mercoledì 30 settembre 2015

I "no" rivoluzionari di Ingrao di Giorgio Cremaschi

I "no" rivoluzionari di Ingrao
Eretico e non scismatico, così Fausto Bertinotti ha definito Pietro Ingrao riproponendo un giudizio che Claudio Sabattini aveva dato su se stesso tanti anni fa. Mi pare una immagine troppo statica, anche perché Ingrao negli ultimi anni della sua eccezionale vita politica scismatico lo era diventato. Dopo aver combattuto con tutte le sue forze la svolta di Occhetto aveva inizialmente sostenuto che bisognasse rimanere nel partito erede del PCI, perché si doveva stare "nel gorgo". Ma dopo solo due anni quel partito lo aveva lasciato e si era speso per costruire un'alternativa a sinistra di esso. Se si è coerentemente eretici prima o poi scismatici si è costretti a diventarlo, se le cose non cambiano. D'altra parte nessuno dei leader della sinistra italiana, che siano stati più eretici o più scismatici, è riuscito a fare meglio di lui, segno che la contraddizione che ha vissuto non è di quelle che si possono risolvere con puri atti di volontà.
La storia di Ingrao è quella della parte migliore del comunismo italiano, quella sinistra di scuola togliattiana che accomunava il legame di ferro con l'Unione Sovietica con la ricerca gramsciana di una via per la rivoluzione in Occidente. Si fa torto ad Ingrao se si cancella questa parola, rivoluzione, dal suo vocabolario e dai suoi sentimenti. Non è mai stato un riformista in nessuna delle accezioni correnti o passate. Anzi mi permetto di testimoniare che negli ultimi anni questa parola era tra quelle che più gli stavano care, quella che riassumeva lo scopo di una vita e lo sguardo verso il futuro. Certo essere rivoluzionari nel PCI comportava prezzi da pagare ed errori. Da quando nel 1966 affermò il suo dissenso, ma poi accettò quelle regole del gioco che lo condussero ad approvare la radiazione de il Manifesto, credo che siano diverse le volte nelle quali Pietro Ingrao abbia sofferto la contraddizione tra il suo sentire ed il suo concreto comportamento. Ma questa sua sofferenza e personale contraddizione, da lui stesso poi più volte ricordate , non ci deve far smarrire il dato di fondo. Ingrao aveva ragione e se il PCI avesse accettato il suo punto di vista sulle nuove contraddizioni del capitalismo e soprattutto la sua richiesta di libertà di discussione interna, la storia della sinistra in Italia ed in Europa sarebbe diversa, più avanti. Invece quello stesso apparato che poi dalla sera alla mattina sarebbe corso in massa a cambiare nome al PCI, nel nome dell'ortodossia combatté Ingrao e coloro, pochi, che rimasero con lui. I miglioristi, chissà perché definiti liberal, furono allora alla testa della resa dei conti di tipo staliniano con Ingrao ed il suo dissenso. Ma egli accettò alla fine quella condizione perché credeva restasse in piedi la doppiezza del PCI, il suo essere una forza di massa con pratica riformista che, anche se alla lontana, continuava a richiamarsi alle sue radici rivoluzionarie, al comunismo. Fino a che questo legame non fosse stato del tutto stato soppresso Ingrao sarebbe rimasto in quel fiume, cercando di muovere da lì controcorrente. Per questo la sua vera e profondissima rottura fu con la Bolognina nel novembre1989.
Sulla base delle passate esperienze il gruppo dirigente occhettiano sperò per qualche giorno che Ingrao non si opponesse alla svolta, magari dandone una lettura di sinistra. Era una incertezza che percorreva anche tanti di noi, combattuti tra la necessità di un cambiamento e la diffidenza verso quel cambiamento. Dopo qualche giorno di silenzio, nel quale si accreditarono le voci più diverse, Pietro Ingrao espresse tutto il suo disaccordo, tutta la sua rottura con la svolta. Fu proprio la rinuncia esplicita alla prospettiva anticapitalista, al cambiamento di sistema a farlo decidere. Attenzione, in un certo mondo radicale la svolta veniva presentata addirittura come una scelta di sinistra. In fondo, si diceva, il PCI era diventato un partito moderato anche perché la parola comunista giustificava i peggiori comportamenti opportunistici nel nome di un ideale superiore. Eliminando questa copertura ideologica ci sarebbe stato più radicalismo pratico. Era un errore politico, storico e culturale, che non comprendeva che tipo di capitalismo ideologico e totalitario si stesse affermando e come fosse indispensabile, anche per la battaglia quotidiana più immediata, un punto di vista critico di sistema. Il fatto che oggi l'anticapitalismo di Papa Francesco abbia tanto successo e copra un vuoto così profondo a sinistra dà completamente ragione al no di Ingrao. Che a quel punto scelse una pratica politica che non era sua, quella di corrente, quella delle alleanze con dirigenti del PCI contrari alla svolta da punti di vista abbastanza distanti dal suo. Divenne perciò anche scismatico e non mi risulta che se ne sia mai pentito. Gli "ingraiani" cioè quei dirigenti politici e sindacali che erano considerati a lui vicini, si divisero nel 1989 come già avevano fatto nel 1966. Molti lo abbandonarono e operarono per la versione di sinistra della svolta.
Cancellato il PCI, Ingrao continuò soprattutto un'opera di testimonianza e militanza. Francamente a chi lo ha criticato per questo mi sento di chiedere cosa avrebbe potuto fare di davvero diverso, con il disastro in atto della sinistra italiana in tutte le sue anime e strutture. Così lo ricordiamo novantenne farsi accompagnare in motorino alla fine del lungo percorso di un corteo contro la guerra e poi salutare a pugno chiuso. Era il suo modo concreto per resistere ed indicare una via. Nella storia ci sono i no che vincono e ribaltano il corso egli eventi, e quelli che solo indicano quello che avrebbe potuto essere e non fu. Entrambe queste specie di no sono decisive per le nostre vite. Per questo i no di Ingrao nel 1966 e nel 1989 durano nel tempo e ci ricordano da dove partire se si vuol davvero cambiare una società sempre più ingiusta e distruttiva.
Ingrao non fu mai pacificato o rassegnato e non può essere imbalsamato in un vuoto e ipocrita pantheon dei padri di una Repubblica che da tempo non esiste più. Ingrao era un rivoluzionario di una pasta speciale, come sono tutti veri rivoluzionari, quelli per dirla con Che Guevara, che sanno essere duri senza perdere la tenerezza.

SINISTRA: Scomode verità che non vogliamo vedere di Franco Bifo Berardi


 
C'è vita a sinistra. Per il 5 o anche il 10% forse c’è vita. Per una svolta sociale e politica del mondo non c’è e non ci sarà nel tempo prevedibile. Per uscire dall’inferno dobbiamo abbandonare la superstizione che si chiama crescita e quella del lavoro salariato.

L’organismo della sini­stra è assai poco vitale, ma com­pren­si­bil­mente non vuole dir­selo e nem­meno sen­tir­selo dire. E se pro­vas­simo ad affron­tare la que­stione da un punto di vista un po’ meno pre­ve­di­bile? Se comin­cias­simo a dirci che no, ragazzi, non c’è vita a sinistra.
Per­ché que­sta è la verità: non c’è vita, se mai c’è soprav­vi­venza eroica ma sten­tata di un vasto numero di asso­cia­zioni e orga­ni­smi di base che cer­cano di garan­tire la tenuta di alcuni livelli minimi(ssimi) di solidarietà.
Se comin­cias­simo col dirci la verità che dal tronco della sini­stra del Nove­cento non sboc­cerà più alcun fiore, forse allora riu­sci­remmo a vedere la realtà pre­sente in maniera più rea­li­stica e forse anche a imma­gi­nare una via d’uscita per il pros­simo futuro.
Se sini­stra vuol dire una for­ma­zione capace di rag­giun­gere il 5% o forse anche il 10% allora sì, forse può esserci vita a suf­fi­cienza. Gra­zie alla demo­gra­fia, gra­zie all’ampiezza dei ran­ghi degli ultra-sessantenni pos­siamo ancora spe­rare di costi­tuire una for­ma­zione che mandi in par­la­mento qual­che depu­tato prima di esau­rirsi per estin­zione pros­sima della gene­ra­zione che si formò negli anni della democrazia.
Ma se sini­stra vuol dire una forza capace di imma­gi­nare una svolta nella sto­ria sociale eco­no­mica e poli­tica del mondo, una forza capace di attrarre le ener­gie della gene­ra­zione pre­ca­ria e con­net­tiva, se sini­stra vuol dire una forza capace di rove­sciare il rap­porto di forze che il capi­ta­li­smo glo­ba­liz­zato ha impo­sto all’umanità — allora è meglio non rac­con­tarci bugie pie­tose. Non c’è e non ci sarà nel tempo prevedibile.
I con­tri­buti che ho letto sul mani­fe­sto sono più o meno apprez­za­bili, alcuni mi sono pia­ciuti molto. Ma non ne ho tratto la per­ce­zione che qual­cuno voglia vedere quel che sta acca­dendo e che acca­drà, e soprat­tutto quel che noi dovremmo e potremmo fare.

La prima lezione che mi pare occorre trarre dall’esperienza degli ultimi anni è che alla parola demo­cra­zia non cor­ri­sponde nulla.
Per­ché dovrei ancora pren­dere sul serio la demo­cra­zia dopo l’esperienza di Syriza? Ma non occor­reva l’esperienza greca, per sapere che la demo­cra­zia non è più una strada per­cor­ri­bile. Basta ricor­darsi del refe­ren­dum ita­lico con­tro la pri­va­tiz­za­zione dell’acqua, i suoi risul­tati trion­fali, e i suoi effetti pra­ti­ca­mente nulli sulla realtà eco­no­mica e politica.
E allora, se la demo­cra­zia non è una strada per­cor­ri­bile, ce ne viene in mente un’altra? A me no. A me viene in mente che tal­volta nella vita (e nella sto­ria) è oppor­tuno par­tire da un’ammissione di impo­tenza. Non posso, non pos­siamo farci niente.
Cioè, fermi un attimo. Due cose dob­biamo farle, e se volete chia­marle sini­stra allora sì, ci vuole la sinistra.

La prima cosa da fare è capire, e quindi prevedere.
Pos­siamo pre­ve­dere che nei pros­simi anni l’Unione euro­pea, ormai entrata in una situa­zione di scol­la­mento poli­tico, di odii incro­ciati, di pre­da­zione colo­niale, finirà nel peg­giore dei modi: a destra. Pos­siamo dirlo una buona volta che la sola forza capace di abbat­tere la dit­ta­tura finan­zia­ria euro­pea è la destra?
Dovremmo dirlo, per­ché que­sto è quello che sta già acca­dendo, e le con­se­guenze saranno vio­lente, san­gui­nose, cata­stro­fi­che dal punto di vista sociale e dal punto di vista umano. Dob­biamo allora smet­tere i gio­chi già gio­cati cento volte per met­terci in ascolto dell’onda che arriva.
Pos­siamo pre­ve­dere che nei pros­simi anni gli effetti del col­lasso finan­zia­rio del 2008 mol­ti­pli­cati per gli effetti del col­lasso cinese di que­sti mesi pro­durrà una reces­sione glo­bale. Pos­siamo pre­ve­dere che la cre­scita non tor­nerà per­ché non è più pos­si­bile, non è più neces­sa­ria, non è più com­pa­ti­bile con la soprav­vi­venza del pia­neta, e ogni ten­ta­tivo di rilan­ciare la cre­scita coin­cide con deva­sta­zione ambien­tale e sociale.
La decre­scita non è una stra­te­gia, un pro­getto: essa è ormai nei fatti, nelle cifre e negli umori. E si tra­duce in un’aggressione siste­ma­tica con­tro il sala­rio, e con­tro le con­di­zioni di vita delle popo­la­zioni. E si tra­duce in una guerra civile pla­ne­ta­ria che solo Fran­ce­sco I ha avuto il corag­gio di chia­mare col suo nome: guerra mondiale.

La seconda cosa da fare è: imma­gi­nare.
Imma­gi­nare una via d’uscita dall’inferno par­tendo dal punto cen­trale su cui l’inferno pog­gia: la super­sti­zione che si chiama cre­scita, la super­sti­zione che si chiama lavoro sala­riato. Le poli­ti­che dei governi di tutta la terra con­ver­gono su un punto: pre­di­cano la cre­scita in un momento sto­rico in cui non è più né auspi­ca­bile né pos­si­bile, e soprat­tutto è ine­si­stente per la sem­plice ragione che non abbiamo biso­gno di pro­durre una massa più vasta di merci, ma abbiamo biso­gno di redi­stri­buire la ric­chezza esistente.
Le poli­ti­che dei governi di tutta la terra con­ver­gono su un secondo punto: lavo­rare di più, aumen­tare l’occupazione e con­tem­po­ra­nea­mente aumen­tare la pro­dut­ti­vità. Non c’è nes­suna pos­si­bi­lità che que­ste poli­ti­che abbiano suc­cesso. Al con­tra­rio la disoc­cu­pa­zione è desti­nata ad aumen­tare, poi­ché la tec­no­lo­gia sta pro­du­cendo in maniera mas­sic­cia la prima gene­ra­zione di automi intel­li­genti. Da cinquant’anni la sini­stra ha scelto di difen­dere l’occupazione, il posto di lavoro e la com­po­si­zione esi­stente del lavoro. Era la strada sba­gliata già negli anni ’70, diventò una strada cata­stro­fica negli anni ’80. Era una strada che ha por­tato i lavo­ra­tori alla scon­fitta, alla soli­tu­dine, alla guerra di tutti con­tro tutti.
Per­ché dovremmo difen­dere la sini­stra visto che è stata pro­prio la sini­stra a por­tare i lavo­ra­tori nel vicolo cieco in cui si tro­vano oggi?
Di lavoro, sem­pli­ce­mente, ce n’è sem­pre meno biso­gno, e qual­cuno deve comin­ciare a ragio­nare in ter­mini di ridu­zione dra­stica e gene­ra­liz­zata del tempo di lavoro. Qual­cuno deve riven­di­care la pos­si­bi­lità di libe­rare una fra­zione sem­pre più ampia del tempo sociale per desti­narlo alla cura all’educazione e alla gioia.
So bene che non si tratta di un pro­getto per domani o per dopo­do­mani. Negli ultimi quarant’anni la sini­stra ha con­si­de­rato la tec­no­lo­gia come un nemico da cui pro­teg­gersi, si tratta invece di riven­di­care la potenza della tec­no­lo­gia come fat­tore di libe­ra­zione, e si tratta di tra­sfor­mare le aspet­ta­tive sociali, libe­rando la cul­tura sociale dalle super­sti­zioni che la sini­stra ha con­tri­buito a formare.
Quanto tempo ci occorre? Baste­ranno dieci anni? Forse. E intanto? Intanto stiamo a guar­dare, visto che nulla pos­siamo fare. Guar­dare cosa? La cata­strofe che è ormai in corso e che nes­suno può fer­mare. Stiamo a guar­dare il pro­cesso di finale disgre­ga­zione dell’Unione euro­pea, la vit­to­ria delle destre in molti paesi euro­pei, il peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni di vita della società. Sono pro­cessi scritti nella mate­riale com­po­si­zione del pre­sente, e nel rap­porto di forza tra le classi.
Ma natu­ral­mente non si può stare a guar­dare, per­ché si tratta anche di sopravvivere.
Ecco un pro­getto straor­di­na­ria­mente impor­tante: soprav­vi­vere col­let­ti­va­mente, sobria­mente, ai mar­gini, in attesa. Riflet­tendo, imma­gi­nando, e dif­fon­dendo la coscienza di una pos­si­bi­lità che è iscritta nel sapere col­let­tivo, e per il momento non si can­cella: la pos­si­bi­lità di fare del sapere la leva per libe­rarci dallo sfruttamento.
Atten­dere il mat­tino come una talpa.

Vae Victis Germania / 1: Sulla loro pelle

di Sandro Moiso, Carmillaonline.com
fotografo-foto-migrante-bambino-morto-turchia-043-body-image-1441382933Per diversi giorni i mass media, completamente disumanizzati e privi di qualsiasi autonomia di giudizio o di un’identità che non sia quella fornita loro dalle veline dei governi o dagli uffici stampa delle zaibatsu industriali e finanziarie internazionali, hanno cercato di convincerci che le recenti prese di posizione di Angela Merkel in tema di immigrazione fossero principalmente dovute alle foto del bimbo siriano affogato nel braccio di mare tra Turchia e Grecia mentre, con la sua famiglia cercava di raggiungere la salvezza da una guerra spietata e devastante che sta radendo al suolo ogni possibilità di convivenza civile in vaste regioni del Vicino Oriente.
Naturalmente nulla è più falso di questa “benevola” rappresentazione della cancelliera tedesca e degli altri capi di Stato europei che hanno versato lacrime di coccodrillo su una situazione politica, militare ed umanitaria che hanno ampiamente contribuito a creare, anche solo tacendo per viltà e/o convenienza sulle ragioni reali del conflitto in atto. Infatti quello a cui stiamo assistendo, con buona pace delle anime pie, non è un risveglio della “coscienza” europea ed europeista, ma soltanto un altro passo verso quel III conflitto mondiale di cui da tempo vado scrivendo.
La gestione del problema migratorio di centinaia di migliaia di profughi, esattamente come quello del possibile default o meno della Grecia, non risponde infatti a categorie di ordine morale o umanitario e, tanto meno, a quelle di carattere sociale o del pubblico bene. Risponde però, nel precipitare di una crisi economica, geopolitica e militare sempre più vasta a livello mondiale, alla domanda su chi debba comandare in Europa ovvero in una delle aree del globo con la più alta concentrazione di ricchezza accumulata e su come tale ricchezza accumulata debba essere investita e ricollocata all’interno della competizione inter-imperialista mondiale.
Al centro di questa domanda, e delle risposte che ne conseguiranno, non vi è l’interesse dei “popoli”, ma lo scontro tra due modelli diversi di sviluppo capitalistico: da un lato quello anglo-americano e dall’altro quello germanico. Modello quest’ultimo che già ha guidato due volte la Germania, nel coso del XX secolo a cercare di istituire un vasto territorio “vitale” per i propri interessi economici ed industriali che si estendeva e si estende, idealmente, dall’Atlantico al Volga e dal Mare del Nord al Mediterraneo. Un autentico lebensraum che, se nel corso del secolo passato ha assunto la forma dell’occupazione militare vera e propria, oggi cerca di manifestarsi principalmente attraverso il disciplinamento di ogni attività economica, finanziaria ed amministrativa, così come della forza lavoro, europea.
Il disciplinamento della forza lavoro europea era già stato al centro dell’azione germanica sul continente, soprattutto negli anni del secondo conflitto mondiale; così come ben dimostrarono i campi di concentramento tedeschi sparsi sul suolo del III Reich e della Europa Orientale occupata militarmente. E lo dimostrò altrettanto bene anche l’uso dei lavoratori “volontari” giunti dall’Italia alleata, così come ha testimoniato il lavoro storiografico di Brunello Mantelli e di Cesare Bermani,1 così come le illuminanti riflessioni, mai portate a compimento, di Karl Heinz Roth “sulla politica nazista nell’area sud-orientale europea, nel tentativo di leggere l’espansione nei Balcani anche come la costruzione di un mercato del lavoro europeo, e di interpretare la resistenza in paesi come l’ex-Jugoslavia o la Grecia come risposta anche a questa strategia”.2
Non a caso, nella fase attuale, dopo la riorganizzazzione e la ristrutturazione del lavoro e delle leggi che lo regolamentano, che ha visto sostanzialmente abolite le certezze e i diritti conquistati dal lavoratori nel corso delle lotte della seconda metà del secolo appena trascorso, si sta assistendo ad una sorta di ricollocazione internazionale della forza lavoro migrante sia dal Vicino Oriente che dal Nord Africa e dall’Africa Subsahariana.
Anche se negli ultimi giorni l’”accogliente” terra dei Lander sembra aver già ridotto gli accessi alle proprie città e ai propri territori, non vi è dubbio che l’accoglienza dei profughi siriani inaugurata dalla Merkel rivesta, ancor prima che quello di una risposta umanitaria ad una catastrofe di portata storica, un ruolo di riorganizzazione dei flussi di forza lavoro a basso costo verso il continente e il capitalismo europeo.
Così, come aveva già profetizzato sulle pagine dell'”Aspen Review” l’ex-ministro Giulio Tremonti a metà degli anni ’90, se “la povertà dell’Est dovrà entrare nelle buste paga dell’Ovest“, oggi è la povertà del mondo a dover contribuire a rendere “competitivi” i salari della classe operaia occidentale. La guerra produce miseria per una parte della società e fa accumulare profitti ad un’altra. Come sempre nel corso degli ultimi cento anni.
Si è parlato disordinatamente del fatto che i profughi provenienti dal Vicino Oriente insanguinato e, in particolare, dalla Siria appartengano alla piccola e media borghesia locale poiché, anche solo per affrontare i costi del trasporto clandestino, le spese affrontate per il viaggio non sono assolutamente sostenibili dalla manovalanza industriale e agricola di quei paesi. Una manodopera migrante, quindi, a diffuso tasso di scolarizzazione, ma che nel corso del viaggio, e a seguito dello spostamento, si lascia alle spalle uno stato di relativo benessere per essere sempre più sottoposta ad un processo di proletarizzazione. Non solo intellettuale.
Per una buona parte di loro la Germania non è la destinazione finale. Forse molti non intendono nemmeno fermarsi nell’Europa continentale, ma è indubbio che il controllo dei flussi costituisce una sorta di prova generale non di sopravvivenza o meno dell’unità europea, ormai messa seriamente in discussione dalla possibile sospensione del trattato di Schenghen e dagli effetti della crisi, bensì del ruolo predominante che la Germania ha avuto in questa, soprattutto a partire dall’istituzione della moneta unica.
Il controllo di questi flussi migratori diventa per la politica e l’economia tedesca determinante ai fini del comando sul lavoro e sull’economia su scala europea poiché, è inutile tentare di interpretare ciò che sta avvenendo sotto un’altra luce, per il capitalismo germanico la scala su cui muoversi non è mai stata quella meramente nazionale. Si potrebbe dire che è un capitalismo sì racchiuso entro confini territoriali molto più definiti di quelli inaugurati dalle super-potenze marittime (Gran Bretagna per il XIX secolo e Stati Uniti per il XX), ma che non hanno mai coinciso con quelli della pura e semplice “nazione”.
Si scontrano infatti, oggi come ieri, due concezioni economiche e geo-politiche, estremamente diverse tra di loro e conflittuali fin dalla loro ideazione tra il XIX e il XX secolo.
Da un lato il liberismo finanziario ed economico di Adam Smith, nato in una nazione che del mare aveva fatto la sua via di controllo dei commerci, della produzione e delle attività politico-militari su scala planetaria. Un capitale libero di agire in ogni angolo del globo e in grado di approfittare di qualsiasi occasione gli si parasse davanti e per il quale lo stato non deve essere che una complessa macchina diplomatico-militare in grado di garantirne interessi, proprietà e contratti senza mai, però, determinarne flussi, scelte e strategie di diffusione. Nato con i self-made men della guerra di corsa e della pirateria ai danni dei regni di Spagna e Portogallo e del prodotto dei loro imperi. Un capitalismo più interessato a scompigliare e destabilizzare gli assetti statuali e imperiali (altrui), più che a mantenerne le forme e le funzioni.
Per i capitali formatisi al di fuori della società inglese e che cercavano di opporsi alla superiorità economica della Gran Bretagna, il libero commercio di Smith risultava meno attraente. Fu, già nel 1789,, a onor del vero, un americano, Alexander Hamilton, a istituire uno stretto legame tra nazione, Stato ed economia, prevedendo la fondazione di una banca nazionale, la protezione delle manifatture nazionali mediante alte tariffe e notevoli imposte indirette.
Fu però un economista tedesco, Friedrich List, a riprenderne e svilupparne le idee nella prima metà dell’Ottocento. “Secondo List il compito della scienza economica, che già allora i tedeschi tendevano a chiamare «economia nazionale» (Nationaloekonomie) o «economia popolare» (Volkswirtschaft), invece di «economia politica», era di «realizzare compiutamente lo sviluppo economico della nazione» […] Non c’è bisogno di aggiungere che tale sviluppo doveva assumere la forma dell’industrializzazione capitalistica realizzata da una borghesia forte […] – e che – in sostanza , la nazione doveva possedere sufficiente estensione territoriale da formare un’unità in grado di svilupparsi. Nel caso in cui non raggiungesse questa estensione non avrebbe giustificazione storica3
Un’idea economica in cui Stato, territorio e controllo dei confini svolgevano una funzione centrale ai fini dello sviluppo. Una teoria della stabilità e della progressiva espansione geopolitica a partire da una ferma difesa degli interessi nazionali (si noti la vicinanza, precedentemente sottolineata, tra nazionale e popolare nella suddetta concezione). Lo “spazio vitale” di cui si parlava all’inizio insomma.
Anche se, a onor del vero, i due modelli economici non sono riscontrabili in forma pura in nessun dei processi di formazione delle potenze capitalistiche. La proposta di Hamilton, ad esempio, pose le basi per l’espansionismo statunitense sul continente nordamericano permettondogli di giungere al controllo di quei due oceani da cui sarebbe poi partito per un autentico “assalto al mondo”, mentre il cosiddetto “ordoliberismo” teutonico non può fare a meno di predicare una certa dose di “liberalizzazione”. Ma è chiaro che due così diverse concezioni del ruolo economico dello Stato nazionale e dello sviluppo capitalistico non avrebbero potuto far altro che produrre due concezioni geopolitiche estremamente diverse e in conflitto tra di loro. Che sembrano entrambe avere, però, proprio l’Eurasia al centro del loro interesse. Possiamo definirle come teorie dell’ Heartland (letteralmente: il Cuore della Terra) e del Rimland (la fascia marittima e costiera che circonda l’Eurasia e che si divide in 3 zone: zona della costa europea, zona del Medio Oriente e zona asiatica).
rimlan heartL’ideatore del concetto di Heartland fu un generale e geopolitologo britannico, Sir Halford Mackinder, che la sottopose alla Royal Geographical Society nel 1904. Il termine derivava dal fatto che tale vastissimo territorio era delimitato ad ovest dal Volga, ad est dal Fiume Azzurro, a nord dall’Artico e a sud dalle cime più occidentali dell’Himalaya.
Per Mackinder, che basava la sua teoria sulla contrapposizione tra mare e terra, l’Heartland costituiva il “cuore” di tutte le civiltà di terra, in quanto logisticamente inavvicinabile da qualunque talassocrazia. Teoria che egli condensava in una singola frase: «Chi controlla l’Est Europa comanda l’Heartland; chi controlla l’Heartland comanda l’Isola-Mondo; chi controlla l’Isola-Mondo comanda il mondo».
A “coglierne” il significato politico per la Germania e l’Europa fu il generale, geografo e politologo tedesco Karl Haushofer che sottolineò, a partire dagli anni ’20 nella rivista “Zeitschrift für Geopolitik”, come le potenze marittime (la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti) avessero costruito una sorta di “anello” per soffocare le potenze continentali. A suo avviso le potenze marittime si ergevano come custodi dello status quo non solo attraverso il colonialismo inglese e francese, ma anche tramite l’ideologia wilsoniana che, attraverso il diritto all’autodeterminazione dei popoli, aveva contribuito allo smantellamento dell’impero austro-ungarico e del reich guglielmino e alla creazione di una serie di stati cuscinetto destinati a contenere il risorgere della potenza tedesca e l’espansione bolscevica in Europa, compromettendo seriamente “il diritto classico dei popoli”. Entrambi i temi, quello dell’inevitabile scontro tra potenze marittime e terrestri e quello del soffocamento dello jus publicum europeo, saranno poi ripresi da Carl Schmitt, giurista e filosofo tedesco vicino al regime hitleriano, negli anni precedenti e successivi al secondo conflitto mondiale.4
Il concetto di Rimland invece è frutto delle teorie elaborate da Alfred Thayer Mahan (1840 – 1914), che nel 1890, con il suo studio “The Influence of Sea Power in History”, definì la dottrina marittima degli Stati Uniti andando oltre la Dottrina di Monroe che, nel 1823, aveva già delineato una prima area di interesse statunitense su tutto il continente americano dal Canada alla Terra del Fuoco. Tale teoria sarà poi ripresa ed impugnata con forza da Nicholas Spykman che, pur essendo di origini olandesi, sarà di fatto il padre della geopolitica statunitense.
Spykman negli anni trenta rivisitò la geopolitica così come era stata concepita da Mackinder.
Contrariamente al geografo britannico, Spykman non credeva che il “cuore”, il perno geografica del mondo, come un focus economico e territoriale, dovesse essere situato nell’Europa Centrale o in Russia, ma sulle coste. Secondo lui, il centro del mondo è composto di terra costiera, che egli chiama “terra di confine” o “terre anello”, il Rimland per l’appunto. Spykman pensa che gli USA, in un modo o nell’altro, debbano controllare questo Rimland, al fine di imporsi come una superpotenza, e quindi dominare il mondo.
La teoria di Spykman fu adottata dagli strateghi americani sia nel corso del secondo conflitto mondiale che durante la Guerra Fredda e fu alla base della politica di contenimento messa in atto nei confronti dell’Unione Sovietica. Nulla ci impedisce di cogliere come tale teoria sia tutt’ora attiva per gli Stati Uniti , dal mar della Cina e dal Pacifico orientale fino al Medio Oriente attuale. Sia in chiave anti-russa e anti-cinese che anti- europea o, meglio, anti-germanica.
Un’ultima osservazione: il termine “geopolitica” fu creato dal geografo svedese Rudolf Kjellen nel 1904, che era stato preceduto in questo campo di studi dal tedesco Friedrich Ratzel, morto proprio in quell’anno. La geopolitica, che come scienza si occupa dello studio degli incessanti mutamenti territoriali per effetto del soggiorno dell’uomo, della sua azione e delle rivalità di potere che ne derivano, nasce quindi con il moderno imperialismo, quello che il britannico John Atkinson Hobson giunse a definire nel 1902 e sul lavoro del quale si basò poi il successivo “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo” scritto da Vladimir Ulianov detto Lenin nel 1916. Si potrebbe anzi dire che ne costituisce la vera scienza politica ed è per questo motivo che, apparentemente, ho condotto il lettore così lontano dall’argomento iniziale.
Eppure per affrontare i problemi che si pongono all’ordine del giorno, dalla crisi greca a quella ucraina e dalle guerre del Medio Oriente e del Nord Africa fino alle bibliche migrazioni che ne conseguono, occorre andar oltre le banali affermazioni di carattere umanitario, alle letture e agli interventi ispirati dalla carità cristiana o, ancor peggio, di stampo nazionalistico e/o populista, per quanto ammantate di sinistrismo spicciolo.
Quello che avviene ormai quotidianamente sotto i nostri occhi, sicuramente, non è stato pianificato in precedenza, ma le scelte anche contraddittorie e talvolta disordinate che vengono fatte dai governanti europei e non, sono il frutto di contraddizioni e tensioni che non derivano solo dal momento. Per affrontarle con lucidità, non affidandosi soltanto all’emozione del momento, occorre indagarle in profondità.
muroAnche perché l’attuale costruzione di muri e la susseguente chiusura delle frontiere, così come il braccio di ferro sulle quote, non possono preludere che ad altre guerre per ridefinire il comando capitalistico su economie, territori ed esseri umani, migranti e non. Anche qui, nel cuore dell’Europa. E il gran rifiuto opposto a Bruxelles dallo schieramento dei paesi dell’Europa dell’Est alle proposte di Jean Claude Juncker non costituisce soltanto un episodio di calcolo politico elettoralistico ispirato dal populismo e dal razzismo, ma un ulteriore passo in quella direzione.
(1 – continua)

  1. Brunello Mantelli, “Camerati del lavoro”. I lavoratori italiani emigrati nel Terzo Reich nel periodo dell’Asse 1938 – 1943, La Nuova Italia 1992 e Cesare Bermani, Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione italiana 1937 – 1945, Bollati Boringhieri 1998
  2. Cesare Bermani, op. cit. pag. XI
  3. Eric J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi dal 1780, Einaudi 1991 e 2002, pag. 35
  4. Carl Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Adelphi 2002 e Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «Jus publicum europaeum», Adelphi 1991

Vae Victis Germania / 2: Car Wars

di Sandro Moiso , Carmillaonline.com
car wars 2 Quando l’unica nazione occidentale a non aver ratificato il protocollo di Kyoto sul riscaldamento ambientale denuncia con tanta veemenza i danni per la salute e l’ambiente derivanti dal mancato (e truffaldino) rispetto dei regolamenti USA sull’emissione di gas da parte dei veicoli circolanti c’è da porsi più di una domanda. Si sta parlando, evidentemente, dell’enorme tegola caduta sulla testa di una delle più importanti industrie automobilistiche mondiali, la Volkswagen, dopo la scoperta del raffinatissimo trucco messo in atto da quella azienda per beffare i controlli sugli scarichi delle auto diesel negli Stati Uniti e in Europa.
Lo scandalo si è rapidamente propagato nei paesi dell’Unione Europea e tocca, attualmente, la bellezza di 11 milioni di veicoli circolanti. La ditta tedesca ha reagito sostituendo l’AD e scaricando le colpe su un ristretto gruppo (“un piccolo gruppo” come è stato definito) di responsabili tecnici ed amministrativi, mentre Angela Merkel, per allontanare da sé e dal proprio governo qualsiasi ombra di sospetto o connivenza, ha promesso un’inchiesta rigorosa .
benzFilm già visti ed ampiamente prevedibili, soprattutto da parte di chi sa che i motori che ci vengono presentati, quasi quotidianamente, come innovativi, non inquinanti e a basso consumo non sono altro che una continua riproduzione del vecchio motore a scoppio messo a punto, sul finire dell’Ottocento tra il 1876 e il 1892, da tre tecnici tedeschi (guarda caso la continuità): Otto, Benz e Diesel. Motori che sono cambiati da allora ben poco, mantenendo quasi intatte le loro caratteristiche di alto spreco energetico, elevati consumi, scarso rendimento ed elevate capacità di inquinamento.
Ciò che, fra gli anni ’80 del XIX secolo ed oggi, è cambiato, migliorando rendimento e prestazioni degli autoveicoli, sono le linee aerodinamiche, l’alleggerimento dei materiali e delle strutture portanti, freni, sospensioni e, conseguente, tenuta su strada. Il resto affonda le sue radici negli albori del mezzo di trasporto meno conveniente (e più diffuso) che sia mai stato messo a punto dalla tecnica umana. Si tratta di autentiche carrette, i cui attuali ed “evolutissimi” software non servono ad altro che a truccare i dati e a rendere schiavi dei concessionari gli acquirenti.
Questo ci può far immaginare che ciò che viene attualmente denunciato a carico della Volkswagen e di altre sue consociate (Audi e Skoda) potrebbe tranquillamente ricadere sulle spalle dell’intero comparto automobilistico mondiale (così come le paurose discese in borsa dei titoli automobilistici, anche non tedeschi, e il rifiuto inglese di varare nuovi tipi di controllo sui motori diesel farebbero pensare)1. Allora, perché tutto questo baccano? Tutte queste “pelose” denunce?
Forse il “green capitalism” ha deciso di puntare su un rinnovamento, su scala mondiale, del parco macchine destinato alle classi medio/alte? Forse che i prototipi attualmente circolanti e, guarda caso spesso di origine teutonica, di auto ibride (in a carburanti, in parte elettriche) diverranno il trend dominante nella produzione automobilistica planetaria, così come anche i cinesi cominciano a promettere? O si tratta, più prosaicamente ancora, di qualcosa d’altro?
Follow the money!” è la formula che funziona sempre e particolarmente in questo caso.
Nel 2014 a livello globale sono state prodotti 89,75 milioni di veicoli, il 2,6% in più rispetto al 2013. Di questi, 67,53 milioni erano automobili. La produzione di veicoli a motore nell’ultimo decennio è cresciuta del 34%. Ma, nel 2014, le vendite sono state inferiori alla produzione: sia complessiva (88,16 milioni) sia delle sole auto (64,96 milioni, comunque sempre quasi due milioni in più rispetto all’anno precedente).
La Cina si è confermata come il primo produttore al mondo a quota 19,9 milioni, mentre l’Asia da sola vale oltre la metà della produzione con più di 39 milioni di auto. Il Giappone supera gli 8,27 milioni, la Corea del Sud i 4,12, l’India i 3,16, l’Indonesia il milione e l’Iran, con un balzo del 46,8%, arriva a 926.000.2 La Germania è il terzo produttore globale dopo Cina e Giappone e naturalmente di gran lunga il primo del Vecchio Continente con 5,6 milioni di autoveicoli.
L’Italia, con 401.317 vetture, è ormai tra i piccoli produttori. Sfornano più auto non solo Regno Unito e Francia, ma anche nazioni come Repubblica Ceca (trascinata dalla crescita di Skoda, altra industria indagata poiché appartenente al gruppo Volkswagen), Slovacchia, Polonia e Belgio. Mentre negli Stati Uniti la produzione copre appena il 55% della domanda, cioè 4,2 milioni a fronte di quasi 7,7 milioni di immatricolazioni. E a tutto ciò va aggiunto che nello stesso anno Toyota (10.230.000 veicoli venduti) è risultata essere al primo posto nella classifica delle vendite, mentre il gruppo Volkswagen (10.140.000) si è aggiudicato il secondo posto.
Vogliamo allora parlare di guerra, più ancora che di concorrenza commerciale ed industriale, su scala planetaria? “Guerra” perché, soprattutto nel caso della Germania, attaccare frontalmente, come si è fatto in questi giorni sui mercati e sui media internazionali, un settore fondamentale dell’industria tedesca significa non solo “fare concorrenza” ad un avversario commerciale, ma cercare di ridimensionare il ruolo politico ed economico della Germania in Europa e nel mondo. Il PIL della prima economia industriale d’Europa è il quarto al mondo dopo USA, Cina e Giappone e, nel 2011, l’export tedesco equivaleva al 50% dello stesso e al 7,7% dell’intero export mondiale.
Potenza economica, industriale e scientifica troppo forte e grande per i suoi confini geografici e troppo piccola per il mondo, la Germania si trova ancora una volta a fare i conti con un potenziale produttivo ed economico (il suo) che spaventa, intimorisce ed incanaglisce i suoi più diretti concorrenti in Europa e su scala planetaria. Ai tempi del primo conflitto mondiale la produzione siderurgica tedesca superava quella di Francia e Gran Bretagna messe insieme, oggi quella dell’auto (prodotto di punta, ci piaccia o meno, dell’industria mondiale) domina la produzione occidentale di autoveicoli.
volkswagen 1Chiusa tra le grandi pianure centro-europee ed asiatiche ad Oriente, il Mar Baltico e del Nord, le Alpi a sud e l’area renana ad ovest, sembra sempre costituire una sorta di nuovo Heartland3 europeo, sempre alla ricerca di espansione politica ed economica, sempre alla ricerca di un mai sopito lebensraum, di cui le esportazioni restano l’anima, la motivazione e il motore che la spingono a superare i propri limiti geografici, economici e politici.
In quest’area, compresa grosso modo tra l’asse renano ad ovest (il territorio industriale che si sviluppa dalle Alpi svizzere fino al porto di Rotterdam) e l’asse padano a sud (la pianura padana nella sua interezza), vi era all’inizio degli anni ’90 del XX secolo, una delle più grandi concentrazioni di aree urbane e di investimenti capitalistici del mondo. Si fa riferimento agli anni ’90 poiché in quel momento avviene la riunificazione della Germani dell’Ovest con la Germania dell’Est (ottobre 1990) che spingerà, da un lato, verso un maggiore accentramento in chiave tedesca del capitalismo europeo e, dall’altro, ad un risorgere della conflittualità e dello scontro militare sul territorio europeo (le guerre balcaniche che avranno inizio nella primavera-estate del 1991).
Le sei regioni urbane di Londra, Parigi, Anversa-Bruxelles, Ramstadt-Holland, Colonia-Ruhr e Milano costituivano allora i vertici dell’organizzazione territoriale europea con 51 milioni di abitanti e una estensione di 53.000 chilometri quadrati (quasi 1000 abitanti per kmq). Il resto di quell’area forte era costituito da un tessuto connettivo di metropoli minori, regioni di industria diffusa, zone di agricoltura intensiva e zone turistiche con 135 milioni di abitanti.
Nelle regioni urbane d’Europa si arrivava ad una concentrazione, dal punto di vista della densità economica,4 di 21 milioni e 200mila dollari per chilometro quadrato, mentre nelle regioni di area forte tessuto connettivo (meno densamente popolate) si arrivava a 3 milioni e 200mila dollari per kmq. In quello stesso periodo nell’area corrispondente degli Stati Uniti 5 si arrivava nelle grandi regioni urbane ad una densità economica media di 11 milioni e 600mila dollari per kmq e nelle aree forti a tessuto connettivo a 1 milione e 700mila dollari, sempre per kmq.
In quegli stessi anni l’Europa si classificava al primo posto per la ricchezza prodotta con una media di 6818 miliardi di dollari annui contro i 5900 del Nord America e i 4136 dell’Asia Orientale. Nello stesso tempo l’Europa rappresentava il massimo polo commerciale con ii 28% delle esportazioni mondiali, contro il 20% dell’Area del Pacifico (Giappone, Asia del Sud-Est e Australia) e il 15,5% del Nord America.6
Ora, anche se la crisi degli ultimi anni e lo sviluppo cinese hanno fatto sì che rimanessero molti “morti” sul campo di battaglia e che una parte di quel “tesoro” andasse al macero,7 certo è che ci si trovava e, probabilmente, ci si trova tutt’ora, dal punto di vista della ricchezza concentrata, in uno dei cuori del capitalismo mondiale. L’unica area che all’epoca superava la densità economica europea era quella di Tokio-Osaka, dove si arrivava a 39 milioni per chilometro quadrato. Ma questa è un area molto più ridotta, un po’ come se per gli Stati Uniti si prendesse in considerazione la sola New York dove la densità raggiungeva, sempre all’epoca, i 100 milioni di dollari per kmq. Mentre l’attuale “crisi” cinese dimostra, forse, che l’Area del Pacifico o i Brics non sono ancora riusciti a sostituire l’Europa nella capacità di assorbimento delle merci.
Una certa parte di quella ricchezza, negli ultimi 7 – 8 anni è sicuramente transitata di mano e, in particolare, in Europa una parte è passata dalle mani dei privati cittadini alle banche attraverso le politiche di taglio e riduzione della spesa pubblica e del debito oppure grazie all’esplodere dell’autentica bolla speculativa rappresentata dal mercato (gonfiato precedentemente a dismisura) immobiliare, ma certo decidere chi debba organizzare, ristrutturare e re-indirizzare quella ricchezza non è mai stata, tanto meno ora, cosa da poco. Soprattutto, come affermo da tempo proprio qui su Carmilla,8 nella competizione tra imperialismi finanziari e non.
Dovrebbe risultare chiaro quindi, anche al lettore distratto, che lo scontro in atto da tempo in Europa riguarda proprio due differenti concezioni dell’utilizzo del capitale della manodopera, unite soltanto dalla comune volontà di soffocare e ridurre al silenzio qualsiasi tentativo di migliorare o anche solo salvaguardare i diritti dei lavoratori e le loro rappresentanze politiche o sindacali (ammesso e non concesso che esistano ancora) oppure di recuperare violentemente i risparmi di milioni di cittadini non “adeguatamente” messi a profitto.
Due modalità cui si è accennato già nella prima puntata di questa serie di articoli: una più disinibita, per così dire, e più avvoltoiesca nel colpire, spostare, re-indirizzare e reinvestire anche con grandi rischi i capitali presenti nelle banche, nelle tasche dei cittadini oppure investiti precedentemente nella spesa pubblica e nello Stato sociale, per affrettare i tempi di rotazione degli stessi cercando di passare sempre meno attraverso l’investimento industriale diretto. Il modello finanziario anglo-americano per intenderci.
L’altra, più ferrea e determinata nel sua volontà di controllo, ma più “vecchia” nella forma (la sostanza non cambia poiché si tratta di incrementare convenientemente il capitale investito o riutilizzato) che attraverso il controllo delle banche, del mercato del lavoro e delle leggi che lo regolamentano e della spesa pubblica cerca di rilanciare costantemente la produzione e il consumo delle merci, impadronendosi di aziende,9 occupando spazi di mercato e, talvolta, giocando sui prestiti come strumento per incrementare le esportazioni verso paesi “debitori”.
E questo potrebbe spiegare anche la diversità di strategie tra Germania e Fondo Monetario Internazionale, per esempio nei confronti della Grecia: mentre il secondo gioca essnzialmente sul debito pubblico e sui titoli pubblici come fonte di rendita-capestro di carattere finaziario e può transigere su un allungamento dei tempi di rientro dei prestiti (semplificando: più a lungo i debitori pagano gli interessi sul prestito, anche se bassi , meglio è), la prima tende a voler recuperare un prestito che se non è utilizzato per finanziare produzione e commercio è ai suoi occhi sostanzialmente inutile e pernicioso.
papa car warsDa qui lo scontro con Draghi della Banca centrale tedesco e l’autoritarismo di Wolfang Schäuble, il Ministro delle finanze di questo secondo governo Merkel. Ma da qui anche l’attacco alle esportazioni tedesche, vera anima del capitalismo prussiano, attraverso l’attacco al gruppo Volkswagen. Di cui si è fatto simbolicamente protagonista anche Papa Francesco attraverso l’uso, tutt’altro che umile e dimesso, di una 500L prodotta dal gruppo Fiat – Chrysler, durante il recente viaggio negli Stati Uniti. Quel FCA Group che sembra essere un po’ il capofila dell’attacco alla Germania, mentre la crisi dei trattati di Maastricht, dell’euro e dell’Unione Europea stanno aprendo le porte a nuovi conflitti su chi debba comandare in questa parte del mondo.
(puntata 2 – continua)
  1. Si veda a tal proposito l’articolo comparso su Repubblica in data 29 settembre 2015 href=”http://www.repubblica.it/economia/2015/09/29/news/european_federation_for_transport_and_environment_aisbl-123861973/?ref=HRER1-1″
  2. Dati tratti da Mattia Eccheli, Produzione auto 2014, il nuovo record. Ecco come cambia il mappamondo industriale, il Fatto Quotidiano 15 aprile 2015
  3. Si veda la prima puntata di Vae Victis Germania, Sulla loro pelle, Carmillaonline del 16 settembre 2015
  4. Il gradiente di intensità economica mette in relazione il reddito pro-capite per abitante con la densità di popolazione di una certa area e le aree non sono costituite da “nazioni”, ma da regioni particolari di un continente o di un singolo stato. Possiamo così andare da meno di 100 dollari per kmq nelle regioni più povere o meno popolate (1 abitante per kmq) fino a più di 100 milioni di dollari per kmq nelle grandi regioni urbane egemoni
  5. Costa Atlantica, Valle dell’Ohio, Grandi Laghi e Florida: il 13% del territori statunitense sul quale si addensava il 58% della popolazione ei 2/3 delle attività industriali e terziarie
  6. Tutti i dati economico-geografici fin qui esposti sono stati tratti o dedotti, nel corso di ricerche condotte negli anni ’90, dalle opere di Roberto Mainardi, allora docente di Geografia umana presso la Facoltà di Lettere dell’Università Statale di Milano e Geografia economica all’Istituto per la formazione al giornalismo della Regione Lombardia: L’Europa germanica. Una prospettiva geopolitica, La Nuova Italia Scientifica 1992; Geografia regionale, La Nuova Italia Scientifica 1994; Geografia generale, la Nuova Italia Scientifica 1995; L’Italia delle regioni. Il Nord e la Padania, Bruno Mondadori 1998
  7. Come ben dimostrano le ”macerie“ ambientali, ideologiche, architettoniche ed industriali di una larga parte della Pianura Padana, così come è ben documentato nel magnifico Atlante dei classici padani di Filippo Minelli e Emanuele Galesi, Krisis Publishing, Brescia 2015 ( di prossima recensione su Carmillaonline)
  8. Ad esempio in Bollicine, Carmillaonline del 21 novembre 2011
  9. Non è certo un caso che sia stato proprio il capitale tedesco ad impadronirsi di una parte significativa di “gioielli” dismessi dell’industria italiana. Non a caso dal 2010 a oggi il 55% delle circa 50 operazioni “Germania su Italia” ha riguardato il settore industriale.

La resa della “sinistra Pd”: è la liquidazione definitiva

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RADIATI !

BERLINGUER VIANELLO

Il direttore di Rai3 Andrea Vianello? È “un arrogante” che dovrebbe “dare un chiaro e immediato segnale editoriale”. La direttrice del Tg3 Bianca Berlinguer? “Se dipendesse da me, riterrei che ha dato tanto, ma così tanto alla Rai che può anche bastare”. Malgrado le polemiche e gli attacchi dei Cinque Stelle e della minoranza dem, il segretario della Commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi, non cambia idea. In due interviste a Repubblica e al Fatto Quotidiano conferma quanto detto al Corriere della Sera:
“C’è un problema con Rai3 e il Tg3, purtroppo non hanno seguito il percorso del Partito democratico, non si sono accorti che c’è un nuovo segretario”. E ancora: “Ballarò sforna editoriali contro il governo, intervista in pompa magna un grillino a settimana”.
Oggi Anzaldi torna sull’argomento con interventi ancora più duri. “A Rai3 ci sono delle violazioni di pluralismo e lo dico con i dati alla mano. Sul Tg3 hanno costruito un’opposizione che non c’è, quella di Bersani e compagnia, a danno delle vere opposizioni che sono Grillo e Forza Italia”.
A stretto giro gli risponde, via Twitter, il deputato Pd Roberto Speranza: "Non tocca alla politica definire i contenuti di tg e talk show. Le affermazioni di questi giorni può farle Berlusconi. Non certo il Pd". La libertà dei giornalisti - sottolinea l'esponente della minoranza Pd - "è un bene prezioso".
Ai Cinque Stelle, che sul blog di Beppe Grillo lo hanno ritratto con un fotomontaggio nelle vesti del nazista Goebbels, risponde così: "Ho detto quel che dovevo. E la faccia di Goebbels non me la merito", "penso che il presidente Fico domani mi chiederà scusa e mi manderà un regalo. I 5 stelle in televisione non esistono, il problema del pluralismo riguarda soprattutto loro".
Parole durissime per il direttore della terza rete Rai: quando Vianello è venuto in Vigilanza – attacca Anzaldi – lo ha fatto “con arroganza”, “è venuto a dire che va tutto bene. Ci ha trattato male e nonostante questo è finita a tarallucci e vino”.
"Sono l'unico che legge quel che bisogna leggere stando qui. E cioè i dati dell'osservatorio di Pavia […]. A Ra3 si sono anche inventati il nuovo panino nel pastone del tg. Prima parla la minoranza Pd, poi il Pd e infine i 5 stelle", "sa chi sono quelli che hanno più minuti nei tg? Il primo è Renzi, il secondo Roberto Speranza".
Tuona contro il governo Renzi Corradino Mineo, senatore del Partito Democratico, secondo cui il premier si sta comportando “peggio di Berlusconi. "La crisi mondiale è tale che questo tentativo di Renzi di trasformare una presa del partito e del governo in un regime finirà in nulla. Se non fosse per questo sarei preoccupato per la libertà oltreché per la Rai”, ha detto Mineo a Radio Cusano Campus, l'emittente dell'Università degli Studi Niccolò Cusano. “La cosa che ha fatto Anzaldi è senza eguali. Lui non si è limitato a fare un nuovo editto bulgaro, chiedendo l'allontanamento dalla Rai di Vianello e Berlinguer. Lui fa peggio di Berlusconi, stabilisce una teoria secondo la quale è il governo a decidere quali uomini debbano andare in televisione. Vogliono mandare nei talk show i loro amici, ritengono che il giornalista non debba avere la possibilità di invitare chi ritiene più opportuno. L'unico precedente di atteggiamenti simili ricorre al MinCulPop, questo atteggiamento è tipico del Partito Fascista. Nell'arroganza pacchiana di alcuni seguaci di Renzi si è superato il limite. Spero che Renzi rinsavisca, tolga questo Anzaldi dalla Commissione di Vigilanza e chiarisca che non chiede la cacciata di nessuno, senza pretendere che un talk show chiuda perché fa meno ascolti di Rambo".
Poi la sferzata: "Non si possono tollerare atteggiamenti di questo genere nel Partito che si diceva Democratico. Molto meglio andare subito a votare, si dice che tutto il mondo è con Renzi? Bene, andiamo a votare subito, vediamo quanti voti prende Renzi con questa legge elettorale. Il Partito Democratico è stato completamente destituito da Renzi, la sua leadership ora è del tutto illegittima, nessuno degli elettori che lo votarono alle primarie potevano immaginare che questo sarebbe stato il suo racconto. O cambia verso o si dimette".

Minacce a Raitre, se Renzi e il Pd scambiano la democrazia per la bestiale legge del più forte
Il Potere è una brutta bestia. Tradizionalmente chi lo conquista tende ad eternarlo. Per questo indigna, ma non stupisce, l’intervento a gamba tesa su Raitre, fatto nel più puro stile berlusconiano dal deputato Pd, Michele Anzaldi. Sostenere che “il problema” della Rete e del suo tg è quello di “non aver seguito il percorso del Partito Democratico” e di “non essersi accorti” dell’elezione di Matteo Renzi a segretario prima e premier poi, dimostra ancora una volta che in Italia la libertà di parola e di critica è un valore da difendere ogni giorno. Chiunque sia al governo.
L’attacco ha infatti un mandante preciso: il presidente del Consiglio. Il politico che sino a un anno fa attirava simpatie a destra e a manca ripetendo e twittando “fuori i partiti dalla Rai”, ma che quando è arrivato a Palazzo Chigi ha nominato nel Cda di viale Mazzini il suo spin doctor, Guelfo Guelfi, la vice responsabile cultura dei Dem, Rita Borrioni e Antonio Campo Dall’Orto, un manager tv presente in tutte le edizioni della Leopolda e forse per questo premiato con uno stipendio da 650mila euro l’anno. Una scelta oscenamente partitocratica seguita, il 21 settembre, da una direzione del Pd in cui il premier ha sfottuto pesantemente i talk-show per i loro ascolti e li ha pubblicamente accusati di disfattismo per un racconto del Paese “in cui tutto va male”.
Considerazioni pronunciate non per caso e non nel semplice esercizio del diritto di critica che in democrazia va riconosciuto anche all’uomo più potente di tutti. Con quelle parole Renzi, come sapeva bene, ha invece dato il via libera agli insulti del governatore della Campania Vincenzo De Luca contro Milena Gabanelli e Riccardo Iacona (“camorrismo giornalistico”) e alle minacce contro il direttore di Raitre, Andrea Vianello, pronunciate dal fedele Anzaldi (“ora è importante che non faccia altri errori”).
A oggi le differenze con l’escalation che portò all’editto bulgaro di Silvio Berlusconi e alla conseguente occupazione della tv pubblica, sono davvero poche. Anche se, conoscendo l’abilità politica del premier, immaginiamo che nei prossimi giorni o nelle prossime ore Renzi interverrà direttamente, o per interposta persona, per gettare acqua sul fuoco (questa vicenda non fa bene alla sua immagine) per poi lasciare che le cose facciano il loro corso. Del resto basta già ora parlare con i colleghi della Rai – che con tutti i giornali implorano di non essere citati – per capire quale clima di paura si respiri in azienda.
Obbiettare come fa qualcuno (con in testa i renziani) che in fondo Beppe Grillo e il M5S hanno lanciato strali più diretti e, secondo loro, peggiori nei confronti di giornalisti della tv e della carta stampata, non ha senso. E non tanto perché il Movimento non è al potere o perché quando si è trattato di scegliere un membro del Cda Rai, i 5 Stelle hanno fatto eleggere una personalità competente e indipendente come Carlo Freccero. Ma perché un comportamento che si ritiene sbagliato non ne può mai giustificare uno analogo.
Usare argomentazioni simili dimostra solo che si concorda con la continua e sfacciata occupazione dei media da parte della politica, di qualunque colore essa sia. Dimostra che si è nati per servire. Un po’ come tutti quegli esponenti ora silenziosi di un Partito che continua a dirsi Democratico, quando invece scambia la democrazia per la bestiale legge del più forte.

I renziani contro la Rai. E' la governance bellezza!!

I renziani contro la Rai. E' la governance bellezza!!

C'è da rimanere fulminati nel leggere che: "Sul Tg3 hanno costruito un'opposizione che non esiste, danno più spazio alla minoranza dem che alla vera opposizione parlamentare". "Non si sono accorti che è stato eletto un nuovo segretario, Matteo Renzi, che poi è diventato anche premier. Il Pd viene regolarmente maltrattato". Le parole del deputato Pd Michele Anzaldi, prima sul Corriere della Sera e poi su La Repubblica, hanno gettato benzina sul fuoco di una polemica che, dopo le critiche del Pd a Ballarò per la scelta di ospitare nelle prime puntate due esponenti M5s (Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista), si è inasprita con gli attacchi di Vincenzo De Luca contro i servizi di Presa Diretta e Report. Frasi che per il comitato di redazione del Tg3, "sono inaccettabili e ricordano nei toni editti bulgari di berlusconiana memoria". Replicano anche le organizzazioni dei giornalisti: "Ancora nel 2015 l'informazione non asservita dà fastidio. Abbiamo contestato i bavagli ieri, non smettiamo di farlo oggi. Le parole di Michele Anzaldi sono gravissime e rivelano la sua visione di una Rai servizio pubblico totalmente asservita al potere di turno" affermano i segretari della Fnsi, Raffaele Lorusso, e dell'Usigrai, Vittorio di Trapani. Va giù duro dal suo blog Beppe Grillo:"Le regole di Goebbels Anzaldi per la Tv pubblica sono chiare: vietato criticare il governo, vietato intervistare portavoce del M5S, il Pd ha sempre ragione, chi sgarra paga (Vianello è avvisato per la seconda volta)".
Intanto, per sapere esattamente di cosa stiamo parlando, è bene dare un'occhiata ai dati di Open Tg che dimostrano piuttosto nettamente come Renzi, il suo governo e la sua maggioranza, godano di un ampia supremazia nella esposizione mediatica di tutti i telegiornali. Da dove nasce allora questa animosità del Pd e dei renziani addirittura contro il “suo” TG3? Assistendo ai telegiornali tappetino del duo Berlinguer/Mannoni, agli endorsement di Fabio Fazio o di Benigni, viene da chiedersi che cosa possano pretendere di più Renzi e i renziani. La mordacchia alle poche trasmissioni di inchiesta come Presa Diretta e Report oppure al sempre più soporifero Ballarò?
La sintesi più semplice, quella francamente più banale, rimanda quasi automaticamente alla pulizia etnica dei telegiornali dell'epoca berlusconiana, al famoso “editto bulgaro”. Una valutazione più aggiornata ci segnala invece che stiamo ben dentro un modello di regime oligarchico ispirato e imposto dalla governance a livello europeo. La demolizione della democrazia rappresentativa, di cui quello che a cui stiamo assistendo al e sul Senato è solo l'ultimo passaggio in ordine di tempo, non prevede più il contraddittorio, figuriamoci il conflitto.
Se il governo/regime dice che sta andando tutto bene, gli apparati ideologici di Stato (e il sistema dei media ne è parte integrante) non possono che veicolare acriticamente questa visione. Chi non lo fa, chi non adegua format, modi e tempi della comunicazione a questo input, è un disfattista, esattamente come nei tempi di guerra. Perchè di questo si tratta.
Nell'epoca della competizione globale, che per sua natura si gioca sul mercato-mondo, i “fronti interni” devono essere in ordine, non possono manifestare dissonanze che indeboliscono la proiezione economica, politica o militare al di fuori del paese.
All'evidenza dei fatti si riconferma ancora una volta come la vera jattura di questo ventennio non sia stata tanto la “casta” ma l'artificiosa e artificiale polarizzazione tra berlusconiani e antiberlusconiani, alimentata da un gruppo editoriale/finanziario (Espresso-La Repubblica) contro un altro gruppo editoriale/finanziario (Fininvest). Chi ha accettato questa polarizzazione ed ha girato in tondo per anni, ha perso prima l'anima e adesso che i tempi si fanno duri, sembra aver perso anche la voce.