
Stefano Lugli, Consigliere Comune di Finale Emilia – SINISTRA CIVICA PER FINALE EMILIA
Stefano Torzuoli, Vicesindaco Comune di Tuoro Sul Trasimeno – TUORO BENE COMUNE
Tommaso Grassi, Consigliere Comune di Firenze – CONSILIARE FIRENZE RIPARTE A SINISTRA
Vito Guerrera, Sindaco Comune di Carlantino – L’ALTRA CARLANTINO
Enrico Perilli, consigliere comunale L’ Aquila
Bruno Talamonti, consigliere comunali a Grottammare – Solidarietà e Partecipazione
Lina Lanciotti, consigliere comunali a Grottammare – Solidarietà e Partecipazione
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Lo spostamento a destra della politica italiana. Cosa sta succedendo e come reagire, Scritto da Ex-OPG occupato "Je so' Pazzo"


È da un po’ di tempo che – presi dall’attività pratica e dalle lotte quotidiane – non scriviamo sulla fase politica del nostro paese. Eppure di cose importanti ne stanno accadendo, e meritano di essere analizzate con attenzione. In queste pagine vogliamo provare a restituire un quadro della situazione, e proporre alcune pratiche per reagire alla barbarie che nel nostro paese sta velocemente avanzando. Nella speranza di aprire un po’ di dibattito e trovare magari qualcuno che condivide le nostre stesse preoccupazioni. 
Divideremo il discorso in tre momenti: 
1. ricostruiremo velocemente cosa è accaduto dal 4 dicembre, giorno del NO al referendum costituzionale, fino a oggi, in cui la situazione politica italiana si è delineata con maggiore precisione; 
2. rifletteremo sui motivi dello spostamento a destra di tutto il quadro politico; 
3. cercheremo di capire come le classi popolari, le associazioni, i collettivi, i comitati territoriali, tutta quella galassia che si sente lontana dal razzismo e dall’odio, che ha a cuore i diritti dei lavoratori e dei subalterni, può reagire a questa situazione che ci danneggia tutti. 
   
1. Dal referendum a oggi
Non smetteremo mai di ripeterlo: il 4 dicembre è successo qualcosa di importantissimo, un’esplosione le cui onde si avvertono ancora. Il 60% di NO al referendum costituzionale ha rappresentato una sonora bocciatura non solo di Renzi, ma di tutte le politiche predisposte dal padronato negli ultimi anni. Politiche di austerità, che hanno portato – secondo tutte le statistiche! – a un aumento generalizzato della povertà, a una diminuzione dei servizi sociali (istruzione, sanità, trasporti…) e dei diritti. 
Su questo non ci dilunghiamo, perché tutti, persino gli analisti borghesi, vedendo come si è delineato il NO su una precisa linea di classe, al Sud, nelle periferie, fra i giovani, hanno potuto osservare che il voto ha rappresentato un forte messaggio che le classi popolari hanno mandato a Renzi e alla borghesia che governa il paese. L’alto tasso di partecipazione è significativo: appena le masse hanno avuto uno strumento per esprimersi, hanno detto a gran voce “non ne possiamo più delle vostre riforme, non ci serve cancellare la Costituzione, ci servono piuttosto misure per mettere fine allo scivolamento verso la povertà, ci serve lavoro vero, ci servono servizi e diritti”. 
Per questo il voto referendario ha rappresentato una brutta botta per il padronato italiano. Che a quel punto ha dovuto immaginare una via d’uscita dall’impasse politica che si è venuta a creare. Ma quali sono stati gli effetti del referendum e quale la via d’uscita? 
- Il primo risultato è che Renzi ha dovuto fare un passo indietro e l’azione del padronato, che aveva usato quel Governo come suo ariete, è stata rallentata o bloccata. Non si poteva andare con la stessa velocità di prima perché si rischiava di perdere troppo consenso. Si pensi alle politiche del lavoro (che sono al cuore del problema, visto che è attraverso il lavoro delle masse che si crea la ricchezza di cui il padronato si appropria poi in diversi modi). Prima del referendum, Renzi preparava una legge sulla “produttività”, che avrebbe dovuto aumentare lo sfruttamento dei lavoratori. Nei mesi successivi, temendo un altro voto referendario – questa volta sui quesiti proposti dalla CGIL, sull’articolo 18 etc –, il Governo PD è addirittura dovuto tornare indietro sul tema dei voucher (ora aboliti) e sul codice degli appalti! 
Ma è anche su altri temi che la politica del Governo PD ha dovuto rallentare: in particolare nel Mezzogiorno, dove la sconfitta era stata pesante, ha provato a mettere una pezza nominando ministro De Vincenti, che a differenza di Renzi ha ostentato un atteggiamento più dialogante (solo apparentemente, basti vedere la vicenda TAP, in cui il Governo ha assecondato in tutto e per tutto le multinazionali). 
- Il secondo risultato del voto referendario è stata la destrutturazione del PD, che è terminata con la scissione di una sua parte. Abbiamo assistito a un regolamento di conti interno al personale politico delle classi dominanti. Infatti, mentre una parte maggioritaria del PD, quella di Renzi, pensa di poter continuare perfettamente come prima, e dunque fare riforme che mirano a privatizzare i servizi e abbattere il costo del lavoro, di modo da rendere il paese più profittevole per gli investimenti dei capitalisti italiani e stranieri, un’altra parte vuole opportunisticamente cavalcare la domanda che proviene dalle masse per “recuperarla”. Attraverso la creazione di un “nuovo centrosinistra”, Bersani, D’Alema, Speranza, in parte Emiliano e Pisapia, vorrebbero introdurre qualche misura redistributiva che possa permettere di salvare capra e cavoli: di continuare a ottemperare alle esigenze dei centri di potere neo-liberisti ma anche di mantenere un po’ di consenso almeno fra i settori più strutturati delle masse (lavoratori dipendenti, operai, insegnanti etc). Questa strategia ha perso la battaglia dentro il PD e si propone come minoritaria a livello nazionale, anche se sul territorio Renzi ne pagherà le conseguenze, visto che il pezzo di partito che è uscito aveva militanti e contatto con la base. 
- Qui arriviamo al terzo risultato del Referendum. Anche se le persone non sono scese in piazza subito dopo il 4 dicembre (d’altronde le immediate dimissioni di Renzi, il periodo natalizio, l’incertezza generale e la mancanza di una chiara proposta mobilitativa hanno subito “raffreddato” gli spiriti), si è prodotto un ulteriore scollamento dalle masse dagli apparati di Governo. Se il Governo Renzi qualche piccolo entusiasmo – si ricordino gli 80 euro – l’aveva saputo suscitare, questo governo è visto da tutti gli italiani come inutile, autoreferenziale, lontano. Il segnale più importante che viene dalle primarie del PD non è certo la vittoria di Renzi, che solo il giornale di regime “La Repubblica” può presentare come un trionfo, ma il calo mostruoso di partecipazione. Notevole per un partito che è al Governo, che resta la maggiore e più visibile forza politica del paese, che gestisce quote non irrilevanti di potere nello Stato e sui territori… 
Così, per gestire senza troppi danni la botta del Referendum, c’era bisogno di un traghettatore, di una figura anonima che abbassasse la tensione nel paese, mentre però continuasse sotterraneamente a fare gli interessi di una parte del padronato. Questo è stato il Governo Gentiloni. 
Da un lato, visto che gli italiani dopo quasi un due anni di sovraesposizione mediatica di Renzi non ne potevano più, ci voleva qualcuno che li portasse a disinteressarsi della politica, che facesse sparire le grandi questioni del Governo dalla quotidianità degli italiani, che svolgesse l’ordinaria amministrazione e ottemperasse agli accordi presi a livello internazionale. Da un altro lato, Gentiloni doveva assicurare una continuità del Governo Renzi (si pensi all’opera di ministri come Lotti, Boschi, Poletti), perché gli affari dovevano procedere, c’erano nomine importanti nelle aziende pubbliche, bisognava assicurarsi i bacini di voti, respingere gli assalti di un’altra parte del padronato che voleva approfittare della situazione di sbandamento di Renzi per contrattare nuove condizioni di spartizione della torta pubblica. 
Nel frattempo nessuna forza politica in questi cinque mesi è stata interessata più di tanto a premere sull’acceleratore, a interpretare la domanda uscita dalle urne. Al di là di qualche polemica fisiologica per sottrarre all’avversario qualche voto, tutti hanno badato soprattutto a prepararsi alle elezioni. Per questo passaggio – che viene visto come momento di “chiusura della crisi”, anche se è evidente che non chiuderà alcuna crisi, come vedremo fra poco – c’è bisogno soprattutto di due cose: 
a) legge elettorale; 
b) organizzazione interna ed esterna delle tre maggiori forze politiche (PD, centrodestra e Movimento 5 Stelle). 
È per questo motivo che il paese è rimasto bloccato in questi mesi: era impossibile fare la legge elettorale se non si chiudeva la partita nel PD. Ora, con il ritorno di Renzi, ci si può accordare (e i 5 Stelle si dimostrano malleabili e tutt’altro che “uno vale uno”, viste le proposte di sbarramento e di premio maggioritario che mettono in campo…). Certo, è un dibattito non semplice nella misura in cui ognuno vuole fare le scarpe all’altro e cerca la legge elettorale che può permettergli di salire. Ma è un dibattito che troverà di sicuro un suo punto di convergenza contro le istanze popolari, che decisamente sarebbero meglio rappresentate da un proporzionale puro, che trasformasse il Parlamento nello specchio della società e permettesse l’ingresso nelle istituzioni di forze maggiormente collegate ai territori...  
Su b) organizzazione interna ed esterna dei tre blocchi, torneremo fra poco. Quello che ci interessa, in chiusura di paragrafo, è ribadire il dato politico complessivo di questi mesi. Nel momento in cui il popolo ha chiesto a gran voce la fine delle politiche di austerità, a questa domanda nessuno ha risposto proponendo l’unica soluzione conseguente e immediatamente attuabile: drenare risorse dalla grande borghesia al mondo del lavoro, per migliorare la condizione di vita delle masse. Tutti hanno ignorato completamente la domanda dal basso e fabbricato delle finte risposte. 
Non solo il PD o il PDL, ma anche le forze apparentemente più “innovative” dell’opposizione, Lega e Movimento 5 Stelle, hanno ripetuto esattamente quello che accade in Italia da 25 anni. Nessuno ha avuto intenzione di farsi portatore della domanda delle masse, perché nessuno ha voluto mettersi contro il padronato ed i poteri che governano il paese. 
Così, se con il voto referendario si è riusciti a rallentare l’attacco padronale, non si è riusciti certo a riequilibrare i rapporti di forza fra le classi. Questo rallentamento è stato senza dubbio positivo; ma rischia di diventare inutile se non siamo in grado di utilizzarlo per trasformarlo in un elemento di coscienza di classe, per mostrare che chi ci governa non è invincibile, ma che è una minoranza che può perdere, se non lo usiamo per organizzarci, imporre dal basso un altro ordine del giorno. Se non facciamo tutto questo, questo rallentamento servirà solo ad aver rimandato ulteriori sconfitte. 
Per certi aspetti è proprio questo quello che sembra accadere nelle ultime settimane. 
2. Lo spostamento a destra del quadro politico
Pensateci: una questione che non c’era nel voto contrario al referendum era quella della “sicurezza”. Nessuno ne parlava prima del referendum, nessuno ne parlava subito dopo. Nelle ultime settimane invece il dibattito si è caratterizzato proprio su questo tema – ovviamente tutto letto in connessione a quello dell’“immigrazione”. A rimettere insieme i pezzi del puzzle, la fotografia che esce dell’Italia fa paura: le sparate di Salvini senza ormai più nessuna reazione, la polemica dei 5 Stelle intorno alle ONG, le dichiarazioni vergognose della Serracchiani, sono il contraltare dell’azione del Governo e delle sue forze di polizia: rastrellamenti a Milano, blitz a Roma che causa la morte di un ambulante senegalese; multe a Ventimiglia a chi osa dare da mangiare agli immigrati… E ancora l’approvazione del Decreto Minniti, la riforma del diritto d’asilo, la legge sulla legittima difesa (in un paese in cui diminuiscono i reati!)… 
Si sbaglierebbe a pensare che queste siano risposte che le forze politiche danno dall’alto a delle domande sincere che vengono dal basso: se uno cercasse mobilitazione popolari su questi temi non troverebbe granché (quel poco che troverebbe è sempre roba manipolata da attori perfettamente riconducibili alla Lega o all'estrema destra: ogni volta si ripete sempre lo stesso schema, in cui di spontaneo c'è ben poco). Certo, decenni di propaganda di destra, uniti agli effetti della crisi, hanno sedimentato anche nella fasce popolari elementi di diffidenza, intolleranza, esclusione, che si riverberano nel linguaggio, nei pregiudizi, in una certa tensione nella condivisione degli spazi. Tuttavia questi elementi sono pompati mediaticamente proprio per incentivarli, mentre le pratiche e idee antirazziste, le esperienze di incontro e solidarietà, l’embrionale riconoscersi come appartenenti alla stessa classe, non riescono mai ad emergere, perché non c’è nessun megafono, nessuna forza politica che abbia il coraggio di sfidare il consenso tacito che c’è fra tutti e tre i blocchi – PD, centrodestra e Movimento 5 Stelle –: parlare di sicurezza e immigrazione per non parlare dei veri problemi, a cui non si può dare soluzione perché per dare soluzione si dovrebbe attaccare il padronato. E siccome tutti questi soggetti sono espressione di segmenti di padronato e non possono governare senza di questo, non lo possono attaccare.  
Così tutto il quadro politico si sposta a destra, nel silenzio accondiscendente e nella passività di tutto il mondo culturale e intellettuale (fa eccezione il solo Saviano al quale, davvero non pensavamo di poterlo mai dire, va riconosciuto il coraggio di aver detto cose in assoluta controtendenza). È davvero paradossale vedere come i temi economici e del lavoro che riguardano direttamente le masse popolari siano letteralmente scomparsi dall'agenda politica. D'altronde tutti hanno interesse a sviare dal vero tema che da qui a breve si imporrà ovvero l'ennesima manovra economica finalizzata a rispettare gli obiettivi di bilancio imposti dal Fiscal Compact (nei prossimi mesi si dovranno infatti trovare ben 20 miliardi, altrimenti scatteranno le cosiddette “clausole di salvaguardia”, ovvero l’aumento delle aliquote IVA, misura estremamente impopolare che nessuno si vuole accollare…).
Tornando allo spostamento a destra delle forze politiche istituzionali, possiamo affermare con certezza che il cambiamento più eclatante riguarda il Movimento 5 Stelle che ormai si è caratterizzato come partito reazionario. Un fatto particolarmente rilevante, non fosse altro perché riguarda, stando ai sondaggi, una forza politica fra il 27 e il 30% dei consensi che in questi anni si è presentata come “alternativa al sistema”.
Osserviamo l’attività dei 5 Stelle sfrondata da ogni propaganda, attenendoci ai fatti: all’indomani del referendum i 5 Stelle non mobilitano le piazze per dare seguito alla domanda popolare, non elaborano proposte di carattere redistributivo, non aprono problemi in Parlamento animando un dibattito sul governo Gentiloni o opponendosi ai suoi decreti più scandalosi (le critiche che fanno al Decreto Minniti o alla Legittima Difesa sono tutte da destra!). In accordo con le altre forze politiche prendono tempo e cercano di prepararsi alla tornata elettorale. Come lo fanno? Innanzitutto accreditandosi presso i poteri forti: da qui le visite internazionali negli USA e nei vari giri che contano, il convegno di Ivrea etc… Da un altro lato, mettendo bene in chiaro che non vogliono fare politiche di “rottura”. In questi mesi dicono di essere contrari alla patrimoniale, non riconoscono in alcun modo la contraddizione capitale/lavoro e le differenze di classe, dunque l’unica misura “sociale” che immaginano è un reddito di cittadinanza. Reddito di cittadinanza il cui finanziamento proviene solo in piccolissima parte dalla tassazione di chi in questi anni si è arricchito, ma da una molteplicità di misure molte delle quali di dubbia efficacia ed applicabilità. Misure che vanno dai tagli alla spesa pubblica, alla riduzione delle detrazioni fino ad arrivare al divieto di cumulo pensionistico, mentre curiosamente rimangono fuori le spese militari e in particolare le missioni all’estero.

Il caso Roma e il caso Torino da questo punto di vista sono emblematici. A Torino la Appendino, proveniente dalle classi borghesi della città, è di fatto la continuazione delle amministrazioni precedenti. Dalle cariche in piazza al 1° Maggio ai pubblici ringraziamenti alle forze dell’ordine per l’attività contro gli ambulanti “abusivi”, l’Appendino non ha portato alcun elemento di rottura, ma è pienamente compatibile con le logiche di gestione liberali della città. Gestione che ha trionfato anche a Roma. La Raggi, proveniente da ambienti contigui al centrodestra cittadino, ha scelto per la sua amministrazione la continuità più totale, ripescando una serie di nomi in auge nelle amministrazioni passate. Che le inchieste abbiano fatto saltare alcuni di questi nomi (Morra, Muraro), non certifica il loro “essere scomodi per il potere”, ma al contrario, una lotta tutta interna agli apparati di potere, nell’indifferenza dei cittadini romani che per lo più la subiscono. La partita dello Stadio ha attestato l’assorbimento della Raggi dentro la logica liberale: pur di essere riconosciuta come forza responsabile e di governo, l’amministrazione 5 Stelle ha permesso la gigantesca speculazione dei palazzinari romani, tradendo le istanze di molti…
Purtroppo questi aspetti problematici del movimento non riescono mai pienamente ad emergere perché da un lato non è su questo che si focalizza la critica del PD e dei media (attaccare i 5 Stelle su questi punti vorrebbe dire attaccare anche se stessi), e da un lato perché il dibattito interno alla loro compagine è davvero scarso. È veramente impressionante la capacità che hanno i dirigenti di orientare i propri sostenitori prescindendo da qualsiasi elemento di realtà. Nei confronti del Movimento c’è un atteggiamento fideistico che non ha nessuna forza politica: qualsiasi altra fonte di informazione che non siano i siti del Movimento viene infatti ignorata e pregiudizialmente giudicata inattendibile.

Ma, come dicevamo in precedenza, non sono solo i 5 Stelle ad essersi spostati a destra. Lo stesso PD con le ultime primarie ha dimostrato la propria collocazione tra le fila delle forze ultra-liberiste con simpatie destrorse. Il Partito Democratico si è infatti liberato definitivamente da un punto di vista simbolico e materiale di tutti i residui sia della sinistra social-democratica che del cattolicesimo sociale che in qualche modo rallentavano l’azione del gruppo dirigente. A differenza del M5S, il PD non gode di piena fiducia da parte della sua base ma grazie ad una fitta rete clientelare riesce comunque a mantenere un certo livello di consenso. Il gruppo dirigente del PD in questo momento sta operando in modo da aizzare le pulsioni più razziste del paese per potersi presentare, alla vigilia delle elezioni, come quelli che comprendono umanamente queste spinte ma a differenza dei razzisti più beceri le sanno temperare con un generico umanitarismo e con il rispetto delle regole. Il PD vuole presentarsi come la forza responsabile che sa governare il fenomeno, che sa fare sicurezza: per questo però ha bisogno che i mostri esistano (l’immigrato stupratore, il leghista anti-europeista) e siano ben presenti nell’immaginario complessivo.

In ultimo abbiamo il centrodestra. Con in primo piano la Lega Nord di Matteo Salvini, che in questi anni ha cercato di accreditarsi come forza non più regionale ma nazionale. La strategia di Salvini è estremamente semplice e ricalca sia politicamente che comunicativamente l’esperienza del Front National in Francia e dell’Alternative Right di Trump negli USA. Un esperimento, quello di Salvini, che però sembra essersi consumato. Salvini ha infatti una serie di problemi di non facile soluzione. Da una parte ha qualche difficoltà a far digerire questa svolta nazionale alla base storica della Lega e a una parte dell’apparato (anche se con le ultime “primarie” sembra aver liquidato l’opposizione interna), da un’altra ha un’oggettiva difficoltà ad accreditarsi al Sud a causa della storia del suo partito da sempre caratterizzato da un forte anti-meridionalismo. Infine, la connotazione regionale e secessionista della Lega gli impedisce di assorbire la galassia della destra nazionalista, che resta scomposta in altre formazioni. Non a caso i sondaggi danno da molto tempo la Lega inchiodata al 12-13%.
L’altro pezzo significativo del centrodestra, ovvero Forza Italia, ha invece adottato un atteggiamento attendista. Aspetta che si chiarisca meglio il quadro generale e in particolare la situazione dal punto di vista della eleggibilità di Silvio Berlusconi. Si sente più forte di prima perché sa che la Lega non ha possibilità di sfondare, e che ha bisogno dell’alleanza con loro e con Fratelli d’Italia, e pensa così di poter guidare la coalizione, magari recuperando vecchi ceti politico-clientelari sui territori (da qui la proposta di un proporzionale con premio di alla coalizione, per mettere su un listone di 10-15 formazioni che racimoli percentuali ovunque, come sta già accadendo nella tornata amministrativa).

Insomma, sul piano della politica istituzionale non c'è al momento nessuno in grado di contrastare la destra nelle sue varie declinazioni. Possiamo infatti chiudere questa carrellata con Sinistra Italiana e i fuoriusciti del PD: parliamo di soggetti la cui inadeguatezza umana, la cui ignoranza della vita della classe, la cui storia del tutto compromessa con le contro-riforme dagli anni ’90, li rende invisi alle masse. È davvero difficile ipotizzare che soggetti del genere possano giocare il ruolo che – partendo, andrebbe sempre ricordato, da una posizione di outsider – hanno giocato Syriza, Podemos e Mélenchon. Davvero difficile ipotizzare che questo ceto politico, litigioso, più preoccupato delle poltrone che dei cittadini, incapace di una proposta politica realmente di rottura, possa rispondere alle reali esigenze delle classi popolari e di suscitarne l'entusiasmo. Una volta che il PD di Renzi chiuderà la partita della legge elettorale, magari con una soglia di sbarramento alta, del 5%, non resterà a questo puzzle che mettersi insieme e sperare che la loro piccola base non opti per il “voto utile” a Matteo Renzi, in chiave anti-lega e anti-5 Stelle…

La situazione è quindi veramente brutta. Non possiamo sapere chi uscirà formalmente vincitore dalle elezioni che ormai si preparano ma, da un punto di vista sostanziale, possiamo affermare che sarà di certo la destra a vincere. Destra che potrebbe trionfare nella sua variante più reazionaria e fascista proprio a causa di questa folle competizione tra M5S, PD e Lega. Cosa fare per contrastare tutto questo?
3. Come reagire?
Da una situazione difficile non si esce facilmente. Quindi sarebbe assurdo pretendere di avere la Soluzione e di poterla esporre in una pagina. D’altra parte siamo stanchi di chi non sa offrire nessun tipo di appiglio, neppure in via sperimentale, e adotta una posizione attendista, immaginando di potersi sedere e aspettare che la bufera passi… Certo, se le masse irrompessero sulla scena pubblica facendo saltare questi equilibri, tutto sarebbe più facile: ma nel frattempo che questo accada, noi abbiamo comunque il compito di incentivare tale presa di coscienza, di educare e di autoeducarci, di sviluppare pratiche che possano da subito liberare i nostri territori, e dare al momento giusto la spinta decisiva.
Nella Lettera del mese scorso abbiamo provato a spiegare come ci stiamo organizzando e abbiamo sintetizzato alcuni concetti per noi centrali in questa fase: http://jesopazzo.org/index.php/blog/426-una-lettera-da-je-so-pazzo Ora vogliamo aggiungere alcune considerazioni su ciò che ci serve, sperando di aprire un dibattito a livello nazionale, o almeno di avere qualche riscontro. 
1. Dobbiamo imporre il nostro piano di gioco. Se le forze politiche istituzionali, non avendo risposte da dare ai veri problemi delle classi popolari, cercano di guadagnare consenso facendo leva sulle paure, alimentando odio e razzismo, noi dobbiamo rifiutare il loro piano di gioco. Dobbiamo sforzarci di portare il dibattito sul piano in cui noi abbiamo proposte e soluzioni, mentre loro non hanno nulla da dire e non possono fare nulla. Per quanto assurdo possa sembrare, siamo noi gli unici ad avere le ricette per migliorare la condizione di vita delle masse. Siamo noi che non abbiamo paura a dire dove vogliamo andare a prendere i soldi. Dobbiamo investire il piano politico-generale non solo facendo testimonianza, ma ponendoci in termini di proposte concrete, in grado di incidere realmente, di accumulare anche piccole vittorie tattiche, di avere un programma. 
L’insegnamento che viene dalla Francia è che, se si affrontano i temi che interessano le classi popolari, il riscontro in termini di consenso si ha. Non bisogna farsi ipnotizzare dall’avversario ma mantenere un contatto con le masse che ci permetta di interpretarne le istanze. Sembra una cosa estremamente complessa da attuare ma in realtà, come dimostra per certi versi il buon risultato di Mélenchon in Francia, è più facile di quanto non si pensi. 
2. Non cedere su antifascismo e antirazzismo. Ovviamente, non possiamo non pronunciarci sulle questioni sicurezza e razzismo. Ma non ci serve alcun “sì, ma…”: non c’è da scimmiottare o da inseguire la destra: dobbiamo avere in ogni contesto il coraggio delle nostre idee, internazionaliste, per la pace fra i popoli, contro le armi. Dobbiamo denunciare il carattere razzista e classista dei provvedimenti come quello di Minniti, fare corretta informazioni sui numeri, sui reati. E soprattutto proporre dei momenti di affratellamento, di comunicazione, in cui la potenza dei legami umani si mostri in tutta la sua bellezza. A un discorso di odio fra gli oppressi dobbiamo saper contrapporre un discorso di amore fra gli oppressi e di odio contro gli oppressori. Un messaggio semplice, quello di una nuova umanità. 
Nel frattempo dobbiamo applicare rigorosamente il controllo popolare sull’accoglienza, e mostrare che su quel tema c’è una convergenza palese fra Stato e mafia, che quei soldi sono tolti alle tasche degli italiani e non arrivano mai agli stranieri, che nella materialità italiani e stranieri hanno lo stesso nemico.  
3. In tutte le organizzazioni di sinistra serve una rottura forte con il passato. In termini di personale, generazionale, in termini di stile comunicativo. Non è una questione di inseguire il nuovo per il nuovo e tutte quelle sciocchezze che ci hanno propinato per anni. È un problema di credibilità dei dirigenti, di liberare energie ed entusiasmi. A guidare le organizzazioni di sinistra raramente troviamo dei combattenti: più probabilmente troviamo delle persone che ormai hanno accettato il loro ruolo subordinato, e anche se sono rimaste fedeli a certi ideali, non credono davvero che possano avere successo. Così è impossibile conseguire anche la più piccola vittoria. Non conseguire vittorie ti fa diventare risentito, più teso ad affossare gli altri piccoli gruppi con cui ti senti in competizione che a relazionarti alle masse e capire insieme come crescere. Dal Kurdistan, dalla Spagna, dalla Francia, ci è giunto un messaggio di tipo diverso: dobbiamo saperlo ascoltare. 
4. Non ci si può limitare alla metropoli. Sappiamo infatti "dove" si giocherà la partita politica in Italia: in provincia. Ormai è un dato assodato, come dimostrano le consultazioni elettorali e referendarie in USA, GB, Turchia e Francia, che è nella provincia che sfondano le forze della destra. Questa diventa quindi anche per noi una priorità che si traduce nel prestare massima attenzione e supporto a ciò che si muove nei piccoli centri. La destra sfonda non tanto o non solo dove il territorio è più povero o dove è più forte la crisi, ma dove incide di più la paura mediatica e l’ignoranza, dove c’è poca circolazione di cultura, di idee, di arte, di qualsiasi tipo di rinnovamento. Dove c’è poco presidio delle forze democratiche. Lì una piccola minoranza “cattiva”, attenta alla piccola proprietà, timorosa di vedere peggiorate le proprie condizioni, può ottenere una rilevanza politica nazionale, grazie all’attenzione dei media. Per questo dobbiamo cercare di rinforzare in ogni modo possibile l’intervento nelle province.  
Intorno a questi quattro punti pensiamo possa essere costruita una campagna nazionale, un maggiore livello di coordinamento, pensiamo si possano utilizzare questi mesi per animare il dibattito e per imporre dal basso il nostro ordine del giorno. Ricominciamo a parlare di come riprenderci la ricchezza e di quali sono i rapporti di produzione. È questo quello che le classi popolari vogliono sentire. 
E comunque la si pensi, è certo che non possiamo stare a guardare una partita fra Renzi, Grillo e Salvini. Diamoci una sveglia, la nostra vita merita di più, molto di più…