domenica 29 gennaio 2017

Terremoto, quando lo Stato latita: ecco le brigate della solidarietà





Nate nel 2009 dopo il sisma a L'Aquila, le Brigate della solidarietà attiva forniscono pasti e beni primari ai terremotati: "La nostra è una pratica del popolo per il popolo". Non hanno rapporti coi partiti né con la Protezione Civile, i volontari si adoperano secondo tre parole d'ordine: "Partecipazione, mutualismo e autorganizzazione". Costruiscono dal basso la sinistra, senza mai nominarla.

di Giacomo Russo Spena

Esiste un’Italia migliore. Quella che troppe volte ignoriamo sui media, quella che spala la neve a Rigopiano. Quella dei pescatori che salvano vite umane nel Mediterraneo, quella che di fronte ad emergenze e catastrofi naturali si rimbocca le maniche e sposa pratiche di solidarietà diretta. Ed esiste anche un modo di far politica migliore, non quella di Palazzo o dei futili convegni, ma fatta da chi prova ad organizzare forme di mutualismo e si attiva sui territori dissestati dall’emergenza terremoto. Ne sono la prova le Brigate della Solidarietà Attiva (Bsa). Nel silenzio dei media, per anni questi attivisti hanno lavorato pancia a terra. Partecipazione, autorganizzazione e mutualismo sono le parole d'ordine con le quali hanno operato.

Il gruppo è nato nel 2009 subito dopo il terremoto dell'Aquila. “Guardavamo in televisione le immagini della città in macerie e la sofferenza della gente, ci è venuto spontaneo attivarci”, racconta oggi Francesco Piobbichi, uno dei fondatori della Brigate. Inizialmente hanno radunato attivisti dei centri sociali e militanti di Rifondazione, un gruppo di un centinaio di persone, poi – grazie anche ad un sapiente uso dei social network – la partecipazione è diventata più ampia andando oltre i giri della sinistra tradizionale. E l'organizzazione oggi conta diverse centinaia di volontari sparsi in tutto il paese. Un numero questo, che si espande come una fisarmonica durante le emergenze fino a coinvolgere migliaia di persone. Sono sorti dal nulla, senza magazzini per raccogliere beni primari né logistica né fondi. Eppure sono andati – armati di forza di volontà e progettualità politica – a l'Aquila dove hanno allestito uno spaccio per distribuire viveri di prima necessità: coperte, vestiti, cibo, acqua. Ma anche pannolini, medicine e giochi per bambini. Quintali di beni consegnati. Tutto materiale raccolto da donazioni dirette dei cittadini: “Portateci roba, c'è bisogno di...” è il messaggio lanciato su facebook diventato virale. A L'Aquila hanno anche gestito per 7 mesi alcuni campi di terremotati, oltre a vari spacci popolari rivolti sopratutto ai terremotati meno abbienti che durante il cataclisma hanno perso tutto. E senza risparmi da parte in banca, diventa impossibile resistere all'emergenza.

Una forma di azione collettiva che, dopo L'Aquila, porta le Brigate ad organizzare un campo di braccianti immigrati a Nardò – sfruttati sotto forma di caporalato – dove riescono a creare le premesse per uno sciopero che resterà storico. Da segnalare il loro sostegno durante i presidi delle fabbriche in crisi, sia con cucine che con il sostegno di una cassa di resistenza finanziata con il progetto “arancia metalmeccanica” che consisteva nell'acquisto delle arance a sfruttamento zero di Rosarno e rivendute nei mercati dai lavoratori delle fabbriche in crisi. Il filo conduttore è sempre la solidarietà.

Quella parola che dà anche il titolo ad un libro di Stefano Rodotà secondo cui “è termine tutt’altro che logorato e storicamente legato al nobile concetto di fraternità e allo sviluppo in Europa dei 30 anni gloriosi e del Welfare State”. Per il giurista la solidarietà è oggi un antidoto per contrastare la crisi economica che, dati alla mano, ha aumentato la diseguaglianza sociale e diffuso la povertà: incarnerebbe insieme ad altri principi del “costituzionalismo arricchito” un’opportunità per porre le questioni sociali come temi non più ineludibili.

Sempre la strada della solidarietà ha portato le Brigate ad intervenire nelle alluvioni in Liguria, e nel Veneto, e nel sisma dell'Emilia. Dopo i terremoti del 24 agosto, 26 e 30 ottobre e 18 gennaio sono presenti in tutto il cratere, con due “campi base” ad Amatrice e Norcia e altri due poli logistici a Colli del Tronto e Fermo. Tantissime le donne volontarie. Oltre a punti di approvvigionamento gratuito, percorrono staffette di consegna e organizzano sportelli affinché i cittadini possano ottenere informazioni sui decreti del governo e i loro diritti, che spesso ignorano del tutto. Ora stanno organizzando una filiera antisismica cercando di acquistare i prodotti dei terremotati per venderli nei gruppi di acquisto popolari in giro per il Nord, Il loro intervento si inspira alle forme del mutuo soccorso ma non manca di denunciare le inefficienze e di misurarsi con il “conflitto”.

Sul sito si ammira la massima trasparenza sui conti: dietro non ci sono banche, i proventi per acquisire beni ed attrezzature giungono da singoli cittadini, circoli, centri sociali e dai vari comitati territoriali (ad esempio i No Tav della Val Susa). In qualche caso, persino dalle curve calcistiche, dagli ultras. Con queste entrate, le Bsa hanno potuto consegnare roulotte, e persino alcune casette mobili ai terremotati, criticando tra l'altro le misure del governo Renzi intraprese dopo il terremoto ad Amatrice. Non si sono ripetuti, per fortuna, gli errori dell'Aquila dove la ricostruzione è stata fatta in nome della speculazione e per il profitto di qualche sciacallo, ma pure dopo Amatrice le cose non tornano. Gli interventi del governo Renzi hanno favorito lo spopolamento delle zone con le persone terremotate spedite in alberghi quando la gente non voleva andare via dalla propria casa. “Le persone – dichiara Piobbichi – non sono state coinvolte nel processo di ricostruzione, questo è il vero problema, senza capire che il controllo popolare è anche il miglior antidoto all'infiltrazione delle mafie: la comunità ha il diritto di partecipare ed essere ascoltata. Adesso stanno assegnando le prime casette mobili ma perché soltanto ora? Dopo mesi? Se le Brigate, senza soldi né gente stipendiata, sono riuscite a fornirne subito qualcuna perché il governo ha latitato?”.

Dopo il sisma, i volontari delle Brigate cercano di sostenere e ascoltare soprattutto le persone meno abbienti e senza alcuna alternativa possibile di vita. Sono le più disperate e, spesso, quelle abbandonate dallo Stato. Il terremoto diventa un acceleratore della crisi e delle diseguaglianze: se prima eri precario dopo il sisma diventi povero. Se invece hai case da mettere sul mercato raddoppi gli affitti. Con il collasso del welfare e i Comuni stritolati dall'austerity, e quindi totalmente dipendenti dal governo centrale, non si riesce ad affrontare le emergenze, per questo risulta fondamentale l'intervento solidale dei cittadini per rafforzare la comunità locale, lo si è visto quando è arrivata la neve. I volontari delle Brigate non sono interessati ad entrare in polemica con la Protezione civile, sottolineando soltanto la struttura elefantiaca che spesso fa rallentare i tempi di intervento. Loro, ovviamente, prediligono il modello più orizzontale e inclusivo, dove non ci sono decisioni calate dall'alto.

Leggenda vuole che durante il terremoto aquilano le Brigate della Solidarietà Attiva abbiano ispirato alcuni militanti di Syriza arrivati dalla Grecia che rimasero colpiti dalla loro efficienza e riportarono le riflessioni sul mutualismo sentite in quel viaggio nel proprio Paese. Quando poi è arrivata la crisi (e quando il partito di Alexis Tsipras era ancora all'opposizione) e si sono create mense del mutuo soccorso, ambulatori e farmacie popolari, cooperative socio-lavorative per disoccupati molti attivisti greci usarono l’esempio delle “cucine degli italiani per i terremotati” per diffondere tali pratiche.  

“Siamo una positiva anomalia – afferma ancora Piobbichi – le Bsa mettono insieme nelle pratiche concrete quello che questo modello sociale divide, ricostruiscono il Noi collettivo. Le classi popolari hanno bisogno di difendersi dalla miseria crescente, noi vorremmo essere un esempio da moltiplicare anche per il terremoto della crisi, siamo ancora agli inizi e siamo ben poca cosa, ma in assenza di welfare, sono le forme dell'azione solidale che possono provare a scardinare la guerra tra poveri e ricostruire il significato dell’azione collettiva”.

Il riferimento va a chi pensa ai terremotati italiani, contrapponendoli alla (falsa) notizia dei migranti negli hotel a cinque stelle. “Mentre noi spalavamo la neve al freddo insieme a loro, i politicanti venivano a farsi il selfie per poi fomentare il razzismo” è lo sfogo delle Brigate che in maniera neanche troppo velata puntano il dito contro la passerella del leghista Matteo Salvini. Le Bsa si definiscono autonome ed indipendenti. Si pongono il problema di come essere utili cercando di usare le pratiche sociali come elemento aggregativo, un processo molto diverso dalle forme classiche che abbiamo conosciuto fino ad ora a sinistra. Prima fare e poi parlare, è una frase ripetuta costantemente.

Il pensiero va alla lezione impartita da Podemos, quella di fare la sinistra senza nominarla. Una sinistra che nasce dal basso e capace, in senso letterale, di sporcarsi le mani e portare aiuti concreti. Come amano definirsi i volontari delle Bsa: “La nostra è una pratica del popolo, per il popolo”. Ben arrivata Italia migliore.

Massimo D'Alema riunisce la sinistra anti Renzi e sdogana la scissione: "Se Renzi forza, liberi tutti"

DALEMA
di A. De Angelis, huffingtonpost.it
Alle 14,10 Massimo D’Alema arriva alla sintesi del suo lungo e chirurgico ragionamento. Per un’ora invoca un “cambio di rotta” del Pd, indicandone i punti fondamentali: lavoro, sociale, “più Europa, ma un’altra Europa”. E chiede un congresso, per discutere, prima del voto. Ragionamento di scuola, alto, che parte dall’analisi della situazione internazionale e arriva all’emorragia di voti nelle periferie romane. A quel punto, dopo una pausa più lunga, guarda la sala e scandisce: “Se ci troveremo di fronte alla sordità di un gruppo dirigente e prevarrà l’idea di andare ad elezioni senza un progetto politico e di governo, con l’obiettivo di normalizzare il Pd e ridurre i gruppi parlamentari all’obbedienza, beh, allora deve essere chiaro, lo dico con assoluta serenità: una scelta di questo tipo renderebbe ciascuno libero”.
Applauso, quasi liberatorio, di quelli che viene giù la sala, a sottolineare che il Pd, per come l’abbiamo conosciuto, già non c’è più. E che, i partiti sono già due. Poi, il secondo passaggio: “Aggiungo che alcuni di noi, che ritengono di avere responsabilità e obblighi nei confronti della sinistra italiana, e della sua storia, non sarebbero neanche liberi di decidere. Avrebbero il dovere di agire”. Frase che suona come una chiamata alle armi, una scossa per gli indecisi, un invito ad accelerare sulla fase operativa, perché il tempo stringe.
Centro congressi Frentani, luogo storico per la sinistra, dove una volta c’era la federazione romana del Pci, quando prendeva il 34 per cento. La riunione dei comitati del No per “un nuovo centrosinistra” si trasforma, di fatto, nell’annuncio di un nuovo partito, “se Renzi non inverte la rotta”. Eventualità a cui non crede nessuno. “Consenso” il nome dell’associazione, o del movimento, in cui i circoli del no cambiano ragione sociale, diventando i circoli di un possibile nuovo partito. Partito nuovo, di sinistra, per quelli che vedono nel Pd un partito senza il suo “senso originario”. “State pronti a ogni eventualità”, dice D’Alema, che invita ad aprire circoli, a raccogliere fondi: “La discussione sul SI e sul No è finita, l’hanno chiusa i cittadini. Ora rivolgiamoci al mondo del centrosinistra italiano, un mondo disperso, spesso non iscritto a nessun partito”.
In sala ci sono Arci, Cgil, segretari di federazioni del Pd, soprattutto del Sud. Ma soprattutto molti che raccontano che hanno lasciato il Pd perché “ha cambiato pelle da tempo”. Stumpo e Zoggia parlano fitto al bar. “Inevitabile”, così parlano della rottura. Nessuno crede che Renzi possa frenare e aprire una discussione: “Al momento delle liste proverà a sbatterci fuori o ci mette al Senato per non farci eleggere. Noi stiamo dentro e chiediamo il congresso però se forza...”. Ci sono Gotor, Danilo Leva, la Agostini. Si rivede un film già proiettato ai tempi del referendum. Quando Massimo D’Alema partì per primo: “L’Italicum non si cambia, si abbatte. E c’è un solo modo per abbatterlo, votare No al referendum”. La Ditta arrivò con un po’ di travaglio, dopo mesi di “se non cambia l’Italicum”. Stavolta i più giovani hanno il quadro chiaro. Più prudente Bersani. Roberto Speranza, prima di D’Alema, ci va giù duro: “Le sentenze si rispettano, ma il potere su una materia così spetta al Parlamento e vorrei che il Pd fosse protagonista di una grande iniziativa parlamentare. Mai più un Parlamento di nominati: i deputati devono rispondere ai territori e non al capo. Altrimenti si costruisce un partito di servi e non di persone perbene”.
Insomma, s’ode a destra uno squillo di tromba con Orfini e lo stato maggiore renziano che recapita ultimatum. A sinistra risponde uno squillo, con l’annuncio che la scissione è nel conto. Dice Roberto Speranza, uno abituato a misurare le parole: "Se il Pd diventa il partito dell'avventura, non c'è più il Pd". Ecco, stavolta la rottura fa meno paura, anzi potrebbe essere una tentazione irresistibile: “Renzi – spiegano – il 40 non lo fa. Dovrebbe essere lui ad avere interesse ad averci dentro, visto che c’è un sistema proporzionale”. Caustico il leader maximo, che nei momenti che contano dà sempre il meglio di sé: “Quando vedo il presidente del gruppo parlamentare che a me sta anche simpatico dire che si può andare a votare perché la sentenza della Consulta conferma l’impianto dell’Italicum… Direbbe il poeta: non so se il riso o la pietà prevale. È difficile anche aprire un dibattito, in questi casi arriva uno con il camice bianco... Noi abbiamo la responsabilità di correre in soccorso di un gruppo dirigente che sembra avere smarrito il senso della ragione”.
La sala è molto Pci, nel senso di gente tosta, che vuole un partito vero. E che sa far di conto. Ti spiegano: “Lo spazio c’è. Ci sono milioni di voti di sinistra che non vogliono più votare Renzi e non vogliono consegnarsi a Grillo”. Tommaso Sasso, che avrà un ruolo operativo nel coordinamento dei circoli di Consenso, dice: "C'è un popolo senza partito che non possiamo permetterci di perdere". Il progetto è ancora in fieri, ognuno ci entra con le truppe che ha. Francesco La Forgia, un brillante milanese che ha lasciato col suo gruppo Cuperlo. Un pezzo di Sinistra Italiana, da D’Attorre a Scotto. Che col suo intervento dal palco sancisce la spaccatura con l’ala di Fassina e Fratoianni. Manda un saluto Michele Emiliano, che sulla carta potrebbe essere il leader del listone della sinistra. Gli ex Pci non lo amano particolarmente e lui non ama D’Alema, però c’è una convergenza oggettiva. In questo clima di rabbia e protesta il governatore della Puglia funziona.
All’uscita si sentono “compagni” che si danno appuntamenti sui territori. Fissano riunioni. Altri, stanchi, risalgono sui pullman dove hanno viaggiato tutta la notte. Come accadeva e accade con i partiti veri.

mercoledì 25 gennaio 2017

Il super profitto come droga Di ilsimplicissimus


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Da qualche tempo e più ancora dopo l’elezione di Trump si parla o per meglio dire si favoleggia di un ritorno delle attività produttive via via delocalizzate nei Paesi a basso costo del lavoro: dapprima si è cominciato a dire che le nuove tecnologie robotiche permettono abbattere in maniera sostanziale la quota lavoro rendendo superfluo il trasferimento e poi persino tra gli ideologi di servizio delle elites neoliberiste si è cominciato a mettere nel conto economico la pace sociale e il livello di consumo messi in forse dalla preoccupante crescita della disoccupazione. Qualcosa si è visto qui e la, soprattutto nei settori più maturi, non ultima la rinuncia della Ford a impiantare l’ennesima fabbrica in Messico dopo la vittoria elettorale del Tycoon americano che basa buona parte della sua strategia e del suo appeal proprio su un ritorno del lavoro in Usa, ma nel complesso è poca cosa e per due motivi: innanzitutto produrre in aree a basso costo di lavoro significa godere – al netto di sconti fiscali o finanziamenti in solido quasi sempre presenti – anche di costi molto più bassi più bassi per tutta la filiera che va dalla progettazione al trasporto, se non paradossalmente alla produzione proprio della robotica avanzata che oggi per il 60 per cento viene da Giappone e Cina.
Ma il motivo principale è stato illustrato da Jack Ma, l’uomo più ricco della Cina e patron di Alibaba, il mercato on line dove è possibile trovare alla metà, un terzo, talvolta un quinto del prezzo i prodotti cinesi che sui circuiti normali vengono marchiati occidentale e per questo si fregiano di cartellini molto più alti: il fatto è che la globalizzazione ha portato i profitti a livelli tali non solo da dare avvio alla mutazione finanziaria del capitalismo, ma da diventare una droga della quale non si può più fare a meno. E francamente è un contrappasso elegante il fatto che la Cina sia oggi l’oppio con cui le elites occidentali cercarono di conquistarla meno di due secoli fa. Jack Ma, alias di Ma Yún al Forum di Davos ha difeso la globalizzazione e accusato le multinazionali americane di aver fatto per decenni utili stratosferici, prima assolutamente inconcepibili, che poi sono finiti nei paradisi discali, in patrimoni personali smisurati e soprattutto nelle borse tenendo in piedi l’economia di carta. E ha portato un esempio risalente agli anni 70 quando un cerca persone veniva prodotto in Cina per 8 dollari e venduto a 250. L’uomo è furbo perché ha evitato di irritare la platea paragoni più contemporaneo, quello dei telefoni tanto per dirne una, che spesso hanno prezzi di vendita 20 volte superiori a quelli di produzione (comprendendo in essi anche l’utile del fabbricante reale), per non parlare di televisori, computer e praticamente tutta la panoplia dei prodotti tecnologici.
Anche riuscendo a contenere i costi nella logica di una rilocalizzazione è del tutto evidente che non sarebbe possibile mantenere gli stessi livelli di profitto e che questi dovrebbero quanto meno ridursi della metà per tenere le vendite su un livello accettabile. Il che non è ovviamente possibile in una logica economica che si è plasmata attorno a numeri folli, a logiche in apparenza sofisticare, ma in realtà piuttosto rozze come del resto sono le leve di gestione. Certo, prima o poi il giochino di produrre a poco e vendere a molto si esaurirà, ma nessuno vuole anticipare i tempi e recitare il de produndis del neoliberismo che è l’ideologia di questo stato di cose: accadrà, ma nel frattempo si spera che le oligarchie saranno in grado di gestire qualsiasi disuguaglianza e il ritorno al lavoro servile, dentro un cosmopolitismo schiavista. Ecco perché qualsiasi deviazione da questa tabella di marcia, che rischia di desincronizzare i processi manda nei matti l’elite di comando.
Serve la sfera di cristallo per preconizzare lo sviluppo delle cose, ma intanto possiamo giudicare il passato e vedere come non sia stata la globalizzazione a creare i presupposti per la messa in mora della democrazia, del welfare, dei diritti e delle tutele, a portare al successo l’ideologia del profitto infinito, poco tassato o del tutto sfuggente, del privato contro uno stato demonizzato e ridotto a sbirro dei ricchi, ma è stato proprio questo coacervo di pensiero disuguale a suggerire la globalizzazione come strada maestra per dare la forza della necessità e del fatto compiuto ai propri paradigmi. Con le regole fiscali, bancarie e di scambio ancora in vigore nella prima parte degli anni ’70, quelle che per inciso avevano dato avvio in tutto l’Occidente a una crescita senza precedenti, il livello di profitto delle delocalizzazioni non sarebbe valsa la candela anche a fronte delle conseguenze politiche e di mercato che avrebbe provocato. Ma una volta iniettato sotto pelle il pensiero unico e indebolito l’avversario ideologico è stato possibile cambiare le regole del gioco regalando all’offerta tutto il potere. E cominciando ad impoverire tutti per arricchire pochi.

Relazione introduttiva di Paolo Ferrero al Comitato Politico Nazionale PRC-Se


Relazione introduttiva di Paolo Ferrero al Comitato Politico Nazionale PRC-Se


Car@ compagn@, questo Comitato Politico Nazionale ha come punto fondamentale di discussione i nodi congressuali e di questo parlerò nella seconda parte della relazione. Nella prima parte mi limiterò a fare il punto sulle novità politiche delle ultime settimane. La situazione che stiamo vivendo è connotata dalla magnifica vittoria che abbiamo ottenuto nel referendum. Questa costituisce uno spartiacque decisivo sia sul piano generale dei rapporti di forza – essere riusciti a mantenere la Costituzione nata dalla Resistenza contro il tentativo di scardinamento prodotto dal governo Renzi – ma anche per gli effetti politici immediati che questo risultato ha avuto, sia nel corpo del paese, sia dentro l’establishment.
I referendum
In questo quadro, la Corte Costituzionale ha deciso di impedire al popolo italiano di votare sull’ articolo 18. Si tratta di una scelta puramente politica: che la Corte abbia bocciato l’ammissibilità di un referendum che ha un tasso di manipolazione inferiore a quello dei quesiti che sono stati accettati dalla Corte nel 2003, costituisce un fatto gravissimo, privo di qualsiasi logica giuridica e guidato unicamente dalla scelta politica di affossare i referendum presentati dalla CGIL. E’ bene ricordare come nel 2003 il quesito approvato dalla corte da un lato interveniva su tre leggi e dall’altro toglieva qualunque soglia minima per applicare lo statuto dei lavoratori. Il quesito bocciato oggi dalla corte interviene solo su due leggi e lascia la soglia minima di 5 dipendenti che è già contenuto nel testo della legge 300. Due sono i versanti da cui analizzare questa scelta politica della Corte: Quello principale è il fatto che al popolo italiano non gli viene permesso di esprimersi sull’articolo 18. Dopo la sconfitta che il governo ha avuto sulla Costituzione, il tentativo che è in corso è quello di impedire al popolo di pronunciarsi direttamente sulle questioni importanti. Non a caso, il governo vuole intervenire sui voucher con una norma che senza abolirli – come chiesto dal referendum – faccia una modifica limitata, dando per scontato che questo venga accettato dalla Corte come sostitutivo del referendum. L’obiettivo politico è quello di lasciare in vita unicamente il referendum sugli appalti, puntando sul fatto che venga meno il quorum dei votanti: è un disegno politico per impedire alla gente di poter dire la sua attraverso il referendum. Siamo davanti a una oligarchia che ha deciso attraverso una concertazione tra poteri – governo, Presidente della Repubblica e maggioranza della Corte Costituzionale – che dovrebbero al contrario agire come controllo l’uno dell’altro. Questa oligarchia, vuole impedire al popolo di decidere sulle questioni importanti e punta a trasformare il sistema politico da sistema di rappresentanza degli interessi sociali a sistema politico blindato, impermeabile alle istanze sociali, la cui funzione è diventata quella di produrre norme che permettono al neoliberismo di esercitare il proprio dominio. C’è un tasso di organicità nel piegare la democrazia ai fini di parte delle oligarchie a cui non abbiamo mai assistito nel dopoguerra: siamo di fronte ad un salto di qualità senza precedenti. In secondo luogo c’è il riverbero interno alle classi dominanti. E’ in corso una partita tra chi vorrebbe andare a votare subito e chi invece vuole spostare il più avanti possibile le elezioni: questa sentenza va nella direzione di spostare più avanti le elezioni. In questo senso c’è una battaglia dell’oligarchia contro il popolo, e poi c’è una partita dentro l’oligarchia tra frazioni concorrenti. Il partito che puntava alle elezioni immediate – un partito trasversale perché non è una cosa solo interna al Pd – mi pare uscire indebolito da questa sentenza. In questa situazione noi dobbiamo fare una battaglia nel paese per evidenziare che quella della consulta è una sentenza politica e denunciare che il governo vuole scippare anche il secondo referendum sui voucher: dobbiamo far partire immediatamente una campagna politica finalizzata a vincere i referendum o a far pagare al governo e al Pd il maggior prezzo politico possibile nel caso in cui riescano ad affossare il referendum.
La legge elettorale
Il secondo punto di discussione e iniziativa politica è la legge elettorale. Noi abbiamo sostenuto, immediatamente dopo il referendum, che si sarebbe dovuto andare a votare subito con la legge elettorale che usciva dalla sentenza della Corte. Ribadendo questa posizione, riteniamo che l’unica cosa che può fare il Parlamento è quella di intervenire per dar vita ad una legge elettorale proporzionale pura. Le ragioni di non legittimità morale e politica di questo parlamento – pieno di persone che non sarebbero state elette se si fosse votato con una legge costituzionalmente valida – sono enormi e un parlamento così fatto è legittimato unicamente a fare una legge elettorale in cui uno vale uno, cioè proporzionale pura. Questa è la posizione che vi propongo di tenere. Qualcuno solleverà il problema che questa posizione è molto simile a quella di Forza Italia, che punta con ogni evidenza al governissimo. Non vedo il problema. È molto più chiara una situazione con Forza Italia e Pd che governano insieme, visto che hanno una linea politica omogenea, in cui c’è una opposizione di destra e una di sinistra. Forza Italia, Pd e Ncd, sono parti diverse dello stesso partito. Meglio una grande coalizione tra frazioni diverse dello stesso partito che non un bipolarismo tra simili che ha l’unica funzione di impedire che le posizioni di alternativa possano vivere sul piano politico. La legge elettorale proporzionale è l’unica che permette di registrare la realtà effettiva delle cose e cioè che in Italia – come in Europa – opera un partito trasversale che ha gli stessi contenuti e che si differenzia su elementi del tutto marginali. Quindi noi dobbiamo intrecciare la battaglia per il referendum con la battaglia per la legge elettorale proporzionale. Il M5S L’altro elemento significativo successo in queste settimane è la richiesta dei 5 Stelle di aderire al gruppo liberale nel Parlamento europeo. L’operazione è fallita per il NO dei liberali ma Grillo ci ha provato, con il consenso del 75% degli iscritti. Questa svolta, di Grillo che chiede di aderire ad un gruppo federalista e liberista, ci parla del carattere di fondo del M5S. È evidente che i grillini difendono questa loro iniziativa dicendo che loro avrebbero mantenuto la piena iniziativa politica. Io penso che ci sia qualcosa di più, perché i 5 stelle avrebbero potuto prendere atto che i loro parlamentari hanno votato in questi due anni più come il GUE/NG che non come il Liberali e che quindi i 5 Stelle potevano chiedere di aderire al GUE/NG o ai Verdi. Ma i 5 Stelle – che oggi sono percepiti e si propongono come una sorta di parcheggio né di destra né di sinistra – in realtà sono un movimento di estremismo centrista, che contesta tutto salvo che le cose fondamentali. Sul liberismo il M5S non dice una parola, ne accetta completamente il paradigma e si candida sempre più ad essere un elemento di ricambio della classe dirigente interna al paradigma liberista. La cosa che somiglia di più ai 5 Stelle, anche se ogni paragone è sbagliato, sono i Verdi di Joschka Fischer, che mantenevano dei profili alternativi sulle questioni ambientali salvo accettare guerre e politiche del lavoro liberiste. Abbiamo quindi avuto un segnale della prospettiva politica moderata del M5S pur sapendo che l’operazione non è andata in porto e, in secondo luogo, che questa realtà che ho provato a descrivere non è percepita a livello di massa. Dobbiamo quindi avere un punto di analisi preciso sul Movimento 5 Stelle per fare a livello di massa una azione di demistificazione della loro alter natività. Occorre costruire i passaggi di comunicazione affinché gli elettori del M5S possano cogliere le nostre parole un elemento di verità e non come un attacco simile a quello del Pd e degli altri partiti di regime. Noi dobbiamo avere un giudizio molto chiaro su dove va il Movimento 5 Stelle ma dobbiamo sapere che per smontare la credibilità del Movimento 5 Stelle presso gli strati proletari e di sinistra non basta criticarli: occorre costruire un’alternativa. Perché il Movimento 5 Stelle non viene votato perché è il meglio ma parchè è lo strumento percepito come più efficace per opporsi al centro destra e al centro sinistra. Il M5S, da questo punto di vista, ha la stessa funzione che Marx dava alla religione: “il gemito della creatura oppressa, l’animo di un mondo senza cuore, così come è lo spirito d’una condizione di vita priva di spiritualità. Essa è l’oppio dei popoli” . L’alienazione religiosa nasce dalla deprivazione materiale per cui o si risolve il problema della deprivazione materiale o il bisogno religioso si perpetua, nel tentativo umano di darsi delle risposte, anche se consolatorie, ai propri problemi. Il Movimento 5 Stelle ha una funzione simile: finché non c’è una proposta politica di sinistra che sia in grado di rispondere efficacemente alla domanda di cambiamento che è presente nel paese, quella domanda continuerà ad esprimersi nelle forme che troverà a disposizione. Gli errori dei 5 stelle non si trasformano direttamente nella possibilità di spostare consensi e interesse dai 5 Stelle a noi perché così come siamo messi noi oggi non siamo ritenuti utili per bastonare seriamente i nostri avversari di classe, siamo ritenuti impotenti. Anche per questo occorre costruire la sinistra.
Aumenta la rabbia popolare
In questo quadro aumenta la rabbia popolare per la reazione che il sistema oligarchico ha avuto dopo la vittoria del NO nel referendum: niente elezioni e scippo dei referendum sociali. La rabbia sociale è cresciuta ma non ha ad oggi efficaci canali politici attraverso cui esprimersi: nell’assenza di qualsiasi efficacia concreta delle azioni politiche, nel popolo cresce la sfiducia nella politica così come la conosciamo e matura una domanda di rivolta generica quanto radicale. Il problema di fondo che ci interroga nella nostra azione di comunisti è come facciamo a trasformare quella rabbia in un percorso politico, in un esito auspicabile. Lo dico perché ad oggi tutti gli elementi ribellistici hanno connotazioni ed estetiche di destra, dal Movimento dei Forconi al finto arresto dell’ex deputato Osvaldo Napoli. In Italia abbiamo un deficit gravissimo nel non saper padroneggiare, da sinistra, il tema della rivolta, mentre in questo tempo in cui il disagio non trova sbocchi e il sistema politico non fa altro che frustrare le aspettative popolari, il tema diventa un tema di rilevante valore ed attualità politica. Non sviluppo questo nodo ma è del tutto evidente che dobbiamo metterlo all’ordine del giorno per costruire una linea che sia all’altezza del livello dello scontro.
I Comitati per il NO, una esperienza da proseguire
E’ molto positivo che i Comitati per il NO non si sciolgano e che si costituisca un movimento strutturato di difesa della Costituzione a partire dall’assemblea di sabato 21 gennaio. Questo è tanto più positivo se i Comitati per il NO diventano i protagonisti – come mi pare possibile – anche della campagna sui referendum sociali, sull’applicazione della Costituzione. Noi dobbiamo operare per consolidare questi percorsi, sapendo che vi sarà una pluralità di appuntamenti cercando di sedimentare il surplus di attivismo politico che è emerso nella campagna referendaria. Bisogna aver chiaro che questo percorso di aggregazione dei comitati e delle soggettività nate nella campagna referendaria non coincide con il tema della costruzione di una forza politica di sinistra, di un soggetto politico di sinistra. Bisogna averlo molto chiaro. C’è un popolo della Costituzione che deve organizzarsi e allargare la sua capacità di iniziativa politica, a partire dai referendum sociali. Questo è utilissimo ma non coincide e non risolve il tema della costruzione di una soggettività politica: non dobbiamo spingere per trasformare i comitati in un soggetto politico.
Costruire il soggetto politico della sinistra
Il soggetto politico della sinistra può nascere unicamente da un riconoscimento tra le diverse esperienze presenti a sinistra, nella decisione comune di dar vita ad un percorso che costruisca una soggettività unitaria. Nessuno è in grado da solo di fare il soggetto unitario: questo deve nascere da una relazione a partire dalle esperienze sui territori visto il fallimento del tavolo nazionale tra le forze politiche. Su questo piano abbiamo avuto le iniziative delle Città in comune e successivamente l’iniziativa di Bologna messa in piedi da ACT! e dalla lista bolognese. In quest’ultima assemblea c’è stato un elemento negativo nel fatto che il documento finale non ha nemmeno nominato le Città in comune. C’è un mancato riconoscimento delle altre esperienze che produce solo danni. Se siamo tutti e tutte delle parzialità, nessuno deve presentarsi come se fosse già la soluzione: tutti devono mettersi in relazione con gli altri a partire dal fatto che ognuno rappresenta una parte e non la totalità. Se non si fa questo sforzo, è evidente che non si riuscirà a fare nessuna unità: l’unità parte dal riconoscimento dell’altro, non dal fatto che l’altro viene assorbito dentro di te. Occorre superare questi problemi e considero positivo che nel corso delle prossime settimane ci sarà un convegno sulle forme della politica. Considero importante essere riusciti a mettere come punto di discussione il tema delle forme della politica perché è il problema su cui si rischia di incagliare il processo unitario. Sul piano politico le cose sono dure ma chiare – anche a livello di massa – perché o stai con il PD o fai un polo alternativo. Viceversa, il tema delle forme non è per nulla chiaro e la cultura politica presente nella sinistra mediamente non è all’altezza del nostro duplice compito: unire le forze e fare un soggetto nuovo che non sia una pura sommatoria. Troppo spesso sentiamo dire: “Scioglietevi tutti e facciamo un nuovo partito”. Questa impostazione, che non fa i conti con le divisioni e le differenze effettive e le considera in fondo un capriccio, non permette di fare un solo passo in avanti ed è destinata a fare solo danni. Per sconfiggere questa cattiva cultura dell’unità occorre proporre e offrire un’altra cultura dell’unità che faccia i conti con le differenze e non le renda un ostacolo all’unità sull’essenziale: l’antiliberismo di sinistra. Da qui l’importanza del convegno sulle forme della politica. Noi pensiamo, per le ragioni che abbiamo esposto lungamente nel documento Congressuale, che il tema del comunismo sia il centro della nostra iniziativa politica e della nostra ragion d’essere. Abbiamo quindi l’esigenza di aggregare forze per determinare la sconfitta della barbarie neoliberista ma noi vogliamo attraversare questa costruzione comune come compagni e compagne del partito della rifondazione comunista, che ha l’obiettivo di superare il capitalismo, dell’alternativa di sistema, non solo dell’uscita dal liberismo. Credo che queste due cose nella nostra testa debbano essere chiarissime, sapendo che non c’è nessuna contraddizione fra le due. Dobbiamo costruire uno schieramento ampio, necessario per fermare la barbarie del neoliberismo, e dobbiamo sviluppare un partito comunista che faccia una battaglia politica, ideologica, culturale, sociale, di formazione di quadri con l’obiettivo chiaro e dichiarato di superare il capitalismo.
Iniziativa politica del partito durante il Congresso
Nei prossimi mesi fare il congresso e contemporaneamente la battaglia sui referendum sociali, il lavoro di aggregazione dei comitati per il no e il lavoro diretto di costruzione della sinistra. Dobbiamo fare tutte queste cose insieme perché occorre battere il ferro finché è caldo, cioè utilizzare la domanda politica che è emersa dal referendum per lavorare in questi mesi a costituire una soggettività politica della sinistra. Occorre oggi sconfiggere le posizioni che, man mano che vedono le elezioni allontanarsi un po’, tendono a rimandare tutto. Se così avvenisse rischieremmo: a) di fare una lista abborracciata all’ultimo minuto, il solito cartello elettorale malfatto; b) di veder nuovamente emergere le pulsioni egemonistiche di Sinistra Italiana, dovute alla posizione di rendita data dai parlamentari eletti grazie al patto elettorale con il Pd. C’è sempre qualche buontempone che nella sua testa ha il recondito pensiero che poi alla fine si può andare alle elezioni con la lista di Sinistra Italiana aperta agli altri. E’ una ipotesi che non esiste: se Sinistra Italiana volesse andasse alle elezioni col suo simbolo, questo significherebbe avere più liste a sinistra. Noi dobbiamo sconfiggere sia l’idea del cartello elettorale fatto all’ultimo minuto sia l’idea di Sinistra Italiana di poter annettere gli altri pezzi. Sono due idee senza alcuna attrattiva elettorale, non servono a costruire la sinistra e sono inaccettabili. Noi dobbiamo fare una battaglia politica forte sulle forme della politica avanzando una proposta che sia in grado di interagire da subito con la maggioranza delle forze interessate alla costruzione della sinistra. Questa battaglia non può essere solo fatta a livello nazionale, dobbiamo farla anche sui territori, penso alla costruzione di Convenzioni in ogni città che aggreghino sul territorio il complesso delle forze interessate a costruire la sinistra. Dobbiamo operare dall’alto e dal basso. Per rafforzare il processo ed evitare porcherie. Noi proponiamo di fare un soggetto unitario e ovviamente non entreremo mai nelle liste di Sinistra Italiana. Peraltro, Sinistra Italiana è priva di carica propulsiva divisa com’è sui nodi principali, a partire dal nodo dei rapporti con il Pd, in una fase in cui la sinistra può ricostruire un proprio ruolo, una propria utilità solo nell’assoluta alternatività al Pd. Segnalo, da questo punto di vista, che in Sardegna siamo usciti dalla maggioranza risolvendo così uno degli ultimi problemi che avevamo sul tema della collocazione politica. Abbiamo perso un consigliere che è passato a uno dei gruppi sardisti, ma è un prezzo che valeva la pena di pagare pur di toglierci da quella situazione imbarazzante.
La data del Congresso
Per quanto riguarda il Congresso vi proponiamo di spostare in avanti di una settimana la data che avevamo deciso insieme al CPN scorso. Infatti attorno al 25 marzo vi saranno a Roma le mobilitazioni in occasione del sessantesimo anniversario del Trattato di Roma. Si sta lavorando a costruire una specie di forum sociale col mondo dell’associazionismo sulla questione dei Trattati di Roma, per costruire una iniziativa forte del movimento. Anche su questo sono sorte alcune polemiche ma del resto l’avvicinarsi del Congresso stimola i peggiori istinti e le polemiche pretestuose si sprecano.
I documenti per il Congresso
Ad oggi sono stati presentati un paio di documenti, e alcune singole tesi alternative. Compito del CPN è organizzare al meglio il Congresso e per queste ragioni non entro nel merito dei contenuti politici del Congresso. Questo sarà oggetto della successiva relazione della compagna Roberta Fantozzi che illustrerà il testo del documento che abbiamo posto alla base della discussione e le modifiche che su questo vi proponiamo a partire dal recepimento delle osservazioni avanzate dai Comitati Politici federali. Io in questa relazione mi occupo unicamente di chiarire alcuni elementi riguardo allo svolgimento del nostro Congresso, per mettendo ai compagni e alle compagne del partito di decidere serenamente e a ragion veduta sul nostro futuro.
Regolamento congressuale e congresso unitario
Ieri in Commissione Politica è stato posto il problema della modifica del Regolamento relativamente alla registrazione dei voti sulle tesi nei verbali dei congressi di circolo. Questo tema è stato posto nuovamente nella lettera aperta di Eleonora Forenza che avete ricevuto ieri attraverso la mail del segretario. In questa lettera si afferma che non è stato possibile fare il Congresso unitario a causa delle regole imposte per la discussione. Sarebbero le regole decise a maggioranza ad impedire di poter fare un congresso unitario. Vorrei chiarire bene questo punto, che considero privo di fondamento. In primo luogo, è possibile fare il conteggio dei delegati su ogni singola tesi alternativa? Io penso di no. Fu una discussione che avvenne già allo scorso congresso e che venne giustamente accantonata perché non è risolvibile. In primo luogo perché sarebbe necessario usare una equazione troppo complicata, impossibile da applicare agevolmente e senza contestazioni nei congressi di circolo. A questo problema se ne aggiunge un altro: i nostri congressi di circolo, vedono la partecipazione di poche persone, indicativamente da 7-8 persone alle 50-60 persone. Diventa impossibile fissare rigidamente i delegati a cui avrebbe diritto ogni singola tesi alternativa. Nella normalità dei casi ti troveresti con 0,2 delegati 0,5 delegati 0,1 delegato avanti così. Diventa un modo di calcolare la rappresentanza che non ha più nessuna connessione con le platee concrete ed inoltre il fatto che chi vota un emendamento non necessariamente ne vota altri, diventa sostanzialmente impossibile selezionare la platea dei delegati con un meccanismo certo e non contestabile. Fare una cosa di questo tipo significa aprire un gran caos in cui si litigherebbe su tutto, dalle percentuali ai delegati. In ogni caso, ieri, in Commissione politica, ho chiesto ai compagni della mozione 3 che avanzavano questa proposta, di scrivere concretamente la regola che stavano reclamando, di scriverla loro, in modo da presentarci una proposta concreta di emendamento al regolamento. Qualcuno di voi ha visto questo emendamento, questa proposta concreta? Nessuno, per il semplice motivo che nessuno è in grado di scrivere un emendamento che sia poi concretamente applicabile nei congressi. Per riassumere, qui siamo nella situazione in cui la maggioranza viene accusata di non voler fare una cosa che però non si può fare: una cosa così palesemente impossibile che nessuno della minoranza ha avanzato una proposta concreta di modifica del regolamento. Decidete voi come aggettivare questo comportamento ma a mio parere è grave che un dirigente politico faccia battaglia politica in questo modo demagogico. In secondo luogo viene posto anche il tema della presentazione obbligatoria di ogni singola tesi in ogni congresso. Pensate seriamente che si possono fare i congressi di circolo con 7/8 relazioni su ogni documento, tenendo presente che per ogni singola tesi alternativa sarebbe necessario fare una relazione a favore e una contro? Io penso che sia assurdo pensare di fare un congresso in questo modo. A me pare che il partito chieda di poter fare dei Congressi che diano un segnale di unità, un segnale di mettersi insieme, non di dar vita ad un congresso che spezzetta tutto in una serie infinita di contrapposizioni. In terzo luogo il conteggio dei voti. Nello scorso CPN, a maggioranza, abbiamo respinto una proposta che chiedeva di segnare nei verbali quanti voti prenderanno gli emendamenti eventualmente votati. Ribadisco il fatto che io considero sbagliato questo schema perché uno dei problemi che abbiamo come Rifondazione comunista è l’eccesso di correntismo interno, che ci ha trasformato in una sorta di federazione di partiti. Ritengo che il valore degli emendamenti sia quello di far discutere e che – al contrario – il verbalizzare i singoli voti tende poi a determinare la richiesta di riequilibri e quindi sostanzialmente a trasformare gli emendamenti in una sorta di documento alternativo. Vedo il rischio che la libera dialettica sui contenuti diventi un nuovo modo per cristallizzare posizioni e correnti interne. Detto questo, segnare i voti sui verbali è possibile, e se Eleonora Forenza lega la necessità di fare il documento alternativo al fatto che il regolamento non preveda la verbalizzazione dei voti sugli emendamenti, io credo che sia giusto cambiare il regolamento e conteggiare i voti su ogni singola tesi alternativa, perché la ricerca dell’unità è fondamentale. Vi propongo quindi di cambiare il regolamento prevedendo il conteggio dei voti su ogni singola tesi alternativa.
Le polemiche sul Congresso
Eleonora Forenza ci dice nella lettera che c’è stato il fallimento completo della linea politica e della gestione. Prendo atto che una compagna che sta in segreteria da tre anni, pensa che in sostanza tutto quello che ha fatto la segreteria, che ha fatto il partito in questi anni sia sbagliato. Di questo giudizio politico discuteremo nel Congresso. Mi pare però utile sottolineare il punto di dissenso più rilevante che in questi anni ho registrato con Eleonora Forenza, che ha riguardato la discussione al tavolo delle forze di sinistra nell’autunno del 2015. Voi sapete che a quel tavolo, a un certo punto, Rifondazione Comunista ha detto di no alla sottoscrizione di un documento che veniva posto alla base del percorso unitario. Noi non abbiamo mai discusso approfonditamente su questo, ma forse è bene chiarire che a quel tavolo non c’era presente solo il sottoscritto in quanto segretario di Rifondazione Comunista, c’erano anche alcune compagne tra cui Eleonora Forenza, in quanto parlamentare europea. In quella discussione la compagna Forenza dette l’assenso al documento che io rifiutai. Vi leggo due pezzi del documento, in modo da motivare chiaramente per quale ragione io rifiutai, e perché siano chiare e trasparenti le diverse posizioni politiche. Il documento recita: “La sovranità nel percorso è di tutti coloro che vi prenderanno parte. (…) In questi mesi si è riunito un tavolo di coordinamento tra le forze politiche e associative. Il ruolo del tavolo si esaurisce con l’inizio del processo costituente al quale le forze organizzate attuali che vi si riconoscono cedono sovranità per costruire un soggetto nuovo che vada oltre le attuali forze in campo per un progetto politico all’altezza della sfida. Non sarà quindi un soggetto unitario ma una sinistra di tutti, uno spazio pubblico che non sarà né di proprietà né ostaggio di dinamiche autodistruttive e di conservazione”. Io voglio chiarire – in modo che sia molto chiaro nella discussione congressuale – perché il sottoscritto si è preso la responsabilità di dire di no a questa formula. Io non sono disponibile a partecipare ad alcun processo unitario in cui il tema della sovranità sull’esistenza o meno di Rifondazione Comunista o sulla compatibilità o meno dell’iscrizione al soggetto unitario degli iscritti e delle iscritte a Rifondazione Comunista, sia nelle mani – a maggioranza – del processo unitario stesso. O c’è un accordo preciso che prevede che l’appartenenza al soggetto unitario è compatibile con l’appartenenza alle forze politiche che non si presentino alle elezioni o non si può fare nessun soggetto unitario perché sarebbe un pasticcio. Noi non abbiamo mai deciso di sciogliere Rifondazione Comunista e io penso che accettare come base di discussione per la costruzione del soggetto politico unitario quella che vi ho letta, significava mettere in discussione la nostra esistenza. Lascio perdere che c’erano anche altre parti di quel documento a mio parere inaccettabili, come ad esempio il riconoscere il gruppo parlamentare di Sinistra Italiana come il terminale istituzionale del processo Costituente…. In ogni caso, dal mio punto di vista, se abbiamo deciso che Rifondazione Comunista esiste per l’oggi e per il domani, Rifondazione Comunista può decidere di cedere sovranità a un soggetto terzo, ma lo deve decidere Rifondazione Comunista, non lo decide qualcun altro. Questo è il punto di dissenso vero che ho avuto con Eleonora ed è bene che il partito, nel momento in cui deve decidere cosa vuol fare sappia quali divisioni hanno attraversato il gruppo dirigente nella fase recente. Certo se avessimo scelto la strada di firmare quel documento, questo avrebbe modificato il nostro percorso e forse anche i giudizi su cosa sia avvenuto nell’ultimo anno. Avremmo dato luogo ad un processo unitario mettendo in discussione l’esistenza di rifondazione. Un ultima cosa che voglio sottolineare della lettera. Eleonora dice in una frase riferita alla segreteria nazionale: “e invece per non fare un bilancio della linea politica si prova a fare un congresso di divisione sulla cultura politica: costruiamo un nuovo nemico interno, contro cui blindare le truppe, i nuovi mostri, salviamo la baracca dall’invasione rosso-bruna, confermando maggioranza e gruppo dirigente”. Trovo singolare far parte di un gruppo dirigente e poi accusarlo di comportarsi in questo modo. Secondo questa lettera l’obiettivo della segreteria e della maggioranza del Comitato Politico Nazionale, sarebbe di costruire “il nuovo nemico interno” per evitare di confrontarsi con problemi che ha il partito. Il “nuovo nemico interno” vuol dire che non è la prima volta che ne costruisce uno: evidentemente la segreteria si sarà già inventata nel passato altri nemici interni… Certo una affermazione di questo tipo, dal mio punto di vista, va molto al di là della politica. Perché un conto è la discussione sulla linea politica, altro è scrivere che il gruppo dirigente, pur di riuscire a mantenere la propria posizione di potere, lavora alla distruzione del partito, costruendo nemici interni ad hoc. Io una accusa cosi infamante non mi sarei sentito di farla nemmeno a coloro che hanno fatto le scissioni da Rifondazione. Qui non si riconoscono posizioni politiche diverse ma si accusa la segreteria di inventare artificialmente delle divisioni per mantenere una posizione di potere. Questo modo di ragionare non fa parte della mia cultura politica, lo rivendico con forza perché penso che una cosa è lo scontro politico, e altro sono affermazioni di questa natura. Come se non bastasse, nel documento congressuale, gli elementi di cultura politica sono assai limitati e quando ho proposto, in questa stessa sala, che si facesse il congresso sui fondamentali, sulle ragioni del nostro essere comunisti e comuniste, io non ho registrato obiezioni. Se non ricordo male nessuno ha sollevato obiezioni perché lo vede anche un bambino che se decidiamo di tenere vivo il partito della rifondazione comunista – nel momento in cui questo viene percepito da alcuni come un ostacolo all’unità della sinistra – non possiamo affidare le ragioni della nostra esistenza solo ad argomenti di tipo organizzativo. Noi dobbiamo esplicitare le ragioni della nostra esistenza come partito comunista sul piano teorico, strategico e il documento presentato fa questo, certo non le basa sulla cultura politica. Considero quindi irricevibili queste affermazioni, anche perché in Commissione politica, che è durata mesi, non è mai arrivato alcun contributo scritto di Eleonora: nemmeno una riga. Non è così che si dà una mano a costruire il partito. Così si dà una mano a distruggerlo.
Il Congresso della Sinistra Europea
Nel frattempo c’è stato il congresso della Sinistra Europea. È stato un congresso importante innanzitutto per la presenza in tutti i paesi dell’Unione Europea. In secondo luogo nel Congresso è stato fatto un passaggio rilevante, quello di dar vita a un forum antiliberista permanente, simile al forum di San Paolo. Questo passaggio apre alla costruzione di una dinamica in cui il partito della sinistra europea è motore, non da solo, della costruzione di un movimento antiliberista su scala europea, che è esattamente quello che serve. O di una approssimazione a quello che serve. Cioè la capacità di mettere assieme non solo le diverse correnti di opinione ma anche sindacati e movimenti sociali per ragionare insieme. Dobbiamo costruire una intelligenza antiliberista europea: un punto fondamentale per la nostra strategia politica è il costruire sul piano europeo – di fronte a l’intelligenza della BCE e di tutti gli altri avversari – un embrione di intellettuale collettivo antiliberista. Penso che da questo punto di vista il congresso sia molto positivo perché questo passaggio lo fa. Dentro questo quadro c’è chi pensa che il problema fondamentale oggi sia di riuscire a fare un accordo con i socialisti per mettere, a partire dalla Germania, fuori gioco Scheuble, la parte di destra. Dall’altra c’è chi pensa, come noi, che su quella strada non si va distante, ci abbiamo già provato, e quindi bisogna costruire l’alternativa a centro destra come al centro sinistra, a tutti i liberisti. Questi due indirizzi sono presenti e il nostro ruolo non deve essere quello di lavorare a spaccare tra queste due linee. Anche per le caratteristiche che ha il partito della sinistra europea – che non è un partito nazionale che deve schierarsi immediatamente – il nostro obiettivo è quello di far funzionare il partito a partire dalla realizzazione del forum delle alternative. Occorre costruire e rafforzare il campo delle forze antiliberiste, questo è il punto centrale. Più che lo scontro interno, che rischierebbe di sfasciare tutto, occorre sviluppare una capacità inclusiva che tenga assieme posizioni diverse: da chi è contro l’Unione europea a chi pone il tema della disobbedienza dai trattati. Io penso che il nostro ruolo oggi, nel partito della sinistra europea, non sia quello di spaccare ma sia quello di tentare di far sì che il partito riesca a lavorare. Così come ad esempio sulle votazioni sulla presidenza del Parlamento europeo, ovviamente le prime tre votazioni il GUE vota Forenza, a cui facciamo gli auguri. Dalla quarta votazione si passa al ballottaggio e ci sarà una discussione. Mi sembra opportuno proporre che il GUE non appoggi Pittella e che, se non ci sarà un orientamento comune, che il GUE non assuma un orientamento di voto. Penso che Forenza non debba votare per Pittella ma non farei di questo un elemento che spacca il GUE. Va quindi costruita una dialettica che rafforzi in Europa il ruolo del partito della sinistra europea. Può essere una cosa positiva come si è costruita la presidenza. Il presidente Gregor Gysi è una presenza prestigiosa anche se piuttosto moderato. Vi sono poi quattro vicepresidenti tra cui il sottoscritto. Questo significa anche un riconoscimento per un partito come il nostro, per il ruolo che svolge pur nella nostra debolezza.
Intrecciare congresso e iniziativa politica
Dovremo quindi cercare di fare un Congresso il più civile possibile all’interno e il più interlocutorio possibile con l’esterno. Dopo il referendum c’è un clima positivo tra chi ha fatto la campagna per il NO e dovremmo essere capaci a fare il congresso interloquendo il più possibile con questo clima positivo, raccogliendo e valorizzando il ruolo positivo che rifondazione comunista ha giocato nella campagna referendaria. È stato riconosciuto da tutti e anche i nostri compagni e le nostre compagne lo hanno vissuto positivamente. Ogni congresso deve avere una parte interna e poi una parte esterna, che abbia nel tema della costruzione della sinistra, di una sinistra per attuare la Costituzione, il punto fondamentale. Cerchiamo quindi di fare bene il congresso, sia per la parte interna che per quanto riguarda il rapporto con l’esterno, facendone un momento di crescita politica e organizzativa.

Il no del ribelle Mélenchon: “Questa sinistra sbaglia tutto, un’alleanza è impossibile”


Il no del ribelle Mélenchon: “Questa sinistra sbaglia tutto, un’alleanza è impossibile”


PARIGI. “Nessuna alleanza possibile, i socialisti paghino il prezzo politico di ciò che hanno fatto in cinque anni di governo”. Più chiaro di così: Jean-Luc Melenchon* è il disturbatore a sinistra delle presidenziali. Dopo essersi presentato già nel 2012, l’ex socialista (fuoriuscito dal partito 8 anni fa) ci riprova con un nuovo movimento, la “France insoumise”, la Francia indomita. “Faccio politica con la ragione e con il cuore” dice nel suo ufficio dove si vedono i tetti di Parigi e la basilica del Sacro Cuore eretta dopo la repressione della Comune. “Per noi rivoluzionari è stata a lungo un simbolo da abbattere, ma in fondo non è così male” scherza “Mèluche”, come lo chiamano i giovani militanti. Secondo i sondaggi potrebbe superare il candidato del PS nel primo turno delle presidenziali di Aprile. Nato in Marocco nel 1951, è un grande oratore, i suoi libri-pamphlet sono bestseller, ha aperto un canale youtube che vanta oltre 100mila abbonati e ha promesso un comizio in diretta tra Lione e Parigi sdoppiandosi grazie a un ologramma. Si riconosce nei populismi di sinistra dell’America Latina, è ancora uno chavista convinto nonostante la situazione drammatica del Venezuela. “L’unico errore di Chavez – dice – è stato non essere riuscito a liberare il Paese dalla dipendenza dal petrolio”.
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Cosa ha pensato del confronto tra i candidati alle primarie della sinistra?
Mi sono annoiato molto. Ed ho avuto la conferma di aver fatto bene a non partecipare. Chiunque sarà il vincitore sarà destinato a schiantarsi contro un muro. L’unico che poteva avere un minimo di coerenza in campagna elettorale forse, era proprio Francois Hollande”
Sembra quasi soddisfatto di questa situazione.
La socialdemocrazia ha cercato di sostituire la rivoluzione con le riforme, puntando tutto sulla crescita economica e dimenticando la redistribuzione della ricchezza. E’ un movimento cominciato con Bill Clinton negli anni ’90, proseguito in Europa con Tony Blair, Gerhard Schroeder e altri, e che ora si sta fracassando ovunque, dall’Italia, alla Grecia, alla Spagna.
Potrebbe venire a patti con il vincitore delle primarie?
Sarebbe una scemenza. Perchè dovrei allearmi con chi ha sostenuto Hollande? Manuel Valls è stato il suo Premier, Arnaud Montebourg e Benoit Hamon sono stati suoi ministri.
E’ un suicidio collettivo: con tutti questi candidati, la sinistra è condannata ad essere esclusa dal ballottaggio.
“Nel 2012 eravamo già in 5 candidati per la sinistra, senza che ciò abbia impedito a Hollande di vincere l’elezione. Questa volta saremo lo stesso numero, forse anche meno perchè non è sicuro che Yannick Jadot (candidato dei Verdi, nrd.) riuscirà a presentarsi. Se la sinistra rischia di essere eliminata al primo turno la colpa non è mia, ma di Hollande e del governo Valls.
E se alla fine fosse Emmanuel Macron a prendere più voti a sinistra?
Non accetto che venga definito come un candidato di sinistra. C’è una parte di bluff che uscirà allo scoperto molto presto. E alla fine prenderà soprattutto i voti a destra, per esempio dai sostenitori di Alain Juppè che non vogliono votare per Francois Fillon.
Sulla possibile uscita dall’euro lei fa come Marine LePen, alimentando l’ambiguità?
Semmai è lei che mi copia perchè sta nel panico: non ha più un centro di gravità. Io non propongo di uscire dall’euro, ma di cambiare i rapporti di forza. Se sarò eletto, il mio primo obiettivo sarà andare da Angela Merkel per rinegoziare i Trattati che ci costringono a seguire politiche di austerità. Tutti sanno, anche se non lo dicono, che il debito pubblico della Francia, come di altri Paesi, non potrà essere rimborsato. Dunque smettiamola con questa dannosa ipocrisia.
Crede che la Germania potrebbe accettare la sua idea?
Io penso che Merkel sia una persona ragionevole con cui si può parlare. Se poi non ci sarà dialogo possibile, faremo scattare il piano B: lo illustrerò nell’anniversario del Trattato di Roma, con un vertice alternativo nella capitale italiana. In caso di piano B, la Francia si riprenderà le sue libertà. E a quel punto tutto può accadere.
 fonte: La Repubblica
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* Il compagno Melenchon è il candidato unitario sostenuto dal Parti de Gauche, dal Partito Comunista Francese e altre formazioni

martedì 24 gennaio 2017

Intervista a Ferrero su il Manifesto: «Non farò il segretario, ma la linea resta»


Intervista a Ferrero su il Manifesto: «Non farò il segretario, ma la linea resta»
Il segretario lascia il vertice Prc dopo dieci anni. «Sono a disposizione. La sinistra non ripeta gli errori, non basta un cartello elettorale. 5 stelle sono cresciuti dagli errori della sinistra, nel governo Prodi abbiamo aperto una prateria. Il guaio non fu la lista Arcobaleno, come si continua a ripetere. Il nuovo percorso deve partire subito. Aspettare la data del voto per fare in gran fretta una lista con i soliti bilancini stavolta porterebbe al disastro»
Di Daniela Preziosi -
 
Paolo Ferrero, lei è segretario del Partito della rifondazione comunista dal 2008. Al congresso di marzo si ricandida per la quarta volta?
No. Proporrò di cambiare.
Pronto a ripensarci se i delegati glielo chiedono?
Oggi ci sono tutte le condizioni per il ricambio. Fin qui c’era chi chiedeva di cambiare il segretario volendo in realtà cambiare linea. Per questo non ho mollato. Oggi invece il 70 per cento del comitato politico ha votato in sintonia totale, fra noi non c’è mai stata una maggioranza così. Oggi si può cambiare senza rischio di cambiare linea.
Eppure lei è stato un segretario di minoranza.
Il mio indirizzo è oggi ampiamente maggioritario: un partito comunista senza nostalgie e che vuole costruire un soggetto della sinistra antiliberista.
Indicherà il prossimo segretario e/o segretaria?
No, non siamo una monarchia. C’è un gruppo dirigente perfettamente in grado di esprimere la successione. Io resto completamente a disposizione. Sarò il primo ex segretario del Prc che resterà nel partito.
Dalla segreteria di Bertinotti a ministro di Prodi a feroce avversario del centrosinistra. È stato un uomo per tutte le stagioni?
No, non ho rivendicato di aver sempre avuto ragione. Ho sbagliato ad andare al governo. l’ho ammesso, ci abbiamo fatto un congresso, abbiamo cambiato indirizzo. Fare il ministro è stata una svolta decisiva. Ci ho provato fino in fondo ma ho verificato l’impossibilità di spostare dall’interno il centrosinistra. Che era quello di Prodi e Bersani, molto più a sinistra del Pd attuale. Lì ho verificato che c’è un polo liberiste, quello della grande coalizione, e un altro polo liberista ma nazionalista e razzista. Noi dobbiamo costruire un terzo polo antiliberista. Tutti si basano sull’assunto che i soldi non ci sono. Tesi falsa in radice. I 20 miliardi per le banche ci hanno messo 20 minuti a trovarli. Il terzo polo deve dire: la ricchezza c’è, va usata per il popolo.
Il terzo polo in Italia c’è già, sono i 5 stelle.
Loro sono un terzo polo geometrico, non politico. La richiesta dell’adesione all’Alde lo dimostra.
Eppure la sconfitta storica della sinistra, oggi, è aver consegnato i suoi voti ai 5 stelle.
I 5 stelle sono nati e cresciuti dagli errori della sinistra, a partire dal governo Prodi. Lì abbiamo distrutto buona parte del nostro capitale simbolico e aperto una prateria. Il guaio non fu la lista Arcobaleno, come si continua a ripetere. Oggi M5S non è però in grado di avanzare proposte alternative. La stessa sindaca Appendino non ha grosse differenze con Fassino. I 5 stelle sono un parcheggio per i voti della sinistra. Se mettiamo in piedi una sinistra credibile li recupereremo.
Però lei a Roma ha fatto votare Virginia Raggi.
Perché se Renzi prendeva una botta alle amministrative era più facile sconfiggerlo al referendum.
Allora perché a Milano avete votato Sala?
Il Prc a Milano non ha dato indicazione di voto.
Torniamo all’irriformabilità del Pd. Ora anche Bertinotti e Vendola, usciti dal Prc nel 2008, la pensano come lei. È una sua vittoria egemonica, per dirla con Gramsci?
(Ride). Adesso l’importante è costruire il polo antiliberista. Certo Era meglio non rompere Rifondazione e fare tutti insieme la battaglia, i 5 stelle non sarebbero arrivati dove sono.
Di fatto ha vinto anche la sua eterna idea di soggetto della sinistra antiliberista. Finirete a fare un cartello elettorale con Sinistra italiana e Civati.
Il Prc non propone affatto un cartello elettorale ma un soggetto che funzioni una testa un voto, a cui ci si iscriva individualmente con la possibilità di avere la doppia tessera con i partiti che non si presentino alle elezioni. Un soggetto costruito su basi programmatiche e non ideologiche, che vada dai comunisti agli estimatori di papa Francesco, cattolici e non.
Dal ’90 i dirigenti di questa sinistra sono sempre gli stessi. Avete un evidente problema di ricambio e di classe dirigente?
L’idea della rottamazione è una scusa per andare a destra, da Occhetto a Renzi, ed io la contrasto. Ma mi dica: avrebbe fatto questa domanda ai tempi del Pci? Le classi dirigenti non si fanno in un mattino. In un mattino si fanno i teatranti con un copione scritto da altri, da Renzi ai portavoce dei 5 stelle. Detto questo c’è un problema di cambiamento. Servono volti non segnati dalle divisioni dell’ultimo ventennio.
Nel vostro futuro c’è De Magistris?
Certamente sì, ma dico a lui, e a Sinistra italiana, che ciascuno è indispensabile ma nessuno non può dire ’la sinistra sono io’: occorre un percorso unitario, e deve partire subito. aspettare il voto per fare una lista con i soliti bilancini porterebbe al disastro.
L’Altra Europa in effetti non ha fatto una bella riuscita.
È stata un’esperienza positiva. Ma quello che è successo dopo segnala che era debole nella costruzione. Serve una procedura larga e democratica, serve un soggetto politico unitario.
Al posto di Tsipras sarebbe sceso a patti con l’Europa?
La risposta sarebbe lunga e complessa. Ma una cosa è chiara per me: Alexis ha resistito, e non ha tradito.

domenica 22 gennaio 2017

Lo specchio di Davos di Guglielmp Ragozzino, Sbilanciamoci.info



Durante la kermesse dei potenti del mondo a Davos, Oxfam ha diffuso i dati dell’ultimo rapporto secondo cui otto persone hanno ricchezze pari a metà del mondo. Se aggiungiamo la piramide della ricchezza elaborata da Credit Suisse l’immagine che ne esce è quella di un mondo in cui il divario tra ricchi e poveri continua […]
A Davos, in Svizzera, ogni anno, in gennaio, il pianeta si guarda allo specchio ed è uno specchio dorato. La novità questa volta è il presidente della Cina che ormai entra di pieno diritto tra gli invitati che sono capi di stato e miliardari, con un corteggio di consulenti, commentatori e compagnia bella.
Il controcanto nel coro dei ricchi è tradizionalmente offerto dallo studio di Oxfam, la famosa Ong inglese che rampogna i presenti per la loro avarizia e grettezza. Il lavoro della gente di Oxfam si riassume in una magnifica promessa: “Possiamo costruire un mondo migliore, con un lavoro decente per tutti, dove donne e uomini sono trattati alla pari, dove i paradisi fiscali a favore di qualche individuo saranno un ricordo nei libri di storia e dove ciascuno pagherà con giustizia la sua parte per sostenere una società che sia a beneficio di ciascuno”. Il messaggio della Ong inglese sta soprattutto in un numero che indica quanti siano i ricchi che hanno una ricchezza pari alla metà più povera degli umani. Il numero fatidico del 2010 era 388, ma l’anno scorso era diventato 62; sessantadue persone viventi che avevano tanto quanto 3,6 miliardi di altri viventi, meno forniti di beni. Il numero del 2017 è ancora più smilzo, quanto dire che la globalizzazione, celebrata a Davos, ha davvero esagerato. Otto persone hanno ricchezze pari a metà del mondo. Gli otto per una volta compaiono con nome e cognome sui giornali di tutti i giorni, tanto quelli economici quanto quelli di gossip. C’è un finanziere americano di lunga durata, un venditore di abbigliamento spagnolo; gli altri sei operano nel sistema della comunicazione, allargato. C’è il messicano che si allarga sui telefoni tradizionali o meno che siano e c’è il giovanotto che ha inventato i social .
I nomi sono sempre gli stessi, quelli che capeggiano la classifica dei miliardari in dollari di Forbes , il magazine americano. Il conteggio miliardario in buona sostanza si ottiene moltiplicando il numero delle azioni possedute da uno per il loro valore di borsa; in altre parole si attribuisce al mezzo mondo meno dotato di ricchezze, poveri beni di valore pari ai fondi azionari in capo agli otto fatidici personaggi. In altre parole, visto così il mondo sembra aver cambiato ben poco dai tempi dei faraoni e dei costruttori delle piramidi.
Se le liste delle straordinarie ricchezze dei magnati derivano dalle classifiche elaborate da Forbes con tecniche di calcolo e criteri attendibili, i dati sulle ricchezze dei viventi normali sono elaborati dal Credit Suisse , una principale banca svizzera. Potremmo fare le solite ironie sul fatto che una banca per comprare, vendere, prestare i soldi deve in primo luogo sapere dove si trovano. Il primo passo è la geografia economica. Così è utile conoscere la piramide mondiale che la banca ci propone. Il globo dei viventi è suddiviso in quattro categorie di persone; se poi qualcuno vorrà parlare di caste o perfino di classi, lo faccia liberamente. Una prima cosa da notare è che il Credit Suisse distingue tra adulti (forse perché solo gli adulti hanno un conto corrente bancario?) e altri viventi. A occhio gli adulti sono circa tre quinti del la massa dei viventi. Le classi sono quattro. La prima contempla le persone con una ricchezza superiore a un milione; si tratta di 33 milioni di anime, pari allo 0,7% dell’intero mondo adulto. Esse hanno una ricchezza calcolata in 116 trilioni di dollari, pari al 45,6% del totale. Come è a tutti noto, un trilione vale nella parlata di Wall Street – e di Davos – mille miliardi. La seconda classe ha ricchezze maggiori di 100 mila e minori di un milione di dollari. Si tratta di 365 milioni di viventi pari al 7,5% del totale. La loro ricchezza complessiva è calcolata in 103,9 trilioni pari al 40,6% della ricchezza totale
Segue poi la terza classe che detiene tra 10 mila e 100 mila dollari. Comprende 897 milioni di persone che corrispondono al 18,5% dell’insieme. La ricchezza complessiva è di 29,1 trilioni, pari all’11,4%. 
Infine chi sono gli infimi le anime morte, con meno di 10 mila dollari. Si tratta di 3.546 milioni di persone corrispondenti al 73,2% di tutti gli adulti. Complessivamente hanno 6.1 trilioni pari al 2,4%
Per dirlo con parole dei banchieri svizzeri il divario tra ricchi e poveri è ancora più significativo. “Il rapporto stabilisce inoltre che la disuguaglianza di ricchezza, tra la parte dell’1 percento e del 10 percento degli adulti, e quella del resto della popolazione adulta del mondo cresce ancora. Mentre, in basso, metà della popolazione ha complessivamente meno dell’1% della ricchezza totale, il 10% più ricco detiene l’89% di tutti i beni globali”.
Credit Suisse fotografa anche le ricchezze medie individuali degli adulti nei vari paesi del mondo. Così sappiamo che un adulto svizzero-tipo dispone di beni pari a oltre mezzo milione di dollari (561,9), un cinese–tipo ha beni per 22,9 migliaia di dollari. In mezzo gli altri: un americano 347 mila dollari; un inglese 288,8; un francese 244,4; uno svedese 227,3; un tedesco 185,2; un europeo generico 125,5, compreso quindi un generico italiano; un adulto mondiale medio 52,8 mila dollari, mentre del cinese, al fondo della classifica, si è detto prima. La voglia di rivalsa di Xi Jinping presidente cinese, si spiega anche così, come pure si spiega la fiducia nella propria forza d’urto nell’avvenire di un mondo ancor più globalizzato. E’ Adamo Smith a Pechino come prevedeva Giovanni Arrighi, oppure Confucio a Davos come verrebbe voglia di parodiare vent’anni dopo?