In questi giorni leggo un sacco di gente di destra che si dice
preoccupatissima che Corbyn faccia perdere la sinistra. Boh: dovrebbero
esserne contenti, se è così: invece si stracciano le vesti. Valli a
capire.
Ma non è l'unica stranezza post primarie in Uk: una giovane elettrice di Corbyn, ad esempio, ha notato sul Guardian
che quasi tutti quelli che oggi l'accusano di guardare al passato,
rimpiangono disperatamente il 1997. Anno che, evidentemente, per loro fa
parte del futuro.
Un altro divertente paradosso l'ho visto oggi sul Foglio: che dedica
al nuovo leader del Labour un terzo della sua prima pagina e un intero
paginone all'interno, sostenendo però che Corbyn "non va preso sul
serio" (Giuliano Ferrara). Pensa se lo prendevano sul serio: ci facevano
un allegato in brossura.
Ecco: a occhio ho l'impressione che questa cosa di Corbyn agiti molto più i sonni a destra che i sogni a sinistra.
Voglio dire, qui a sinistra abbiamo visto di tutto - specie in Italia
- e se una cosa abbiamo imparato è che si va per tentativi,
sperimentazioni, musate, due passi in avanti e uno indietro, comunque
senza uomini della provvidenza o salvatori degli ideali.
A destra invece questa roba di Corbyn li rende inquieti.
Sia chiaro: inquieti non tanto nei confronti di Corbyn come candidato
premier inglese (anche perché in Gran Bretagna si vota tra cinque anni,
un'era geologica), quanto verso l'ipotesi di cominciare a perdere -
passo dopo passo - l'egemonia culturale che ha permeato l'Europa negli ultimi trent'anni.
Quella egemonia che ha creato una serie di luoghi comuni diventati
indiscutibili capisaldi di quasi tutti i media: la spesa pubblica è solo
spreco, tagliamo le tasse ai ricchi per creare benessere, lasciamo le
mani libere agli imprenditori, trasformiamo il welfare in charity
(copyright Fornero),
no ai lacci e laccioli, la modernità è fatta di diseguaglianze, chi
vince è figo e chi perde è sfigato, la competizione è benessere, le
elezioni si vincono al centro, ogni alternativa all'attuale capitalismo è
utopia, eccetera eccetera.
Tutte cose che in una società laica e plurale dovrebbero essere
pragmaticamente discusse, a una a una, ma che invece sono diventate
verità più assolute e ontologiche di una confessio fidei medievale.
Vedete, finché a porre in discussione questi dogmi era un economista
come Piketty o un ex partigiano come Stéphane Hessel, gli eretici si
potevano derubricare a intellettuali eccentrici o ad anziani
compassionevoli. E finché l'opposizione politica agli stessi dogmi era
costituita solo da radicali di sinistra alla Tsipras o giovani
terzomondisti alla Iglesias, li si poteva irridere come adolescenti
sognanti. Ma se la contrapposizione a quella egemonia culturale diventa
invece leadership del più antico partito progressista d'Europa, il
segnale è un po' più forte.
Di qui il nervosismo dei padroni del linguaggio. Che vedono, per la
prima volta dagli anni Ottanta, il rischio di non essere più tali. Il
rischio che le parole correnti siano anche diverse. Che circolino anche
memi opposti. Che queste parole e questi memi entrino nel ragionare e
nel parlare diffuso. Che quindi i dogmi del trentennio siano messi in
discussione.
Ecco: anche a me - come ai nostri avversari - di Corbyn come tale interessa fino a un certo punto.
Ma del ribaltamento del linguaggio, dei memi diffusi e dell'egemonia
culturale - di cui anche Corbyn sembra essere una componente - oh sì, di
quello invece mi importa moltissimo.
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