giovedì 31 luglio 2014

Senza investimenti né credito. La crisi italiana parte da qui di Claudio Conti, Contropiano.org

Senza investimenti né credito. La crisi italiana parte da qui

Alla fine ci arrivano anche gli economisti normali: la crisi italiana è parte – ovviamente – della crisi globale, ma possiede una sua specificità: gli imprenditori italiani non vogliono investire soldi propri (a proposito di “amore per il rischio di impresa”) e le banche non intendono fare credito alle imprese impegnate nell'economia reale (troppo lunghi i tempi di ritorno del profitto).
Le ragioni che mantengono in vita questa paralisi totale sono oggetto di interpretazioni anche diverse, alcune persino condivisibili – sul piano puramente analitico – quando incentrate sul carattere “oggettivo”, non superabile volontaristicamente, del “sistema” in cui ogni soggetto economico è costretto. Le banche, per esempio, trovano più “facile” e soprattutto redditizio investire in prodotti finanziari, in fusioni societarie, ecc; mentre – dice ad esempio Alessandro Pansa sul Corriere della Sera - “non hanno più le competenze interne per valutare lo sviluppo di una nuova macchina utensile o di una linea di montaggio”. O sei un'azienda già quotata in borsa, oppure ti guardano come un rebus, non un'occasione di business.
È il risultato di aver trasformato l'attività finanziaria in una “industria a sé stante”, superando la fase “eroica” del servizio alla manifattura. Chiaro che dopo vent'anni non ci sono più crediti a disposizione di imprenditori peraltro già restii a metterci capitale proprio. Il “paese” perde competenze in tutti i campi e diventa “inadeguato sul piano strutturale, quanto a patrimonio tecnologico, infrastrutture, sistema dei prodotti, dimensione e composizione azionaria delle imprese”.
Una situazione del genere non la rianimi abbasando i salari o cancellando le regole del mercato del lavoro, perché il vantaggio competitivo derivante dai salari più bassi (siamo già al “lavoro volontario e gratuito”, nel caso dell'Expo 2015) è sensibile soltanto per le imprese tecnologicamente più arretrate, le uniche in cui la voce “costo dle lavoro” rappresenta una percentuale maggioritaria della struttura dei costi.
È per questo che aumenta il numero di coloro (da Confindustria a Confcommercio, ed ora anche a numerosi analisti mainstream) che chiedono ora una “banca di investimento”, appositamente dedicata al credito per le imprese. Qualcuno, come il già citato Pansa, pensa che questo possa essere l'avvio di una “politica industriale”, inesistente da decenni in questo paese (grosso modo da quando è stata sciolta l'Iri e sono entrati in vigore i trattati di Maastricht, con i relativi divieti per gli investimenti pubblici). Un'illusione, naturalmente. Ma anche un segnale che il punto di non ritorno del “sistema paese” sta per essere superato. Se ciò è vero – e lo è certamente – non ha più senso continuare a recitare le giaculatorie neoliberiste (specialità renziana, così come lo erano per Monti e Letta, e tutti quelli al servizio diretto della Troika) sulla “mano invisibile del mercato” che mette spontaneamente tutto a posto.
Bisogna aumentare gli investimenti e serve una banca per metterli in moto.
Ovvio. Ma che banca dovrebbe essere? O meglio, chi dovrebbe metterci il capitale iniziale? Difficile che possa essere un “grande istituto di credito” (se non in piccolissima parte) o un grande gruppo assicurativo (per le stesse ragioni). Non è il loro business, non sanno dove mettere le mani se qualcuno gli presenta un piano industriale fatto di macchine industriali. E allora non resta che chiedere all'odiato “pubblico”, ovvero allo Stato, di mettere in moto la prima palla di bene, sperando che diventi valanga. Non si contano più quelli che suggeriscono di usare parte del patrimonio liquido della Cassa Depositi e Prestiti (ci aveva provato già Tremonti) come “sangue fresco” per una nuova banca così finalizzata.
L'idea è in fondo semplice: prendiamo un po' di risparmi popolari (la Cdp è nutrita dai risparmi depositati presso Poste Italiane, in pratica la cassaforte dei pensionati) e diamo soldi agli imprenditori che nn vogliono rischiare soldi propri.
Alla canna del gas, vogliono fare i keynesiani coi risparmi del vecchio nonno. Davvero “innovativi”...

mercoledì 30 luglio 2014

La guerra di Gaza come cattiva coscienza dell’occidente di Il Simplicissimus

Borbardamento su GazaDa molti giorni, da quando è cominciata l’ennesima tragedia di Gaza, non sento che deprecare le vittime civili dell’ennesimo tentativo israeliano di liberarsi di Hamas. In un certo senso è un po’ come stare al gioco delle bugie sulla guerra che delibiamo ormai da decenni è che parlano di danni collaterali, bombe intelligenti, di “terroristi” che si fanno scudo dei civili e così via a seconda delle convenienze e delle occasioni, tutte cose che rimandando a una sorta di guerra ideale che non è mai esistita. Si tratta semplicemente di uno scivolo offerto alla cattiva coscienza, ma che suona bugiardo come il diavolo perché spesso le vittime civili, sono il vero obiettivo, quello che deve spezzare i legami tra insorti e popolazioni o deprimere il morale o terrorizzare le truppe effettivamente combattenti, propiziare la caduta di regimi e governi scomodi. Come dice il generale Fabio Mini che si intende di “missioni di pace”, in particolare di Kossovo, dice esplicitamente in un suo saggio: ” I ciarlatani che giustificano militarmente i danni collaterali sono degli analfabeti. Con le nuove armi i danni collaterali dovrebbero tendere a zero, ma contro i nuovi avversari arcaici e disperati, senza infrastrutture militari e siti produttivi da distruggere per piegarli, non ci sono che le case, le chiese, le moschee, gli uomini, le donne i i bambini che sono facili obiettivi.”
E del resto uno studio svolto nell’ambito della London school of economics, si mostra come nella prima guerra mondiale solo il 10% delle vittime furono civili, nella seconda, escludendo i campi di sterminio, le vittime collaterali salirono al 50% e oggi sono oltre l’ 80%.
Tutto questo a Gaza assume il carattere di emblema e le bombe infliggono danni all’ipocrisia in cui viviamo. Intanto in territorio con un milione e ottocentomila abitanti su 360 chilometri quadrati, ossia con una densità di popolazione superiore a quella di Roma, è assolutamente impensabile una guerra pulita che oltre tutto ottemperi al diritto internazionale che vorrebbe i beni civili al riparo da distruzioni. In un’area simile non esiste missile o proiettile intelligente che tenga o precauzione umanitaria reale o di semplice fantasia che possa servire: un attacco di questo genere prevede già da subito che i danni collaterali siano molto superiori a quelli che si vorrebbero infliggere all’avversario armato.
Dunque gli oltre 1100 morti pesano completamente sul governo reazionario di Tel Aviv, senza possibilità di scuse pretestuose. Del resto l’obiettivo di questo come di altri raid è esattamente quello di rendere impossibile la vita della popolazione della striscia e indurle a una diaspora per non dover vivere in una continua angoscia del futuro . “Falciare l’erba alta di Hamas” ha precisamente questo significato anche perché se volesse intendere solo la distruzione dei tunnel si tratterebbe di un’operazione assai più indolore e circoscritta: Israele ha tutti i mezzi tecnologici e d’intelligence per individuarli e probabilmente potrebbe “vederli” e distruggerli man mano che vengono realizzati, se non fosse che la sindrome dell’assedio e qualche dramma ogni tanto è molto conveniente per l’attuale sistema politico israeliano e tutta la galassia consustanziale dei gruppi religiosi integralisti che possono rimanere incontrastati al potere e addebitare sui figli e i nipoti il rendiconto della situazione che si sta perpetuando. Qualcosa che conosciamo bene anche se in un altro contesto. Il perimetro da sorvegliare è peraltro di qualche decina di chilometri, non si tratta certo di una impresa titanica oltre al fatto che la distruzione degli attuali camminamenti non significa che altri non possano essere costruiti in futuro .
Insistere negli attacchi e negli embarghi significa che prima o poi chi può si allontanerà spontaneamente e qualcuno volontariamente, per interessi interni o su pressione esterna aprirà le frontiere ai gazesi e li accoglierà come profughi. La vera guerra che Israele sta combattendo non è contro Hamas è contro la demografia che lavora a sfavore di uno stato che ancora non scorge nella pace l’unica via verso il futuro: la popolazione araba all’interno dello stato aumenta costantemente ed è ormai al 20% nonostante l’apartheid di fatto cui è sottoposta, la striscia di Gaza ha un quarto della popolazione dello stato ebraico per non parlare degli altri vicini: come è sempre accaduto fin da quando esistono documentazioni al riguardo, le aree ricche e le classi dominanti tendono in tempi medio lunghi alla contrazione demografica, mentre quelle più povere tendono sempre a un bilancio positivo. In questo quadro sono proprio le vittime collaterali che contano: esse rafforzano Hamas, ma indeboliscono Gaza e il nucleo di uno stato palesinese che essa rappresenta.
Così non può certo stupire che l’occidente sia sempre così tardivo, tiepido, inconcludente, ambiguo nel tentare di sedare o fingere di la guerra endemica israelo palestinese e i suoi tragici accessi febbrili: non solo essa è funzionale agli scontri globali e alle guerre del petrolio, ma in qualche modo è un condensato della situazione storico – psicologica che esso stesso sta vivendo nel momento in cui è “invaso” dalle popolazioni che ha in qualche modo sfruttato non consentendone un progresso in loco e dopo aver perso l’assoluta preminenza tecnologica che ha avuto per più di due secoli, si sente circondato ed è sempre più tentato di dare l’unica risposta nella quale ha ancora un margine di superiorità, se non altro verso i soggetti più deboli, ossia quella militare. Di qui la difficoltà a condannare chi nel piccolo teatro di quella che era la provincia di Iudaea o Palestina sotto l’impero romano, fa ciò che è nel retropensiero del nuovo impero americano con le sue provincie europee come appendice. Ucraina docet. Paradossalmente sfrutta i sensi di colpa che ha nei confronti del popolo ebraico per rendere attiva una nuova cattiva coscienza che lo rappresenta pienamente. A tal punto che spesso l’appoggio alla causa palestinese scivola quasi naturalmente nel tradizionale solco dell’antisemitismo più sordido e ipocrita, mentre la difesa della democrazia di Israele, peraltro deturpata, deviata e resa poco più che formale dallo stato di guerra come le nostre dallo stato di crisi, provocato dal liberismo selvaggio, non è che un paravento per pulsioni inconfessabili.

I conti non tornano e l'Europa bussa. Che fare? di Luigi Pandolfi, www.huffingtonpost.it

Dopo l'Istat, Bankitalia, la Confindustria ed il Fondo Monetario Internazionale ci si mette anche la Confcommercio: l'agognata ripresa non ci sarà nemmeno quest'anno ed il Pil registrerà, se tutto andrà bene, una crescita di un misero 0,3% (c'è però chi parla di una forbice tra -0,4% e +0,3%), più o meno la stessa percentuale prevista per l'aumento dei consumi grazie al bonus irpef.
Numeri freddi, che apparentemente non dicono granché. Il guaio è che sembrerebbero non dire alcunché neanche al giovane premier Renzi, che proprio qualche giorno fa ha sentenziato: "Se la crescita è 0,4 o 0,8 o 1,5 non cambia niente per la vita quotidiana delle persone".
Chi vi ricorda? A me ricorda un signore che nel momento più burrascoso della crisi economico-finanziaria che dagli Usa stava pesantemente contagiando il Vecchio Continente se ne usciva con perle come questa: "Mi sembra che in Italia non ci sia una forte crisi. La vita in Italia è la vita di un Paese benestante, i consumi non sono diminuiti, per gli aerei si riesce a fatica a prenotare un posto, i ristoranti sono pieni".
Si, si, proprio lui, ma ora dobbiamo tornare ai numeri, che a Renzi non dicono niente, ma agli italiani potrebbero da qui a poco dire molto. Nell'ultimo Documento di Economia e Finanza (Def 2014) il governo si è dato per l'anno in corso, in ottemperanza ai vincoli europei, i seguenti obiettivi: deficit in rapporto al Pil al 2,6%, debito pubblico al netto dei prestiti agli stati membri dell'Unione monetaria (EFSF) e delle quote versate al Fondo Salva Stati (MES) al 131,1 % del Pil, indebitamento netto strutturale (al netto delle una tantum e della componente ciclica) allo 0,6% del Pil.
Tali obiettivi sono stati fissati sulla base di una previsione di crescita del Pil pari allo 0,8%, una percentuale già allora definita "prudente", che oggi, invece, si rivela addirittura sovrastimata. Tenendo conto che le percentuali di cui sopra derivano da un rapporto al cui denominatore c'è sempre la ricchezza nazionale (Pil), se quest'ultima si attesta al di sotto delle stime ufficiali a saltare è l'intera impalcatura dei conti pubblici, ovviamente in relazione ai vincoli ed alla governance europea. Si può quantificare il "buco" che tale situazione andrebbe a determinare? Quanti soldi servirebbero per riportare la situazione in equilibrio, rispettando i vincoli del patto di bilancio europeo?
Nelle ultime ore girano sui media molte cifre, in ogni caso oscillanti tra 10 e 20 miliardi di euro. Il governo nega, dal suo canto, il ricorso ad una manovra correttiva in autunno. Certo è che mezzo punto di Pil, quanto servirebbe per stare dentro le previsioni del Def, equivarrebbe più o meno a 8 miliardi di euro, avendo come riferimento il dato finale del 2013. E ancora non è chiaro come si chiuderà la partita delle coperture finanziarie relativamente ai "magnifici" 80 euro. Intanto il debito pubblico nel primo trimestre di quest'anno è salito al 135,6% del Pil (2170 miliardi), con un aumento in termini assoluti nel solo mese di maggio di ben 20 miliardi di euro.
Nel già citato Documento di Economia e Finanza, oltre ad una più rosea previsione sulla crescita del Pil, un'altra voce faceva da sfondo al quadro programmatico della finanza pubblica: le "riforme strutturali", quelle "annunciate" e quelle "in parte avviate".
Posto che l'esito recessivo, almeno in una prima fase, delle cosiddette "riforme strutturali" è fortemente probabile, qual è il loro stato di avanzamento? Il Financial Times, in queste ore, ricorda che Poste Italiane non sarà quotata in borsa quest'anno, ma l'anno prossimo e che sarebbe a rischio anche la privatizzazione del 49% di Enav, la società che gestisce la sicurezza dei cieli italiani. Il governo aveva previsto di incassare da queste operazioni 12 miliardi di euro, potrebbe racimolarne 5-6.
Resta sospeso il capitolo sul pareggio strutturale di bilancio. Nel Def di aprile, e con una apposita risoluzione approvata dal parlamento, se n'era spostato al 2016 il conseguimento. Com'è noto l'Ecofin, poi il Consiglio europeo, hanno bocciato il proposito del nostro paese. Se avessimo dovuto rispettare la scadenza del 2015, alle previsioni del Def 2014 sarebbero serviti già quest'anno altri 4 miliardi. Quanti ne servirebbero adesso che si stima una crescita vicina allo zero? Ma soprattutto: l'obiettivo dovrà essere centrato nel 2015 o nel 2016? Mi sembra che non sia una questione di poco conto.
Questo è lo scenario che abbiamo davanti mentre tutto il dibattito politico è sequestrato dal tema delle "riforme istituzionali", che, a questo punto, non si capisce se servano soltanto a chiudere altri spazi di democrazia ovvero anche a distrarre l'opinione pubblica ed i media da questioni più scottanti come quelle di cui ci occupiamo in questo articolo.
I conti non tornano e l'economia ristagna, con livelli di disoccupazione da allarme sociale. Eppure, per stare nei parametri europei, in autunno sarà inevitabile rimettere mano ai conti pubblici. Nuovi tagli? Nuove tasse? Ma soprattutto: il paese reggerebbe a nuove e più massicce dosi di austerità? Negare che sia necessaria una manovra correttiva è legittimo, purché si dica qual è l'alternativa. A meno che il giovane premier non abbia in mente di passare dalle parole ai fatti, chiedendo una moratoria sui vincoli del patto di bilancio e sul Semestre europeo (Ciclo di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio nell'ambito dell'UE). Staremo a vedere.

Piccole imprese: una scomoda verità da http://keynesblog.com

E’ noto che il nostro paese si caratterizza, al confronto dei nostri principali competitor, per una composizione del tessuto produttivo largamente spostata sulle piccole imprese:
Schermata da 2014-06-01 21:24:39
Fonte: Istat/Eurostat
Si tratta, come si evince dal grafico su riportato, di una caratteristica comune ai paesi meridionali europei come Grecia, Cipro, Spagna e Portogallo.
L’Italia ormai da alcuni decenni è vittima della retorica del “piccolo è bello”. Una volta patrimonio della sola DC, ora l’idea che un tessuto produttivo fatto di piccole imprese sia un vantaggio nella competizione internazionale, o che esse creino più posti di lavoro delle grandi imprese e per questo vadano premiate, è diventato un luogo comune a destra quanto a sinistraSi badi che questa affermazione – le piccole imprese creano più lavoro – sottende un’ipotesi nascosta e cioè la minore produttività. Se per costruire uno spremiagrumi in una grande impresa servono, poniamo, 3 persone per 8 ore, in una più piccola, che non può godere delle economie di scala possibili in grandi impianti industriali, ne serviranno 6 per otto ore o 5 per nove ore. In sostanza si sta dicendo che è meglio essere meno produttivi perché questo crea più posti di lavoro, invece di dire che è meglio essere più produttivi per poter lavorare meno.
Come vedremo i dati confermano questa ipotesi implicita.
Schermata da 2014-06-01 23:32:07
Fonte: Istat, dati riferiti al 2009
Si tenga conto che la classe di addetti sotto i 9 dipendenti è fortemente distorta dalle cosiddette “partite iva”, forme di autoimpiego (quando va bene) o di lavoro dipendente mascherato (quando va male) e dalle imprese strettamente familiari (moglie e marito, padre e figlio). Per equità di giudizio possiamo quindi trascurarla.
Cosa si deduce dalla tabella su riportata?
1. C’è una correlazione positiva tra dimensione delle imprese e produttività (misurata in termini di valore aggiunto per addetto). In altri termini, più grande è l’impresa più produttivi sono i lavoratori.
2. C’è una correlazione positiva tra dimensioni dell’impresa e retribuzione dei lavoratori. Più è grande un’impresa, maggiori sono i salari.
3. C’è una correlazione negativa tra numero di ore lavorate e dimensione dell’impresa. Più grande è un’impresa, meno lavora il suo dipendente.
4. Le grandi imprese investono di più per addetto (ma guadagnano anche di più)
Riassumendo: nelle piccole imprese si produce di meno per addetto, si lavora di più ma i salari sono più bassi. Una scomoda verità che viene spesso trascurata o sottaciuta.
Non sorprende quindi che, stante questa situazione, l’Italia abbia problemi di competitività, anche al di là della vexata quaestio dell’euro. Ma quello che è più importante notare è che la piccola impresa non solo crea meno ricchezza rispetto alla grande, ma ne ridistribuisce meno attraverso salari e stipendi. Anche al di là dei problemi di competitività internazionale, il “nanismo” dell’impresa italiana crea dei colli di bottiglia che si ripercuotono sui prezzi, non essendo possibili economie di scala, e sui salari, poiché l’unico modo di ridurre il costo per unità di prodotto rimane quello di ridurre il costo del lavoro.
Non bisogna quindi cadere nella trappola retorica, ampiamente propagandata da politici di ogni provenienza (e disgraziatamente anche da alcuni economisti), secondo cui la piccola impresa è l’asset su cui puntare per crescere. E’ anche grazie al luogo comune del “piccolo è bello” che abbiamo smesso di fare politica industriale e ci siamo fatti ingannare dalle favole delle start up e dell’autoimpiego, sperando invano che nella competizione nascesse spontaneamente una Microsoft o una Google (a tale proposito giova leggere “Lo Stato innovatore” di Mariana Mazzucato, appena uscito in libreria).
Senza una seria politica industriale siamo invece rimasti incastrati in produzioni tradizionali a minore valore aggiunto, quelle via via abbandonate dai nostri competitor, ma siamo anche riusciti a far morire la nostra chimica e ora rischiamo di perdere la siderurgia. Anche nei settori dove eccelliamo – principalmente la meccanica – rimaniamo per lo più subfornitori dei grandi gruppi esteri, dai quali poi importiamo i prodotti finiti e i beni capitali che contengono anche nostri componenti. Il paradosso è evidente: chi difende acriticamente il paradigma della piccola impresa e non si pone il problema di superare il “nanismo” italiano, fa esattamente il gioco dei grandi capitali del centro Europa.
In pochi – tra questi, meritoriamente, Marcello De Cecco – hanno avuto il coraggio di pronunciare la scomoda verità sul “nanismo” delle imprese italiane, attirandosi gli strali dei difensori ad oltranza dello status quo. Il perché è semplice da capire: i piccoli imprenditori sono tanti. E votano.
Non si tratta, ovviamente, di abolire le piccole imprese per decreto. Piuttosto si tratta di ritornare a fare politiche industriali, investire sulle imprese pubbliche strategiche (a incominciare da Enel ed Eni), puntare ad un allargamento della base produttiva in settori avanzati a più alta intensità di tecnologia, invertire il processo di privatizzazione partito negli anni ’90, rilanciare la ricerca pubblica per compensare la carenza sistemica di ricerca privata (come conseguenza sia dell’eccessiva frammentazione del capitale, sia dell’eccessiva presenza di settori tradizionali), promuovere il credito pubblico (ad esempio ampliando l’intervento della Cassa depositi e prestiti) e favorire, non demonizzare, una minore frammentazione del capitale tra milioni di piccolissime imprese.
Questo se si vuole uscire dalla “trappola della mediocrità” nella quale l’industria italiana è incastrata da 20 anni, anche grazie all’oggettiva difficoltà per le piccole imprese di innovare prodotti e processi.

martedì 29 luglio 2014

Dai luoghi di lavoro assemblea degli autoconvocati per una Sinistra unita


PERUGIA - 10 milioni di poveri, se l’Italia si facesse un Selfie, avrebbe il volto della miseria e della diseguaglianza, insopportabile e feroce.
Negli ultimi 20 anni una quantità incalcolabile di quello che era il reddito da lavoro, quello che ci rendeva un Paese prospero e ottimista, è passato nelle gabbie della speculazione, che ha reso pochissimi sempre più ricchi e milioni di famiglie intollerabilmente più povere, milioni di giovani derubati del proprio futuro.
Nel pieno della più grave crisi degli ultimi 70 anni, tutti i governi che si succeduti, hanno insistito nel precarizzare il lavoro, nel privatizzare, nel tagliare i diritti e servizi in nome di una ideologia neo liberista, che è la causa principale della crisi.
Tutto ciò è avvenuto nell’assenza pressoché totale di una sinistra politica e sociale capace di controbattere questa tendenza, anche in Umbria, con le sue specificità non si è riusciti a creare un alternativa a questo declino.
In Umbria si è concretizzata una crisi del modello di sviluppo basato su bassi salari poca ricerca poca innovazione portando alle condizioni di deindustrializzazione che ci ha fatto perdere 27 mila posti di lavoro negli ultimi anni.
Allora cominciamo da noi:
Siamo lavoratori e lavoratrici elette nelle rappresentanze sindacali e rivolgiamo il nostro appello e la nostra disponibilità, per la costruzione di un nuovo soggetto unitario della sinistra, la grande assente in questi anni in Italia.
Le ultime elezioni Europee hanno dato un primo, debole, segnale in controtendenza, con lista “l’Altra Europa”. Questo segnale non va lasciato cadere, ma occorre lavorare tutti e tutte perché il progetto di unire la sinistra dei diritti, della democrazia dell’ambiente, ma soprattutto del lavoro si rafforzi nella politica e nella società. Per questo ci autoconvochiamo a settembre in un’assemblea regionale, aperta e democratica,senza steccati identitari, in cui ognuno possa portare il proprio contributo, collettivo e personale purchè vada nella direzione di rafforzare e valorizzare un percorso di unità politica della sinistra.
Non possiamo permetterci di perdere altro tempo, ne va del nostro futuro!!
Nico Malossi, RSU Umbria Cuscinetti
Nicola Gatticchi, RSU Cartoedit
Leonardo Moretti, RSU Oma Tonti
Diego Mariotti, RSU Tomassini
Adrio Rinalducci, RSU Isa
Roberto Ghiandoni, RSU Iverplast
Annalena Stocchi, RSU Filcams
Marta Bertoldi RSU Provincia
Stefano Garzuglia RSU Ast
Rossella Alliegro RSU Scuola
Isabella Caporaletti RSU Banca Popolare di Spoleto

Aereo abbattuto: la Malesia disubbidisce a Obama di Il Simplicissimus

Boeing malesiano, natoForse è la prima volta che un presidente americano viene ridicolizzato in maniera così clamorosa: mentre Obama s’ingegna a fra passare la tesi che siano stati i filorussi ucraini ad abbattere il Boeing della Malaysia Air , il primo ministro malese, evidentemente il più interessato ad andare a fondo alla tragica vicenda, dice in Parlamento che gli Usa stanno strumentalizzando la vicenda: Ci sono ancora molte domande a cui rispondere, prima di poter trarre delle conclusioni sulle ragioni di questa tragedia. Mentre gli Usa stanno facendo accuse sbagliate e premature contro la Russia e i miliziani”.
Che le presunte prove di Washington siano così inconsistenti da non poter essere nemmeno “appoggiate” con confuse immagini da satellite, tipo quelle jugoslave delle sterrature agricole fatte passare per fosse comuni, attribuendone tout court ai serbi la responsabilità, è evidente: in questo caso non si tratta di trovare un pretesto per dare avvio ai bombardamenti, ma di creare un elemento di pressione mediatica per far passare muove sanzioni alla Russia, verso le quali i Paesi europei sono costretti ad allinearsi, mentre segretamente mugugnano e recalcitrano. Ma il contesto in cui l’operazione è stata pensata, quel mondo unipolare e monoculturale che doveva sancire la fine della storia, si sta disgregando velocemente: l’intervento del primo ministro malese cade come un masso sulla politica americana e non a caso è stato espunto dai bollettini dei giornaloni. Un masso che va ben oltre la vicenda in sé e lo scontro sulle responsabilità: dimostra come un Paese che ha ottimi rapporti con gli Usa e che anzi Washington vorrebbe ingaggiare nell’azione di controbilanciamento della Cina, come con grande enfasi fa notare l’Aspen Institute, non si fa mettere i piedi in testa, non aderisce alla verità dettata dalla Casa Bianca e asseverata dai media.
E’ chiaro che Paesi in via di rapida industrializzazione come quelli dell’Asean di cui fa parte la Malesia, stanno scorgendo con sempre maggiore chiarezza i vantaggi del giocare in un mondo ormai multipolare e non vogliono sentirsi legati mani e piedi dagli interessi imperiali di Washington: per questo si sfilano dai giochini occidentali, anche quando ne sono coinvolti in prima persona e ridicolizzano l’ambigua subalternità europea agli Usa, per cui si cerca sottobanco di non perdere mercati e rifornimenti energetici, ma ufficialmente si appoggiano le pulsioni di guerra americane. Sono davvero lontani i tempi in cui l’Europa poteva essere vista come una sfida globale agli Usa: tocca ad altri rimettere in moto la storia, mentre il vecchio continente non è che un cascame delle sue stesse speranze.

Sulla crisi, gufi contro ottimisti due a zero


Sulla crisi, gufi contro ottimisti due a zero

Quando si attuano politiche di restrizione dei bilanci pubblici, seguito da una politica di maggiore prelievo fiscale il risultato prevedibile è che la domanda di beni e servizi cali, e il Pil venga ulteriormente depresso».
E’ uno dei fondamentali dell’economia classica, studiato fin dai primi anni dell’Università. Dinamica di redistribuzione della ricchezza prodotta in un Paese. Per Renzi questa semplice verità ricordata da economisti e studiosi è sinonimo di “gufare”.
Qui non si tratta di concezioni ideologiche o di modi di vedere la realtà, ma di concetti economici e l’economia - pur non essendo una scienza esatta - è pur sempre basata su conseguenzialità fra causa ed effetti e su rilevazioni di dati statistici ed empirici. Si può anche prendere un abbaglio, credere che una certa cosa possa causare un certo effetto, ma quando questi effetti non arrivano e, anzi, la situazione peggiora, due sono le cose. O non si sa leggere la realtà, non si vuol prendere atto della realtà, non si ha il coraggio di ammettere di essersi sbagliati, oppure….oppure si spaccia di voler raggiungere un certo effetto, ma in realtà si vuole ottenere l’effetto contrario.
Proprio quello che la realtà mostra. E poiché questa situazione perdura da almeno quattro governi e quattro leader salvifici, "la seconda che ho detto" mi pare la più probabile.
Ora tutti i dati macroeconomici riferiti al nostro paese (ma si può estendere a tutti i paesi quantomeno dell’area UE.; ma questo è un altro tempo dello stesso film) rilevano sistematicamente e periodicamente un peggioramento costante e sistematico, puntuale in termini di occupazione, PIL, crescita, bilancia dei pagamenti, deficit del bilancio statale ecc. ecc. . Esattamente tutti parametri che si dice (a parole) di voler combattere.
Non vi è un solo dato - sia di lungo che di breve medio periodo - che indichi un se pur lieve miglioramento. Ma che dico, un mantenimento rispetto al periodo precedente.
Eppure per Renzi e per le sue ragazze pon pon chi lo fa notare è un “gufo”, un “menagramo”, un “disfattista”, un “comunista”, oserei dire!
Il FMI e Bankitalia hanno abbassato la previsione di crescita prevista dal governo italiano! E chi se ne frega!c ”Che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente dal punto di vista della vita quotidiana delle persone». QUesta è stata la risposta di Renzi! Noi abbiamo dato 80 euro agli italiani, risponde in un talk show alla domanda che gli viene posta da una componente delle "ragazze vetrina".
Intanto quegli 80 euro sono, al momento, solo una una tantum, stando al DEF. E la speranza di chissà cosa, di fronte a questo gesto propagandistico, cozza con la realtà che vede i risparmi dei lavoratori consumati ed erosi in questi anni di crisi; e quegli 80 euro sono stati solo un sorso (certo meglio di niente, ma non certo di acqua benedetta con effetto miracoloso) per pagare debiti e non certo per tradursi in consumi (anche questo era stato previsto dai “gufi”).
Inoltre questa regalia si inserisce in una manovra complessiva di restrizione del bilancio. Cioè attuare un prelievo fiscale che eccede la spesa pubblica al netto degli interessi. Questo significa che i cittadini e le imprese si trovano da un lato con 80 euro in più, ma dall'altro lato registrano tagli ulteriori ai servizi e aumenti delle tariffe. Come questo possa tradursi in maggiori consumi è un mistero.
Si, ma adesso privatizziamo i gioielli di famiglia e con quello che incassiamo ci rimettiamo alla pari. Altro mantra che ci hanno profuso a larghe mani dai mass media da sempre. Intanto come ogni buon padre di famiglia sa (tanto per usare una immagine usata ed abusata fino alla noia), chi vende il patrimonio non aumenta, ma diminuisce la propria ricchezza. Figuriamoci chi lo “svende”; in questo periodo, chi vende fa sempre un pessimo affare.
La vendita della FINMECCANICA ne è una dimostrazione, tanto che la svendita del 40% di Poste è stata slittata di un anno. E poi quando mai le privatizzazioni hanno portato benefici ai cittadini e alle casse dello Stato? Anche qua basta andare indietro negli anni e rivedere la campagna di una delle più grandi privatizzazioni del mondo, quella fatta negli anni ’90 e che ha portato alla svendita dell’80% degli asset industriali e produttivi del nostro paese.
Chi ci ha guadagnato e chi ci ha rimesso dopo quelle privatizzazioni? Chi è stato meglio e chi peggio dopo la svendita? Non è certo dotato di “gufaggine” chi ricorda queste cose. Cosa rende diverso quelle privatizzazioni diverse da quelle previste da tutti i governi da una ventina d’anni a questa parte?
Eh.., ma intanto lo Spread si è abbassato. Un risultato questi governi targati PD l’hanno portato! Ribadisce sempre quella portavoce pon pon renziana...
Si è vero dai 500 si è arrivati ai circa 160-170 punti. Ma anche qua occorre leggere i dati, ma tutti e non solo le apparenze. Intanto il record dei 500 punti erano anche dovuti a cause esogene, e la sua punta massima e la sua discesa vertiginosa sono state precedute e seguite dalla caduta del governo Berlusconi. I maligni o i dietrologi potrebbero vederci una "mano invisibile". Ma non è questo l'importante. Dietro lo stabilizzarsi, al momento, dei punti di spread c’è stato l’annuncio e la messa in opera da parte della BCE di un intervento per stabilizzare i prezzi.
Però i “gufi” dicono che questo è solo al “momento”, in quanto l’annuncio di Draghi è solo provvisorio. La BCE, in questo senso, si è mossa bene, ma avrebbe dovuto rendere stabile e strutturale l’intervento. Non può farlo, però, perché gli “accordi europei” non lo prevedono (perché non lo prevedano è un altro tempo di un altro film)
In questa guerra fra chi “gufa” e chi sprizza ottimismo da tutti i pori, per il momento, la partita è sul 2 a 0 e palla al centro. (se fosse solo una partita a calcetto...)
dalla mail list Marxiana

Pedaggio E45

Pedaggio E45. Flamini-Prc: balzello per i cittadini regalo per i soliti noti

La scelta sciagurata di trasformare la E45 in autostrada si conferma tale anche rispetto a quanto emerge dal piano finanziario del project financing che prevede, come era ovvio e come noi denunciamo da anni, il pagamento del pedaggio anche per gli umbri, un vero salasso. Purtroppo il governo regionale, a parte un pò di propaganda e qualche annuncio, non ha saputo giocare un ruolo vero e di carattere nazionale per rimettere in discussione una decisione che non tiene minimamente in considerazione i territori, il sacrosanto diritto dei cittadini di partecipare a tale scelta, il rispetto del paesaggio e che non risolve certo gli attuali problemi di traffico e sicurezza di una superstrada che, come dimostrano anche le recenti piogge, è sempre più simile ad una mulattiera.
La trasformazione della E45 in autostrada significa insomma privatizzare la maggiore arteria viaria che attraversa l’Umbria utilizzando il modello della defiscalizzazione al futuro concessionario, modello le cui ripercussioni ora sembrano emergere in maniera evidente: i costi più pesanti ricadranno sulle tasche dei cittadini e degli artigiani del trasporto colpiti dal pedaggio, l’ennesimo balzello del governo delle larghe intese, l'ennesimo regalo ai soliti noti.
Enrico Flamini
Segretario Provinciale Prc Perugia

Gambacorta-Umbrialeft: Ormai è ufficiale: si pagherà il pedaggio sulla nuova E45

Ormai è ufficiale: si pagherà il pedaggio della nuova E45.
Riteniamo quest’ opera inutile e dannosa sia per la nostra regione che per tutte i paesi e le città che attraversa la nuova autostrada.
L’Umbria è una regione con una forte vocazione culturale-turistica e l’attuale E45 è funzionale a questa tradizione. Una strada che collega il cuore verde d’Italia a sud con la Capitale e a nord con la Toscana ed Emilia Romagna con tempi veloci di percorrenza. Le varie città che attraversa sono facilmente raggiungibili ed invogliano il turista a fermarsi.
A proposito sono convincenti i dati dell’ATP, l’azienda turistica regionale, che testimoniano come le presenze turistiche del territorio non siano crollate in un periodo di crisi economica come quella che stiamo vivendo, ma, nonostante il calo fisiologico, tendono ad essere stazionarie rispetto agli anni precedenti. La nuova autostrada trasformerà la nostra regione in terra di passaggio, lontano, quindi, culturalmente e socialmente, dal “sistema Umbria”. Di fatto verrà aggredito il territori dai lavori di costruzione prima, dal passaggio di mezzi pesanti poi, abbassando notevolmente la qualità della vita. Vedremo così annullarsi, sotto i nostri occhi, tradizioni popolari e culturali, che caratterizzano in positivo l’Umbria e i suoi comuni e che rappresentano eccellenze di vivibilità ed esempi per l’intera nazione. Come testimonia anche un importante quotidiano statunitense. Il traffico locale si riverserà tutto nelle strade interne, con tutti i danni immaginabili della viabilità, per evitare il pagamento del pedaggio, ma anche per comodità stradale.
È l’Umbria democratica e civile che conosciamo che rischia di scomparire.
Non è, quindi, un’opportunità di progresso per i cittadini umbri, ma un esempio di malgoverno che non sa cogliere i veri bisogni, le vere necessità di un intero territorio e dei suoi abitanti. Quale ricchezza, quindi, quale progresso economico. Non ne vediamo, temiamo invece un pericoloso imbarbarimento dei nostri comuni. Con questo non ci stiamo opponendo al progresso. Crediamo solo che l’Umbria ed il suo capoluogo non abbiano bisogno di un doppione, ma di un aeroporto più efficiente, di collegamenti con la regione Marche, di strade secondarie più sicure ed efficienti per candidarsi a pieno titolo capitale d’Europa.
Attilio Gambacorta - Coordinatore Associazione Culturale Umbria Left

E45. Dottorini.Idv: Il tempo delle false rassicurazioni e demagogia è terminato

“Il tempo delle false rassicurazioni e della demagogia è terminato. Chiedo all’assessore Silvano Rometti di dire chiaramente ai cittadini umbri cosa li attenderà di qui ai prossimi anni, senza continuare a dare false rassicurazioni che non trovano alcuna conferma negli atti. Le cifre, com’è noto, sono argomenti testardi e lui sa benissimo che i privati, per finanziare l’autostrada, richiedono pedaggi altissimi e generalizzati”. Con queste parole il consigliere regionale Oliviero Dottorini (Idv) risponde alla “imbarazzata difesa d’ufficio dell’assessore Rometti, chiedendogli di ritirare al più presto il suo consenso a un’opera faraonica e anacronistica che andrà a compromettere i bilanci familiari e aziendali di molti umbri”.
“Se la Regione si è opposta al pedaggio, non pare avere ottenuto grandi risultati, a giudicare dalle proposte dei privati. Io ho reso pubbliche delle cifre – aggiunge Dottorini – che lui avrebbe dovuto avere il decoro di mettere a disposizione del Consiglio regionale, dei Consigli comunali e dell’intera cittadinanza. Evidentemente – conclude - è più comodo continuare a raccontare la favola dell’esenzione dal pedaggio per i residenti, sapendo bene che questa scelta non è nelle disponibilità della Regione e che senza il pedaggio a carico dei residenti questa assurda opera non ha alcuna copertura economica”.

E45 in autostrada. M5S in pressing sulla Regione

“Non ci sono più alibi. Serve un vertice, in agosto, tra Regione e parlamentari umbri”. Sul tavolo il progetto preliminare di trasformazione della E45 in autostrada. La richiesta arriva direttamente da Roma. A presentarla il deputato cinque stelle Filippo Gallinella.
“Se l’Umbria si oppone in blocco, il governo dovrà ritirare il progetto preliminare di trasformazione della E45 in autostrada – afferma il deputato Gallinella – La Regione deve prendere una posizione chiara e non limitarsi a pronunciare la propria contrarietà al pagamento del pedaggio. Il pedaggio è solo un tassello di un disegno scellerato che incombe sull’Umbria. E questo disegno va portato all’attenzione dei cittadini. La trasformazione dell’E45 in autostrada – continua il deputato cinque stelle - comporterà un rilevante consumo di suolo, un aumento dell’inquinamento atmosferico ed acustico, un aumento del rischio idrogeologico. Danneggerà i settori agricolo e turistico”.
La posizione del M5S è chiara da tempo: il governo deve ritirare il progetto preliminare, intervenire urgentemente per la messa in sicurezza e riqualificazione dell’attuale SS 309 Romea, monitorare il flusso di traffico che insiste oggi sull’infrastruttura, crollato dal 2008 del 30%, rifare i conti sull’investimento complessivo, stimato in quasi 10 miliardi di euro, circa 2 miliardi e 600 milioni in più di quelli inizialmente preventivati dal Cipe.
“La discussione sulla trasformazione della E45 in autostrada deve uscire dalle stanze del palazzo e coinvolgere la cittadinanza – conclude Gallinella - Riteniamo urgente da parte della Regione l’apertura di un tavolo di confronto con i parlamentari umbri, con tutte le amministrazioni locali, i comitati e le associazioni interessati dal tracciato”.

Allarme ripresa Crescita a rilento e svendite di Stato "Caro Renzi, avevano ragione i gufi"

Crescita a rilento e svendite di Stato 
Caro Renzi, avevano ragione i gufi Il governo deve fare i conti con una crescita più lenta del previsto. «Renzi, come Monti, ha sbagliato i calcoli». E le privatizzazioni sono state un flop. Ma una manovra correttiva «sarebbe una follia». Intervista all'economista Emiliano Brancaccio

di Luca Sappino, L'Espresso
 
Il Fondo Monetario Internazionale e Bankitalia dimezzano la crescita che era stata prevista dal governo. «Non cadiamo mica tutti dal pero», rivendica all'Espresso l'economista Emiliano Brancaccio: «Avevamo più volte avvisato che le stime di Renzi, così come quelle di Letta, Monti e della stessa Commissione europea, erano irresponsabilmente ottimistiche». «Quando si attuano politiche di restrizione dei bilanci pubblici», nota Brancaccio, «il risultato prevedibile è che la domanda di beni e servizi cali e il Pil venga ulteriormente depresso». «Previsto» era pure il flop delle privatizzazioni, con Fincantieri che ha fruttato la metà di quanto annunciato dal governo.

Servirà dunque una manovra correttiva?
«Sarebbe una follia», dice ancora Brancaccio, perché «una manovra che taglia ancora la spesa pubblica e insiste con la pressione fiscale finirebbe per aggravare gli effetti depressivi della precedente».

Professore, Matteo Renzi ha detto ad Alain Fridman: «Che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente dal punto di vista della vita quotidiana delle persone». È così?
«Il livello di approssimazione di certe dichiarazioni è sorprendente. Questi temi non andrebbero affrontati in modo così superficiale. Quelle cifre fanno la differenza tra un'economia che vede crescere l'occupazione e un'economia che continua a distruggere posti di lavoro, e in prospettiva possono fare la differenza tra uno Stato solvibile e uno Stato in bancarotta».

Renzi, presentando il Def, aveva detto di aver abbassato «prudenzialmente» la previsione rispetto a quella fatta dal governo Letta. Il premier si era poi detto certo, però, che sarebbe stata più alta. In un' intervista all'Espresso di qualche mese fa  lei manifestò un parere opposto. E così è stato. Cosa non ha funzionato?
«A quanto pare, quelli che il nostro premier chiama "gufi" hanno avuto ragione, ancora una volta. Sono ormai più di tre anni che il governo, e la stessa Commissione europea, nel prevedere l'andamento del Pil peccano sistematicamente di ottimismo. Lo fece Monti, l'ha fatto Letta e ora lo fa Renzi. La realtà è che, se ci va bene, quest'anno ci troveremo con crescita zero».

Perché le stime si rivelano puntalmente troppo ottimistiche?
«Perché in Europa si evita di affrontare un'evidenza scientificamente inconfutabile: quando si attuano politiche di austerity la domanda di beni e servizi è destinata a cadere, e con essa cade anche il livello del Pil. Persino il Fondo monetario internazionale ha dovuto riconoscere che questo effetto era stato trascurato. La Commissione europea e i governi nazionali dell'eurozona si ostinano a eludere il problema».

E gli effetti degli 80 euro?
«Quelli non si vedono perché i lavoratori dipendenti sono stati costretti, in questi anni, a erodere i loro risparmi per far fronte alla crisi. In questo scenario è illusorio pensare che gli 80 euro in più in busta paga si possano interamente trasformare in consumi. Ma soprattutto, occorre ricordare che la famigerata manovra degli 80 euro si inscrive in una politica di bilancio che nel complesso rimane depressiva. Il governo continua a sottrarre all'economia più di quanto eroghi: l'obiettivo generale della politica economica resta infatti quello di attuare un prelievo fiscale che eccede la spesa pubblica al netto degli interessi. Questo significa che i cittadini e le imprese si trovano da un lato con 80 euro in più, ma dall'altro lato registrano tagli ulteriori ai servizi e aumenti delle tariffe. E temono incrementi di altre voci di imposta. L'effetto finale sulle capacità complessive di spesa resta dunque negativo».

Potrebbe essere più utile il jobs act, di cui pure si sono perse le tracce?
«No. Ancora una volta si ignorano i risultati accumulati dalla ricerca scientifica per oltre un ventennio: le politiche di precarizazzione non accrescono gli occupati ma fanno sì, semmai, che l'occupazione diventi più instabile. I contratti precari possono al limite indurre le imprese a creare posti di lavoro nelle fasi di espansione ma poi, quando c'è crisi, quegli stessi posti di lavoro, essendo precari, vengono immediatamente cancellati».

Sarà necessaria una correzione del Def in autunno? Il governo ancora nega la manovra correttiva...
«Una restrizione ulteriore del bilancio sarebbe una follia. Tagliare ancora la spesa e insistere con la pressione fiscale non può che aggravare gli effetti depressivi delle manovre precedenti».

Il Financial Times mette l'accento sulle privatizzazioni ferme al palo. La vendita di Fincantieri ha prodotto la metà del previsto. La dismissione del 40 per cento di Poste slitterà di un anno. Sempre il Financial Times scrive che per rispettare quanto previsto nel Def, cioè per ricavare 11 miliardi con cui ridurre il debito pubblico, il governo dovrà mettere sul mercato altre quote di Eni e Enel. È una strada?
«Anche sulle privatizzazioni i cosiddetti "gufi" avevano lanciato un chiaro allarme: in una fase di crisi i prezzi di mercato degli asset sono bassi e le privatizzazoni diventano vere e proprie svendite. L'obiettivo del governo di ricavare 11 miliardi non può che essere disatteso, come già dimostra la vicenda Fincantieri».

C'è un momento migliore per farle?
«Di certo non ora. Ma io credo che bisognerebbe mettere in discussione la logica delle privatizzazioni nel suo complesso. Questo è un paese con scarsa memoria, ma basterebbe forse ricordare gli effetti del record di privatizzazioni che l'Italia ha segnato negli anni '90. Non mi pare che quell'onda di vendite di asset pubblici abbia dato benefici al paese. Di fatto, gli unici a trarne vantaggio furono quei gruppi di interesse nazionali ed esteri che beneficiarono dello shopping di spezzoni di apparato pubblico a prezzi di saldo».

Disoccupazione, povertà relativa, crescita, debito pubblico. Tutti i valori sono peggiori di quelli registrati nel 2011, anno della lettera della Bce e della chiamata dei "tecnici". Perché eravamo più preoccupati tre anni fa?
«Per adesso siamo meno preoccupati perché Draghi ha compiuto una mossa che cambia il quadro. Nel 2011 l'Italia e gli altri paesi periferici europei erano esposti alla speculazione internazionale. Gli operatori sui mercati finanziari vendevano, i prezzi dei titoli crollavano e i tassi d'interesse - i famigerati spread - aumentavano».

Oggi questo rischio è scongiurato?
«Per il momento sì. La differenza tra allora e oggi sta nel fatto che la Bce ha preso un impegno: proteggere i paesi in difficoltà da eventuali ondate di vendite sui mercati finanziari. In caso di vendite, la Bce compra i titoli e quindi i prezzi e gli spread rimangono stabili. Il problema è che la strategia della Bce si basa sull'idea che il suo ombrello protettivo sia temporaneo. L'auspicio dichiarato della banca centrale è che le politiche di austerity e le famigerate riforme strutturali siano in grado, a un certo punto, di rilanciare i paesi in difficoltà e di rendere quindi superflua la sua protezione. Noi stiamo invece registrando che così non sarà».

E come sarà?
«Vale tuttora la previsione contenuta nel "monito degli economisti" che abbiamo pubblicato nel settembre scorso sul Financial Times: con le attuali politiche di austerity, la divergenza tra paesi deboli e paesi forti dell'eurozona continuerà ad ampliarsi. La politica monetaria non può affrontare da sola questa divaricazione. Bisognerebbe almeno affiancare le azioni della banca centrale con un piano di investimenti pubblici mirati. Le più autorevoli ricerche economiche dimostrano che l'intervento statale può esser decisivo non solo per fini di assistenza ma anche per creare condizioni di sviluppo tecnologico e produttivo, soprattutto nei paesi più deboli, che ne hanno più bisogno. Il guaio è che in Europa i dogmi del liberismo, sebbene più volte sconfessati, tuttora resistono, e l'idea di un rilancio in chiave moderna dell'intervento pubblico resta tabù».

Quali saranno dunque le implicazioni per l'eurozona?
«Le divergenze tra paesi forti e paesi deboli dell'Unione aumenteranno. Se si continua a pensare che la politica monetaria possa risolvere da sola questo enorme problema, l'Unione monetaria europea non potrà che confermarsi insostenibile. Anche se ora sembrano tutti più sereni, i nodi verranno di nuovo al pettine e presto o tardi si tornerà a vivere il clima del 2011. Sarà una previsione da "gufo", ma fino a ora i cosiddetti "gufi" hanno avuto molta più lungimiranza dei professionisti dell'ottimismo».

Gli operai ThyssenKrupp bloccano la superstrada


Gli operai ThyssenKrupp bloccano la superstrada
Una grande manifestazione di impotenza operaia. Quella degli operai ThyssenKrupp, oggi a Terni, è stata forse una delle più grandi manifestazioni cittadine degli ultimi anni. QUatro ore di sciopero a fine turno mattutino, con molti degli altri turni che arrivano in bicicletta o scooter. Oltre duemila lavoratori e qualche familiare, gente affacciata alle finestre che saluta e grida “fate bene”, pochi che si lamentano per le difficoltà create alla circolazione.
Del resto questa fabbrica – le acciaierie, che prima di andare alla Thyssen erano di proprietà pubblica, marchio Italsider – è addirittura più antica di gran parte della città che la circonda. Che questa fabbrica chiuda è una disgrazia di rara potenza, un evento disgregatore di portata quasi biblica. Normale che una massa così grande di gente che ne dipende sia capace di farsi oltre cinque chilometri di camminata, sotto il sole e l'afa, in un pomeriggio di fine luglio, pur di andare a bloccare la superstrada. Evento limite, per i sindacati molto “moderati” che da sempre controllano – più che rappresentare - questi lavoratori. Anche la Fiom qui, ha il volto di Camusso, neanche quello di Landini...
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E infatti, una volta arrivati in cima allo svincolo, si capisce subito che i “complici” hanno contrattato – fin qui anche avrebbe anche un senso – tutto il percorso con le forze dell'ordine, tanto che soltanto poche macchine e camion fiscono per fermarsi a causa dell'occupazione della sede stradale. Ma più di questo non sono disposti a gestire. Non una spiegazione ai lavoratori, che cuociono sotto il sole e ribollono già di loro per la preoccupazione. Li guardi in faccia e vedi che tra loro non ci sono “prepensionandi”. Sono troppo giovani per essere inseriti in qualsiasi “scivolo” dei vecchi tempi, troppo anziani per trovare una nuova occupazione in un settore devastato dalle chiusure (la metallurgia); figuriamoci oggi che quegli scivoli il governo Renzi tende a farli cortissimi. Anzi, meglio niente...
Un lungo tempo in cui nessuno sa che cosa fare, con i dirigenti sindacali defilati e silenziosi. Ognuno comincia ad agitarsi come sa e crede. Una ventina di fascisti del gruppo “Stato e potenza” - quelli che per qualche tempo aveva provato a spacciarsi per “socialisti”, quasi nostalgici dell'Urss – si va a schierare davanti alla polizia, a un'estremità del blocco. Nessuno gli va dietro. Poi cominciano a gridare di andare a fermare anche il traffico sottostante il viadotto, quello deviato sulla provinciale. Fin lì erano stati in fondo al corteo, isolati e silenziosi. Sconosciuti a tutti, la metà circa proveniente da Roma, estranea al territorio e ancor più a questa classe operaia.
I sindacalisti tacciono e non danno nessuna indicazione. “Ognuno fa come meglio crede”, dice uno. Come se il loro compito si fosse esaurito lì, nel portare quasta massa di lavoratori disperati a sfogarsi nel nulla, di modo che la prossima volta se ne stiano a casa.
Gli operai salgono e scendono lungo lo svincolo, cercano di dare una senso alla mobilitazione innalzando – per come possono e sanno, dopo decenni di “pace sociale indotta” - il livello del conflitto. Un automobilista che prova a fare il furbo infilandosi detro un'ambulanza a sirene spiegate - l'unico mezzo che giustamente viene lasciato passare – rischia qualche manata. Tocca ai poliziotti gestire con un briciolo di buon senso la tensione crescente.
L'incazzatura cresce e smania, ma è totalmente assente una direzione sindacale chiara. Sfogatevi, sembrano aver deciso i “complici”. Poi, tanto, sarete buttati fuori...
L'ipotesi è più che un'ipotesi. All'interno della fabbrica si continua a lavorare ad alto ritmo, anche all'altoforno – uno dei due – che l'azienda ha dichiarato di voler fermare per sempre, mettendo fuori 550 dipendenti. Non solo. La Thyssen ha chiesto di posticipare le ferie. Un segnale che chiunque può leggere in trasparenza: “completiamo la commessa in corso, poi mandiano i lavoratori al mare e quando tornano trovano tutto chiuso”.
Impossibile che i totem silenziosi di Cgil-Cisl-Uil non l'abbiano capito. Più facile che lo sappiano perfettamente, e abbiano deciso di mandare in vacca una mobilitazione che non poteva non esserci. Anche a costo di lasciare spazio ai fascisti con tanto di tricolore e in maglietta nera (“nazione, socialismo, combattimento”) che provano a costruirsi una credibilità.
Quelli dell'Usb volantinano fin dall'inizio del corteo, discutono con gli operai, raccolgono consensi sull'unica proposta possibile in queste condizioni (“la Thyssen deve tornare pubblica, qualsiasi cosa dica l'Unione Europea”). Ma questa non è l'Ilva di Taranto, non hanno ancora una presenza interna allo stabilimento, una rappresentanza nell'Rsu, anche se nel territorio la loro presenza si va estendendo a molti luoghi di lavoro.
La giornata finisce con blocchi spontanei che si riproducono qui è là, un incrocio dopo l'altro. Senza un disegno o una tattica ragionata, finalizzata, un obiettivo chiaro. Oltre, naturalmente, la non chiusura dei mezzo impianto e una massa enorme di licenziamenti.
Questa gente merita un destino migliore. Ma è anche lo specchio esatto dell'interopaese. E dei rischi che sta correndo, da una “rottamazione” all'altra.

lunedì 28 luglio 2014

Le favole del Fantaboschi di Alessandra Daniele, Carmillaonline.com

FantaBoschiMaria Elena Boschi, ministra-immagine del rinnovamento renziano, ha citato come suo maestro Amintore Fanfani, dicendo “le bugie in politica non servono”.
La citazione suona particolarmente comica adoperata da una vestale di Mister #enricostaisereno, che sta riscrivendo la Costituzione col Cavalier Menotassepertutti.
Dopo aver promesso ”mai più larghe intese con Berlusconi”. E poi una riforma al mese, d’intesa con Berlusconi.
Entro febbraio riforma elettorale, del Senato, e del Titolo V della Costituzione.
Entro marzo riforma del mercato del lavoro, e sblocco totale del pagamento dei debiti della pubblica amministrazione.
Entro aprile riforma della burocrazia, più un miliardo e mezzo di finanziamenti per la tutela dell’ambiente, e tre miliardi e mezzo per la messa in sicurezza delle scuole pubbliche.
Entro maggio energia meno cara per le aziende.
Entro giugno riforma della Giustizia, con specifica accelerazione dei tempi della Giustizia civile.
Entro luglio era prevista l’attivazione dello stargate di Cuneo per Atlantide, che però è slittata a causa del semestre europeo, per il quale Renzi ha promesso di contestare i vincoli di bilancio “che ci chiede l’Europa”.
E poi di rispettare i vincoli di bilancio, ”ma non perché ce lo chiede l’Europa”. Perché “ce lo chiedono i nostri figli“.
Come ci chiedono riforme strutturali, da fare entro i primi cento giorni.
Anzi, i primi mille.
Perché “l’Italia deve cambiare faccia, ma anche interfaccia”.
“Bicos Meucci uos a ginius, but i uosnt ebol”. Il virus?
Fra tutte le favole raccontate da Mago Renzi, una delle più truffaldine è che le sue riforme servano a restituire “credibilità internazionale” all’Italia, consentendoci di contrattare un “ammorbidimento” dell’austerità impostaci dalla BCE.
Cazzate. La BCE se ne fotte di come eleggiamo il Senato, se lo riempiamo di sindaci, pranoterapeuti, criceti, o palline colorate dell’Ikea.
Alle banche interessa solo che restiamo solvibili.
Quindi non ci concederanno nessuna flessibilità, e ce l’hanno già detto chiaro più di una volta.
Intanto tutti i dati della nostra economia continuano a peggiorare, quelli sì velocemente: la disoccupazione dilaga, i consumi e le esportazioni crollano, il PIL striscia.
È il default in our stars.
Mentre in Parlamento si fa a borsettate su una riforma che non c’entra un cazzo – l’ennesima Kansas City Shuffle – che ammesso sopravviva, comunque non diventerà effettiva prima d’un anno.
Con Renzi l’Italia non cambierà interfaccia.
Manterrà la stessa interfaccia da culo.