domenica 31 marzo 2013

A ottant'anni dal New Deal di Giorgio Nebbia, Eddiburg.it

Un uomo di cinquant'anni, colpito dodici anni prima da un attacco di poliomielite, scende dalla carrozzella e, pallidissimo, percorre faticosamente a piedi, appoggiandosi al braccio del figlio, i trenta metri che lo separano dal podio in cui lo attende il Giudice Supremo degli Stati Uniti per accogliere il suo giuramento di presidente degli Stati Uniti. E' il 4 marzo del 1933, una fredda e piovosa mattinata di Washington, e il nuovo presidente è Franklin Delano Roosevelt. L'America --- che lo ha eletto più per sfiducia nei confronti del suo predecessore, il repubblicano Hoover, che per convinta ammirazione per il democratico Roosevelt --- è un paese senza fiducia.

Rigurgiti di consumismo sfacciato si alternano con la disperazione di milioni di disoccupati pieni di debiti; l'agricoltura è allo sbando, con i silos pieni di cereali e di cotone che nessuno compera e con le famiglie rurali alla fame; il divieto di consumo degli alcolici ha dato vita a bande criminali organizzate di spacciatori, di distillatori clandestini di alcol, di importatori di bevande alcoliche che prosperano con la copertura della diffusa corruzione di funzionari e uomini politici.

L'America lasciata da Hoover non era soltanto quella delle banche e delle borse dissestate, del debito pubblico avanzante, ma si presentava con il suolo impoverito da decenni di sfruttamento, esposto all'erosione dovuta alle piogge e al vento, con le foreste devastate da incendi, con paesi e città senza fogne e senza discariche dei rifiuti, con città violente e inquinate, solcate da lunghe code di disoccupati pieni di debiti. Nell'America ereditata da Roosevelt era crollata la produzione di acciaio, di alimenti, di automobili, di petrolio. I negozi contenevano merci contaminate con residui di pesticidi e con sostanze velenose, al punto che due giornalisti, Kalleth e Schlink, potevano scrivere un libro di successo, intitolato: "Cento milioni di cavie", per denunciare le frodi alimentari.

Roosevelt aveva impostato la sua campagna promettendo un nuovo patto, un "nuovo corso"--- il "New Deal" --- per sconfiggere depressione e sfiducia, e cominciò il suo discorso di investitura con le celebri parole: "L'unica cosa di cui si deve avere paura è la paura stessa". Gli eventi di quel 4 marzo 1933, raccontati da Arthur Schlesinger nei tre volumi del libro: "Il New Deal", pubblicati da Il Mulino nel 1959-65, ritornano alla mente in questi primi turbolenti anni del XXI secolo, perché forse le azioni politiche --- nei settori dell'agricoltura, della produzione industriale, delle merci, dell'ambiente --- dell'amministrazione Roosevelt negli anni trenta del Novecento potrebbero suggerire qualche idea sulle cose da fare per lanciare un vero nuovo corso politico ed economico nel nostro paese.

Roosevelt e le risorse naturali

Il programma "ecologico" di Roosevelt, riletto a settanta anni di distanza, pensando che allora non si parlava di ecologia, di ambientalismo e di verdi, ha molti aspetti sorprendenti. Intanto va ricordato che agli inizi del secolo Teodoro Roosevelt (solo un lontano parente di Franklin Delano), presidente dal 1901 al 1908, nel 1905 aveva già varato un grande programma governativo americano di conservazione della natura.

F.D. Roosevelt capì che la salvezza dell'America dipendeva anche dalla regolazione del corso dei fiumi e dalla lotta all'erosione, dalla ricostruzione della fertilità dei suoli agricoli e dei pascoli e dalla regolamentazione dell'estrazione di minerali, carbone e petrolio, da una nuova politica urbanistica e da un nuovo rapporto città-campagna, da un controllo della produzione delle merci e dalla lotta alle frodi praticate a danno dei consumatori, dalla salvaguardia delle foreste e dall'estensione dei parchi.

Tutte le competenze nel campo delle risorse naturali --- acqua, foreste, difesa del suolo, opere pubbliche, urbanistica, parchi, miniere, rifiuti, eccetera --- furono concentrate in due ministeri, quello dell'agricoltura e quello dell'interno, affidati a due persone, H.A. Wallace e Harold L. Ickes, singolari come competenze e devozione al loro mandato.

E quanto sia opportuna una politica coordinata nel campo delle risorse naturali lo dimostrano la lentezza e l'inefficacia delle azioni dei nostri governi, sparpagliate fra le competenze dei ministeri dell'ambiente, delle infrastrutture, dell'agricoltura, dell’economia, continuamente mutevoli non solo per il succedersi delle persone e dei funzionari e dei nomi, uniti solo nella mancanza di una linea politica, dispersione comoda al fine di moltiplicare uffici e appalti, ma catastrofica per la difesa della natura e dell'ambiente.

Acqua

Gli anni che precedettero la vittoria di Roosevelt erano stati caratterizzati da un seguito di siccità e di degrado del suolo. I lavori intrapresi dalle amministrazioni precedenti per la regolazione del corso dei fiumi andavano a rilento: era stata completata soltanto la grande diga Hoover sul Colorado.

La nuova amministrazione affrontò subito il problema della regolazione del corso dei fiumi. L'aumento e la razionale utilizzazione delle risorse idriche, la lotta alla siccità e all'erosione, potevano essere condotti soltanto per grandi bacini idrografici: poiché questi si stendevano attraverso i confini di vari stati, le relative opere erano di competenza e responsabilità federale.

Uno dei più grandi fiumi e bacini idrografici del Nord America è il Tennessee che scorre dalle montagne innevate ai campi esposti all'erosione, fino a immettersi nell'Ohio poco prima che questo si getti nel Mississippi. Sul Tennessee erano state costruite, durante la prima guerra mondiale, delle dighe per la produzione dell'energia idroelettrica che serviva a produrre acido nitrico sintetico per l'industria degli esplosivi.

Il governo del New Deal decise di affrontare la regolazione delle acque della valle del Tennessee costruendo una serie di dighe e di centrali idroelettriche, realizzando la prima industria elettrica di proprietà del governo federale. Il 18 maggio 1933, due mesi dopo l'insediamento di Roosevelt alla Casa Bianca, fu creata una speciale agenzia, la Tennessee Valley Authority, il più noto esempio di pianificazione territoriale e industriale del New Deal. La costruzione delle dighe attirò nella zona lavoratori disoccupati da tutta l'America; fu rettificato il corso del fiume, furono fatte opere per fermare l'erosione del suolo e per il rimboschimento delle valli.

L'elettricità "governativa" permise di alimentare fabbriche, pure di proprietà del governo federale, per il trattamento dei minerali fosfatici e per la produzione di concimi: concimi di stato da distribuire agli agricoltori a prezzi politici per ridare fertilità alle terre impoverite dall'erosione. Curiosamente il New Deal fece uscire l'America dalla crisi, fra l'altro, con iniziative di "nazionalizzazione" proprio in direzione contraria alla privatizzazione delle industrie statali e delle imprese pubbliche che si pratica oggi in Italia.

Boschi e occupazione

Lo stato di erosione del suolo dell'America richiedeva interventi immediati e le opere di regolazione del corso dei fiumi sarebbero state vanificate se non fossero state accompagnate da una vasta azione di rimboschimento delle valli. Roosevelt aveva sottolineato, fin dalla campagna elettorale, l'importanza delle foreste. Gli alberi --- disse --- trattengono la terra fertile sui declivi e l'umidità del suolo, regolano il fluire delle acque nei ruscelli, moderano i grandi freddi e i grandi caldi: sono i "polmoni" dell'America perché purificano l'aria e danno nuova forza agli Americani.

Il 14 marzo 1933, dieci giorni dopo essersi insediato alla Casa Bianca, Roosevelt predispose un grande progetto per impiegare un esercito di giovani disoccupati al lavoro nelle foreste. Nell'estate del 1933 300.000 americani, celibi, dai 18 ai 25 anni, figli di famiglie assistite, organizzati nei Civilian Conservation Corps, erano nei boschi, impegnati nei lavori di difesa del suolo che da molti anni erano stati trascurati.

Negli anni successivi, in varie campagne, due milioni di giovani lavoratori, complessivamente, piantarono 200 milioni di alberi, ripulirono il greto dei torrenti, prepararono laghetti artificiali per la pesca, costruirono dighe, scavarono canali per l'irrigazione, costruirono ponti e torri antincendio, combatterono le malattie dei pini e degli olmi, ripulirono spiagge e terreni per campeggi.
Nell'aprile 1935 fu creato il Soil Conservation Service col compito di difendere il suolo, anche se era di proprietà privata, per conto della collettività.

Terreni demaniali

All'inizio del New Deal l'America aveva ancora vasti terreni demaniali; nei decenni precedenti il governo non aveva esitato a vendere a prezzi irrisori molti terreni di proprietà federale a chi voleva aprire miniere, installare pozzi petroliferi, utilizzare i pascoli. Nelle terre demaniali residue gli allevatori dell'ovest da sempre avevano portato a pascolare il bestiame senza alcun controllo nè pagamento, con la conseguenza che l'eccessivo pascolo aveva distrutto l'erba e aveva fatto avanzare l'erosione e il deserto.

Nel 1933 il governo decise di far pagare un affitto a coloro che usavano risorse naturali --- pascoli o miniere --- demaniali e di fermare la svendita dei terreni collettivi. Ancora una volta un’azione che va in direzione esattamente contraria a quella, in corso in Italia dalla fine del Novecento, caratterizzata proprio dalla svendita ai privati dei beni collettivi, come sono gli spazi demaniali o le terre soggette a usi civici

Agricoltura e materie prime

Nell'America della grande crisi c'era sovrabbondanza di raccolti ma prezzi così bassi che gli agricoltori soffrivano la fame. L'erosione del suolo dovuto alle acque e al vento aveva spinto milioni di piccoli proprietari o affittuari ad abbandonare le proprie terre per andare a lavorare come miserabili salariati nelle terre ancora fertili. Le grandi compagnie finanziarie compravano a prezzi stracciati i terreni dei piccoli coltivatori soffocati dai debiti. La drammatica situazione è descritta, fra l'altro, nel libro "Furore" di Steinbeck, del 1939, da cui l'anno dopo fu tratto un celebre film.

Il 12 marzo 1933 il governo Roosevelt propose una serie di incentivi finanziari intesi a trattenere nei campi i piccoli coltivatori e a difendere i prezzi. "Distruggere un raccolto va contro i migliori istinti della natura umana", sosteneva il ministro dell'agricoltura Wallace, e così furono organizzate le distribuzioni, alle classi meno abbienti e povere urbane, di cibo acquistato dal governo e furono incentivati i mezzi per risollevare il mercato.

Fra questi ultimi va ricordato lo sforzo per la utilizzazione industriale dei prodotti e sottoprodotti agricoli. La chimica avrebbe avuto un ruolo fondamentale e William Hale coniò il termine "chemiurgia" per indicare le tecniche capaci di trasformare le materie di origine agricola, zootecnica e forestale in merci: dall'alcol etilico, da usare come carburante e come materia prima per la gomma sintetica, alla cellulosa e alle proteine per ottenere fibre artificiali, dall'amido alle materie plastiche. Le stesse proposte odierne di manufatti di plastica "ecologica", a base di amido, erano già state elaborate negli anni trenta del secolo scorso. Il successo delle merci ottenute dal petrolio ha oscurato un insieme di realizzazioni che ancora oggi potrebbero dare lavoro e reddito all'agricoltura.

Il Dipartimento dell'agricoltura fin dal 1933 creò una rete di stazioni di sperimentazione che furono all'avanguardia nelle tecniche di chemiurgia e incoraggiarono nuove coltivazioni e industrie. Furono studiate nuove materie agro-industriali, che sono state "riscoperte", alla fine del Novecento, alla luce dell'ecologia: dalle cere ricavate dalla jojoba, alla gomma guayule, dalle fibre tessili cellulosiche naturali ottenute da ginestra, canapa, yucca, a nuove materie cellulosiche industriali, eccetera.

In questo periodo venne lanciata la campagna per ridare orgoglio agli agricoltori, ridivenuti consci del ruolo primario del loro lavoro: "I'm proud to be a farmer" (Sono orgoglioso di essere un agricoltore), si leggeva nelle fattorie in quegli anni. Questo orgoglio era indispensabile per coinvolgere gli agricoltori nelle opere di difesa del suolo, di rimboschimento, di innovazione nelle colture.

La lotta alle frodi

Il Dipartimento dell'agricoltura assunse anche un ruolo vigoroso nella lotta contro le frodi. Proprio come nel 1906 il libro: "La giungla" dello scrittore Upton Sinclair aveva denunciato le drammatiche condizioni di lavoro nelle grandi fabbriche di carne in scatola, il libro: "Cento milioni di cavie" denunciava i pericoli per la salute di molti prodotti alimentari, medicinali, cosmetici. Uno degli autori, F.J. Schlink, pochi anni prima aveva fondato la Consumers' Research Inc., per effettuare analisi delle merci nell'interesse dei consumatori, che cominciarono a diventare soggetti e protagonisti politici.

Tugwell, sottosegretario all'agricoltura del governo Roosevelt, subito nella primavera del 1933 decise di abbassare da 1,3 a 0,9 milligrammi la massima quantità di arseniato di piombo, un antiparassitario, tollerata negli alimenti. La Food and Drug Administration, una agenzia del Dipartimento dell'agricoltura fino allora sonnacchiosa, organizzò, per ordine di Tugwell, una mostra delle frodi e dei veleni che finivano sulla tavola degli americani.

Naturalmente le proposte di riforme merceologiche incontrarono la forte opposizione dei produttori industriali e solo nel 1938 fu approvata la nuova legge sulla purezza di alimenti, cosmetici e medicinali, il Pure Food, Drug and Cosmetic Act.

La comunità e la città

La rinascita delle città fu un altro dei punti importanti del New Deal: come risposta alla congestione urbana e alla sua violenza fu avviato un progetto per portare al di fuori dei ghetti urbani la popolazione povera, in modo che gli abitanti potessero vivere alla luce del sole, respirare aria buona e anche avere una piccola superficie di terreno da coltivare. Furono così costruiti quartieri residenziali autosufficienti nei quali le famiglie, ridotte sul lastrico dalla povertà urbana e rurale, potessero trovare rifugio occupandosi di artigianato, di coltivazione della terra anche per trarne il proprio cibo.

Il progetto prevedeva di localizzare le fabbriche in zone aperte e distanti fra loro, di sviluppare un nuovo tipo di città industriale suburbana, resa possibile dall'era dell'automobile. Queste idee ebbero fra l'altro il sostegno di un architetto-pensatore come Lewis Mumford che, proprio nel 1934, scrisse: "Tecnica e cultura", proponendo la transizione ad una società "neotecnica", meno violenta ed inquinata.

Il programma rimase in gran parte sulla carta, ma mostra l'ambiente culturale dei primi anni dell'amministrazione Roosevelt e la vivacità degli studiosi, urbanisti, progettisti che riuscì a mobilitare. Comunque il governo del New Deal avviò un processo di bonifica urbana, opere di edilizia popolare, sia nelle città, sia nelle campagne, per eliminare le abitazioni malsane e fatiscenti e ridare così, con case adeguate, anche una dignità alle famiglie dei diseredati. Una pagina dei conflitti fra il nuovo corso urbanistico e le forze frenanti della speculazione edilizia si ha nel film "La vita è meravigliosa".

Merci e ambiente

Roosevelt capì che la crisi economica e dell'occupazione dipendeva anche dalla mancanza di un coordinamento e di pianificazione nella produzione delle merci.

Negli anni venti una scelta merceologica ispirata ad un finto moralismo aveva provocato, con il divieto della vendita di bevande alcoliche, un commercio clandestino di alcolici e quindi la crescita della più grande organizzazione criminale e di corruzione pubblica mai vista fino allora, e certamente lontana progenitrice di quella criminalità organizzata con cui ci dobbiamo confrontare oggi in Italia.

Roosevelt comprese che solo mettendo un freno a questa violenza il paese avrebbe potuto affrontare la crisi. Il lunedi 13 marzo 1933, nove giorni dopo il suo insediamento, propose una legge che autorizzava la produzione e la vendita della birra a 3,2 gradi alcolici. Il venerdi successivo la proposta era già approvata dal Congresso; non era ancora la legalizzazione delle bevande alcoliche, ma l'inizio e il segnale di una politica antiproibizionistica che diede un grave colpo alla criminalità e alla corruzione.

Il 16 giugno 1933 fu approvata la legge che creava la National Recovery Administration, un organismo con funzioni di studio e di proposta nel campo della pianificazione delle opere pubbliche e della produzione industriale. Per sconfiggere la povertà e la disoccupazione occorreva concordare con gli imprenditori orari di lavoro e salari tali da consentire la ripresa della produzione dell'industria e dei consumi delle famiglie. Le aziende che aderivano all'accordo potevano contrassegnare i loro prodotti e merci con l'"Aquila blu" ("Blue Eagle"), un marchio che assicurava i consumatori che le aziende stesse contribuivano, anche con sacrifici dei propri profitti, allo sforzo di ricostruzione del paese e che pertanto i loro prodotti andavano preferiti.

La ripresa della produzione, industriale ed agricola, assicurata dalla politica di pianificazione, diede di nuovo fiducia anche alla ricerca e all'innovazione. Attraverso una simbiosi con la ricerca universitaria, negli anni dell'amministrazione Roosevelt furono fatte alcune scoperte industriali di grande importanza. Solo per citarne alcune: furono messi a punto dei processi per la produzione della gomma sintetica partendo sia da sottoprodotti agricoli, sia da prodotti petroliferi. Furono messe a punto benzine ad alto numero di ottano che consentirono lo sviluppo dell'aviazione e dei trasporti aerei civili. Furono messi a punto processi per la produzione di fibre tessili artificiali, dalle proteine del latte, della soia e dell'arachide, dai residui della lavorazione del cotone, e furono inventate fibre tessili sintetiche destinate a rivoluzionare l'industria e il modo di vivere e di consumare di tutto il mondo, come il nylon presentato ai consumatori nel 1938.

In questa atmosfera ebbe sviluppo anche la ricerca universitaria "pura"; gli scienziati ebrei sfuggiti alle persecuzioni razziali in Europa trovarono in America non solo libertà d'insegnamento, ma anche apparecchiature e mezzi finanziari che portarono a scoperte destinate ad avere effetti lontani.

Non tutto, nell'era di Roosevelt, andò liscio. Molti progetti non furono realizzati, ma di certo l'epoca del New Deal fu un periodo di speranze e di fiducia nel futuro a cui si può guardare ancora oggi..

Il New Deal e l'Italia

Il New Deal di Roosevelt fu seguito con attenzione in Italia fin dai tempi fascisti. Gli anni trenta sono stati anni di crisi anche in Europa e in Italia e gli economisti e gli studiosi che conoscevano l'America prestarono attenzione a questo strano esperimento di pianificazione nella democrazia, di intervento dello stato nel rispetto della libera iniziativa. Non si deve dimenticare che sono gli anni della pianificazione sovietica e Roosevelt fu accusato, dalle forze conservatrici americane, di essere un comunista, o, peggio, un bolscevico.

Anche sotto l'influenza sollecitata dal New Deal americano nel 1933 fu creato in Italia l'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) con fini di coordinamento e di intervento statale nei settori disastrati dell'industria.

Ma l'interesse scientifico e politico per il New Deal si fecero sentire soprattutto negli anni dopo la Liberazione, quando si trattava di ricostruire l'Italia uscita dalla guerra e di colmare gli squilibri fra nord industriale e sud agricolo. Gli intellettuali radicali e socialisti antifascisti, rientrati in Italia dagli Stati Uniti portarono la conoscenza e l'interesse per il New Deal in un'Italia rimasta, anche nella sua nuova classe dirigente, provinciale ed esclusa dal grande giro internazionale. Adriano Olivetti, con il suo movimento di "Comunità", fece conoscere in Italia le opere del New Deal e di Mumford, le nuove correnti di pensiero sulla pianificazione democratica e su una nuova urbanistica.

Al New Deal si ispirarono coloro che proposero i grandi programmi di opere pubbliche e una struttura di finanziamento e pianificazione dell'uso delle risorse naturali nel Mezzogiorno, quella che divenne poi, nel bene e nel male, la Cassa per il Mezzogiorno. Al New Deal si ispirarono coloro che, nel primo centro-sinistra, si batterono per la nazionalizzazione delle imprese elettriche e per l'estensione al ministero del bilancio di competenze anche nel campo della programmazione, con la creazione di un apposito ufficio.

A dire la verità le attività della programmazione italiana (il più celebre documento è il "progetto ottanta", predisposto alla fine degli anni sessanta) erano più attente agli aspetti economici che alla salvaguardia e alla valorizzazione delle risorse naturali o alle scelte produttive e merceologiche. Ciò forse perché la classe dominante era costituita da economisti e giuristi, più che da studiosi di agricoltura, chimici, forestali, urbanisti, ingegneri.

Ogni tanto gli economisti e alcuni uomini politici hanno dichiarato l'opportunità di fare di nuovo riferimento al New Deal, che sarebbe necessario un New Deal italiano, ma le buone intenzioni non hanno fermato il degrado morale ed economico, e anche ambientale, quest'ultimo, del resto, figlio dei primi due e della crisi del senso dello Stato. Il successo del New Deal di Roosevelt era invece proprio basato sul recupero del senso della comunità e dello Stato.

Si potrebbe pensare adesso, in questo inizio del XXI secolo, di far uscire l'Italia dalla crisi economica e morale con un "nuovo corso"? Se nascesse una nuova classe dirigente con un nuovo senso dello Stato quali azioni dovrebbe intraprendere?

Immaginiamo che improvvisamente le autorità centrali e regionali mettano da parte i cavilli giuridici e "istituzionali" (dietro cui spesso si nascondono gelosie di centri di potere e di affari) ed avviino un grande programma di sistemazione delle acque, di difesa del suolo contro l'erosione, di rimboschimento. Tale programma può essere condotto soltanto nell'ambito dei bacini idrografici che devono diventare --- come del resto prescrive la legge italiana --- le nuove unità geografico-politiche in cui svolgere le azioni di pianificazione territoriale e di difesa delle risorse naturali.

In ciascun bacino idrografico la "autorità" prevista dalla legge dovrebbe predisporre opere per fermare l'erosione attraverso la pulizia e la sistemazione degli argini e del greto dei fiumi, il rimboschimento dei pendii delle valli. La forza delle acque fluenti potrebbe essere utilizzata per ottenere energia idroelettrica --- una fonte di energia rinnovabile --- attraverso la costruzione di bacini artificiali e centrali progettate non per massimizzare i profitti delle imprese elettriche, ma a fini multipli, per regolare il moto delle acque, assicurare riserve di acqua nei mesi di scarse piogge, e creare spazi per attività ricreative.

Una pianificazione di questo genere presuppone di far cessare l'appropriazione privata delle golene e delle rive dei fiumi, di regolare (e anche vietare, in certe zone) i prelevamenti di sabbia e ghiaia dal greto dei fiumi; una vera autorità di bacino dovrebbe avere il potere di intervenire sulla proprietà privata e sull'iniziativa privata quando queste assumono carattere speculativo e di rapina e danneggiano i beni collettivi.

Difesa del suolo significa soprattutto ricostruzione del manto vegetale nelle sue varie forme, attraverso il rimboschimento con alberi, la ricostruzione della macchia, attraverso tecniche colturali che impediscano l'asportazione della terra fertile e consentano la protezione e formazione dell'humus, che è l'unico modo in cui può essere rallentato il moto violento ed erosivo delle acque. La difesa del suolo presuppone una lungimirante politica di riutilizzo delle zone in cui sono state sospese o sono scoraggiate le coltivazioni agricole tradizionali. Significa una nuova cultura forestale popolare diffusa.

Eserciti di "forestali" sono stati messi, nei decenni passati, al lavoro in varie zone d'Italia, soprattutto nel Mezzogiorno, spesso tollerando che gli stessi disoccupati, per poter essere ingaggiati l'anno successivo, lasciassero degradare o magari divorare dal fuoco le giovani piante.

In un New Deal italiano del XXI secolo l'agricoltura dovrebbe tornare ad essere il settore "primario" dell'economia. La libera circolazione delle merci e dei servizi in Europa e una nuova disciplina contro gli sprechi imposta dall'Unione Europea porteranno a limitare sempre più le sovvenzioni alle produzioni agricole eccedentarie. Invece di continuare a piagnucolare per ottenere la proroga delle protezioni, un New Deal agricolo potrebbe pensare ad un ritorno dell'agricoltura al suo ruolo primario nella gestione delle risorse naturali.

Le opere di razionale sistemazione delle risorse idriche e di difesa del suolo contro l'erosione potrebbero creare proprio nella collina e nella montagna disponibilità di materie prime agricole, zootecniche e forestali suscettibili di trasformazione sul posto, grazie anche a nuove fonti di energia idroelettrica, con operazioni di "chemiurgia", in nuove materie prime e merci: carburanti alternativi al petrolio (come l'alcol etilico), fibre tessili artificiali, materie prime per la produzione della carta, materiali da costruzione ottenuti dal legno, fonti di proteine alimentari. Chi sa che un giorno non si legga anche nelle case di campagna italiane la scritta: "Sono orgoglioso di essere un agricoltore" ?

Ad un New Deal di questo genere aveva del resto pensato Adriano Olivetti negli anni cinquanta del Novecento col suo progetto di integrazione della fabbrica e dell'agricoltura nelle zone povere di collina o nel Mezzogiorno; e è già avvenuto, in questa direzione, anche se in forma spontanea e non pianificata e spesso piena di contraddizioni, in certe zone (Veneto, Marche) del cosiddetto NEC (Nord-Est-Centro).

L'operazione sarebbe di particolare importanza nel Mezzogiorno e nelle isole dove solo il lavoro e la produzione agricola e industriale di merci, basata sulle risorse naturali locali, può sconfiggere la criminalità organizzata che attecchisce solo nello sconforto.

In senso contrario ad un New Deal vanno le iniziative per far abbandonare la coltivazione di grandi estensioni delle nostre colline e montagne, addirittura finanziando l'abbandono con soldi della Comunità europea; oppure i grandi insediamenti con effetti sconvolgenti sull'agricoltura, sulle acque, sulle colline, con avanzata dell'erosione del suolo.

Nel senso del New Deal andrebbe una nuova moralità nell'uso dei beni collettivi; la privatizzazione, in corso in Italia, di coste, spiagge, rive dei fiumi, spazi demaniali, non fa invece che accelerare il degrado territoriale, l'erosione delle spiagge, la distruzione delle foreste e delle dune, che sono poi le protezioni naturali dell'entroterra.

Un New Deal dovrebbe ricuperare all'uso pubblico e pianificato proprio pascoli, terre e spazi demaniali e collettivi, oggi ancora soggetti ad usi civici, le acque.La salvezza potrebbe essere cercata in un ministero delle risorse naturali, con competenze ben diverse da quelle dell'attuale ministero dell'ambiente che finisce per essere il ministero dei depuratori e delle discariche.

Un nuovo corso italiano richiederebbe il recupero della cultura e del gusto dell'urbanistica, intesa come scienza della pianificazione degli insediamenti, delle vie di comunicazione, dei modi di trasporto. Ad una politica della città e della mobilità, oggi governata dalla case automobilistiche, della compagnie petrolifere e dagli speculatori immobiliari, dovrebbe essere contrapposto un reale potenziamento dei trasporti collettivi basati non sullo spreco --- come l'"alta velocità"--- ma sui reali bisogni della popolazione, anche ai fini del decentramento delle attività produttive e dei servizi.

Un Deal Deal ecologico presuppone dei controlli e una pianificazione sulla produzione, sulla quantità e sul tipo delle merci, alla luce dei vincoli posti dalla necessità di diminuire sprechi di risorse naturali scarse, inquinamenti e rifiuti. Da qui la necessità di uffici governativi per gli standard di qualità delle merci, per il controllo di tale qualità, di uffici di analisi e di controllo contro le frodi, di attività di previsione e di scrutinio delle scelte anche legislative.

Negli Stati Uniti nel 1970 è stato creato, presso il Congresso, un ufficio per lo scrutinio tecnologico (l'Office of Technology Assessment) che avvertiva i parlamentari e il governo sugli effetti tecnici, ecologici, sociali delle scelte legislative. Ad esempio: il finanziamento di una rete ferroviaria ad alta velocità quali conseguenze può avere sul territorio, sul trasporto aereo, sulla sicurezza delle persone ? Scrutinio tecnologico è molto più della semplice valutazione dell'impatto ambientale, da noi ridotta a mascheratura di scelte prese al di fuori del Parlamento.

Infine il New Deal qui prospettato --- o sognato ? --- comporterebbe il coinvolgimento dell'Università e della ricerca in progetti socialmente ben definiti e compatibili con la difesa e la valorizzazione delle risorse naturali.

Inutile dire che i progetti sopra accennati richiedono lavoratori e specialisti dall'ingegneria all'ecologia, dall'economia alla chimica, alle scienze agrarie e forestali. Sarebbe anche questo un modo per sollecitare nei giovani laureati un senso di servizio della collettività, oggi così labile, per farli sentire, come i giovani intellettuali del 1933, orgogliosi di lavorare per lo Stato e non per un governo o per una struttura di partito e di clientele.

Nota: su due aspetti delle politiche urbane e territoriali del New Deal, in Eddyburg Archivio si vedano l'articolo di Giovanni Caudo su Rexford Tugwell regista delle nuove città, e quello di Fabrizio Bottini su Earle Draper e le prime denunce dello sprawl urbano negli anni '30

Saggezza extraparlamentare. Il pasticcio Napolitano di Dante Barontini, Contropiano.org

A chi lo avesse dimenticato, Mario Draghi ha ricordato il vero governo risiede altrove. Non a Palazzo Chigi, non in rete, non nelle sempre meno solide pareti di partiti o "movimenti".

L'ha fatto con una telefonata a Giorgio Napolitano, non con una dichiarazione pubblica. Ma non deve essere stata una telefonata “privata”, visto che tutti i giornali sono stati debitamente informati sia dell'avvenuta conversazione che del suo contenuto.

Tema: le possibili dimissioni del presidente della Repubblica, un mese prima della scadenza naturale, in modo da accelerare la nomina di un successore dotato del potere che Napolitano non ha più: sciogliere le Camere e indire nuove elezioni politiche. Ipotesi che Draghi avrebbe sconsigliato con decisione, chiamando in causa la prevedibile reazione negativa – molto negativa – dei mercati finanziari. Mentre si contano i cadaveri della crisi dell'eurozona (la Slovenia sta per sostituire Cipro sulle prime pagine, mentre Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda sono solo momentaneamente in secondo piano; e anche Lussemburgo e Lettonia sono in lista d'attesa), non era il caso di presentare la terza economia dell'area come un paese senza più istituzioni in piedi. Quindi “tecnicamente” irresponsabile della propria evoluzione agli occhi dei partner continentali.

Quindi, suggeriva la voce da Francoforte, Napolitano doveva restare al suo posto fino a fine mandato o a governo formato. Nel frattempo Monti può proseguire la sua opera, secondo le indicazioni provenienti dalla Troika.

Ma la piccola “tempesta perfetta” nel bicchier d'acqua italiano, come spiegavamo già un mese fa all'indomani del risultato elettorale, non ha soluzioni costituzionalmente possibili. A meno di un cedimento clamoroso di una delle tre aree politiche principali (un sì grillino a un govermo Pd, o un sì piddino a un'alleanza con Berlusconi, o tra Pdl e M5S).

La nomina di 10 “saggi” che dovrebbero individuare le riforme condivise, sul piano economico come su quello politico, è un insulto all'unica istituzione che dovrebbe rappresentare la sovranità popolare: il Parlamento. Se la “saggezza riformista”, infatti, può essere rintracciata solo fuori delle Camere, queste vengono duramente delegittimate proprio sul terreno loro proprio, quello legislativo (ovvero il “fare riforme”, possibilmente condivise ma anche no). Quanti inneggiano come sempre alla “fantasia politica” di Napolitano dovrebbero cominciare a fare i conti con la sua prassi, sempre al limite, e spesso oltre, della Costituzione. O perlomeno del suo “spirito”, mai come ora ombra di Banquo”.

Il pasticcio pasquale dei “saggi lottizzati” – tra Pd, berlusconiani, montiani e persino un leghista – ha senso solo per prendere tempo. Da qui al 15 aprile, quando si aprirà come da procedura la fase dell'elezione del nuovo presidente della Repubblica. Altrimenti si tramuterebbe in un vizio costituzionale invalidante, se davvero dovessero “elaborare” qualcosa che poi diventa vincolante per i partiti e il Parlamento.

Ma anche questo ennesimo “strappo” alle procedure costituzionali – al pari del cripto-totalitarismo grillino – segnala che la prassi della democrazia parlamentare non regge più la violenza degli interessi contrapposti. I costi della crisi vanno pagati da qualcuno, e qui si è aperta la partita, dando per scontato – e verificato – che il lavoro dipendente non ha più rappresentanza politica, culturale, ideale, programmatica.

E se il centrodestra si presenta come il bastione della conservazione di privilegi impresentabili (eredità delle vecchie rendite di posizione create e garantite dalla Dc), se il Pd tiene in vita i residui del “compromesso tra produttori” sbilanciato a favore delle imprese, il grillismo è andato a pescare nel mare magnum della precarietà esistenziale-occupazionale creato dai primi due fronti.

Non è la prima volta che si verifica una situazione sociale e istituzionale del genere, in cui a un pieno di risentimento e frammentazione sociale corrisponde un vuoto di progetti, credibilità, istituzioni. La “strategia” di Grillo ha una faccia retorica para-”rivoluzionaria” – “tutti a casa, comanderemo noi” – ma non controlla un movimento con disponibilità di “forza militare”. L'eventuale tracollo istituzionale, dunque, non sarebbe gestito da lui, ma di chi “la forza” ce l'ha ed è disposto ad usarla. Ma nell'Unione europea questa forza si esprime in forme sovranazionali, non banalmente golpiste da operetta.

La telefonata di Draghi è il richiamo all'ordine da parte di questi poteri. La primavera del conflitto sociale deve guardare – e contrastare – a chi comanda davvero, non alle povere figure che si agitano sulla scena. E che non significano nulla... 
 

Grillo è un cazzaro.

Oggi Grilo scrive sul suo Blog che la scelta di tenere in vita Rigor Montis da parte di Napolitano è corretta ed è la migliore soluzione possibile. Come uno strano scherzo del destino però, in coda al suo scritto il tag automatico del sito rilancia un articolo su Monti scritto da Grillo alcuni mesi fa. A quel tempo Grillo diceva che quello di Monti era un colpo di stato progressivo. Scusate la franchezza, ma solo un cazzaro può dire a novembre che c'è in atto un colpo di stato ed una volta entrato in parlamento legittimarlo come la migliore soluzione possibile.
 
Qui il testo dell'articolo.
In Italia è in atto un colpo di Stato progressivo. La fine della democrazia un passo alla volta, per abituare il cittadino al cambiamento. Dolce, soffice come lo shampoo di Gaber. Il primo passo fu la legge porcata Calderoli voluta e utilizzata da TUTTI i partiti nonostante le sceneggiate di facciata del pdmenoelle. I parlamentari sono diventati "di nomina", come i cavalieri antichi, di 5 segretari di partito. Non più preferenze da parte degli elettori, ma, con una liberalità assoluta, amici, amanti, mogli, compari, avvocati di fiducia, sodali a cui fare evitare la galera. Il secondo colpetto è avvenuto con la nomina di Rigor Montis (inserito a forza nel Parlamento come senatore a vita per meriti sconosciuti) a presidente del Consiglio senza che il precedente governo fosse sfiduciato dal Parlamento in aula. Un fatto mai successo prima. Un precedente inquietante. E ora il terzo colpetto di Stato, nessuno sa quando si voterà, se ci sarà l'election day, con quale legge elettorale, con che circoscrizioni, se ci saranno premi e premiolini e chi lo deciderà. Nulla di nulla a pochissimi mesi dalle elezioni, mentre Napolitano a fine mandato estende le sue prerogative di garanzia della Repubblica a sovraintendente della prossima legislatura. Il prossimo presidente deve essere Monti, nessuna coalizione deve vincere, nessun governo politico dovrà guidare la Nazione, la legge elettorale in gestazione con Calderoli in qualità di legislatore, estrema beffa e presa per il culo degli italiani, va disegnata per escludere ogni possibilità di vittoria del M5S e riproporre la minestra riscaldata della coalizione Pdl, pdmenoelle, udc con la new entry Sel. Un governissimo dei partiti in cui governa un altro, un cosiddetto "tecnico" (ma di che?) scelto dalla BCE. Un uomo di fiducia della finanza internazionale che sta facendo dell'economia italiana un deserto dei tartari. Va detto, gridato, anche in sedi internazionali, e lo farò, che l'Italia non è più una democrazia, ma una partitocrazia affiliata ai poteri economici internazionali. Chi ha portato allo sfascio il Paese si esibisce in televisione e concede interviste ai giornali proponendosi come il nuovo che avanza, senza pudore, senza vergogna invece di scomparire dalla circolazione! Ridono nei salotti, con il riso di Franti, i responsabili della disoccupazione, della svendita del Paese, della corruzione (mai una legge), della mafia (con cui lo Stato ha trattato), del conflitto di interessi (mai una legge), del debito pubblico con cui hanno rovinato l'Italia e riempito le tasche delle lobby, della distruzione delle imprese, di una pressione fiscale inumana e degli stipendi più bassi d'Europa. Non potete essere sia la malattia, sia la cura. Dove siete stati negli ultimi 20/30/40 anni? Con il culo al caldo grazie ai soldi degli italiani! E da lì non volete muovervi a qualunque costo, anche stravolgendo la legge elettorale sotto elezioni. Neppure Stalin o Mao hanno avuto la vostra faccia di bronzo, di cambiare le regole del gioco all'ultimo minuto dichiarando che è per la democrazia. Ci vediamo (comunque) in Parlamento. Sarà un piacere.

I 5 Stelle bocciano i saggi, ma è grazie ai grillini che sono lì e che il governo Monti continua a fare danni
Ormai i grillini sono allo sbando e la loro strategia dell'instabilità continua non porta i frutti sperati, anzi. Hanno affossato il tentativo di Bersani e speravano in un esecutivo Pdl-Pd per fare opposizione, ma hanno solo prodotto la nascita dei 'saggi' indicati da Napolitano e il mantenimento in carica del governo Monti, quello delle riforme Fornero e della spending review.
Ieri sono rimasti spiazzati dalla mossa di Napolitano e non hanno avuto il coraggio di contrastare quello che tutti, da Pd a Pdl passando per Casini, hanno salutato come 'saggia' soluzione per programmare un piano di azione su temi sociali ed economici e traghettare il paese verso un nuovo governo o elezioni anticipate.
Oggi provano a metterci una pezza e Vito Crimi dice: "Avrei difficoltà a sedermi a un tavolo con queste persone immaginandole come saggi facilitatori. Di fatto è una specie di bicamerale di grandi intese di antica memoria ma vestita a festa... con qualche foglia di fico".

Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione Comunista: "Grillo, con un consenso del 25% è riuscito in un vero e proprio capolavoro: tenere in piedi il governo Monti, uscito sconfitto dalle urne e che rappresenta il quadro politico peggiore che si possa immaginare. Ovviamente questo porterà con se l'elezione di un uomo o una donna gradita ai poteri forti alla Presidenza della Repubblica. Mai tanti voti espressi per rovesciare le cose sono stati usati in modo così netto e determinato per rafforzare il sistema esistente. Come diceva Giuseppe Tomasi di Lampedusa: 'Tutto cambia affinché nulla cambi'".

CON SCAPPELLAMENTO A DESTRA di Marco Travaglio, Il fatto Quotidiano

"Gol mancato, gol subìto” è una regola ferrea del calcio. Ma non solo. L’altroieri M5S aveva un rigore a porta vuota: l’ha tirato in tribuna. E, con la partecipazione straordinaria di Napolitano e Bersani, ha perso un’occasione unica di spingere l’Italia verso un po’ di futuro. Ieri le lancette della politica hanno ripreso a camminare a ritroso verso il peggiore passato. Anziché andarsene in anticipo, accelerando l’elezione del successore e la soluzione della crisi, come pure aveva saggiamente pensato, Napolitano è riuscito a farci rimpiangere di non vivere in Vaticano (di Ratzinger purtroppo ce n’è uno solo, e non è italiano). E a dare ragione a Grillo anche quando aveva torto.
La bi-Bicamerale escogitata per dettare l’agenda a un governo che non c’è ricorda la Restaurazione del 1815, col ritorno dei “codini” in Europa dopo la fine di Napoleone e il congresso di Vienna.
Solo che da noi la rivoluzione non c’è stata: siamo il paese della controriforma senza riforma e della restaurazione senza rivoluzione. Il paese che, quando ha le idee confuse, fa una commissione (anzi, due) per confondersele un altro po’. In un altro, la mossa del Presidente verrebbe chiamata col suo nome: golpe bianco, commissariamento della politica e degli elettori (e poi l’“antipolitico” sarebbe Grillo), con i saggi al posto dei colonnelli.
Nel paese di Pulcinella, è il tragicomico risultato delle non-dimissioni di Napolitano, seguite alla non-vittoria Pd, alla non-sconfitta Pdl, al non-statuto M5S, alla non-rinuncia di Bersani dopo il fallimento delle convergenze parallele e della non-sfiducia a 5Stelle, previa pausa di riflessione. Mentre le migliori lingue di giornalisti e giuristi fanno gli straordinari per magnificare la geniale, strepitosa, magistrale mossa del Colle, si sente persino dire che “il governo Monti è pienamente operativo” e sta per assumere “provvedimenti urgenti per l’economia”: è lo stesso che annega in acque territoriali indiane sul caso dei marò, col ministro degli Esteri che riesce a dimettersi da un esecutivo dimissionario. E il cui leader Monti è stato appena asfaltato dal 90% degli elettori.
Dunque l’eterna Bicamerale, aperta nel ’97 da D’Alema e B. e mai davvero chiusa nonostante le apparenze, riapre trionfalmente i battenti sotto le mentite spoglie di due “gruppi di saggi”.
C’è Onida, corazziere ad honorem per gli immani sforzi compiuti per difendere le interferenze del Quirinale nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia e per negare l’ineleggibilità di B., dunque molto saggio.
C’è Giovannini, il presidente Istat che fu incaricato di studiare i costi della politica, ma alla fine si arrese stremato, dunque molto saggio.
C’è Pitruzzella, già associato allo studio Schifani, dunque garante dell’Antitrust e molto saggio.
C’è Rossi, il solito banchiere uscito dai caveau di Bankitalia, dunque molto saggio.
C’è Violante, quello che si vantava con B. di non avergli toccato le tv e il conflitto d’interessi, dunque molto saggio.
C’è Mauro, già Pdl, ora montiano, ma sempre Cl, dunque molto saggio.
C’è Quagliariello, che strepitò in aula contro gli “assassini” di Eluana, dunque molto saggio.
C’è Bubbico, già indagato e prosciolto per la buona politica in Lucania, dunque molto saggio.
C’è il leghista Giorgetti, che intascò una mazzetta da Fiorani, poi con comodo la restituì, dunque molto saggio.
Se questi sono saggi, i fessi dove sono?
Eppure piacciono a tutti. Anche ai 5Stelle, gli unici esclusi dalla spartizione quirinalesca, gli unici ignari della vera natura della bi-Bicamerale: una stanza degli orrori per rimettere in pista B. e patteggiare alle nostre spalle, una siringa di anestetico per infilarci la supposta dell’inciucio senza che ce ne accorgiamo.
Scommettiamo che i saggi parleranno quasi soltanto di giustizia?

Ps. Nella distrazione generale si son dimenticati Bersani nel freezer. Qualcuno lo avverta che non è più il premier incaricato e, se possibile, lo scongeli nel microonde.
  

sabato 30 marzo 2013

Tutto come prima. Anzi peggio di Francesco Piobbichi


Tutto come prima. Chi ha vinto le elezioni si chiama Mario Draghi e la sua vittoria gli permetterà di gestire il Paese per altri 6 mesi con il pilota automatico permettamente operativo. Il pilota automatico di cui parlava Draghi non è altro che l'insieme delle norme previste dai trattati (Fiscal Compact) recentemente approvati e ratificati dal nostro Parlamento, che di fatto rendono operativo il rigore di bilancio in maniera permanente. Napolitano oggi lo ha chiarito senza troppi giri di parole, Mario Monti -ha detto Re Giorgio- è ancora in carica, e visto che c'è il semestre bianco lo sarà per altri mesi. Quanto basta per tenere i conti in ordine, per andare in Europa e rassicurare Berlino e tenere l'Italia sotto la scure della BCE. Meglio di così per banche e padroni non poteva andare: tenere in piedi un governo tecnico, che non può essere sfiduciato in quanto decaduto, ma che lavora per l'ordinaria amministrazione oliando il funzionamento del Fiscal Compact.
Così mentre Monti continuerà con la sua azione, i partiti in parlamento inizieranno una campagna elettorale che durerà a lungo promettendo paradisi artificiali al popolo del Gabibbo senza muovere un dito rispetto ai nodi di fondo. Per certi aspetti Napolitano ha fatto sue le proposte di Grillo dei giorni scorsi, "un parlamento può continuare ad operare senza un nuovo Governo" aveva detto il comico genovese, omettendo però che con questa proposta il vecchio Monti dimissionario resterà in carica fino a che non verrà votata la fiducia ad un nuovo Governo. Per tirare avanti in questa stuazione Napolitano nominerà due gruppi ristretti per continuare a lavorare per trovare un programma comune per fare le "riforme". Per quanti mesi ancora durerà tutto questo non è dato sapere, dato che dopo la fine del mandato di Giorgio Napolitano occorrerà eleggere un nuovo Presidente della Repubblica, che poi eventualmente scioglierà le camere e fisserà la data delle elezioni. Che forse si terranno ad Ottobre. Intanto Bersani resta in silenzio e Renzi scalpita, Monti approva ed il Pdl esprime fiducia al Presidente. Nessuna forza politica parlamentare ad ora, ha fatto una proposta sensata sulla crisi e contro i trattati internazionali che ci hanno messo al collo il cappio dell'austerity. Il M5S grida all'inciucio, ma ad ora sta facendo la figura di dhi diceva di cambiare tutto ed alla fine è stato il miglior strumento per non cambiare niente.

IL MESSAGGIO E' IL FINE di Raniero La Valle


Un governo ci vuole. Ma intanto la cosa da fare, fino a quando il nuovo presidente della Repubblica con tutti i suoi poteri, compreso quello di sciogliere le Camere, potrà rimettere in marcia la politica nazionale, è di legiferare.

 Non è affatto vero che senza un governo in piena funzione le Camere non possono fare le leggi: il loro è un potere autonomo, e anzi sarebbe bene che finalmente si legiferasse non per via di decreti-legge fatti dal governo, ma con leggi veramente generate dal Parlamento. Per questo occorrerebbe che tutti i gruppi parlamentari si mettessero alla stanga, che lavorassero sei giorni alla settimana e in pochissimo tempo dessero al Paese le leggi di cui il Paese ha urgente bisogno, e che non è qui il caso di ricordare. Come hanno scritto i “Comitati Dossetti” ai parlamentari del centrosinistra esortandoli a questa scelta, ben prima che Grillo ne proponesse una variante sovversiva (“meglio stare senza governo”) ciò “farebbe per la prima volta del Parlamento il luogo privilegiato e più d’ogni altro visibile della politica e della vita democratica”.
Ma intanto bisogna pensare a che cosa veramente è successo Con il gran rifiuto del Movimento 5 stelle ad adottare un’etica di responsabilità verso il Paese, la Prima Repubblica veramente finisce. Non finì quando squadre di guastatori e di untori tolsero di mezzo la sinistra, ripudiarono le preferenze, licenziarono la proporzionale, imposero il bipolarismo, irrisero all’unità nazionale, intronizzarono il danaro, prostituirono la politica e incapsularono il potere del popolo sovrano nel potere d’acquisto del nuovo sovrano del popolo. Nonostante tutto, per venti anni le istituzioni hanno retto alla sfida. Adesso la devastazione è compiuta. Il riso beffardo di Berlusconi che, con o senza occhiali neri, assapora la sua vendetta contro tutto il sistema politico che aveva osato denunciarlo e deporlo, è la maschera tragica che deturpa il volto della Repubblica nell’ora della sua agonia. E non importa se questa vendetta ancora una volta è stata propiziata da una corruzione: perchè tale è stata la promessa che l’ex premier, mettendo le mani nelle casse dello Stato, aveva fatto agli elettori di una immediata dazione in denaro contante da 200 a 1000 euro a ciascuno corrispondenti all’ammontare dell’IMU pagata nel 2012. Senza questa corruzione – e la complicità dei corrotti: “il corrotto non ha amici, ma complici”, aveva detto Bergoglio quando era arcivescovo di Buenos Aires - la destra sconfitta, e data per finita nei sondaggi, non avrebbe avuto nessuna rimonta e non potrebbe oggi cantare vittoria contro i democratici.
La Repubblica finisce per la crisi di tutte le sue istituzioni. Se ne dovrebbe fare l’analisi, ma qui ci limitiamo a solo quattro titoli.
Crisi del Parlamento. La rappresentanza è stata vanificata, per la manipolazione del meccanismo elettorale, e perchè il bicameralismo non era compatibile con una legge elettorale che pretende di essere maggioritaria ma, come fosse scritta da un ubriaco, produce maggioranze contrapposte nella Camera e nel Senato.
Crisi dei partiti. Col finanziamento pubblico i partiti hanno cessato di essere associazioni senza fini di lucro. Il lucro è procurato dal consenso. I voti sono fonti di reddito, e se non si usano i voti per il bene del Paese, in ogni caso si possono usare per il bene e la sopravvivenza del partito. Divenuta superflua (e demonizzata) la “forma partito” e ripudiata la democrazia interna, gli stessi partiti possono essere superati e mutarsi in partiti aziende, partiti leggeri, partiti virtuali e partiti web.
Crisi della moneta. La moneta era la grande istituzione della sovranità. Il sovrano era colui che batteva moneta. Con il passaggio dalla lira all’euro quella sovranità è venuta meno, e non è stata sostituita nè da una sovranità più vasta, a livello europeo, nè da altre forme di indipendenza e di sovranità interne; tutta l’ideologia sovrana è stata trasferita sullo strumento militare, polarizzato sulla proiezione esterna e rifinalizzato alla difesa non più della patria, ma degli “interessi anche economici dell’Italia ovunque essi siano in gioco”. Il punto di caduta di questo nuovo “modello di difesa” non è l’Afghanistan, sono i fucilieri di marina sulle navi mercantili, supportati da ministri degli esteri, della difesa, presidenti del Consiglio e presidente della Repubblica, quando finiscono nei guai perchè si mettono a sparare a vanvera, diventando così i nuovi eroi nazionali.
Crisi della comunicazione politica. La trasmissione in diretta dell’incontro tra Bersani e i capigruppo grillini reca l’annuncio che cambia il fine della politica: non più il perseguimento del bene comune ma la diffusione del messaggio. Lì, per Bersani, si doveva fare un governo; per i grillini si doveva portare in scena una performance, un atto unico, un insulto. Perciò per i grillini il fine è stato raggiunto, per Bersani no. Ma “Ballarò” non l’ha interpretato il segretario del PD; l’ha interpretato l’equipe grillina estremizzandolo fino allo “streaming”. Nel Novecento Mac Luhan aveva capito che il “mezzo è il messaggio”. Anche questo è ora passato. Oggi il messaggio è il fine. E così il bene comune diventa una fiction, e non è più neanche pensabile che si possa effettivamente realizzare.

Tratto dal sito personale di Raniero La Valle

Marco Travaglio critica Grillo ed il M5S per il no a qualsiasi governo



Ieri il “Fatto Quotidiano” aveva pubblicato un editoriale di Paolo Flores D’Arcais nel quale si chiedeva a Grillo ed al MoVimento 5 Stelle di indicare una rosa di nomi per formare un governo “senza partiti” appoggiato da Pd e dallo stesso M5S. Questa ipotesi è stata rifiutata da Beppe Grillo, e la decisione è stata aspramente criticata dal vice direttore del “Fatto”, Marco Travaglio. “ É vero, come sospettavano i complottisti (che spesso ci azzeccano) che Napolitano e parte del Pd sono già d’accordo col Pdl per l’inciucio: ma, a maggior ragione, la proposta di un governo Settis o Zagrebelsky li avrebbe messi tutti con le spalle al muro. E li avrebbe costretti alla ritirata, non foss’altro che per non assumersi la responsabilità di aver bocciato il miglior governo degli ultimi 15 anni (almeno sulla carta).”
Travaglio rimarca come il fallimento di questa prospettiva, che avrebbe portato benefici all’Italia, bruci quasi tutte le novità positive introdotte dal MoVimento 5 Stelle: la messa all’angolo del Pdl con l’annuncio del sì all’ineleggibilità, costringendo il Pd a seguirlo, l’elezione di nuove personalità per le presidenze delle Camere come Grasso e Boldrini invece che leader dal profilo consumato come Franceschini e Finocchiaro, con immediato taglio degli emolumenti, la messa in discussione dei dogmi “piddini” su Tav e rimborsi elettorali. Il vice direttore del “Fatto” sottolinea  come, “pur avendo vinto solo moralmente le elezioni, 5Stelle era diventato in pochi giorni il dominus della politica italiana. Se Grillo avesse chiesto a Bersani le chiavi di casa e della macchina, quello gliele avrebbe consegnate senza fiatare e con tante scuse per il ritardo. Insomma, da oggi un movimento nato appena tre anni fa avrebbe avuto l’ultima parola sul nuovo governo e sul nuovo presidente della Repubblica. Con notevoli benefici per gli italiani, visto che alcuni punti del programma pentastelluto, al netto delle follie e delle utopie, sono buoni e giusti e realizzabili in poco tempo.”
Con Berlusconi nell’angolo ed i partiti messi in estrema difficoltà, con un Bersani rimasto fermo sull’alleanza col M5S, al MoVimento sarebbe bastato proporre un paio di nomi autorevoli per un governo politico guidato e composto da personalità estranee ai partiti (parrà strano, ma ne esistono parecchie, anche fuori dalla Bocconi, dalle gran logge, dai caveau delle banche e dalle sagrestie vaticane). ”
Una simile mossa sarebbe stata per Marco Travaglio lo scacco matto al re.” Invece lo scacco i grilli se lo son dato da soli. Col rischio di perdere un treno che potrebbe non ripassare più; di accreditare le peggiori leggende nere sul loro conto; e di gettare le basi per drammatiche spaccature.” In questo modo l’alternativa che rimane al ritorno alle urne, paventato da tutti ma in realtà voluto da nessuno, rimane solo un governissimo tra Pd e Pdl, che il vice direttore del “Fatto” rimarca come sia l’ipotesi peggiore per il paese, ed anche per lo stesso MoVimento 5 Stelle. ” Ora invece l’unica alternativa alle urne, che tutti invocano ma tutti temono, sarà un inciucissimo con B., più o meno mascherato. Che magari era nella testa di Napolitano e dei partiti fin dal primo giorno. Ma che ora ricadrà sulla testa dei 5 Stelle. E naturalmente degli italiani. Bel risultato, complimenti a tutti.”

LA FARSA PASQUALE di Norberto Fragiacomo


Complice un perdurante malessere, seguo con più insofferenza del solito i contorsionisti della politica italiana, da Pierluigi Bersani all’ossidato Monti, da Berlusconi alla new entry Beppe Grillo: la commediaccia parlamentare messa in scena in questi ultimi giorni di Quaresima è assai più scontata, nei contenuti, di una Via Crucis paesana e, quanto a pathos, non c’è proprio paragone.
Il canovaccio pare scritto da un Plauto in crisi d’ispirazione: Tizio corteggia Beppa, che però non ne vuol sapere, ed è vanamente inseguito da (rea) Silvia, ansiosa di accasarsi, ma tenuta a distanza per la pessima fama.

In realtà, la situazione è solo un po’ più complicata, e dal palco giungono zaffate d’ipocrisia. Digerita la “non vittoria” elettorale (l’espressione, coniata dopo le amministrative parmigiane, è sua, e terminato il pezzo gliela renderemo volentieri), Bersani ha mutato strategia: non più matrimonio d’interesse con Monti, ma svoltina a sinistra. Come mai? Semplice: per non confessare (ai suoi, più che a se stesso) di aver fallito, ed evitare l’immediato pensionamento. Il tentativo di dar vita ad un governo fuori dagli schemi è l’estrema carta da giocare, per Pierluigi: larghe intese, esecutivi “di scopo” e soprattutto nuove elezioni segnerebbero la sua fine politica, fuori e dentro il partito. Insomma, meglio tergiversare, prendere tempo, che arrendersi: l’italiano si affida sempre alla benevolenza della dea bendata.

Da un certo punto di vista, l’apertura al M5S è stata una buona mossa, perché ha avuto il duplice effetto di rincuorare un poco i sostenitori del PD, avviliti dall’esito elettorale, e di gettare la palla, debitamente avvelenata, nel campo grillino. Se Bersani non ha vinto, malgrado i sondaggi favorevoli, è perché molti elettori di sinistra si sono decisi, nel finale, a voltargli le spalle e votare Grillo; il segretario lo sa, e prova – con parole accuratamente studiate – a riconquistarseli: domani potrebbero, all’occorrenza, fare una croce sul simbolo del PD, ma oggi hanno la concreta (?) possibilità di farsi sentire all’interno del movimento, e “ammorbidire” il capo. Un azzardo, quello bersaniano? Diremmo piuttosto una scommessa, vista la mancanza di alternative praticabili, e probabilmente un imbroglio: in campagna elettorale il segretario piddino è stato più onesto che nel dopopartita, e il suo unico “errore” è stato quello di essere meno telegenico di Matteo Renzi. Se avesse ottenuto il famigerato 51%, la dirigenza democratica, come promesso, avrebbe richiamato Monti – perché il governo di legislatura avrebbe dovuto essere la fotocopia di quello c.d. tecnico. Quando la prospettiva di governare appariva realistica, nessuno si sarebbe azzardato a tirar fuori “otto punti” (per quanto generici) come quelli marzolini: bisognava rassicurare i mercati, le loro gazzette e la signora Merkel – vale a dire i “grandi elettori”, quelli che contano prima e dopo, ma non sempre, disgraziatamente, al momento del voto. Incassata (si fa per dire) la non vittoria, Pierluigi si è sentito messo all’angolo, ma – paradossalmente – più libero di manovrare rispetto a prima: nelle odierne democrazie il ruolo delle opposizioni sistemiche è quello di criticare i presunti “eccessi” del sistema medesimo, imprigionando nella scheda la rabbia sociale, e le profferte “di sinistra” ad eletti ed elettori grillini potrebbero essere la conseguenza del mutamento di scenario. Ecco il populismo del XXI secolo: a seconda che facciano parte o meno della maggioranza, partiti e movimenti adoperano due linguaggi diversi, imperniati, rispettivamente, sul “realismo” e sull’“ideale”. Esiste un’altra chiave di lettura, forse più convincente: Bersani è un morto (politico) che cammina, perciò viene lasciato sfogare. Le sue fantasmagorie si esauriranno in un lampo.
Per fidanzarsi bisogna essere in due e, com’è noto, Beppe Grillo non ci sta. Cerchiamo di capire il perché, senza sbrigliare troppo l’immaginazione. L’ex comico genovese ha assemblato con cura un’armata guerrigliera, adatta all’imboscata e alle incursioni parlamentari – ma non immaginava che i suoi diventassero il primo partito alla Camera, e l’ago della bilancia al Senato. La mission era fare opposizione in maniera spettacolare, non governare, e cambiare in corsa è oltremodo arduo. 

Come abbiamo già scritto (insieme a molti altri), Grillo si trova adesso in una posizione scomoda: se dicesse sì al governo, diventerebbe – agli occhi di tantissimi elettori – un politicante qualunque; opponendo un no pregiudiziale scontenterebbe però i sostenitori dell’ultima ora, quelli che l’hanno scelto come extrema ratio. Potrebbe cavarsi d’impiccio facendo, come suggerisce qualcuno, una proposta inaccettabile (per il PD), ma sensata: via gli otto punti, sostituiamoli con cinque o sei dei nostri – quelli più qualificanti – e poi si governa insieme, ma alle nostre condizioni. Che ne dite di un pacchetto con dentro reintroduzione dell’articolo 18, varo del reddito di cittadinanza e diminuzione dell’orario lavorativo a 30 ore settimanali? In fondo, queste idee hanno incontrato il consenso delle piazze, e metterebbero il PD con le spalle al muro: Hic Rhodus, hic salta! Peccato che l’esortazione valga anche per il cabarettista rivoluzionario: raramente ad infuocate parole di “estrema sinistra” seguono i fatti, specie quando c’è di mezzo l’interesse proprio ed altrui. Beppe Grillo è sostenuto sia da lavoratori dipendenti impauriti – se ne contavano a migliaia in ogni piazza dello Tsunami tour – che da imprenditori medi e medio-grandi, benestanti tagliati fuori dal paradiso finanziario. Ad Agorà ne abbiamo udito uno – presumibilmente veneto, tipicamente semianalfabeta – inveire contro Landini “che non saprebbe mandare avanti una fabbrica” (accusa singolare, rivolta a un sindacalista) e che guida un sindacato che incita allo sciopero anziché a lavorare. Questo bel tipo ha annunciato che trasferirà la fabbrica all’estero, e poi si è messo a giocherellare col telefonino: lo sforzo reiterato del conduttore di aprire un canale comunicativo tra sindacalista e padrone è stato frustrato, più che dall’innegabile beceraggine di quest’ultimo, dal fatto obiettivo del conflitto di interessi tra le parti, che il grillismo cerca di nascondere dietro la tenda della crisi. Basta un grugnito padronale per smascherare Grillo: non si può fare una rivoluzione che metta d’accordo sfruttatore e sfruttato – anzi, la si può anche fare (Francia 1848), ma l’idillio dura pochissimo, e alla fine vince il più preparato, quello provvisto di mezzi. 
Il problema non sono gli slogan semplificatori, che al contrario vanno benissimo, perché – come ci insegnano le Tesi d’aprile, obliate dalla sinistra criptica – servono a motivare le masse; il fatto è che il genovese parla con lingua biforcuta, e la parrucca rossa sfoggiata a fine campagna elettorale è risultata solo un espediente acchiappavoti. Un partito che finge di voler dar voce a media (non soltanto piccola!) borghesia e proletariato sarà pronto, al momento opportuno, a imporre la museruola a chi “vale” meno: a dirlo è la Storia, non un insignificante commentatore triestino.

Niente controproposta, dunque: il M5S resta appollaiato sul suo confortevole Aventino, sperando che gli altri “inciucino” alla svelta. Berlusconi, invece, proclama a destra e a manca di essere disponibile a sostenere un governo a guida Bersani, si appella alla responsabilità altrui e sguinzaglia le sue ninfe televisive (l’algida Repetto è ovunque, ma il messaggio è preregistrato). In cambio si accontenta di “poco”: la Presidenza della Repubblica per sé o per Letta senior. Meglio il Gatto o la Volpe, al Quirinale? La sua è, com’è ovvio, una provocazione, un no sonante travestito da sì: se il PD acconsentisse all’infame baratto, scenderebbe, alle prossime elezioni, sotto le percentuali del PdAC. Intanto il cavaliere mette a segno un colpo da maestro: sfrutta la vergognosa vicenda dei marò per gettare (meritato) discredito su un Governo Monti ormai alla frutta secca. Monti avrebbe infangato il buon nome dell’Italia: parzialmente vero, ma – al di là della precisazione che il nome è già incrostato di fango secolare – stupisce, o dovrebbe stupire, che la predica venga da un pulpito su cui amicizie e accordi internazionali sono stati stracciati in nome dell’interesse di altre potenze (v. vicenda Gheddafi).

Come andrà a finire ‘sta storiaccia? Molti tireranno i propri bilanci alla conclusione – prossima – della prima puntata, noi vedremo di farlo a tempo debito. Per ora annotiamo quanto segue: Bersani si arrenderà, ma le elezioni immediate non le vuole nessuno. Non le vuole Berlusconi, nonostante si dica certo di vincerle (è probabile: gli elettori sono, malauguratamente, italiani), perché il governo di una situazione ingovernabile gli procurerebbe solo grattacapi; le aborriscono Bersani – perché segnerebbero, come detto, il suo definitivo tramonto -, il suo entourage “turco” – Fassina e compagnia bella finirebbero per strada – e l’intero Partito Democratico che, Renzi o non Renzi, rischierebbe un ignominioso terzo posto. Non le desidera Beppe Grillo, la cui strategia è chiara: favorire un governo brancaleone contro cui poter sparare a palle incatenate come nel progetto iniziale, dando tempo ad un elettorato perplesso di scordare le ambiguità e i giochi di prestigio del capo carismatico, che ogni tanto trolleggia se stesso. In ogni caso, l’ultima parola spetterà ai mercati che, per precauzione, stanno già scaldando i motori dello spread.
L’apparente sconfitto, Mario Monti, sembra oggi il vincitore di giornata: la bagarre assicura la “necessaria” continuità, il prossimo premier sarà verosimilmente un suo sosia. Un ritiro dal proscenio non arrecherebbe duratura amarezza al bocconiano: la missione è stata diligentemente compiuta, e all’ombra della Trilateral si gode una piacevole frescura, mentre il sole del capitalismo autoritario arroventa le pietre su cui poggiamo i piedi.

Siamo a un passo dalla Rivoluzione? Alziamo lo sguardo dai libri, e vedremo solo il Calvario: domani, dopo tre giorni, e per i mesi a venire.

Ciao Enzo!


Ciao Enzo!


di Alfonso Gianni -
E’ morto Enzo Jannacci. Era malato da tempo. La notizia non sorprende ma il vuoto che lascia è abissale. Forse è difficile per chi non è milanese capire fino in fondo Jannacci. Probabilmente è stato il più grande. L’unico che ha saputo cantare la dimensione urbana, la Milano operaia, quella delle periferie, quella della piccola ligera (in milanese malavita), quella degli emarginati, del non sense, cioè di quella particolare ironia surreale che nasce nel cuore di chi abita in una città che si avvolge nella nebbia, la Milano delle osterie, delle piccole meschinità di un popolo che amo, del fascino ingenuo delle macchinismo e della fabbrica, come luogo della fatica e allo stesso tempo della sicurezza del proprio futuro. Ricordate “Vincenzina davanti alla fabbrica” una delle canzoni più belle che siano mai state scritte. Il cantore di un mondo che non c’è più. E quando ti telefonavo Enzo, per invitarti a cantare rigorosamente a gratis alle feste del Movimento lavoratori per il Socialismo, dopo che ci incontrammo per la prima volta di notte a un picchetto davanti a una piccola fabbrica metalmeccanica davanti a un falò, sembrava sempre che ti svegliassi, qualunque fosse l’ora. E tu cominciavi a spiegarmi come era fatto il mondo, e come andava male, e come cazzo, insomma si sarebbe potuto, no, capisci, dovuto, se fossimo d’accordo ecco… Poi alla festa non saresti venuto perchè avevi le prove, o una registrazione o non ti girava. Ma nella mia testa continuavano a girare le tue parole. Ci riconoscevo dentro la vita di mio padre, che lavorava la notte in piazza Cavour, operaio nella tipografia dove si stampavano tutti i giornali, di destra e di sinistra, e spesso, sempre più spesso mi toccava andarlo a prendere all’osteria ( ora al suo posto c’è un orefice) perché da solo non sarebbe mai tornato a casa. E quando ti vidi per la prima volta nella Tv in bianco e nero, presentato da Mike Bongiorno, cantare “El purtava i scarp de tennis” mio padre era già morto da cinque anni, ma era come se me lo vedessi davanti, perchè lui se di notte ubriaco fosse tornato a casa da solo e avesse visto un “barbone” sotto un mucchio di cartoni si sarebbe fermato, avrebbe cercato di svegliarlo per offrigli qualcosa da bere. L’indifferenza, lui come te, non sapeva cos’era, perchè tu Enzo odiavi gli indifferenti. Te se andaa via. Ciao.
 

Jannacci, l'ultimo contropiede del poeta prediletto

Ricordo del cantautore di Maria Jatosti, protagonista della scena milanese con Gaber, Bianciardi, Svampa, Dondero. Tratto da un libro di Nando Mainardi
 
STORICA PASTICCERIA GATTULLO, IL TITOLARE DOMENICO GATTULLO, da sx UMBERTO BINDI, BRUNO LAUZI, ENZO JANNACCI, RENATO POZZETTO, COCHI PONZONI, SERGIO ENDRIGO, AUGUSTO MARTELLI, GIORGIO GABER E - SAVOIA CATTANEO FARAVELLI - fotografo: DEL PUPPO FOTOGRAMMA
STORICA PASTICCERIA GATTULLO, IL TITOLARE DOMENICO GATTULLO, da sx UMBERTO BINDI, BRUNO LAUZI, ENZO JANNACCI, RENATO POZZETTO, COCHI PONZONI, SERGIO ENDRIGO, AUGUSTO MARTELLI, GIORGIO GABER E - SAVOIA CATTANEO FARAVELLI - fotografo: DEL PUPPO FOTOGRAMMA
 
"La sera che me ne andrò anch'io
diranno che dovevo andar
diranno che non vado a star male
ma io so già che là non si sta così
."
Da poco più di un'ora conviviamo con la notizia della morte di Enzo Jannacci: fiumi di inchiostro e di bit hanno preso a scorrere rapidi, come il flusso di ricordi di chi l'ha conosciuto, con la stessa velocità di chi tira avanti come se fosse una notizia come le altre. Ma Enzo Jannacci è un pezzo della colonna sonora della nostra vita, uno dei meno banali. E se n'è andato di notte quando è più lento il fiume delle notizie e più impetuoso quello dei pensieri. Popoff lo ricorda con un pezzo di Maria Jatosti, una delle protagoniste della scena culturale milanese degli anni di Jannacci. Il brano è tratto dall'introduzione di ENZO JANNACCI Il genio del contropiede, un libro recentissimo di Nando Mainardi edito da Zona editrice. Mainardi è un compagno di strada di Popoff e stanotte fa i conti, più di altri, con la perdita di un poeta prediletto. Sul suo profilo di facebook ha scelto questi versi del cantautore milanese tratti dalla canzone contro la guerra, "La sera che partì mio padre".
di Maria Jatosti*

A Milano ho vissuto dai primi anni Cinquanta agli ultimi Settanta. Era la mia città, il mio luogo dell'anima: via Solferino, via Garibaldi, via Lanzone, piazza Vetra, i Navigli, porta Cicca, la Milano di Stendhal, di Porta Venezia, di corso Magenta, la Milano della cosiddetta seconda scapigliatura, degli artisti, degli scrittori, dei fotografi, di Brera e del Giamaica, la Milano del liberty, del floreale, dei vialoni napoleonici, del romanico di sant'Ambrogio, la Milano del 25 aprile, dell'orgoglio partigiano, della ricostruzione, la Milano laboriosa degli artigiani e delle fabbriche, la Milano dell'immigrazione operaia, dei treni del Sud, del triangolo industriale, la Milano europea, la Milano capitale morale, aperta alle nuove idee, ai nuovi fermenti, alle nuove esperienze culturali, la Milano dell'Umanitaria, del Piccolo, di Feltrinelli, dei poeti e del cabaret, ma anche la Milano delle battaglie, delle sconfitte, delle delusioni, la Milano di piazza Fontana, di Pinelli e di Calabresi, e poi, la Milano della restaurazione craxiana, della moda, dei vip, della corruzione, del dio denaro...

 

 Ma questa non è più la mia storia privata, che poco conta: è storia di tutti.
È la storia che Enzo Jannacci, vecchio amico di una stagione irripetibile e feconda, con il suo linguaggio visionario, appassionato, corrosivo, ci racconta da mezzo secolo con le canzoni, e non solo. È la "nostra" storia come emerge anche da questo libro, questa sorta di "visita guidata", come la definisce con lodevole modestia l'autore, nella lunga e straordinaria carriera di un artista straordinario. Ho avuto occasione di leggere in anteprima questo Enzo Jannacci. Il genio del contropiede, opera di un altro amico, più recente e più giovane, cui mi unisce non soltanto l'ammirazione e l'affetto antichi per un artista assoluto, proteiforme e univoco al tempo stesso, che non vedo da troppo tempo, se non in qualche rara, folgorante, vitale e memorabile incursione nella mediocre e avvilente arena-totem televisiva dei nostri ultimi decenni. Ed è con entusiasmo e complicità che raccolgo l'invito di Nando a scrivere del suo lavoro, introducendolo ai lettori. Parafrasando il cantautore lombardo, se bisogna andare, andiamo, se bisogna scrivere, scriviamo. E allora eccomi qui a parlare del libro, ma soprattutto, l'amico Mainardi mi perdoni, delle canzoni, del mondo e dell'insegnamento morale di Enzo Jannacci, e perciò di amicizia, di rispetto, di solidarietà, di passione ideale, di impegno: valori obsoleti a quanto sembra, ma dei quali, come Enzo postilla amaramente in calce ad uno dei suoi cd più belli, dedicato al padre, lui stesso si è nutrito e nei quali, come me, come Nando e come tanti altri, continua a riconoscersi.

E a credere. Nonostante tutti i No.

I ragazzi non capivano, ti guardavano, piangevano, e non capivano che era tutto un No, sorridevano, si fidavano, ma sbagliavano, non capivano.

Allora i ragazzi sparavano, i ragazzi si ammazzavano, ma per morire si nascondevano, si vergognavano. I ragazzi non capivano che era tutto un No...

Sembra non concedere nulla alla Speranza questo Jannacci degli anni Ottanta, anni foschi "della smemoratezza e della depurazione dell'immaginario collettivo", anni dell'assassinio del Sogno, dell'Utopia, anni "del riflusso, del superfluo, della corsa al successo, al denaro", anni di smarrimento di un Paese che puzza di festa e si avvia allegramente alla perdizione, e presto si ritroverà col culo per terra.

E allora? Allora noi andiamo, allora andiamo, ma dov'è che si va. Non fa sconti questo medico cantautore anomalo "appassionato di disponibilità, finché dura".
 

Questo "genio del contropiede", questo poeta surreale - antesignano del genere cosiddetto demenziale - cantore di una periferia grigia e desolata del mondo e della società, interprete empatico di un'umanità scomoda, irregolare, stracciona e disperata, fatta di barboni, di "napoli", di disadattati, di fuori-di-testa, di puttane e di pappa. Questo giullare che ride raramente dietro una maschera stralunata, seria, quasi tragica, che si affaccia dallo schermo-chitarra, stretta al collo, a difesa. Pallido, magrissimo, - "pesavo cinquantaquattro chili" - occhialuto, impacciato, timido, inquieto, che usa le canzoni come arma, come sberleffo per ridere di sé e del mondo. Questo giovane che mi sta davanti, capelli cortissimi, mani nervose - mentre parliamo distrugge il bracciale a maglie del cronometro che ha al polso - che ha appena finito di cantare di un tale che andava a Rogoredo a cercare i so dané e che risponde quasi attonito alle mie curiosità. È il 1963, una sera d'ottobre, mezzanotte, siamo appartati di qualche tavolino dalla gente - intellettuali, artisti, tiratardi - che affolla la saletta buia e fumosa dell'Intra's Derby Club, via Monte Bianco, dalle parti della Fiera campionaria, Milano.

L'intervista verte sul caso "Canzoniere minimo", programma televisivo "castigato" dalla censura bacchettona. Ne ho parlato nel pomeriggio con Gino Negri all'Umanitaria, poi con Gaber, Maria Monti, Spadaccino, Silverio Pisu, Paolo Poli, e dopo cena con Bruno Lauzi che viene con la chitarra e canta per me e per Marcello, cinque anni: Menica Menica, oggi è domenica, oggi l'amore si fa, e poi quel capolavoro in cui si narra di un tale speciale, diverso, poeta, che si uccide per la gran confusione mentale...

 
 Di fronte a me, Jannacci ha cominciato a sciogliersi. Parla. Racconta. Ricorda. È appassionato, sincero. Un attore, scrivo sul quadernino di appunti dove - no no no no non mi lasciar, mai mai mai - mi lascerà scritte le parole della sua canzone più famosa, quella del barbone che gli era vegnù anca in ment de andà a negà e poi ci ripensa. Le origini meridionali - il nonno salito da Foggia - l'infanzia, otto anni di pianoforte al Conservatorio, l'interesse per il jazz: Jerry Mulligan, Stan Getz, Chet Baker, Franco Cerri, il Santa Tecla, la Taverna Mexico, le serate nei locali, in giro per l'Europa, nelle caverne, nel buio, a suonare come dannati, come "minatori". Poi la scoperta del rock, l'esperienza corsara al limone con Gaber, e intanto gli studi di medicina, le prime canzoni: El purtava i scarp del tennis, Veronica, L'ombrello di mio fratello, l'Armando, e il teatro: Carraro e Milly, T'ho cumprà i calzett de seda cunt la riga nera, il Gerolamo. 
C'ero, e la gente come me andava in visibilio allibita di fronte a questo fenomeno nuovo, bellissimo, istrionico, beffardo, che sa anche essere poetico, malinconico, struggente, che ti inchioda, ti prende di petto, ti fa pensare, ti scuote, mentre ti fa ridere e ti commuove - Sei minuti all'alba, Sfiorisci bel fiore, Il passaggio a livello, M'hann ciamàa, Vincenzina, Ti te sé no... -, che sfida ogni convenzione canonica canora e musicale con le sue mascheresie - come direbbe un mio grande amico giocoliere della lingua e dei linguaggi* - nemmeno tanto "mascherate", in bilico tra lucidità e nonsense, nate da una sapiente costruzione dell'assurdo e che testimoniano dell'impegno morale, e perciò "politico", dell'artista, teso a superare, scardinare, sovvertire convenzioni codificate consolatorie piccolo-borghesi tipiche della canzonetta popolare, attingendo all'estremo, al fantastico, alla frusta dell'ironia, contro il cosiddetto "realismo", guardando da "surrealista" ciò che vede e che, soprattutto, vuole mostrare al mondo.

Difficile da capire, da accettare, da mandar giù - e da vendere - questo Jannacci, al di là di una cerchia ristretta di seguaci entusiasti. La durezza, l'immediatezza espressionista, icastica, del dialetto, la scelta consapevole di un universo "strambo", dove si muovono figure al limite, di perdenti, di spostati, che hanno spesso la sua faccia, i suoi tic, la sua gestualità teatrale, personalissima, apparentemente meccanica: non è cibo da benpensanti. Il successo popolare verrà tardi, grazie anche all'incontro felice e decisivo con Dario Fo, con la canzone Vengo anch'io, no tu no. È il '68, c'è aria buona di fantasia, di immaginazione al potere, di ribaltamenti radicali. C'è voglia di buttare tutto all'aria.


Il libro esplora con puntualità cronachistica seguendo passo passo il percorso di questo cantautore della Milano più ombre che luccichii, degli operai sconfitti, degli amori traditi. Un percorso difficile, accidentato, caratterizzato da alti e bassi, inquieto e discontinuo, attraversato da altre importanti esperienze artistiche parallele o intrecciate, sovrapposte: il teatro, la scrittura, il cinema: la Vita agra, Bianciardi-Lizzani, i viaggi e i soggiorni di studio all'estero: il Sudafrica-Barnard, New York-la Columbia University, l'impegno professionale come medico chirurgo nelle strutture pubbliche e nel suo studio, dalle parti dell'Idroscalo, a un passo dalla casa dove è nato e da dove, bambino, vedeva gli aerei solcare il cielo di Milano, così bello quando c'è... La difficoltà di inserirsi nella nuova realtà discografica, di piegarsi alle logiche affaristiche e miopi del mercato, di adattarsi a un mondo che va, ma dov'è che va, un mondo "ancora in guerra", dove c'è sempre meno spazio per l'intelligenza, l'ironia, l'ingegno. Dove "non c'è spazio, non c'è testa, non c'è tempo per quel Jannacci lì", conclude l'Autore di questo bel libro. Dove non c'è spazio per la Milano opaca delle periferie, delle fabbriche, delle ringhiere, delle latterie, delle piole, delle crôte, dei trani, per la Milano di quei nostri giorni lontani. La Milano di Rocco e i suoi fratelli, dei treni della miseria che salgono da quell'altra Italia, laggiù, dalle terre della fame della lotta e del riscatto, irrorate da sangue rosso, contadino e sindacalista... la Milano mattiniera e operosa, che avanza sui polpacci forti e il sorriso spavaldo delle tuse della CCC Cucirini Cantoni Coats, quelle che otto ore al giorno alla linea bianche e rosse come il tricolore producono rocchetti e spagnolette, un arcobaleno di fili per rammendare montagne di calzini grigi e bucati. Le "vincenzine" che amano la fabbrica, giù, in fondo alla via, dalle parti della Fiera Campionaria, e dalle parti del Derby che ha chiuso da poco i battenti sulla strada ancora buia, sui passi degli attardati intellettuali pallidi, tirati, aggobbiti da una notte di fumo, di musica, whisky e chiacchiere.

Anni Sessanta dei miracoli smentiti, delle speranze perdute, dei fermenti delusi. Prima del diluvio.