Roberto Finelli: Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Jaca Book, Milano 2014, pp. 404, ISBN 978-88-1641-286-6.
Il libro di Roberto Finelli, a dieci anni di distanza, completa e conclude Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx (Bollati Boringhieri, Torino 2004), recentemente tradotto per Brill1 e finalista al Deutscher Memorial Prize 20162.
I due testi non possono essere letti isolatamente, se non altro perché
il secondo si configura come il naturale traguardo teorico preparato dal
primo, attraverso una revisione del fallimento a cui Marx perviene –
già nel 1843 con la Critica del diritto statuale hegeliano3 – nel suo tentativo di critica alla logica e alla filosofia politica hegeliana.
Nel primo testo veniva esaltata l’originalità e la superiorità teorica del Geist
hegeliano di contro l’antropologia giovanil-marxiana, tutta improntata
sul modulo feuerbachiano del genere umano e dell’alienazione, ovvero del
rovesciamento soggetto/predicato. Un’antropologia fusionale e
presupposta al concreto sviluppo storicamente determinato dei rapporti
sociali fra gli uomini. Finelli al proposito parlava addirittura di
«regressione antropologica» rispetto allo spirito hegeliano che – lungi
dall’indicare una dimensione di trascendenza ovvero metafisica – è il
risultato di un preciso processo storico culturale di mediazione fra
bisogni materiali e bisogni di riconoscimento; fra produzione materiale e
produzione simbolica; fattori calati entrambi a pieno titolo nella
modernità, un’età fatta di scissioni, contraddizioni, aporie, per le
quali Hegel propone una sua soluzione complessa, sistemica, innanzitutto
fondata kantianamente su un’idea di libertà e di emancipazione, che
tenga conto del diritto insindacabile dell’individualità, da coniugarsi
però con quello dell’universalità, prioritariamente sul piano
etico-politico. D’altronde, quale altro potrebbe essere il senso
complessivo della Fenomenologia dello spirito del 1807?
«La
tesi di fondo della mia ricostruzione [propone] una lettura del
rapporto tra Hegel e il primo Marx segnata da una permanente e
strutturale subalternità del giovane intellettuale rivoluzionario al
grande filosofo di Stoccarda. [...] la sostanza di quel nesso tra Hegel e
il primo Marx si risolverà sostanzialmente in un atto mancato, in un
parricidio mancato, e nel confronto asimmetrico tra due antropologie».
Comprendere
i forti limiti dell’antropologia del primo Marx, comprendere le
potenzialità dell’antropologia hegeliana, nonché i difetti dello
speculativo, comprendere, infine, il senso di una necessaria
riattualizzazione della marxiana critica dell’economia politica, sono
tutti insieme i compiti teorici che il testo di Finelli si propone di
portare a termine, riuscendo per altro brillantemente nell’intento.
L’Autore a tal proposito insiste sulla circolarità logica del Geist di contro all’immediatezza ingenua e falsamente materialistica della Gattung. L’incrocio di una dimensione verticale con una dimensione orizzontale costituisce propriamente il Geist,
la soggettività fenomenologica hegeliana, che si identifica con sé nel
modo o nella forma di un attraversamento interno ed esterno
dell’alterità. La soggettività è un processo di autoidentificazione, che
si presuppone come già dato in una dimensione unilaterale della realtà,
la quale, invece, ne comprende anche un’altra ad essa complementare. E
così il ciclo, almeno momentaneamente si chiude. Paradigmatico al
proposito il male e il suo perdono, il riconoscimento finale del sesto
capitolo della Fenomenologia dello spirito messo in scena da
Hegel, che andrebbe a completare il mancato e premoderno riconoscimento
servo/padrone dell’autocoscienza. Questo punto della filosofia di Hegel
-cioè il Soggetto come Geist -è il lascito più prezioso e
originale che abbiamo ereditato dal filosofo di Stoccarda. E che non può
in ogni caso essere ignorato da chi voglia riflettere sulla nozione e
sul tema del soggetto.
In altri termini, Hegel ha visto bene che
la soggettività si presuppone come tale, ponendosi negativamente nei
riguardi di quell’alterità che le è invece consustanziale e immanente.
Tuttavia, Finelli sottolinea che nello speculativo – soprattutto nella Scienza della logica
– la negazione, e insieme ad essa la contraddizione, viene a ricevere
un’accezione solo linguistica, trascurando al contrario la potenza
psichica del negativo, cioè la potenza della rimozione. «È in questa
sovradeterminazione della contraddizione, tra logica e antropologia»,
dice, «che sta dunque il lato più debole della filosofia di Hegel. [...]
Le difficoltà del giovane Hegel di trovare risposte soddisfacenti in
una dinamica pratica alla sua esigenza di radicalizzazione della libertà
moderna lo obbligano a una risoluzione a dominanza teorica».
Sulla base di questo snodo teoretico – il rapporto Geist e menschliche Gattung
– si gioca tutto il confronto storico filosofico fra Hegel e il giovane
Marx, attraverso l’analisi critica e per certi versi spietata di tutti
quei sofferti passaggi che manifestano una mal sopportata sudditanza del
giovane Moro nei confronti di Hegel.
Nel secondo testo – Un parricidio compiuto
– la posta in gioco si fa più alta, anche perché Finelli si propone di
scardinare ulteriormente la coppia Feuerbach-Marx, al fine di restituire
un rapporto Hegel-Marx assolutamente inedito nella letteratura critica
hegelo-marxista novecentesca. Passando dalla supremazia della
contraddizione – quale cifra inconfondibile della dialettica hegeliana –
alla supremazia dell’astrazione, sulla quale il Marx del Capitale
avrebbe poi superato il maestro. Si tratta inoltre di sferrare un colpo
decisivo al cosiddetto postmoderno, che in sostanza rinunciando a
Hegel, per dirla con Ricoeur, avrebbe rinunciato – coinvolgendo
paradossalmente anche quello che Finelli chiama il marxismo senza
capitale – al Marx maturo ovvero al Marx della critica dell’economia
politica.
Il percorso però, se interpretiamo bene, non vuole
essere lineare e nemmeno definitivo. Finelli intende far emergere i
forti limiti dell’antropologia marxiana (giovanile ma anche della
maturità), le grandi potenzialità dell’antropologia hegeliana, a sua
volta non sempre scevra da arretramenti storici o forzature logiche, per
poi ritornare su Marx, sul Marx del Capitale, con l’obiettivo
di rintracciare fra le righe e nelle trame inconsce di quel testo
incompiuto, la possibilità per la teoria marxista di rifondare un
rinnovato paradigma antropologico, postliberale e postcomunista4.
L’Autore
si rivolge poi, per complicare ulteriormente il quadro, a una
antropologia che, insieme alla coppia Hegel-Marx, faccia tesoro del
fattore Freud, ovvero proprio della psicoanalisi freudiana, in quanto
portatrice di una forma di riconoscimento individuale – il
riconoscimento pulsionale, del corpo, prelinguistico, extralinguistico –
non presente in Hegel, piuttosto riconducibile alle riflessioni di
Spinoza.
Procediamo allora per tappe, semplificando di molto
l’argomentazione di Finelli e cercando al fine di rintracciare l’esito
propositivo della sua lunga analisi critica.
Innanzitutto, il
rapporto con Feuerbach non appartiene solo al Marx giovane ma si
protrae, creando seri danni, anche all’altezza della concezione
materialistica della storia. «Malgrado l’abbandono esplicito e
dichiarato di ogni presupposizione onto-antropologica del Gattungswesen,
è pur vero […] che tutta la filosofia della storia che Marx costruisce
[…] attraverso l’iterazione della sola categoria della “divisione del
lavoro” continua ad essere manifestamente concepita secondo la
metafisica feuerbachiana di soggetto e predicato». Viene cioè da Marx
presupposta tutta la compiutezza generico-collettivistica dell’homo faber
che, tramite l’automatismo della separazione fra prassi materiale e
produzione ideologica, ulteriormente radicalizzata poi nella dicotomia
fra struttura e sovrastruttura, forze produttive e rapporti
di produzione, genera al dunque una indebita alienazione e perdita di
sé, da parte della soggettività fabbrile, proprio nel predicato dei
rapporti di proprietà/produzione, i quali, autonomizzandosi dal soggetto
autentico e incaricato a fare la storia, ostacolano e contraddicono il
suo naturale sviluppo verso il meglio e l’universale.
Tale
principio generico di stampo feuerbachiano consegnerà «all’immaginario
della futura politica comunista e operaia il mito ingannevole […] di un
comporsi facile delle condizioni di vita e delle forme di coscienza
delle classi lavoratrici nell’unità di una soggettività collettiva e
solidale». Genere, homo faber e proletariato moderno, nel loro
intrinseco carattere solidale collettivo e comunitario, realizzano
materialmente lo sviluppo inarrestabile delle forze produttive, che
dovrà portare al comunismo, come superamento rivoluzionario degli
ostacoli rappresentati dai vecchi rapporti capitalistici e privatistici
di proprietà.
È il regno della libertà che pur sempre proviene e
si costruisce a partire dal regno della necessità. Ma, secondo Finelli,
saremmo con ciò di fronte più che a una filosofia della storia, a una
mitologia dai tratti nemmeno troppo originali, con l’aggravante che,
tale assunzione originaria e mitologica di una identità senza tensioni e
differenze interiori, viene poi trasferita da Marx al proletariato come
classe dell’emancipazione universale, proprio in quanto esclusa dalla
proprietà privata e con ciò capace di identificarsi senza residui con
l’intera umanità. D’altra parte, il materialismo storico si confuta da
sé, in quanto teoria volta alla svalorizzazione assoluta del teorico a
favore del pratico: «il che significa che il marxismo, nel momento in
cui ha preteso, come materialismo storico, di affermare la legge del
conoscere come un’astrazione dall’agire lavorativo, si è costituito
contraddittoriamente come un’eccezione della legge stessa».
Per
arrivare però a quel «parricidio compiuto» che Marx opera finalmente nei
confronti di Hegel, e che segna l’uscita dallo stato di minorità nel
quale il Moro si trova fin da giovane e in parte anche negli anni
Cinquanta e oltre, occorre focalizzare il concetto chiave di
forza-lavoro e di lavoro astratto. Entrambe le categorie, fra loro
evidentemente connesse, originano non da una presupposizione metastorica
che si erge a principio di spiegazione nonché principio di
trasformazione della realtà storica, ma proprio dal processo storico
sociale che caratterizza il moderno:
«Nella
modernità il sistema forza lavoro-macchina produce quella particolare
forma del lavoratore che consiste nel lavoro astratto [dove] astrazione
qui è sinonimo di un lavoro del tutto normato e normalizzato […]
eliminazione di ogni forma artigianale del lavorare; superamento, nella
tecnologia della grande industria […], dell’organizzazione […]
immediatamente precedente».
Già a partire dai Grundrisse Marx mette in campo un concetto di lavoro che abbandona l’impianto teorico dell’Ideologia tedesca
insieme alla troppo semplice e ormai inservibile categoria della
divisione del lavoro di stampo hegelo-smithiano, che ha il torto di
restituire una concezione assai ingenua del divenire storico, del
progresso e della macchina in quanto strumento. È ora il sistema
macchina-forza lavoro a costituire la cellula fondamentale della società
moderna e il luogo massimo di produzione del lavoro in quanto
astrazione reale. «Qui astrazione significa propriamente, non negazione
di un’essenza universale dell’essere umano, con la rinuncia alle sue
capacità universalgeneriche, bensì, all’opposto, cancellazione di ogni
carattere individuale e personalizzato dell’agire. […] Ossia astrazione,
più specificamente, significa, insieme, svuotamento dell’interiore e
sovradeterminazione dell’esteriore». Questa è di fatto l’astrazione
reale posta e scoperta da Marx come nucleo fondativo del Capitale,
come principio della produzione capitalistica capace di svuotare la
pratica umana del lavoro da ogni concretezza determinata e, al tempo
stesso, in grado di occultare questo stesso processo storico-sociale con
la superficie delle invarianti dell’agire naturalistico.
Il
passaggio assai delicato intrapreso da Marx a questo punto, in modo per
altro non sempre lucido e definitivo, si compie in virtù del fatto che
viene accolta pienamente la concezione hegeliana della scienza come
circolo del presupposto-posto, secondo cui il farsi della realtà-verità
risponde al movimento dialettico messo in atto dal soggetto
autocosciente, in grado di interiorizzare progressivamente l’alterità
ovvero di negare se stesso nonché l’iniziale immediata e perciò fallace
identificazione con sé, concepita libera da interferenze. La realtà, che
viene posta come risultato del processo di
interiorizzazione/alterazione dell’identità, risulta perciò riprodotta
ad un livello di maggiore complessità e relazionalità.
Tuttavia, il Marx del Capitale
mette in campo categorie dialettiche radicalmente distanti da quelle
del maestro: se per Hegel la contraddizione tramite negazione avviene a
partire dalla frattura logico-metafisica Essere/Nulla, che va via via
ricomponendosi e mediandosi; per Marx la scissura originaria della
realtà si consuma attraverso la contrapposizione fra Concreto e
Astratto, a partire dalla ambivalenza oppositiva fra valore d’uso e
valore di scambio, presente nella merce come cellula semplice della
moderna società borghese. Il mondo economico moderno esibisce un
dualismo strutturale, non componibile: da una parte; il mondo variopinto
di cose ed esseri umani con i loro multiformi bisogni soddisfatti
tramite prassi relazionale storicamente e culturalmente differenziata e
articolata, volta alla produzione di oggettività utile alla
soddisfazione del bisogno concreto; dall’altra, una dimensione astratta
fatta di mera ricchezza quantitativa, il cui movimento di espansione ed
accumulazione viene posto in essere da una prassi umana altrettanto
impersonale ed astratta.
«È
qui dunque che si compie, nel suo luogo più proprio, il parricidio del
Marx della maturità nei confronti di Hegel e del suo sistema filosofico.
Non nel suo rifiuto radicale […]. Bensì nell’accoglimento, senza
residuo alcuno, del modello di scienza e di metodo conoscitivo che Hegel
ha elaborato […]. Così il circolo del presupposto-posto in Marx è
analogo e, insieme, profondamente diverso da quello hegeliano».
Ciò
che fa la differenza è di fatto la sostituzione della categoria della
negazione con quella dell’astrazione reale. Se la negazione dà vita a
una dimensione ontologica articolata fondamentalmente sulla
contraddizione; l’astrazione organizza il reale secondo il modo dello
svuotamento dell’interno e della sovradeterminazione della superficie.
L’astrazione reale del capitale – produzione allargata di ricchezza
astratta e impersonale – colonizza il concreto dall’interno,
omologandolo e assimilandolo alle sue leggi; lasciandone con ciò al
tempo stesso solo la figura estrinseca e residuale, la silhouette più
superficiale, che rimane paradossalmente l’unico campo concreto,
tangibile e visibile dell’esperire umano. Tutta la produzione e
accumulazione di ricchezza astratta del capitale e il rapporto di
dominio che si instaura a livello produttivo, viene messa in scena
attraverso un operare di esseri umani, di tecnica e di forze naturali
concrete, dietro le quali si nasconde e si dissimula quell’astratto, il
soggetto non antropomorfo del moderno, che produce e riproduce se stesso
riproducendo tutti i propri presupposti di dominio, di sfruttamento
della forza-lavoro e svuotamento del concreto, ma restituendo di sé
l’immagine variopinta e concreta del mondo libero interdipendente ed
eguale della circolazione di merci e di uomini.
Secondo Finelli,
la critica dell’economia politica marxiana ci restituisce, come una
sorta di «memoria del futuro», ciò che dagli anni Ottanta del Novecento
ai nostri giorni si è realizzato in termini di rivoluzione nelle
innovazioni tecnologiche e nello sviluppo produttivo, ovvero in una
parola il passaggio dal fordismo al postfordismo: «Insomma un transito
epocale dal materiale all’immateriale, simboleggiato dal computer e dal
fatto che la conoscenza sarebbe divenuta la principale forza produttiva
di creazione della ricchezza. Tanto da potersi definire tale genere di
società postindustriale, che avrebbe conclusa quella moderna per dar
vita a una nuova formazione storicosociale, la società appunto del
postmoderno».
In tale rivoluzione tecnologica si nasconde proprio
l’effetto deformante essenza/apparenza, contenuto/contenitore, descritto
sopra, per il quale il nuovo lavoratore, predisposto mentalmente a
interiorizzare il comando della macchina, senza che appaia traccia di
costrizione esterna, si confronta con un apparato tecnico la cui natura
linguistica ne fa per definizione un’alterità dialogica, collaborativa,
addirittura fonte di creatività. A questo punto, l’ideologia del
postmoderno, sintetizzabile nella formula «L’Essere è linguaggio»,
secondo cui non c’è pressoché nulla di oggettivamente vero né di
pensabile in via sistematica, viceversa tutto è segno interpretabile
attraverso segni, si adatta perfettamente al postfordismo – così come
nelle celeberrime pagine della Fenomenologia dello spirito il
linguaggio della disgregatezza si adeguava perfettamente al mondo
liberale della ricchezza – in quanto specificamente prodotto sulla base
di quella rinnovata modalità produttiva che, oltre alla materialità
delle merci, è in grado di generare direttamente anche il simbolico.
Ed
è proprio a quest’altezza della sua lunga e articolata riflessione che
Finelli introduce il fattore Freud. Cioè introduce il tema della
rimozione del corporeo, del pulsionale, dell’individuale irripetibile,
che è stata condotta a termine proprio da questa modalità produttiva.
L’eclissi del corpo, l’anaffettività, la rimozione della dimensione
emotiva: tutti fattori che caratterizzano quello che Finelli ritiene
ormai definibile come l’età dell’ipermoderno: «Nella nostra ipotesi, un
nuovo materialismo non potrà che ripartire da qui: dal riconoscere il
corpo all’origine di ogni operazione pensante e dunque dalla natura una e
bina dell’essere umano, dove l’Uno è il Corpo e Bina è la Mente, in
quanto psichicità che deve, possibilmente, provvedere a prendersi cura, e
a elaborarli per poterli soddisfare, i bisogni della fisicità».
Al
di là dell’evidente declino tutt’ora in atto della metafisica
destrutturalista postmoderna, la filosofia dovrebbe ripartire dalla
specificità irripetibile dell’animale/uomo, cioè dall’ambivalenza mai
sintetizzabile in via definitiva fra mentale e corporeo, ovvero fra asse
verticale dell’individuazione e asse orizzontale della socializzazione.
Il progetto decisamente utopico di rifondazione di un nuovo
materialismo antropologico, che Finelli mette in campo, dovrebbe
pertanto fare tesoro di una concezione emancipatrice e liberatoria
fondata innanzitutto sulla valorizzazione della radice corporea ed
emozionale dell’individualità, lasciando poi cadere, come ormai
inservibile, il marxismo della contraddizione e recuperando invece il
marxismo dell’astrazione.
Il paradigma del riconoscimento di
stampo hegeliano insieme alla psicoanalisi di stampo freudiano vengono
fatti interagire al fine di fondare una «prassi a doppia uscita»,
laddove il lavoro destinato a produrre l’oggetto includerebbe il lavoro
volto a riconoscere il mondo-ambiente, nonché l’intero genere umano,
come fonti e limiti al tempo stesso di una soggettività sottratta alla
manipolazione di sé e dell’altro. L’obiettivo teorico più generale,
tutto da costruire beninteso, sarebbe allora quello di coniugare
felicemente «il materialismo dell’economia libidica con il materialismo
della critica dell’economia politica, emendata però da ogni filosofia e
metafisica della storia».
Il testo di Finelli, in conclusione,
potrebbe essere interpretato come un rilancio di stampo decisamente
hegeliano di quella dimensione soggettiva del Geist che, lungi dall’essere il luogo dell’arbitrio individuale, del singolo ut sic,
espone tutto il dualismo e l’ambivalenza, anche aporetica, nella quale
viene a trovarsi la natura dell’uomo, il Proteo che sempre si trasforma.
In questo senso, la coppia con Freud non può che essere d’obbligo.
D’altra parte, Finelli tradisce Hegel, ossia esattamente l’intento
sistematico della filosofia hegeliana, per la quale la dimensione
soggettiva non può essere scissa da quella oggettiva del diritto, della
morale e della politica. La filosofia appunto configurandosi come lo
sguardo sintetico superiore che deve abbracciare entrambe.
Anche
con il Moro di Treviri, ma ancora di più con il «marxismo senza
capitale», Finelli sembra fare i conti in via quasi definitiva. Da
rifiutare è certamente a suo avviso l’idea di prassi fondata sulla
contraddizione/lotta di classe. Sarebbe quest’ultima una metafisica o
una ingenua filosofia della storia, che non si avvede del fatto che il
soggetto della modernità, il soggetto che fa la storia, non è
esattamente e propriamente un soggetto (una classe, un ceto, un gruppo
di potere, lo Stato, ecc.), ma un oggetto, ovvero nient’altro che una
cosa: das Kapital.
Il rilievo critico, quello che sorge
spontaneo al lettore interessato e catturato dalla disamina assai
articolata offertaci dal testo, è la problematicità dell’esito cui
giunge Finelli. La proposta di un materialismo rinnovato dalle
fondamenta, che abbia forza pratica oltre che teorica, si prospetta in
termini utopici, senza però che vi sia l’individuazione di una
soggettività, qui ed ora, in grado di sopportare la fatica, tutta da
misurare, di costruire un futuro di liberazione, che appare oggi assai
sfumato, di là da venire, sfuggente e indeterminato.
Note
1 R. Finelli, A failed parricide. Hegel and the young Marx, Brill, London 2016.
2 Cfr. http://www.versobooks.com/blogs/2736-2016-deutscher-prize-shortlistannounced.
3 K. Marx, Critica del diritto statuale hegeliano, trad. e comm. di R. Finelli e F.S. Trincia, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983.
4 Cfr. “Una libertà post-liberale e post-comunista”, in: R. Finelli, Tra moderno e postmoderno, PensaMultimedia, Lecce 2005, pp. 319-345; cfr. la recensione in “Dialettica e Filosofia”, http://www.dialetticaefilosofia.it/scheda-dialetticasaggi.asp?id=37].
Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n° 1-2/2016, dal titolo "Questioni e metodo del Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà, pp. 347-354. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/617
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