domenica 27 luglio 2014

Crescita addio, il tuffo di Renzi nel mare della recessione —  Roberto Ciccarelli

Crisi. Per la prima volta il presidente del Consiglio ammette che le stime del governo sono errate: «sarà molto difficile arrivare alla stima dello 0,8%». E poi si esibisce in una spettacolare teoria economica: «Che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente per la vita quotidiana delle persone». A suo dire, gli italiani aspettano con ansia la legge elettorale e l'abolizione del Senato
Era solo una que­stione di tempo. Ieri il pre­si­dente del Con­si­glio è uscito dalla bolla in cui vive e sem­bra avere ricon­qui­stato un con­tatto con la realtà. In un’intervista andata in onda su La7 ha ammesso che sarà «molto dif­fi­cile» arri­vare alla stima dello 0,8% con­te­nuta nel Def. Ma poi non ha resi­stito e si è pro­dotto in una teo­ria eco­no­mica sin­go­lare: «Che la cre­scita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cam­bia niente per la vita quo­ti­diana delle per­sone». «La nostra prio­rità è lavoro. Ma le sta­ti­sti­che, credo, ini­zie­ranno a miglio­rare solo dal 2015». E il prin­ci­pio di realtà, risco­perto nella prima parte della frase, è scom­parso d’un colpo. Forse per­chè gli ita­liani ten­gono mol­tis­simo all’abolizione del Senato e alla legge elet­to­rale. Cioè alla bolla in cui vive il sistema poli­tico in quest’estate sur­reale. La bolla in cui vive lo stesso Renzi.
La visione del baratro
Per­ché una cre­scita all’1,5% è cer­ta­mente diversa da una cre­scita allo 0,3%, quella sti­mata ieri dal Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale che ha riag­gior­nato la stima sul Pil ita­liano per il 2014. Se ci fosse una simile cre­scita, per­sino l’auspicio di Renzi potrebbe essere veri­fi­ca­bile nei fatti. La cre­scita sarebbe infatti il pro­dotto anche di un nuovo lavoro che tut­ta­via non verrà nè nel 2014 nè nel 2015. L’Fmi sostiene che il Pil sarà all’1,1%. Ad oggi, con l’ormai rico­no­sciuta “jobless reco­very”, cioè la cre­scita senza occu­pa­zione fissa, non c’è alcuna cer­tezza di que­sta stima. Serve a rin­cuo­rare Palazzo Chigi che ieri ha visto il bara­tro in cui si trova. Se crisi ci sarà, verrà dalla realtà illu­strata dal Cen­tro studi di Con­fin­du­stria nella sua “con­giun­tura Flash” di luglio:
E’ sem­pre più palese — scrive il cen­tro studi — la con­trad­di­zione tra una Bce che fa tutto quel che può per con­tra­stare la minac­cia di defla­zione e tutte le altre poli­ti­che che verso la defla­zione spin­gono, sia come mec­ca­ni­smo di aggiu­sta­mento degli squi­li­bri com­pe­ti­tivi sia come con­se­guenza dei bilanci pubblici”.
Renzi, e il mini­stro dell’Economia Padoan, sono costretti ad andare in dire­zione della defla­zione, radi­cando sem­pre più la reces­sione in atto, come dimo­strano gli impie­tosi dati snoc­cio­lati ieri dall’Fmi e pochi giorni fa dalla Banca d’Italia.
La leg­genda dei fondi euro­pei che vanno e vengono
Da una set­ti­mana, nell’angolo dov’è ridotto, Renzi ha ini­ziato a for­mu­lare la seguente tesi, pron­ta­mente ripresa dai media che hanno lan­ciato l’operazione-soccorso: quello che conta, dice Renzi, è garan­tire agli impren­di­tori l’accesso ai fondi e sbloc­care quei 43 miliardi di inve­sti­menti annun­ciati per le infra­strut­ture, «che non vio­lano nes­sun vin­colo euro­peo per­ché sono già conteggiati».
Que­sti 43 miliardi fanno parte di un patri­mo­nio ben più ampio che Renzi di solito quan­ti­fica in 180 o 183 miliardi di euro, dipende dall’enfasi usata in que­sta o in quella tra­smis­sione tele­vi­siva. Secondo Andrea Del Monaco, già con­su­lente sui fondi euro­pei del secondo governo Prodi, que­sti soldi sono molti di meno: 113 miliardi. Que­sta cifra è il risul­tato della somma del FSC (Fondo per lo Svi­luppo la Coe­sione) di 54,8 miliardi, di cui uti­liz­za­bili in cassa sono 1,55 miliardi fino al 2016. E poi 22,89 miliardi dei pro­grammi nazio­nali (PON) e regio­nali (POR) cofi­nan­ziati dal FESR (Fondo Euro­peo di Svi­luppo Regio­nale) e dal FSE (Fondo Sociale Euro­peo); 6 miliardi di euro dei piani regio­nali cofi­nan­ziati dal FEASR (Fondo Euro­peo Agri­colo di Svi­luppo Rurale).
Infine gli 84,2 miliardi di euro del ciclo 2014–2020, circa 63,37 miliardi di euro dei pro­grammi cofi­nan­ziati da FESR e FSE; circa 20,85 miliardi dei pro­grammi cofi­nan­ziati dal FEASR. 
Cosa ci vuole fare Renzi? Scon­tare il cofi­nan­zia­mento euro­peo da Bru­xel­les e usare que­sti soldi per tagliare le tasse alle imprese, gli sconti fiscali sareb­bero mag­giori al Sud che ha la dota­zione piu’ con­si­stente di fondi euro­pei. In altre parole vuole tra­sfor­mare l’Italia in una zona franca urbana, dove vige uno stato di ecce­zione ideale per le imprese che non pagano tasse, rispar­miano sul lavoro e i diritti. La solu­zione adot­tata in Irlanda negli anni Novanta. Del Monaco ricorda che è stato un fal­li­mento: le Zone Fran­che Urbane attras­sero le aziende stra­niere alla ricerca di sconti fiscali. Finiti gli sconti, le imprese fug­gi­rono verso l’Europa Orien­tale dove tro­va­rono nuovi van­taggi. L’Irlanda ha fatto default nei primi mesi della crisi ini­ziata nel 2008. 
Occorre invece ripro­get­tare il sistema pro­dut­tivo, sce­gliere dove inve­stire, finan­ziare la ricerca, la for­ma­zione, l’innovazione e i diritti affin­ché ci sia un effet­tivo aumento della domanda interna. A cascata dovrebbe arri­vare la cre­scita. Tutto quello che Renzi e Padoan non faranno: la pro­gram­ma­zione non è tra le prio­rità dello stato minimo, né rien­tra nell’obiettivo di que­sto governo. Que­sti sono punti che non rien­trano nella ricetta indi­cata dai Boc­coni Boys o da quello che scrive Roberto Perotti sul Sole 24 ore.
Postille su una cre­scita anemica
Scor­rendo gli altri dati dell’Fmi si apprende che la Ger­ma­nia cre­scerà quest’anno dell’1,9%, per poi ral­len­tare a un +1,7% nel 2015, più di quanto annun­ciato ad aprile; per la Fran­cia è attesa una cre­scita dello 0,7% nel 2014, con un’accelerata all’1,4% nel 2015; per la Spa­gna +1,2% e +1,6%. In gene­rale per il Fmi la cre­scita di Euro­lan­dia resta «debole» ma anche «diso­mo­ge­nea», sotto il peso della per­si­stente fram­men­ta­zione finan­zia­ria, di pro­blemi nei bilanci pub­blici e pri­vati e dell’alta disoc­cu­pa­zione. Il pil dell’area euro si espan­derà dell’1,1% nel 2014, per poi acce­le­rare al +1,5% nel 2015. Nubi anche sulla cre­scita mon­diale. «Restano rile­vanti rischi al ribasso», avverte il Fondo mone­ta­rio, indi­cando i peri­coli legati all’andamento dei prezzi petro­li­feri, per via delle crisi in Ucraina e Medioriente.
L’Eurotower «deve con­ti­nuare a soste­nere l’attività» auspica il capo eco­no­mi­sta del Fmi Oli­vier Blan­chard. Dopo aver sot­to­li­neato come le recenti misure adot­tate dalla Bce siano «apprez­zate», Blan­chard ha osser­vato che «è troppo pre­sto per valu­tarne gli effetti, ma se la dina­mica infla­zio­ni­stica resterà osti­na­ta­mente bassa, ulte­riori misure dovreb­bero esser prese in con­si­de­ra­zione». Ancora, Blan­chard ha evi­den­ziato come la revi­sione qua­li­ta­tiva degli asset delle ban­che euro­pee, attual­mente in corso, sia «cru­ciale» per rista­bi­lire la fidu­cia nel sistema ban­ca­rio e miglio­rarne la capa­cità d’intermediazione.

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