sabato 21 gennaio 2017

I tempi lunghi della sinistra per uscire dal ghetto di Alberto Burgio

Ci sono tutti gli ingredienti per considerare questo un momento delicato, se non proprio cruciale. Da una parte c’è un governo precario, nato, stando all’ufficialità, per fare la legge elettorale e portare il paese alle urne, benché la missione sia un’altra.
Quella di far decantare la batosta del referendum e far maturare il diritto al vitalizio per i parlamentari in carica. Dall’altra, la sinistra sembra nuovamente in grado di svolgere un ruolo, benché frammentata tra le anime belle della minoranza Pd (un paradigma di subalternità) e il cantiere in perenne ristrutturazione della cosiddetta sinistra radicale, paralizzata dall’eterno dilemma tra intransigentismo e realismo.
Si capisce che ci si interroghi su come trarre vantaggio dalla congiuntura, ma come stanno le cose? È davvero ragionevole attendersi sviluppi positivi?
Facciamo come al cospetto di un dipinto di grandi dimensioni, indietreggiamo per cogliere la scena nel suo insieme. Sul piano sociale, una crisi sempre più severa: poco lavoro (e sempre più precario e mal pagato); quindi diffusa povertà, mentre lo Stato sociale (ma anche la scuola e l’università, per non dire del territorio e delle infrastrutture) fa acqua da ogni parte. Né potrebbe essere altrimenti, con buona pace del ministro Padoan novello critico dell’austerity, visto che – al netto della crisi mondiale – su nessun altro paese «avanzato» grava (protetta da tutti i governi) una manomorta strutturale come quella costituita in Italia da corruzione, evasione ed elusione fiscale; e dato che nessun paese industriale può permettersi una cronica mancanza di politiche industriali e di investimenti nella ricerca tecnologica.
Sul piano politico, una crisi verticale della rappresentanza alimenta l’astensionismo e fa la fortuna di imprenditori della protesta capaci di incanalare il risentimento dentro una generica critica del sistema. È questa una situazione non priva di pericoli ma in teoria ottimale per la sinistra, perché cosa c’è di più fecondo di una crisi che nasce dalla sofferenza del mondo del lavoro e che nessuna forza conservatrice è in grado di affrontare? Eppure la sinistra nel suo intero, dentro e fuori il Pd, raccoglie oggi forse un 10% dei consensi. Quindi da una domanda bisognerebbe partire, al di là delle scelte tattiche o di convenienza: perché questa persistente marginalità che non accenna a venir meno, che anzi si stabilizza e tende ad apparire inevitabile?
Propongo due risposte, inevitabilmente sgradevoli, che riguardano le due componenti della sinistra.
Per quanto concerne la crisi della sinistra Pd penso che essa rifletta le sue enormi responsabilità nel disastro abbattutosi sul lavoro in questi trent’anni. Il problema non è che Bersani e D’Alema non critichino l’Europa nemmeno quando ammettono di essersi sbagliati sul conto della globalizzazione neoliberale. È che questa autocritica è superficiale e di facciata. Spieghino quali furono le cause (ideologiche e politiche) di quell’errore e quali, soprattutto, le sue conseguenze (politiche e sociali). I loro silenzi mostrano che siamo lontani anni luce dal superamento di una prospettiva che ha disancorato la parte maggioritaria della sinistra italiana dal conflitto sociale, o meglio: che l’ha di fatto schierata dalla parte del grande capitale, privando il paese di un’efficace forza di opposizione radicata nel mondo del lavoro.
Quanto alla sinistra «radicale», reca anch’essa serie responsabilità. Che risalgono in parte agli anni Novanta (quando le scissioni del Prc uccisero la speranza di contrastare efficacemente la Bolognina) ma che perdurano: che concernono l’incapacità di rinnovarsi (nonostante la lunga sequenza di sconfitte) ed evocano gli spettri del settarismo (il male antico della litigiosità interna) e del carrierismo.
Tutto questo per dire che la sinistra italiana è marginale (a guardar bene dalla fine del Pci) e tale resterà nonostante sussistano in linea di principio le premesse per una riscossa.
Nel Pd non succederà nulla, ma soprattutto, anche in caso di scissione, che cosa ce ne faremmo di un Bersani e della sua scuola? Non succederà nulla neanche a sinistra del Pd, dove tutte le manovre in corso alludono al perpetuarsi della situazione attuale, con un drappello di parlamentari intenti a esercitare il «diritto di tribuna» nel teatro politico. Il che non solo giova a poco (salvo che a un’infantile nostalgia identitaria) ma, come ogni finzione, sortisce anche effetti perversi.
C’è un’alternativa? Si potrebbe fare qualcosa per uscire da questo ghetto? Nell’immediato probabilmente no. Non basta la buona volontà per lasciarsi alle spalle una distruzione sistematica e capillare. Sarebbe tuttavia già un passo avanti riconoscere che la sinistra in Italia (come in tutta Europa) risorgerà solo se e quando una nuova leva di animali politici nascerà direttamente nei luoghi del disagio sociale e del conflitto, lungo i confini fisici e simbolici delle nostre città.
ALBERTO BURGIO

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