domenica 31 ottobre 2010

ChiamaSilvio Beghelli

Problemi con la questura? Fermo di polizia per furto? E’ mezzanotte e non sapete dove procurarvi un tanga? Attivate subito il vostro ChiamaSilvio Beghelli. Con ChiamaSilvio Beghelli ogni problema è risolvibile in meno di due ore, in modo semplice ed efficiente.
Una volta attivato il vostro ChiamaSilvio Beghelli, il Premier in persona chiama l’ufficio pubblico che vi sta creando dei problemi (questure, agenzia delle entrate, vigili urbani, poste, ferrovie…) assicurando al funzionario di turno che siete la biscugina di Roosevelt, la zia di Lukashenko, la nipotina di Mubarak, la pronipote di Greta Garbo. Contemporaneamente, un funzionario pagato dai cittadini, magari addirittura un consigliere regionale, tipo Nicol Minetti, viene a togliervi dai guai.
Chi ha usato ChiamaSilvio Beghelli ha risolto ogni problema, basta guardare i numerosi testimonial.
M.C. era una soubrette di seconda fila costretta a farsi fotografare seminuda: ha azionato il ChiamaSilvio Beghelli ed è diventata ministro.
M. B. era una venditrice di salmone, ha attivato il suo ChiamaSilvio Beghelli ed è diventata ministro pure lei.
N.L. era una ragazzina di Caserta, ha attivato il ChiamaSilvio Beghelli ed è diventata una reginetta del jet-set.
Visto? Procuratevi subito il vostro ChiamaSilvio Beghelli, l’alternativa sicura al welfare state.
ChiamaSilvio Beghelli è facile, rapido intuitivo. Digitare 1 per interventi sulle forze dell’ordine. Digitate 2 per partecipare alle feste di Arcore. Digitate 3 per farvi regalate un Rolex e settemila euro.
ChiamaSilvio Beghelli, un’alternativa semplice e funzionale al dissolvimento dello stato e della decenza.
Avvertenze. Leggere attentamente le istruzioni all’interno del tanga di piume di struzzo. Non funziona contro le valanghe o le frane, per quello c’è l’efficiente ChiamaBertolaso Beghelli, che può anche crearvi una discarica in salotto in meno di mezz’ora.
Alessandro Robecchi,
Il Manifesto

Garofani maleodoranti

Il vicesindaco di Deruta, Franco Battistelli, afferma che la contestazione per l'intitolazione di una piazza a Bettino Craxi sia frutto di esagerazione e settarismo. Forse Battistelli ha dimenticato cosa ha significato per l'Italia, e per il partito socialista, il craxismo e la partitocrazia. Noi non intendiamo dimenticare
Nei giorni scorsi si è svolta a Roma una “rimpatriata” di ex socialisti. Ma sarebbe meglio dire di ex craxiani perché non è la stessa cosa. C’era quasi tutto il gruppo dirigente del Psi di Bettino: Gianni De Michelis, Giuliano Amato, Rino Formica, Enrico Manca, Claudio Signorile, Giusi La Ganga. Mancavano solo il superbioso Claudio Martelli, lo storico “delfino”, l’unico, come si favoleggiava allora, “ad avere accesso al frigorifero di Bettino”, Fabrizio Cicchitto che assieme alla molto disinvolta Margherita Boniver, è riuscito a riciclarsi alla grande passando dall’altra parte e Ugo Intini, un socialista troppo perbene per trovarsi davvero a suo agio in quella compagnia.
Tema dell’incontro: “Ragionare insieme sui motivi che portarono non solo alla fine del Psi ma anche alla morte della Prima Repubblica”.
Forse avrebbero fatto prima se avessero letto la “lettera aperta” che scrissi a Claudio Martelli, allora vicesegretario del Psi, mio vecchio compagno di banco al liceo Carducci di Milano, sul “Giorno” del 21 gennaio del 1983. Lettera che prendeva spunto da un episodio di ordinaria lottizzazione avvenuto al Teatro dell’Opera di Roma. E se l’avessero letta allora e ascoltato quello che vi si diceva, forse avrebbero evitato la fine ignominiosa che hanno fatto e si sarebbero risparmiati anche la penosa riunione di vecchi “revenant” dell’altro giorno.
Scrivevo in quella lettera dieci anni prima di Mani Pulite: “Possibile che non vi rendiate conto che verso questa intollerabile invadenza (dei partiti, ndr) stanno montando un fastidio e un’insofferenza sempre più grandi ed esasperati? Tu, forse, mi risponderai, come hai fatto in un’altra occasione, che questa insofferenza è ipocrita perché non ci sarebbe lottizzazione se non ci fosse chi è disposto a farsi lottizzare. Ed è vero. Ma è anche vero il contrario: che non ci sarebbero corrotti se non ci fossero i corruttori, così come non ci sarebbero i drogati se non esistessero gli spacciatori. Scusa la crudezza del paragone, ma è che ormai la presenza dei partiti è così omnicomprensiva e totale che anche chi è profondamente estraneo a questo spirito di lottizzazione, di clan e di clientele è costretto, sempre più spesso e suo malgrado, a sottomettersi. Perché senza tessera oggi non si mangia. O quasi. Non si fa carriera, anche la più modesta. Si è destinati a marcire nel corpo di ballo per tutta la vita. ‘Per vivere un po’ bene bisogna vendere l’anima. Non c’è altra via’ dice Ignazio Silone in Vino e pane, scritto in pieno fascismo. Mi pare che siamo ancora lì.È giusto tutto questo? È morale? È democratico? E, soprattutto, è lecito e conforme alla nostra Costituzione e anche, forse, al codice penale? E, al di là di tutto, non è anche pericoloso? Perché chi per vivere deve ‘vendere l’anima’ finisce, a causa del disprezzo che prova per se stesso, per covare un odio sordo e cupo nei confronti di chi ve l’ha costretto, che si va ad aggiungere a quell’insofferenza di cui ti parlavo e che può portare molto lontano”.
Non avete avuto, cari compagni socialisti, la voglia, il coraggio, l’umiltà, l’onestà, la lungimiranza politica di autocorreggervi.
Avete distrutto un partito dalla storia gloriosa, riducendolo a percentuali da albumina.
Avete fatto della parola “socialista”, che vuol dire coniugare l’uguaglianza sociale con la libertà, in sinonimo di “ladro”.
E ora siete lì a illanguidirvi di nostalgia per “i bei tempi andati”. Per voi.
Noi, nonostante tutto quello che è successo dopo sia anche peggio, non vi rimpiangiamo.
Blog: Massimo Fini

APPELLO - Giustizia ed equità per chi manifestò contro la guerra

Il 5 novembre 2010 comincerà il processo di appello per i fatti avvenuti oltre dieci anni fa, il 13 maggio 1999, nei pressi del consolato statunitense di Firenze. Quel giorno migliaia di persone parteciparono a una manifestazione contro la guerra in Jugoslavia, che si concluse appunto sotto il consolato. Vi fu un breve concitato contatto fra le forze dell'ordine e i manifestanti, per fortuna senza conseguenze troppo gravi, se non alcuni manifestanti contusi, fra cui una ragazza che dovette essere operata ad un occhio. Nessuno, sul momento, fu fermato o arrestato, ma in seguito vi furono identificazioni e denunce. Si è arrivati così alle condanne di primo grado, molto pesanti per i 13 imputati: ben sette anni, per le accuse di resistenza aggravata a pubblico ufficiale. Nel dibattimento si sono confrontate le tesi - molto divergenti – delle forze dell'ordine e dei manifestanti. Non intendiamo sindacare le procedure legali, né esprimere giudizi tecnico-giuridici sulla sentenza, ma ci pare che le pene inflitte in primo grado e le loro conseguenze sulla vita delle persone imputate, siano del tutto sproporzionate rispetto alla reale portata dei fatti. Non vi furono, il 13 maggio 1999, reali pericoli per l'ordine pubblico o per l’incolumità delle persone, e non è giusto - in nessun caso – infliggere pene pesanti, in grado di condizionare e stravolgere l'esistenza di una persona, per episodi minimi: perciò esprimiamo la nostra pubblica preoccupazione in vista del processo d'appello, convinti come siamo che la giustizia non possa mai essere sinonimo di vendetta e nemmeno strumento per mandare messaggi "esemplari" a chicchessia. Seguiremo il processo e invitiamo la cittadinanza a fare altrettanto, perché questa non è una storia che riguarda solo 13 persone imputate, ma un passaggio significativo per la vita cittadina e per il senso di parole e concetti che ci sono cari, come democrazia, giustizia, equità.
*** Primi firmatari:
Alessandro Santoro, Comunità delle Piagge
Andrea Calò, consigliere provinciale
Andrea Satta, musicista, Tete de bois
Angela Staude Terzani, scrittrice
Beatrice Montini, Giornalisti contro il razzismo
Carlo Bartoli, giornalista
Catia di Sabato, rappresentante studenti universitari
Chiara Brilli, giornalista
Christian De Vito, ricercatore
Corrado Mauceri, Comitato per la difesa della Costituzione
Cristiano Lucchi, giornalista
Domenico Guarino, giornalista
Emiliano Gucci, scrittore
Enrico Fink, musicista
Enzo Mazzi, Comunità dell'Isolotto
Filippo Zolesi, Sinistra unita e plurale
Folco Terzani, scrittore
Francesca Chiavacci, consigliera comunale
Francesco di Giacomo, musicista Banco del Mutuo Soccorso
Francesco Pardi, senatore
Giuliano Giuliani e Haidi Gaggio Giuliani, genitori di Carlo Giuliani
John Gilbert, Statunitensi contro la guerra
Lisa Clark, Beati i costruttori di pace
Lorenzo Guadagnucci, Comitato verità e giustizia su Genova
Luigi Ciotti, prete
Mauro Banchini, giornalista
Mauro Socini, presidenza Anpi Firenze
Marcello Buiatti, biologo
Marco Vichi, scrittore
Maria Grazia Campus, Comitato bioetica Regione Toscana
Maurizio De Zordo, Lista di cittadinanza perUnaltracittà
Miriam Giovanzana, Terre di mezzo
Moreno Biagioni Rete Antirazzista fiorentina
Ornella De Zordo, consigliera comunale
Paolo Ciampi, giornalista e scrittore
Paolo Solimeno, Giuristi democratici
Petra Magoni, musicista
Pietro Garlatti, rappresentante studenti universitari
Raffaele Palumbo, giornalista
Riccardo Torregiani Comitato fermiamo la guerra Firenze
Sandra Carpilapi, Sinistra unita e plurale
Sandro Targetti, Comitato No Tav
Sandro Veronesi, scrittore
Sara Vegni, Comitato 3 e 32
Sergio Staino, vignettista
Simona Baldanzi, scrittrice
Ulderico Pesce, attore e regista

sabato 30 ottobre 2010

Bunga bunga? Guardiamoci alle spalle

Un consiglio a tutti noi italiani: guardiamoci alle spalle. Perché se ci giriamo vedremo tutto quello che questi anni di governo Berlusconi ci hanno lasciato in eredità.
Disoccupazione, distruzione della scuola pubblica, inflazione galoppante, corruzione, bavagli e censure, cementificazioni, depauperamento del territorio, incultura mento delle nuove generazioni. E queste sono solo alcune cose che alimentano la massa di disastri che ci perseguiteranno per anni.
Tutto questo sta arrivando alle nostre spalle ad una velocità incredibile, mentre il capo del governo è impegnato a giustificare l’ennesimo incredibile espisodio che sta esponendo al ridicolo l’Italia di fronte al mondo intero.
E noi contribuiamo ad alimentare questo gossip, che diventa una vera e propria arma di distrazione di massa. Come il caso della minorenne tunisina, che è solo l’ultimo episodio di brutte storie di ragazzine utilizzate come merce per le voglie di un vecchio voglioso incallito.
E mentre questi episodi della vita privata di Berlusconi rallentano e ridicolizzano il Paese, l’Italia precipita sempre più.
Ma sia chiaro, noi ci guarderemo bene le spalle e non ci faremo coinvolgere nell’unico vero Bunga Bunga che Berlusconi sta tentando di rifilare a tutti gli italiani. Ci sposteremo prima e lasceremo cadere il caimano nel baratro delle sue responsabilità. Ci sposteremo e lo guarderemo volentieri precipitare con un senso di liberazione per esserci tolti dallo stomaco l’unico vero responsabile della drammatica situazione italiana.
Il blog di Gianfranco Mascia

Voghera, targa per i repubblichini

Il sindaco e la giunta Pdl ricordano sei fascisti morti in guerra. Ma nella città centro della Resistenza cittadini e opposizione non ci stanno e minacciano battaglia
La targa in memoria dei repubblichini resta dov’è, sul muro del Castello Visconteo di Voghera, l’edificio che durante la resistenza fu una prigione per partigiani e antifascisti. Lo ha stabilito il sindaco della cittadina, Carlo Barbieri, esponente del Pdl, che a fine settembre si era detto disponibile a riparlare del caso. Mercoledì, durante il consiglio comunale straordinario convocato sull’argomento, invece non lo era affatto: “Tanto il Pdl ha già deciso: quella lapide non si tocca!”. L’opposizione invece ne aveva richiesto la rimozione, ma non è riuscita a spuntarla, pur dividendo la maggioranza. E stasera ci sarà un presidio di cittadini che la memoria l’hanno ancora viva e conosco le storie dei molti uomini rinchiusi lì dentro solo perché antifascisti durante il ventennio. E non accettano che la memoria si cancelli e si invertano i martiri.La lapide non porta la firma del Comune o del committente, ma i nomi delle sei vittime “dei tragici eventi della II guerra mondiale”, fucilate “a conflitto concluso” e “senza alcun processo” il 13 maggio 1945. Si tratta di sei esponenti delle Brigate Nere e della Sicherheits
, reparto per la sicurezza della Repubblica Sociale Italiana diretto dal commando tedesco nel Nord Italia, attivo nell’Oltrepò.La decisione venne presa due anni fa dalla giunta di centrodestra guidata dal sindaco Aurelio Torriani. La posa, sollecitata dell’Associazione dei familiari dei caduti della Rsi, fu autorizzata dall’amministrazione con un parere conforme ma senza nessuna delibera, discussione o voto. Così la targa è stata posata il 28 settembre scorso sul muro esterno del centro storico della Resistenza. A Voghera, da cui provenivano le medaglie d’oroErmanno Gabetta e Franco Quarleri. E’ stato “per pietà dei morti”, ha detto Barbieri.“Non è lecito usare la pietà per i morti per confondere la ragione – ribatte Roberta Migliavacca, dirigente dell’Anpi di Pavia e membro del comitato “Per dignità e non per odio”, nato per la rimozione della lapide. Non si vuole infangare il ricordo, ma la vicenda sta diventando ridicola. Abbiamo sentito affermazioni disonorevoli sui partigiani. Non si possono dire cose che non hanno alcun riscontro”.Mercoledì scorso in aula comunale la maggioranza è riuscita a spuntarla con quindici consiglieri contrari alla rimozione, nove favorevoli e sette astenuti (due della Lega, due del Pdl, due dell’Udc e uno di una lista civica). Francesco Rubiconto, consigliere comunale del Movimento Cinque Stelle, denuncia la presenza in Comune di naziskin. “Era come se presidiassero il territorio”, commenta. Una presenza costante a Voghera, raccontano, dove trovano sostegno in alcuni esponenti politici provenienti dalla Fiamma Tricolore.Da un mese cittadini, partiti e associazioni protestano. E andranno avanti anche dopo il diktat di Barbieri. “Questa sera ci troviamo di nuovo davanti alla targa e rifaremo la manifestazione. Dopodiché nei prossimi giorni organizzeremo alcuni incontri di storia”, annuncia Migliavacca. Nei piani c’è quello di organizzare un convegno perché, “da quel che abbiamo capito, in consiglio comunale la storia è sconosciuta”.“Continueremo a protestare, perché difendiamo la Costituzione”, conferma Rubiconto. “Sto già lavorando alla preparazione di un convegno a cui inviteremo una moltitudine di storici di tutte le aree politiche. Loro citano sempre Giampaolo Pansa e uno storico di Voghera che faceva il vigile”.Ma non solo. Migliavacca intende portare la mobilitazione a livello nazionale “perché la vicenda non riguarda solo Voghera, ma c’è un tentativo di sovvertire la storia nazionale”, mentre Rubiconto vorrebbe proporre di mettere tante targhe sul castello quanti sono i morti fatti dal Fascismo: “ Quanti sono? Ottomila targhe, io le chiederò e voglio vedere la giunta che si riunisce e mi da una motivazione per cui non si può fare”.

venerdì 29 ottobre 2010

La Repubblica di "Bunga bunga"

La Repubblica del Bunga Bunga sta vivendo in questi giorni nuove appassionanti avventure a base di pruriginose rivelazioni, sesso, presidenti del Consiglio, Lele Mora, Emilio Fede e belle signorine.
Il Manifesto, che è un giornale serio e, se permettete, anche un po’ bacchettone, non intende occuparsene. Ma il giornalismo è una brutta bestia, e alcune domande è giusto porsele, sempre considerando il preminente ruolo dell’Italia nel mondo e il suo buon nome sulla scena internazionale.
E’ vero che si tenevano nella dimora di Arcore del Primo Ministro Onorevole Cavalier Silvio Berlusconi (73 anni), nell’anno 2 d.N. (dopo Noemi) festini erotici chiamati Bunga Bunga con la presenza di una signorina detta Ruby (17 anni)?
E’ vero che in questi party si affollavano decine di vip, due ministre, starlette televisive e il premier?
E’ vero che la minorenne maghrebina chiamata Ruby era “l’unica vestita”?
E’ vero che Emilio Fede, come lui ammette, l’ha conosciuta lì, ma che lei dimostrava 25 anni?
E’ vero che il premier ha regalato alla ragazza molti orologi di lusso e soldi?
Noi non vogliamo pescare nel torbido: la storia contiene numerose contraddizioni. Per esempio, ritenete possibile che con tante donne nude intorno, Silvio Berlusconi regali soldi e gioielli all’unica che resta vestita?
E’ vero che la ragazza, minorenne, fermata per un reato (furto) è stata subito rilasciata in seguito a una telefonata da Palazzo Chigi?
E’ vero che da Palazzo Chigi hanno raccontato agli esterrefatti poliziotti milanesi che la ragazza è nipote del presidente egiziano Mubarak?
E in questo caso, la faccenda farà fare passi avanti alle relazioni internazionali della Repubblica di Bunga Bunga? Mubarak come l’ha presa?
E’ vero che l’avvocato Ghedini ha avuto una crisi di nervi?
E’ vero che ad Arcore, dopo le feste Bunga Bunga vanno tutte a fare il bagno nella piscina coperta?
E’ vero che queste nuove rivelazioni accresceranno il prestigio dell’Italia nel mondo dei night-club?
E’ vero che il Bunga Bunga è una specie di rito sessuale (detto anche orgia, se volete) caro a Gheddafi che l’avrebbe insegnato al nostro Premier?
E se così è, Putin non è geloso?
Questi alcuni dei quesiti sollevati dai fatti di cronaca emersi negli ultimi giorni. Troppe domande, in effetti, e così manca qui lo spazio per le considerazioni politiche, l’analisi della situazione, le proposte per il superamento di questa nuova impasse istituzionale.
Ma noi, orgogliosi come siamo del prestigio della nazione e dell’uomo che la guida, non cadremo nella trappola del facile moralismo. Non raccoglieremo il fango gettato sulla classe dirigente dai soliti malintenzionati della stampa.
Noi sosterremo sempre con il sorriso e la massima dedizione il nostro amato Premier, in attesa che egli salga in un prossimo futuro al Quirinale e permetta anche ai corazzieri di partecipare alle feste Bunga Bunga.
Un solo orgoglio, l’Italia!
Un solo grande statista, Silvio Berlusconi!
Un solo grido: Bunga Bunga!
Alessandro Robecchi,
Il Manifesto

Mammolo, Cucciolo, Brontolo....Tàgliolo

Brunetta, il ministro della disocupazione: in tempi in cui la disoccupazione è ormai all'11%, il ministro cala la sua scure sulla
pubblica amministrazione
TAGLIANDO 300.000 dipendenti



Tra il 2008 e il 2013 si stima una riduzione del personale nella pubblica amministrazione di oltre 300mila unità (-8,4 per cento). La previsione è contenuta tra i dati resi noti dal ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, a un anno dalla sua riforma. "Negli anni 2008 e 2009 il personale si è ridotto di circa 72mila occupati, scendendo a 3,5 milioni di unità. Per effetto delle misure in materia di blocco del turnover, contratti di lavoro flessibile e collocamento a riposo, complessivamente tra il 2008 e il 2013 si può prevedere una riduzione dell'occupazione nel pubblico impiego di oltre 300mila unità (-8,4%)". Questa forte riduzione è giustificata dal ministro dalla necessità di ridurre il deficit pubblico. Ma di fronte a questa macelleria sociale, il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi reagisce: “Senza crescita – dice – non si ripiana il debito”. E continua: “occorre attivare il circolo virtuoso che dai consumi evoluti e investimenti lungimiranti porta a redditi alti e ancora consumi e investimenti”. Ma Tremonti tira dritto, mentre il premier si diletta con il “bunga bunga”.

giovedì 28 ottobre 2010

CONTRO PIAZZA CRAXI

IL COMITATO “DERUTA 26 SETTEMBRE”
CONTRO PIAZZA CRAXI.

Il 26 settembre 2010 si è prodotto a Deruta un evento a suo modo storico. Molti cittadini, senza che nessun partito li avesse mobilitati e, spinti solo da uno spontaneo moto di repulsione, si sono ritrovati presso il quartiere dell’Arte per protestare contro l’intitolazione di una piazza a Bettino Craxi, un dirigente politico della prima repubblica, le cui scarse capacità di amministratore della cosa pubblica, sono state oscurate dalle ben più gravi responsabilità penali.
Quegli uomini e quelle donne, che si sono ritrovati in piazza “armati di fischietto” (come è stato scritto da qualcuno) hanno deciso di sedimentare e coltivare quel sentimento di comune indignazione riunendosi in un comitato civico irreversibilmente plurale, che non è espressione di alcuna sigla partitica e si riserva di intraprendere un’azione referendaria affinché l’atto vergognoso compiuto dalla giunta Verbena venga al più presto emendato.
In particolar modo il comitato contesta:
In prima istanza il metodo, ovvero l’unilateralità della decisione, che sebbene presa all’unanimità dal consiglio comunale, non ha proceduto ad alcuna consultazione dei cittadini derutesi, quantomeno di quelli più interessati dal provvedimento e cioè i residenti del quartiere dell’Arte.
Il secondo punto è nel merito: è davvero opportuno dedicare una piazza ad un uomo che, oltre ad aver contribuito in maniera rilevante all’aumento del debito pubblico, che passò da 234 a 522 miliardi di euro (dati valuta 2006), e il rapporto fra debito e pil, che passò dal 69% al 88%
[1], è stato condannato in via definitiva per corruzione (tangenti Eni - Sai) e finanziamento illecito ai partiti (Enimont), e in barba alle sentenze passate in giudicato della magistratura italiana è fuggito dal proprio paese come latitante? Noi crediamo di no.
Non molto tempo fa a Deruta è stato intitolato un parco a Falcone e Borsellino. Il nostro sindaco, tutti gli assessori, i consiglieri della giunta potrebbero affermare in piena coscienza di fronte alle giovani generazioni che i valori espressi dai due grandi magistrati italiani siano compatibili con quelli incarnati da Bettino Craxi?
Forse, mai come oggi, Craxi è davvero divenuto il simbolo più autentico di quest’Italia corrotta, piegata agli interessi dei poteri forti, in cui l’indulgente garantismo del nostro impianto istituzionale si è trasformato in pretesa di impunità e mutua difesa di privilegi castali, ma proprio perché questi tempi sono crudelmente ostili agli esempi di dignitoso valore, oggi più di ieri dobbiamo gridare che i valori del Craxismo non ci appartengono né devono appartenere ai nostri figli.
COMITATO “DERUTA 26 SETTEMBRE” – NO A PIAZZA CRAXI
Per info 3394635746 -3495746475

[1] Fonte Club Ambrosetti – the european house, gennaio 2007, n° 5.

Balla che ti passa

Al posto di Berlusconi cominceremmo seriamente a preoccuparci. Da qualche settimana stanno crollando l’una dopo l’altra tutte le fondamenta del suo strepitoso successo: le balle.
Nel dorato mondo berlusconiano, le bugie hanno sempre avuto gambe lunghissime. Ultimamente invece durano lo spazio di un mattino. Anche perché lui stesso, complice l’arteriosclerosi, contribuisce a strozzarle sul nascere, nella culla. Non riesce più a coordinarsi con se stesso. Aveva appena convinto i suoi fans che non è lui a volere lo scudo Alfano, ma i suoi alleati che glielo impongono a sua insaputa. Intanto che ti fa? Rilascia un’intervista per il nuovo (si fa per dire) libro (si fa per dire) di Vespa e dice l’esatto contrario: lo scudo “è indispensabile contro certi pm”, quindi è lui che lo vuole. Come dice Vergassola, “mente sapendo di smentire”.
Il bello delle sue autosmentite è che è falsa sia la prima affermazione, sia la seconda che la contraddice. Infatti lo scudo non riguarda i pm: non blocca le indagini, ma i processi dopo il rinvio a giudizio, quindi gli serve contro “certi giudici”, non contro “certi pm”, che con o senza scudo continueranno a fare quel che fanno oggi.
A proposito di pm: quelli di Roma, che avevano generosamente aperto un’inchiesta per truffa a gentile richiesta di Storace (loro affezionato cliente) sulla casetta di Montecarlo, hanno chiesto l’archiviazione per Fini e Pontone in quanto non è emersa alcuna truffa. Chiunque abbia letto anche distrattamente il codice penale, lo sapeva fin dall’inizio: la vicenda investe al massimo il costume, o il malcostume, di favorire un parente acquisito vendendo a prezzi modici un alloggio a una società estera da lui segnalata e chiudendo poi un occhio sul fatto che lui l’ha presa in affitto. L’idea di trasformarla in un reato poteva venire solo al Giornale e a Libero, che comprensibilmente non possono sottilizzare sulla questione morale in casa Fini, avendo sempre sorvolato su quelle criminali in casa Berlusconi. Così ora l’affaire Montecarlo è un caso chiuso. Se ne dovranno inventare un altro, ma non faticheranno a trovarlo. E, se non lo trovano, lo inventeranno.
Perché le balle di Berlusconi e famiglia hanno questo di bello: morta una, se ne fa subito un’altra.
Muore tra le puzze la balla del miracolo della monnezza, che non riemerge solo a Napoli, ma pure a Palermo.
Defunge la balla dei brogli della sinistra, fra liste fasulle nel Piemonte di Cota e firme false nella Lombardia di Firmigoni.
Viene a mancare all’affetto dei suoi cari la superballa del “meno tasse per tutti”, visto che le tasse non fanno che aumentare e, col federalismo fiscale, vedrete che festa.
Crollano miseramente le balle sulla “missione di pace”, quella degli italiani-brava-gente che sbarcano in Iraq e in Afghanistan per costruire ponti, scuole, ospedali, piantare fiori, innaffiare le aiuole, baciare bambini: sparavano anche i nostri, persino contro le ambulanze e, ogni tanto, qualcuno rispondeva al fuoco (ci vuole un certo impegno per riuscire a sparare sulla Croce rossa). Chiamasi guerra, non pace.
Evaporano le balle sulla privacy difesa dai “garantisti” del Pdl contro la sinistra e la stampa “giustizialiste”: finanzieri arrestati perché spiano i redditi dei nemici di Berlusconi e li passano a Panorama, dossier accumulati o minacciati dal Giornale contro chi dà noia a Berlusconi, foss’anche la presidente di Confindustria.
Svanisce la balla delle intercettazioni e delle fughe di notizie pilotate dal “partito delle procure” per screditare l’inerme centrodestra: il dvd con le telefonate segrete Fassino-Consorte veniva graziosamente portato in dono a Berlusconi perché lui o chi per lui ne facesse buon uso.
Ora potrebbe sfarinarsi anche la balla del ministro Maroni impavido difensore della polizia contro i violenti che le oppongono resistenza, se solo qualcuno osasse raccontare che Maroni ha una condanna definitiva per resistenza a pubblico ufficiale avendo fatto violenza alla polizia.
Ma sarebbe troppo. Vorrebbe dire che l’informazione informa.
Un lusso che non possiamo permetterci.
Marco Travaglio,
Il Fatto quotidiano

La scuola ai tempi di Gelmini e Tremonti

Niente soldi ai libri di scuola. Il governo riprova il blitz fallito nel 2009 e cancella il fondo da 103 milioni. Lo scorso anno le risorse erano ricomparse nel decreto di Natale, ma questa volta sarà più difficile.

Nel 2011 il governo non ha previsto i fondi per rendere gratuiti i libri testo delle scuole dell’obbligo. Dopo il tentativo fallito in extremis dodici mesi fa, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ci riprova e cerca di far saltare una delle misure caratteristiche della scuola pubblica dal 1967, cioè il fondo per i libri destinato ai bambini provenienti da famiglie meno abbienti, che serve a garantire il diritto allo studio a tutti i ragazzi.
Il capitolo di bilancio della legge Finanziaria che prevede lo stanziamento di 103 milioni per la gratuità dei libri scolastici è stato nuovamente tagliato e ridotto a zero per il prossimo anno. Se le cose resteranno come sono, e non ci sarà uno stanziamento ulteriore nell’annunciato decreto di Natale, tutte le famiglie che mandano i bambini alle primarie (o che sfruttano il comodato d’uso gratuito nella scuola superiore) saranno costrette a sborsare i soldi per i libri di tasca propria.Ma quella dei libri non è l’unica misura del piano governativo: il fondo per il diritto allo studio nelle scuole dell’obbligo viene ridotto di oltre il 70 per cento. In questo modo solo il 30 per cento di chi non può permettersi di studiare potrà farlo, per i bambini delle altre famiglie in difficoltà economiche l’istruzione sarà a rischio. Nello stato di previsione del ministero dell’Economia, alla voce “sostegno all’istruzione” sono calcolati solo 33,1 milioni di euro tra le somme da trasferire alle Regioni per le borse di studio. La riduzione rispetto all’anno scorso è quindi di 84,2 milioni di euro.
Mentre in quello del ministero dell’Università e la Ricerca, il diritto allo studio nell’istruzione universitaria viene ridotto a 25,7 milioni da 100, tagliando 74 milioni. Con l’aggravante che le Regioni, a loro volta, stanno riducendo i finanziamenti a questo genere di misure a causa dei tagli agli enti locali. Il computo dei tagli che la Finanziaria porterà a scuola e università è stato calcolato in 123,3 milioni di euro per l’istruzione prescolastica e di 780,1 milioni di euro per l’istruzione primaria. Per l’istruzione secondaria di primo grado e di secondo grado vengono ridotte rispettivamente di 208,3 milioni e di 841,6 milioni di euro, mentre per l’istruzione post-secondaria, (quella per gli adulti) il taglio è di 7,8 milioni di euro.

Federalismo fiscale, chi paga?

Il problema della pressione fiscale è molto avvertito nel nostro Paese, soprattutto per il peso eccessivo a carico dei lavoratori dipendenti e dei redditi più bassi. Sotto questo aspetto gli interventi recenti non hanno migliorato le cose, preoccupandosi di ridurre il numero degli scaglioni dell’Irpef nazionale, introdurre addizionali Irpef regionali e aumentare la tassazione indiretta, cioè sui consumi.
La riduzione a cinque degli scaglioni Irpef ha limitato la progressività della tassazione diretta, quella sui redditi, che pesa sui lavoratori dipendenti. Inoltre, le addizionali Irpef regionali, al contrario dell’Irpef nazionale, non rispettano per nulla il criterio di progressività. Ad esempio, nel Lazio l’aliquota addizionale è dell’1,4% per tutti i redditi. Anche in Veneto c’è una sola aliquota, ma è dello 0,9%. In Piemonte, invece, ci sono tre aliquote che però variano in modo non progressivo. Ad esempio, coloro che hanno un reddito inferiore a 15mila euro pagano lo 0,9%; l’aliquota passa all’1,3% con un reddito oltre 15mila euro e all’1,4% oltre i 22mila euro; ma sempre su tutto l’imponibile e non, come avviene a livello nazionale, solo sulla parte che eccede lo scaglione precedente. Il panorama delle addizionali è insomma una vera giungla, in cui ogni regione adotta criteri propri, aumentando la confusione - anche a causa dell’intricato ventaglio di deduzioni (18) detrazioni (39) ed esenzioni fiscali (46) - e la disparità di trattamento dei cittadini-contribuenti lungo lo stivale.
A tutto questo si è aggiunto l’aumento della pressione delle tasse indirette sui consumi, dall’Iva alle accise, ai pedaggi autostradali. Scegliere di aumentare le tasse indirette appare un buon escamotage per governi attenti al consenso, in quanto appaiono più “neutre” e sono meno evidenti agli occhi di chi le subisce rispetto alla tassazione diretta. C’è però un grave neo: non sono progressive cioè pesano ugualmente su tutti, su Montezemolo e su Cipputi, che, quando comprano un prodotto o un servizio, pagano la stessa tassa, pur avendo redditi molto differenti.
Il risultato di queste misure è una tassazione fortemente ingiusta dal punto di vista sociale, ed anche anticostituzionale. Infatti, la Costituzione all’articolo 53 afferma che le tasse devono essere progressive, devono aumentare all’aumentare del reddito.
In un quadro siffatto il dibattito recente ha portato molti a concludere che il federalismo potrebbe allentare la pressione fiscale e risolvere la carenza di servizi-infrastrutture in cui versa il nostro Paese, costringendo la classe politica a più efficienti allocazioni delle risorse. Ma sarà veramente così? O non si rischia di accentuare le inique tendenze della fiscalità degli ultimi anni?
Per appurarlo vediamo cosa prevede lo schema di Decreto legislativo in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario, approvato recentemente dal consiglio dei ministri (D.Lgs. 11/10/2010). In primo luogo, emergono i seguenti punti:
Aumento delle tasse. Il decreto prevede la possibilità per le amministrazioni locali di aumentare ancora la tassazione diretta. Il tetto dell’addizionale regionale Irpef sarà dell’1,4% fino al 2013, del 2% dal 2014, e del 3% dal 2015 (art. 5, comma 1). A questo proposito è falso quanto riportato da alcuni giornali, secondo cui i primi due scaglioni di reddito sarebbero stati esentati dall’aumento. In realtà, sempre l’art. 5, al comma 2, dice che “la maggiorazione oltre lo 0,5 per cento non deve comportare aggravio, sino ai primi due scaglioni di reddito”. Se ne ricava che una maggiorazione entro lo 0,5% è prevista per tutti.[1]
Redistribuzione del reddito nazionale a favore delle imprese. Mentre la tassa sui redditi da lavoro dipendente, l’Irpef, aumenterà, è prevista la riduzione e finanche l’azzeramento dell’Irap, la “tassa” pagata dalle aziende per la salute di chi lavora. Fra l’altro è falso che l’Irap non può essere ridotta se viene aumentata l’Irpef, perché all’articolo 4 comma 3 si dice solo che, in caso di riduzione dell’Irap, l’aumento dell’Irpef non può superare lo 0,5%. È da notare, infine, che l’Irap non è propriamente definibile una tassa. Rappresenta il vecchio contributo alla assistenza sanitaria dei lavoratori che nel 1997 venne inclusa, insieme ad altre voci, nell’Irap. Si tratta in pratica di una parte del salario, quella “indiretta”, pagata in servizi pubblici.
Riduzione della progressività della tassazione. Col federalismo fiscale aumenterà l’importanza dell’Iva e delle altre imposte indirette, come l’accisa sulla benzina e la tassa automobilistica, perché queste dovranno compensare la soppressione dei trasferimenti dello Stato centrale alle regioni (articoli 14 e 15). Con l’Iva, ad esempio, si alimenterà il fondo perequativo per le spese regionali (art. 11, comma 5). Si viene così a creare un meccanismo che spingerà ad incrementare proprio la tassazione sui consumi, ovvero la tassazione per eccellenza non progressiva.

Quali saranno le conseguenze sociali del federalismo fiscale? Saranno gravi da almeno tre punti di vista:
Aumenterà il gap tra salari e profitti. Negli ultimi venticinque anni l’8% della ricchezza nazionale si è spostato dai salari ai profitti[2]. Con il federalismo fiscale il divario si allargherà. Il salario diretto verrà decurtato con l’aumento del tetto dell’addizionale Irpef e quello indiretto con la riduzione dei servizi pagati con l’Irap. Nello stesso tempo i profitti, sgravati interamente o parzialmente dall’Irap, aumenteranno. Il divario si aggraverà - è bene precisarlo - anche al Centro-Nord, proprio perché le regioni con meno difficoltà di bilancio e con l’addizionale Irpef allo 0,9%, saranno maggiormente invogliate a favorire le imprese, tagliando l’Irap, e a compensarla, aumentando l’addizionale Irpef.
Aumenterà il gap tra regioni del Sud e del Nord. Non solo in termini di divario nella qualità dei servizi e nella disponibilità di infrastrutture. C’è un altro aspetto che non è stato considerato: la riduzione e ancor di più l’abolizione dell’Irap faciliteranno l’attrazione degli investimenti. E, dal momento che solo le regioni con bilanci in attivo, cioè quelle più ricche del Nord, potranno farlo, il Sud subirà un’ulteriore riduzione dell’afflusso dei capitali e una accentuazione della fuga già consistente della produzione verso il Nord. Il Pil del Mezzogiorno, sceso nel 2009 al livello minimo dall’Unità d’Italia (23,2% sul totale nazionale)[3], rischia un ulteriore tracollo.
La sanità pubblica sarà gravemente ridotta. Con il federalismo si potrà ridurre l’Irap solo se i conti sono in regola e/o in presenza di tagli massicci alla spesa, ovvero con la riduzione del servizio. Già oggi si stanno chiudendo reparti e interi ospedali, con il federalismo fiscale ci sarà una vera ecatombe. Molti territori di provincia saranno costretti a fare capo alle strutture sopravvissute lontane decine di chilometri, con tutto ciò che ne consegue. Molti lavoratori rimarranno senza assistenza, con il non trascurabile effetto che la sanità privata avrà più spazi.


Ci sarà, dunque, una spinta a diminuire le tasse alle imprese, che è il vero obiettivo del federalismo, ed è per questa ragione appoggiato da Confindustria. Di conseguenza, si compenserà il taglio alle aziende con la riduzione dei servizi e/o con l’aumento dell’addizionale Irpef e delle tasse sui consumi, anche perché il taglio dell’Irap è a carico esclusivo delle regioni (art.4, comma 2).

Il vero nodo della fiscalità italiana è la più alta evasione fiscale d’Europa, stimata in 100 miliardi di euro, ovvero il 7% del Pil, un dato superiore al deficit pubblico, che ammonta al 5,2%.
I maggiori responsabili dell’evasione sono gli industriali (32%), e l’incremento maggiore degli evasori nel 2010 si è registrato al Nord, in particolare nelle virtuose Lombardia (+10,1%) e Veneto (+9,2%)[4].
La questione fiscale è e diventerà sempre più importante nel nostro Paese e in generale nei Paesi più avanzati. Naturalmente è questione cruciale nella determinazione del salario reale complessivo, riguardando il salario indiretto ed il welfare, che è sotto attacco in tutta la Ue. E poi, con il permanere della crisi e la pressione dei mercati a ridurre deficit e debiti pubblici, la spinta ad aumentare le tasse rischia di essere sempre più forte. Quindi, decidere chi e in che misura deve pagare le tasse sarà decisivo.
Domeico Moro,
Economista, consulente Filmcams-Cgil.


[1] Bisogna, inoltre, considerare che, al di là dei primi due scaglioni Irpef, il cui limite massimo è stato abbassato dal governo Berlusconi da 29 a 28mila euro lordi, l’aumento colpisce molti lavoratori. Infatti, 28mila euro corrispondono a poco più di 1400 euro per 14 mensilità di un lavoratore single o a 1500 euro per un lavoratore con coniuge e un figlio a carico. Quindi, percepire importi di 1500 euro o di 1600 euro, non certo redditi da nababbi, comporta il ricadere in aumenti al di sopra dello 0,5%.
[2] L. Ellis – K. Smith, The global upward trend in the profit share, Bank for International Settlements, luglio 2007. Vedi anche M. Ricci, Il declino degli stipendi, la Repubblica, 3 maggio 2008, e M. Mucchetti, “Torna il tema della redistribuzione”, Corriere della Sera, 24 agosto 2008.
[3] Per i dati storici vedi di Vittorio Daniele e Paolo Malanima, “Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004)”, Rivista di politica economica anno XCII – serie III, marzo-aprile 2007 fascicolo III-IV, p.267-seguenti. Per il dato 2009 vedi il Sito web dell’Istat, Tabella allegata a Istat -Statistiche in breve, Principali aggregati dei conti economici regionali anno 2009, 28 settembre 2010.
[4] Sportello del contribuente (Contribuenti.it-Associazione contribuenti italiani), Rapporto del contribuente 2010.

martedì 26 ottobre 2010

Grande ambizione e piccole ambizioni

Può esistere politica, cioè storia in atto, senza ambizione? "L'ambizione" ha assunto un significato deteriore e spregevole per due ragioni principali:
1) perché è stata confusa l'ambizione (grande) con le piccole ambizioni;
2) perché l'ambizione ha troppo spesso condotto al più basso opportunismo, al tradimento dei vecchi principi e delle vecchie formazioni sociali che avevano dato all'ambizioso le condizioni per passare a servizio più lucrativo e di più pronto rendimento.
In fondo, anche questo motivo si può ridurre al primo: si tratta di piccole ambizioni, poiché hanno fretta e non vogliono aver da superare soverchie difficoltà o troppo grandi difficoltà, o correre troppo grandi pericoli.E' nel carattere di ogni capo di essere ambizioso, cioè di aspirare con ogni sua forza all'esercizio del potere statale. Un capo non ambizioso non è un capo, ed è un elemento pericoloso per i suoi seguaci: egli è un inetto o un vigliacco. (…) La grande ambizione, oltre che necessaria per la lotta, non è neanche spregevole moralmente, tutt'altro: tutto sta nel vedere se l'"ambizioso" si eleva dopo aver fatto il deserto intorno a sé, o se il suo elevarsi è condizionato consapevolmente dall'elevarsi di tutto uno strato sociale e se l'ambizioso vede appunto la propria elevazione come elemento dell'elevazione generale.Di solito, si vede la lotta delle piccole ambizioni (del proprio particulare) contro la grande ambizione (che è indissolubile dal bene collettivo).
Queste osservazioni sull'ambizione possono e devono essere collegate con altre sulla così detta demagogia. "Demagogia" vuol dire parecchie cose: nel senso deteriore, significa servirsi delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini particolari, per le proprie piccole ambizioni (il parlamentarismo e l'elezionismo offrono un terreno propizio per questa forma particolare di demagogia, che culmina nel cesarismo e nel bonapartismo con i suoi regimi plebiscitari), ma se il capo non considera le masse umane come uno strumento servile, buono per raggiungere i propri scopi e poi da buttar via, ma tende a raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono il necessario protagonista storico, se il capo svolge opera "costituente" costruttiva, allora si ha una "demagogia" superiore; le masse non possono non essere aiutate ad elevarsi attraverso l'elevarsi di singoli individui e di intieri strati "culturali".
Il "demagogo" deteriore pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a sé, sistematicamente schiaccia ed elimina i possibili concorrenti, vuole entrare in rapporto con le masse direttamente (plebiscito, grande oratoria, colpi di scena, apparato coreografico fantasmagorico) (…)
Il capo dalla grande ambizione, invece, tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e la massa, a suscitare possibili "concorrenti" ed uguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo. Egli pensa secondo gli interessi della massa, e questi vogliono che un apparato di conquista e di dominio non si sfasci per la morte o il venir meno del singolo capo, ripiombando la massa nel caos e nell'impotenza primitiva.
Se è vero che ogni partito è partito di una sola classe, il capo deve poggiare su di questa ed elaborarne uno stato maggiore e tutta una gerarchia; se il capo è di origine "carismatica", deve rinnegare la sua origine e lavorare a rendere organica la funzione della direzione, organica e coi caratteri della permanenza e continuità.
di Antonio Gramsci,
Liberazione 26 ottobre 2010

lunedì 25 ottobre 2010

Le bugie di Marchionne, le reticenze di Fazio

C’è voluta Luciana Littizzetto con l’efficacia della battuta comica, per ascoltare una domanda vera diretta a Sergio Marchionne, ieri sera a “Che tempo che fa” .
L’umorista torinese ha infatti chiesto esplicitamente che fine fa Termini Imerese e se davvero la chiusura dello stabilimento siciliano è l’assaggio di una Fiat che ormai se ne va all’estero e si “libera” del “peso Italia”. Peccato che Marchionne non fosse più presente e che quindi fosse libero, lui sì, di eludere la domanda. Molto soddisfatto, si suppone, delle domande che fino a qualche minuto prima gli aveva porto con garbo, in oltre venti minuti di intervista (un’enormità in televisione) il buon Fabio Fazio.
Eppure le domande giuste è lo stesso Marchionne a tirarsele dietro, grazie al suo stile diretto, franco, un po’ arrogante ma esplicito. Ecco cosa si poteva chiedere e Fazio si è ben guardato dal fare.
1. L’Italia, dice Marchionne, è al 118° posto della classifica sulla “Efficienza lavoratoriva” e al 48° nella graduatoria sulla competitività, redatta dal World Economic Forum. Ma quanto è attendibile questa classifica?

E, soprattutto, di chi è la colpa? L’Italia è la seconda industria manifatturiera del mondo per prodotto pro-capite e la quinta al mondo per produzione complessiva. Davvero è così scarsa in efficienza lavorativa?


La Ferrari e la Maserati del gruppo Fiat dove si collocano, non sono forse in Italia? E come fa a essere produttivo un gruppo che tiene uno stabilimento con oltre 5000 operai, Pomigliano, in cassa integrazione da quasi due anni, che ha già chiuso Termini Imerese e che utilizza la Cassa integrazione a singhiozzo anche per Mirafiori e Melfi? Non è un problema dell’azienda?


Ancora, i bilanci recentemente presentati da Fiat parlano di utili prodotti in particolare dalla macchine agricole (Cnh) e dai camion (Iveco). Non sono anche in Italia gli stabilimenti di queste due aziende?
2. Fazio ha voluto incentrare lo scontro su Pomigliano attorno alla questione delle pause che nell’accordo siglato a giugno vengono ridotte da 40 a 30 minuti. Lo stesso accadrà a Melfi dalla fine del 2011. Ma, come ha spiegato lo stesso Marchionne, «non è questo il punto».
In realtà, gli operai non sono contenti di questa soluzione ma è altrettanto chiaro che la stessa Fiom non intende alzare barricate su pause, 18 turni e straordinari.


Il punto è infatti un altro, solo che nell’intervista non è stato nemmeno toccato. Si è parlato di «diritti» difesi dal sindacato e «assolutamente non toccati» dall’azienda, come ha sottolineato l’ad Fiat. Ma si poteva tenere una copia dell‘accordo di Pomigliano sotto gli occhi e leggere il punto 15 denominato “Clausole integrative del contratto nazionale di lavoro”: "Le Parti convengono che le clausole del presente accordo integrano la regolamentazione dei contratti individuali di lavoro al cui interno sono da considerarsi correlate ed inscindibili, sicché la violazione da parte del singolo lavoratore di una di esse costituisce infrazione disciplinare di cui agli elenchi, secondo gradualità, degli articoli contrattuali relativi ai provvedimenti disciplinari conservativi e ai licenziamenti per mancanze e comporta il venir meno dell’efficacia nei suoi confronti delle altre clausole". Alla clausola 14 inoltre si prevede «che il mancato rispetto degli impegni ivi assunti dalle organizzazioni sindacali e dalle Rsu (…) anche a livello di singoli componenti (…) libera l’azienda dagli obblighi derivanti dal presente accordo nonché da quelli derivanti dal Ccnl Metalmeccanici in materia di: contributi sindacali, permessi sindacali retribuiti, organi direttivi nazionali e provinciali». Insomma i diritti violati dall’accordo sono i diritti stabiliti dal contratto nazionale di lavoro, compreso il diritto ad ammalarsi violato al dispositivo n. 8. Ma di tutto questo Fazio non ha chiesto nulla.
3. Marchionne ha fatto una promessa in diretta tv: se mi date mano libera, cioè «se rendete le fabbriche governabili porto i salari italiani allo stesso livello di quelli europei», di Francia e Germania, in particolare di quest’ultima presa come riferimento obbligato.


Bene. In Germania i salari sono circa il doppio di quelli italiani – alla Volskswagen si oscilla tra i 2500 euro al mese e i 3000 e si lavora 32 ore la settimana; in Italia si oscilla, per 40 ore contrattuali tra i 1200 e i 1500 – come è possibile realizzare un simile obiettivo quando l’Accordo sul modello contrattuale siglato da Confindustria, Cisl e Uil, nel gennaio del 2009, riduce la possibilità di aumenti salariali al passo con l’inflazione? Solo con il secondo livello e gli aumenti di produttività? Ma se la Fiat quest’anno, unilateralmente, ha cancellato il premio di produttività. In quanti anni, decenni forse, è realizzabile quell’obiettivo?
4. Marchionne ha parlato di Melfi e dei tre operai licenziati perché, secondo l’azienda, bloccavano un carrello di trasporto dei pezzi di ricambio. «E’ anarchia non si può governare una fabbrica di migliaia di persone con gente così». Eppure quei tre operai sono ricorsi al giudice, che ha sentenziato l’illeggittimità del loro licenziamento e il loro reintegro in fabbrica (che la Fiat contesta con il ricorso in appello). Al fianco di quei tre operai la scorsa estate si è pronunciato addirittura il Capo dello Stato che, evidentemente, non ha giudicato «anarchico» il loro comportamento. Eppure Fazio non se n’è ricordato.
5. Marchionne ha annunciato che l’Italia per i bilanci è un peso (e abbiamo visto però il contributo che dall’Italia ricevono i conti della Fiat) e ha affermato con nettezza, senza alcuna obiezione, che comunque «il conto con lo Stato la Fiat l’ha ripagato e che non intende chiedere altri aiuti».


Due bugie senza alcuna contestazione. Quando sarebbe stato ripagato il conto? In che modo? Qualcuno può esibire un versamento, un’elargizione allo Stato, qualcos’altro?


Marchionne può forse vantare la creazione di migliaia di posti di lavoro? Nel 2000 gli addetti del gruppo erano circa 74 mila oggi superano di poco i 50 mila. Nel comparto Auto si è passati da 30 mila a 22 mila considerando ancora i dipendenti di Termini Imerese. Questo è il conto saldato? Quanto agli aiuti, non è un mistero che Fiat stia premendo per ottenere nuovi incentivi per l’auto a metano ovviamente con il pretesto dell’auto ecologica.


La Fiat negli ultimi due anni può vantare aiuti pubblici per circa 14 miliardi: 8 miliardi ricevuti da Obama per salvare la Chrysler, 2 dalla Russia, 2 dal Messico, 1 miliardo circa per lo stabilimento in Serbia, 1 miliardo per lo stabilimento polacco di Tychy e quello in Turchia. Più gli incentivi di cui ha beneficiato in Italia e soprattutto la cassa integrazione ordinaria, straordinaria e in deroga utilizzata a piene mani per far fronte alla crisi. Il debito con l’Italia è ancora del tutto aperto e con l’ipotesi di andare via, in realtà, la Fiat punta a non pagarlo mai.
6. Alla domanda se si prepara a scendere in politica, Marchionne ha risposto con non chalance che non ci pensa nemmeno, lui continuerà a fare «il metalmeccanico».


Senza polemizzare, si sarebbe potuto chiedere serenamente quanto guadagna «il metalmeccanico Marchionne». I dati sono stati resi pubblici dalla Fiat: nel 2009 il compenso ricevuto dall’amministratore delegato è stato di 4,78 milioni di euro, di cui 1,35 milioni a titolo di bonus. Il presidente della Fiat, Luca Cordero di Montezemolo ha percepito, anche in forza della carica rivestita nella Ferrari, 5,17 milioni di euro. Un metalmeccanico vero guadagna circa 30 mila euro lordi e per guadagnare quello che Marchionne guadagna in un anno dovrebbe lavorare 160 anni. Si poteva concludere così l’intervista, senza retorica.


Salvatore Cannavò,


Il Fatto quotidiano


Come si guadagna da vivere un piddino che fa la morale ai NO TAV

Il dis-onorevole Esposito (PD) accusa cittadini della Valsusa di essersi arricchiti con la lotta al TAV e si chiede come vivono altri cittadini. Bene, vediamo un po’ come si guadagna il pane il dis-onorevole Esposito…..




Stefano Esposito, eletto nella circoscrizione Piemonte 1, in carica dal 29/04/2008 è stato assente in parlamento per ben 1300 votazioni elettroniche, vale il dire circa il 20% del totale.
Se si prendono in considerazione le 40 votazioni più importanti della legislatura sia per la rilevanza della materia trattata, sia per il valore politico del voto, scopriamo che il nostro onorevole è stato assente per ben 12 volte e la percentuale di assenze sale al 30%
In particolare era assente il 2 ottobre 2009 alla votazione sulla legge sullo “scudo fiscale”. Con questo voto è stato convertito in legge il decreto anticrisi 103 del 2009 con l'introduzione di alcune modifiche. Tra queste viene decisa l'estensione dello "scudo fiscale" anche ai reati tributari e alle violazioni contabili, compreso il falso in bilancio.
L'assenza al voto di 23 deputati del PD, che avrebbero potuto essere determinanti per bocciare il provvedimento, ha scatenato una lunga serie di polemiche. La dirigenza del PD aveva all’epoca minacciato provvedimenti contro gli assenteisti, ma poi non se n’è più saputo nulla. Ricordiamo che il dis-onorevole Esposito ha sempre richiesto e continua a richiedere a gran voce che venissero presi provvedimenti contro Sandro Plano e gli altri “sindaci ribelli”del PD valsusino, non allineati alle disposizioni del partito sulla vicenda TAV. Predica bene e razzola male!
Era assente anche il 10/07/2008 quando si votava per l’approvazione del “Lodo Alfano”, cioè le disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato.
Era assente il 13/10/2009 quando si votava sul decreto legge in materia di reati commessi per finalità di discriminazione o di odio fondati sull’orientamento sessuale, per la repressione delle discriminazioni per motivi razziali, di orientamento sessuale o di identità in genere.
Era assente l’8/01/2009 per la conversione in legge della riforma Gelmini dell’Università.
Era assente il 05/08/2009 quando si votava la legge su Sviluppo, Pubblica Amministrazione, Piano Casa, Scuola, Università.
E si potrebbe continuare…..
Insomma, il nostro dis-onorevole è spesso assente dal luogo di lavoro e lo è anche in occasione di votazioni importanti.
Naturalmente era presente il 21/09/2010 quando si è votato per l’abolizione del vitalizio che spetta ai parlamentari dopo solo 5 anni di legislatura proposto dal deputato Antonio Borghesi dell’Italia dei Valori che affermava cha tale trattamento risultava iniquo rispetto a quello previsto dai lavoratori che devono versare 40 anni di contributi per avere diritto ad una pensione.
E naturalmente in nostro DIS-onorevole Esposito ha votato contro insieme ad altri 497 deputati su 520 presenti!!!

E i lauti emolumenti scorrono ugualmente : 20.000 €. Mensili!
Presente o assente, non cambia nulla, guadagna in un mese quanto un operaio guadagna in un anno!!!
Comitato No Tav Susa-Mompantero

domenica 24 ottobre 2010

SOTTO IL VESTITO IL NULLA

Dato il clamore attorno al congresso fondativo di Sinistra Ecologia e Libertà (SEL), mi sono tolta lo sfizio di andarci, proprio oggi, quando erano previste, per le 11,30, le conclusioni di Vendola. Siccome la sala era gremita in ogni ordine di posti, come molti altri, ho ascoltato il discorso di chiusura dall'esterno. Poche riflessioni a caldo dunque.
Più che un discorso politico, Vendola ha svolto un'omelia. Io sarei per dargli il titolo di Sua Eccellenza. Una straordinaria abilità di suscitare applausi scroscianti (li stavo contando, poi, arrivata ad una trentina, ho perso il conto) abilmente tenendosi alla larga dal dare risposte stringenti sul che fare qui e ora. Una sola cosa s'è capita: Vendola vuole il ribaltone, un "governo di scopo", ma solo "tecnico", per fare una nuova legge elettorale e correr subito alle primarie e al voto
Un vero discorso da prete insomma, evocazioni letterarie a iosa, citazioni fiabesche, riferimenti strappacuore, Aldo Moro citato due volte a sottolineare la prossimità sua al conterraneo, una modulazione dei toni fatta apposta per suscitare l'applauso. Un discorso, insomma, letterario e astratto, una sequela di buone intenzioni. Reticenza totale riguardo all'evocato "nuovo modello sociale". Aperture a destra e a manca, ai lavoratori e alle imprese, ai cattolici e agli atei, e via parlando.
Un neo-buonismo di stampo veltroniano insomma. Ci mancava soltanto che interpolasse il famigerato: "ma anche". Mai una volta citata la parola socialismo. Mai una volta la parola anticapitalismo. mai una volta lotta di classe. mai una volta ha evocato la fuoriuscita dal capitalismo.

Ha citato sì la parola "radicale", ma solo per spiegare, con la scusa di "uscire dalla vocazione minoritaria", che non occorre esagerare con la radicalità. Il perché è facile da comprendere: Vendola si è gettato nella mischia, è entrato nel perimetro di gioco della casta e in barba alle sue tirate contro il politicismo, egli sottende una strategia politicistica della più bell'acqua. Vi dirò: qui non si respirava aria di opposizione, ma di governo.
L'ipotesi di Vendola, insomma, a me pare tutta interna al sistema politico, anzi, tutta interna ai giochetti della casta. S'è capito quando, ha insistito che non occorre affezionarsi troppo al neonato partito. Vendola ha fatto chiaramente capire che SEL è uno strumento provvisorio, un ponte verso una futura e ben più grande (e moderata) formazione politica, forse, una grande corrente in un nuovo PD (non sarà un caso che in occasione di questo passaggio delicatissimo la platea è restata freddina).
Non venire a dirmi che il vendolismo è una specie di "riformismo" post litteram. Se ho capito cos'era il "riformismo", esso consisteva nel tenere ferma l'alternativa socialista, postulando il passaggio per mezzo di riforme e dell'uso delle istituzioni. Nel suo attesissimo discorso conclusivo, come dicevo, Vendola mai ha evocato, nemmeno nella forma narrativa o letteraria che ama tanto, la necessità di andare oltre al capitalismo.
Cosa ha in testa Vendola? Non è chiaro fino in fondo. Tra le nebbie del suo copione, si sente la sua ambizione personale di vincere le primarie e diventare candidato primo ministro. Che Vendola sia pieno di sé, è infatti indubitabile. Una specie di controfigura di sinistra del Berlusconi-narciso.
Tant'è che ha concluso urlando che il princpio cardinale della nuova politica, pensate un po', è la "bellezza"! Si, proprio così, Vendola ha concluso la su omelia con un inno alla "bellezza". La bellezza salverà il mondo, mica la rivoluzione.
In tempi di populismo, in quanti lo dicono!, vincono la retorica e la demagogia. Vendola in questo è un vero maestro. Non prendetelo sottogamba.

di Anna De Paolis
giornalista freeland

Saviano il paladino

Per non farsi mancare nulla e leccare un pò di culi democratici il buon Saviano ieri sera non ha avuto nulla di meglio da dire che lui non vuole finire in un paese antidemocratico come Cuba od il Venezuela. Per strada si è perso Israele, La Colombia e L'Honduras; tanto per rimanere a luoghi in cui "democraticamente" si costruiscono muri, si fa la guerra e si fanno colpi di stato senza per scuotere la sua coscienza di indefesso difensore dei diritti di quelli vessati dalla camorra.
Ma si sa Saviano è sionista, non frequenta i barrios di Caracas e neanche si sforza di dare un'occhiata alle ragioni per le quali una nazione viene tenuta in ostaggio, dagli anni ‘50, con un blocco economico dal suo vicino di casa. Non parliamo poi della Colombia, un posto ameno dove si scoprono fosse comuni piene di oppositori, senza che nessuno dica niente. E dire che lì ne avrebbe di materiale per capire chi e cosa tiene legati i fili della sua camorra al traffico di droga che arriva qui da noi.
Ci sarebbe anche da dire qualcosa sulla democrazia da fabbrica alla Marchionne, su cui questi non spendono un nanosecondo della loro vita e delle loro considerazioni, ma lasciamo stare, il discorso diventerebbe troppo lungo.
Saviano è uno che lavora per Mondadori e fa programmi per Endemol, società del buon Berlusconi. E' uno dei tanti che continuano a mangiare nella greppia del "cattivo" padrone. Il suo spessore e la sua "morale" arrivano solo fin lì, ha qualche problema a rescindere il cordone ombelicale che lo lega al satrapo in persona. E perché mai, ci chiediamo, collabora con il nemico contribuendo ad arricchirlo? Misteri di una mente così raffinata che noi, poveri tapini ed irriducibili censori di questo sistema, non riusciamo a capire.
Ieri dall'altro "compagno" Santoro una parte degli italiani ha ascoltato quanto è duro dover combattere per farsi firmare contratti da star internazionale (ma poi che cazzo c'entrano Bono o Benigni con la mafia?) e non poter denunciare, narrandole, tutte le malefatte di questo sistema di ladri.
In effetti è un tipo d'informazione che non ha mai fatto nessuno o un tipo di battaglia a cui si è rinunciato da tempo. Il buon Peppino Impastato era nato nel periodo sbagliato e lui ci aveva rimesso solo la pelle continuando a stare pervicacemente nel paese di cui raccontava la "montagna di merda", da buon comunista. Questi per poterlo fare hanno bisogno della scorta e di pacchi di milioni.
A dare man forte a questo signore c'era la direttrice dell'Unità, la quale si è avventurata su un terreno scivoloso per giustificare il perché certi valori debbano essere riconosciuti. E si riferiva ai soldi, mica ad altro.
Ha detto "fare un certo mestiere mica è come dare il colore ad una staccionata" dando, in questo modo, il benservito a tutti quegli sfigati che al mattino presto riempiono il loro baracchino, prendono il tram e si trascorrono 10 ore del loro tempo nell'amata fabbrichetta o a costruire case per lor signori. In fondo se guadagnano poco è in ragione del loro scarso valore e questo il mercato lo riconosce molto bene.
E allora a questo club esclusivo di radical chic milionari da salotto va il mio lapidario VAFFANCULO.
Non è di voi e del vostro circo mediatico che ho bisogno per capire quanta merda c'è qui in Italia. Mi basta cercare un lavoro, oppure leggere i giornali facendo un presidio sotto un CIE pieno di gente povera e disperata perché senza futuro. Insomma, mi basta continuare a vivere. La differenza è che voi amate stare con il muso dentro quella greppia e quel cordone ombelicale non lo reciderete mai, perché in fondo se va bene a loro va molto bene anche a voi.
di Mario Paravano

da Astratti pensieri e mondo concreto

sabato 23 ottobre 2010

"Vendola? Bene i contenuti. Ma a sinistra ci vuole unità"

Intervista a Paolo Ferrero,
Segretario nazionale di Rifondazione Comunista
di Frida Nacinovich, Liberazione del 23/10/2010


Paolo Ferrero, che impressione ti ha fatto l'intervento di Vendola? Ti è piaciuto?Ho molto condiviso la descrizione della crisi italiana letta come crisi organica, di civiltà oltre che economica e sociale. Così come ho condiviso gli obiettivi di trasformazione che Vendola ha proposto. In particolare ho apprezzato la sua sottolineatura sul valore del lavoro, sulla necessità di rimettere al centro la dignità del lavoro. Sugli obiettivi di fondo siamo d'accordo.
Cosa invece non ti ha convinto?
Detta in una battuta non mi ha convinto la strada che implicitamente più che esplicitamente Vendola propone per realizzare quegli obiettivi.
Ma se Vendola vincesse le primarie....
Ascoltandolo sembra che una sua vittoria alle primarie significherebbe l'improvvisa possibilità di avere una maggioranza parlamentare tutta protesa a costruire l'alternativa in Italia: no alla guerra, acqua pubblica, piattaforma della Fiom sul lavoro...
Ma i partiti ci sono: dal Pd all'Idv, all'Udc. E c'è anche Confindustria.
Come si fa a realizzare quanto evocato da Vendola governando insieme al Pd o addirittura all'Udc? C'è un salto logico fra gli obiettivi enunciati - tutti condivisibili - e le pratiche per realizzarli. Faccio un esempio: il Pd non ha aderito alla manifestazione della Fiom anche se qualche dirigente c'era, l'Udc ne ha detto peste e corna. Dunque bravo Vendola quando parla con accenti positivi di lavoro, di diritti, ma poi, come realizzare questa politica con questo centrosinistra?
L'impressione è che Vendola non sia interessato ad unire quanto c'è alla sinistra del Pd. Dice che bisogna «confrontarci con tutti i soggetti del centrosinistra, anche con l'Idv, che dobbiamo parlare ai compagni della Federazione della sinistra, dobbiamo parlare a Grillo e ai grillini». Insomma, tutti insieme in un unico contenitore.
Neppure io ho sentito nella relazione di Vendola il tema dell'unità a sinistra. Si rivolge direttamente al centrosinistra, in particolar modo al Pd. Credo al contrario che la sinistra vada unita così che le cose indicate anche da Vendola, oltre a dirle, si riescano a fare. Per realizzare quegli obiettivi occorre fare una battaglia politica forte, organizzare una forte sinistra, ricostruire nel paese un movimento della trasformazione a base di massa. Per questo è un passaggio ineludibile proseguire la mobilitazione sociale e unire la sinistra a partire dai contenuti espressi dalla manifestazione dei metalmeccanici della Fiom del 16, per l'acqua pubblica, il no alla guerra in Afghanistan.
E con il Pd come la mettiamo?
Occorre unire tutta la sinistra, costruire un movimento di lotta e a partire da questo incalzare il Pd a partire dai contenuti. Occorre rafforzare il campo della sinistra per poter fare una battaglia politica efficace. Anche per questo sono rimasto deluso da non aver sentito una parola contro il bipolarismo, come se il bipolarismo non fosse stato utilizzato in questi anni da Confindustria per continuare a comandare qualsiasi fosse lo schieramento che governava. Come se il bipolarismo non fosse corresponsabile della deriva populista e plebiscitaria che ammorba la politica italiana oggi.
Vendola vuole cambiare il centrosinistra vincendo le primarie del centrosinistra, Ferrero vuole unire la sinistra. Sono progetti politici molto diversi. Inconciliabili?
Ripeto, grande consonanza sugli obiettivi ma certo si tratta di due progetti politici diversi. Io continuo però a pensare che la nostra gente ritenga necessaria l'unità della sinistra, di quella sinistra autonoma dai poteri forti del paese che invece hanno più di una superficie di contatto con il centrosinistra. Per questo penso dobbiamo continuare ad avanzare la nostra proposta di unità a sinistra, a partire dalle liste per le amministrative. Per noi la necessità dell'unità non è un optional ma un punto decisivo per cambiare il paese.
Nel suo intervento Vendola ha guardato anche giustamente alle esperienze positive che arrivano dall'America latina. Di Europa si è parlato poco.
Ho condiviso molto la valorizzazione delle esperienze latinoamericane. Certo sarebbe stato bene ascoltare qualche parola sul profilo delle socialdemocrazie nel continente. In Europa la battaglia non è solo contro le destre, ma anche contro un pensiero unico che unisce spesso e volentieri centrodestra e centrosinistra al momento di decidere sulle politiche concrete.

I GIORNI DELLE BARRICATE


La popolazione di Terzigno e dei comuni del Vesuviano è in rivolta, sostenuta dai suoi sindaci e dai consigli comunali. Dopo le mancate promesse di "bengodi" di Berlusconi, la spazzatura arriva prepotentemente sui camion verso una discarica nel Parco naturale del vulcano partenopeo. Il governo bolla la gente come "anarcoinsurrezionalisti" e manda contro loro addirittura i blindati.


Terzigno, Boscoreale, Boscotrecase, Ottaviano, ed ancora S. Giuseppe, tutto il territorio intorno al Vesuvio è interamente isolato. All'ingresso di Terzigno si fronteggiano agenti e cittadini, i secondi chiusi in un gazebo che blocca l'ingresso a mo' di barricata. E così per arrivare fin sù, alla discarica, occorre destreggiarsi su improbabili stradine secondarie tra alberi divelti e cumuli. Di rifiuti. I presìdi di cittadini sono ovunque. Come carabinieri, poliziotti, finanzieri. Sono arrivati più di 800 - dicono dal gazebo - e ne arriveranno altri, dopo le parole di Berlusconi. Nessuna tregua, neppure dopo l'ultima notte di scontri, di vera Intifada «con tanto di feriti, di cui - denunciano le mamme vesuviane - nessuno parla». «Hanno già isolato la zona, e tra un po' militarizzeranno tutto», avverte Enzo del movimento di difesa del territorio. E la conferma proviene dai blindati che spuntano dai vicoli, dalle ruspe, dalle decine di agenti schierati in tenuta antisommossa, dagli elicotteri che volteggiano in aria, bassi, che coprono con un rumore sordo ed inquietante le urla e le proteste degli abitanti. Ora i cittadini si riuniscono in sit-in improvvisati, e sono i ragazzi, moderni Masaniello, a bordo di grossi scooter a fare da spola tra un presidio e l'altro, per portare informazioni, per dare notizie su quel che accade altrove. Anche per decidere il da farsi. Le ultime dichiarazioni del premier tengono banco. «Lo scriva, lo scriva - sollecita la signora Anna - qui abbiamo votato tutti per lui. Ma non vediamo l'ora di andare a Roma a strappargli in faccia le tessere». Il primo a farlo, ieri in tarda serata, è stato proprio il sindaco Domenico Auricchio. «L'80% di Terzigno ha votato Centrodestra - dichiara candido - ora non sarà più così: costituiremo una lista del Popolo», urla dal primo pulpito improvvisato per la strada.C'è anche chi, il sindaco, non lo ama in particolar modo. «Pdl, Pd, destra, sinistra, qui si sono comportati tutti allo stesso modo. Hanno preso i soldi e sono scappati, altro che politica», sollecita Antonio. Ma è a Berlusconi che tutti vogliono dire qualcosa. Lo fa, a suo modo, Angelo: «La prego - spiega in un bell'accento partenopeo - mandi a dire a Berlusconi attraverso il suo giornale che per il prossimo compleanno noi non vediamo l'ora di fargli un bel regalo: con quei 14 milioni che ci ha promesso gli regaleremo un bel mazzo gigantesco di fiori... crisantemi possibilmente...». E Gianna, una giovane ragazza che studia all'Università, continua: «Li vogliamo dare anche alla Prestigiacomo e a Carfagna e a Bertolaso pure...». Dicono anche che il Super Commissario Bertolaso, ieri, abbia sorvolato in elicottero la zona, senza mai scendere, «chissà perché...» commenta sorniona la signora Assunta. Ha appena finito di parlare con il suo nipotino al cellulare: «Sa che mi ha detto mio nipote?» racconta, «"Nonna nonna - ha urlato - ma stai facendo la guerra?"». Ed io gli ho risposto: "Alfrè non ti preoccupare, va tutto bene, ma sì, tua nonna sta facendo la guerra"». Qui, d'altronde, l'unica richiesta fatta ai tanti media che assediano soprattutto la rotonda Panoramica da cui si sono susseguite nel corso di questi giorni le cariche e gli scontri è «che si dica la verità: noi - ripetono in tanti, uomini ma soprattutto donne, a telecamere e tv nazionali e non - non siamo camorristi». «Se lo fossimo - dice subito un'altra mamma - secondo lei avremmo questa puzza qui tutte le sere? Ma qui la camorra ci avrebbe costruito il paradiso, glielo dico io». Enzo, del movimento di difesa del territorio, spiega: «Tutti si concentrano su Terzigno e su Cava Vitiello ma sul Vesuvio ci sono ben 8 discariche, tutte illegali, dove si sversa tranquillamente e nessuno lo dice». La denuncia non cade nel vuoto. Così come la protesta che non si è mai fermata. E' quasi al tramonto, mentre si attende l'arrivo dell'ennesima colonna di autocompattatori. lontano una colonna di fumo fa intuire che qualcuno di questi ultimi ha preso già fuoco. E scrosciano gli applausi. A dare la loro solidarietà con tanto di bandiere bianche su cui inneggia un bel "no alla discarica" sono arrivati i cittadini di Chiaiano. E persino il popolo viola con un tam tam in Rete. Così, informa ancora Enzo, i No tav della Val di Susa hanno organizzato un presidio estemporaneo per «essere vicini alla lotta del popolo del Vesuvio». E, a sorpresa, subito circondato da decine di ragazzi si intravede anche Alex Zanotelli. «Il decreto attuato per queste zone - commenta ad alta voce - è assolutamente criminale. Con quello si legittimano 12 megadiscariche e 4 inceneritori nel parco del Vesuvio. Questo è il mio pensiero, spiega, e io sono qui proprio perché questi cittadini stanno difendendo non solo il loro territorio, ma la loro stessa vita». «Noi - aggiunge ancora qualcuno - non cederemo. Ci vogliono uccidere? - conclude - Non importa; tanto qui, se continua così, siamo già morti... ma, per piacere, dica a tutti, la prego, che qui nessuno è camorrista». Arriva la notte e scoppia la prima bomba. Una molotov?
di Castalda Musacchio, Liberazione

Liscia, gassata o «democratica»? A Bersani piace l'acqua industriale

LA PROPOSTA DI LEGGE: Acquedotto pubblico, ma gestione affidata alle società di capitale modello Acea. Ora il testo sarà discusso tra gli iscritti



La proposta del Partito democratico in materia di acqua mi sembra una buona base di discussione». Il plauso della Federutility a Pierluigi Bersani arriva subito dopo la presentazione della piattaforma del Pd sul servizio idrico integrato. Nulla di nuovo, in realtà, e non sorprende l'approvazione da parte dell'associazione che riunisce i colossi dell'acqua e dell'energia. Pubblico - secondo il Pd - deve rimanere solo l'acquedotto, ovvero le reti, mentre la gestione potrà, anzi, dovrà essere affidata a chi garantisce la gestione industriale. In altre parole alle società di capitale, soprattutto quelle miste pubblico private, sul modello Acea e Acqualatina.Il Partito democratico ha formalizzato l'idea di gestione dell'acqua - sponsorizzata dagli ecodem - con una proposta di legge che verrà discussa tra gli iscritti. Un testo in sedici articoli che in sostanza riporta la situazione a prima del decreto Ronchi, con qualche piccolo aggiustamento. L'articolo nove entra nel merito dell'affidamento del servizio. Tre le opzioni: società a capitale interamente pubblico, società mista publico privata e società interamente privata. Nulla di nuovo, in sostanza, rispetto al modello nato nel 1994 con la legge Galli.Anche sul tema delicato della tariffa la proposta del Pd ricalca la legge che per prima privatizzò il servizio idrico, mantenendo la remunerazione del capitale investito, ovvero quel profitto garantito per legge che i referendum del Forum vogliono abrogare. All'articolo 10 si legge che la tariffa sarà composta dai costi d'investimento, dai costi operativi e da una percentuale da stabilire di utile. L'unica novità riguarda la tutela del territorio e delle risorse idriche, con costo sempre a carico dei cittadini, attraverso le bollette. L'articolo 11 del testo tende a risolvere il problema dei gestori che non sono riusciti a creare le fognature. La questione era stata affrontata lo scorso anno dalla Consulta, che aveva stabilito come non fosse dovuto il pagamento della depurazione in quei territori senza fognature a norma. In altre parole se nella mia città ci sono fogne a cielo aperto, non ha senso pagare per un servizio inesistente. Il Pd ci mette una toppa: «La quota di tariffa riferita ai servizi di pubblica fognatura e di depurazione è dovuta dagli utenti anche nel caso in cui manchino impianti di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi». Il Pd, dunque, sposa in pieno il modello industriale, basato sulla gestione dell'acqua da parte delle ricchissime società multinazionali multiutility. Il modello Bersani cerca di attuire i lati più duri e spigolosi dell'ultraliberismo della legge Ronchi - che impone come unico modello la gestione privata - ma si oppone decisamente alla riforma radicale voluta da un milione e quattrocento mila cittadini. E' bene ricordare come il movimento per l'acqua pubblica - dove per pubblica si intende anche la gestione - sia cresciuto negli ultimi anni soprattutto grazie alle battaglie sul territorio contro il modello misto pubblico-privato che finora ha governato le risorse idriche. Oltre al caso eclatante di Acqualatina - dove Veolia controlla il 49% e dove siede nel cda uno dei tecnici del Pd in tema di acqua, Luigi Besson - ci sono le gestioni toscane, divise tra Acea, Suez e la stessa Veolia. La stessa situazione è presente in Calabria, con la Sorical, in Sicilia con Sicilacque (sempre Veolia), in Campania con la Gori (la romana Acea) e nel Lazio con la gestione in provincia di Frosinone e di Roma (Acea, posseduta per il 51% dal comune di Roma e oggi partecipata in buona parte dal gruppo Caltagirone). Nel nord domina l'emiliana Hera, oltre all'A2A, presente in Lombardia. Tutte società figlie di quella «gestione industriale» che tanto piace al Pd.


Andrea Palladino, Il Manifesto

venerdì 22 ottobre 2010

I TRENTA DENARI DI BONANNI E ANGELETTI

METALMECCANICI: Parte da novembre la contribuzione sindacale straordinaria.
Il Confronto delle Idee invita tutti i lavoratori a rifiutare un pagamento dal sapore di beffa.




Poveri operai metalmeccanici, cornuti e mazziati.
Prima si beccano il contratto separato tra Federmeccanica e i sindacati minoritari (FIM e UILM).
Poi si trovano fra capo e collo un nuovo accordo, sempre separato, che prevede delle deroghe al contratto di cui sopra, cancellando di fatto il contratto nazionale.
Infine viene negato, sempre da FIM e UILM, il diritto di discutere e votare quel che è stato deciso, senza delega alcuna, sulla loro pelle.
Potrebbe bastare, e invece no; l’accordo separato prevede che a pagare per la tripla fregatura debbano essere i lavoratori non iscritti a FIM e UILM, previa trattenuta di 30 euro in busta paga.
Perché le trattative costano fatica, e si sa che FIM e UILM hanno dovuto faticare parecchio per strappare a Federmeccanica quel bidone di accordo. Ma siccome Bonanni e Angeletti sono democratici, chi non volesse pagare l’obolo, dovrebbe riempire un modulo da consegnare al padrone rifiutando il contributo. Altrimenti vale la regola del silenzio-assenso.
Pensate ai lavoratori di Pomigliano che hanno votato contro il referendum truffa e adesso dovrebbero pagare 30 euro chi li vuole (sindacalmente morti). Poi dicono che due uova strapazzate sono una forma di violenza criminale.
Dopo la manifestazione del 16 ottobre, in molti hanno insistito per ricostruire l’unità sindacale. Ma dovrebbero anche dire come sia possibile ricostruire un percorso unitario con gli autori di queste politiche sindacali.
Facciamo un esempio: ieri la FIAT ha presentato i conti del terzo trimestre 2010 con un utile netto di 190 milioni di euro. Peccato che il fatturato del settore auto sia fortemente diminuito per il calo delle vendite di auto, come è caduta la quota di mercato della FIAT sia in Italia che in Europa.
Ma allora come riesce a fare utili Marchionne? Azzerando gli investimenti in Italia per l’anno in corso e per il prossimo, visto che i nuovi modelli previsti per il 2011 sono slittati al 2012. Tenendo in cassa integrazione un quarto dei dipendenti del gruppo, e nell’auto molti di più. Non pagando il premio di risultato ai lavoratori che corrisponde ad una mensilità per il 2008 e mezza per il 2009.
Così si fanno gli utili per Marchionne: con i soldi della cassa integrazione e con il premio di risultato dei lavoratori. Così si distribuiscono i dividendi agli azionisti e si paga il suo stipendio pari a 435 volte quello di un suo operaio.
Di fronte a questi dati un qualsiasi sindacalista avrebbe avanzato almeno qualche obiezione alla FIAT. Sapete invece quale è stato il commento del segretario della CISL Bonanni? “Sono dati positivi, dovremmo avere una abbondanza di dati come questi per capire che stiamo uscendo dalla crisi”. Forse lui pensa solo a uscire dalla crisi della CISL, magari mettendo le mani nelle tasche dei lavoratori a cui ha tolto diritti, poteri, salario e voto.

Loris Campetti, Il Manifesto