Partendo
dalla degenerazione attuale, un libro di Fulvio Lorefice ragiona
sull'utilità della forma partito che nel Novecento ha rappresentato
l'organizzazione più efficace per le lotte popolari. Ed oggi? I partiti
si possono salvare soltanto se riscoprono le pratiche di mutualismo e
ricostruiscono un tessuto sociale col Paese. La vecchia Syriza e
Podemos sono due modelli interessanti da seguire.
di Giacomo Russo Spena
di Giacomo Russo Spena
Della
lotta alla Casta il M5S ci ha fatto una ragion d'essere. Già prima, i
radicali di Marco Pannella si sono battuti contro la "partitocrazia
italiana". Un Sistema di potere. Ad oggi, perché mai un giovane dovrebbe
iscriversi ad un partito politico? La loro crisi è tangibile, la
degenerazione è lampante. Sono passati, col tempo, dall'essere
organizzazioni di massa sancite dalla Costituzione (art 49) a ceti di
nominati, persino collusi con establishment e poteri forti. Pensiamo
all'inchiesta di Mafia Capitale, a Roma, che ha certificato la
connivenza dei partiti, in maniera bipartisan, con "il mondo di sotto"
per utilizzare il termine dell'ex Nar Massimo Carminati, ora agli
arresti.
Ma – qui bisogna interrogarsi – ha senso riformare i partiti o il problema risiede nella stessa forma partito? Se lo chiede il ricercatore Fulvio Lorefice che recentemente ha scritto per Bordeaux edizioni "Ribellarsi non basta": un libro che ha il coraggio di andare controcorrente e analizzare il rapporto tra organizzazione e risultati concreti di avanzamento delle classi sociali più deboli, dando un taglio storico alla discussione.
"Il tema della strutturazione della società, della connessione delle sue articolazioni deboli e della forma della loro coscienza, è oggi più che mai cruciale" sostiene l'autore che sviluppa la sua ricerca da un preciso punto di vista: nel Novecento il partito è stato lo strumento più efficace di emancipazione per le classi subalterne. Lo stesso Antonio Gramsci scriveva che la spontaneità deve essere incanalata ed integrata in una direzione consapevole: "Questo è il compito del partito politico che lotta per l'egemonia".
Nella prima parte del libro l'autore conduce un'analisi storico/politica sulla crisi dei partiti e, più in generale, della rappresentanza. Qui risalta l'egemonia totalizzante dell'ideologia neoliberale. Fin dall'Unità d'Italia, i ceti dominanti avrebbero identificato la propria rappresentanza con le forme del potere, mentre gli sfruttati hanno avuto bisogno dell'organizzazione del partito. In passato – argomenta Lorefice – le elite avrebbero aspramente lottato contro la nascita dei partiti, ritenuti veicolo di sovversivismo "in quanto organizzatori delle istanze proletarie". Non a caso, il Pci di Palmiro Togliatti, nel secondo dopoguerra, denunciava la lotta dei padroni "contro la partitocrazia" che logorava lo spirito democratico e "apriva la strada ad avventure reazionarie". Ora è tutto diverso. Un'altra fase.
Nel libro si traccia la degenerazione degli attuali partiti. Ai vertici una classe dirigenziale screditata agli occhi dei cittadini i quali associano – lasciandosi ad andare a facili demagogie – il "partito" ad ogni forma di ruberia possibile, ai privilegi dei politici e ai loro vitalizi. Sono gli anni della post democrazia e della crisi della rappresentanza. I partiti di massa, come li abbiamo conosciuti nel Novecento, sono un lontano ricordo, così come le sezioni e il radicamento territoriale. Viviamo l'epoca dei "partiti liquidi" dove lo scontro tra diverse posizioni si focalizza sul terreno mediatico. "Meglio un tweet che visitare le periferie disagiate" è il pensiero che va per la maggiore.
Il vertiginoso calo degli iscritti, a sinistra come a destra, dimostra come la disaffezione della gente sia totale. E l'astensionismo esprime una precisa connotazione (per intenderci) di classe. Sono i settori popolari a scivolare verso il disimpegno e quelli più sfiduciati nei confronti della politica e dei corpi intermedi.
Delineato lo status quo, il secondo capitolo del libro si intitola, significativamente, "Gramsci nel Mediterraneo" soffermandosi sulle due esperienze, nel campo della sinistra, più interessanti in Europa: Syriza e Podemos.
Il partito di Tsipras, mentre era all'opposizione e al potere c'era ancora la destra di Neo Demokratia, ha rappresentato un'alternativa valida al disastro dei memorandum imposti dall'Europa: ha contribuito a far nascere nel Paese mense del mutuo soccorso, ambulatori e farmacie popolari, riallaccio di utenze, cooperative socio-lavorative per disoccupati, fabbriche recuperate e altre esperienze di autogestione. "Mutualismo" era la parola magica per contrapporsi al disastro umanitario causato dall'austerity. In quella fase Syriza creava un sistema nato dal basso che si sostituiva alle manchevolezze dello Stato: dove non arrivava il welfare, arrivavano le forme di autorganizzazione dei cittadini ellenici.
Così Podemos, in Spagna, è figlio del movimento degli Indignados che è riuscito a rompere lo storico bipartismo spagnolo Psoe/PP attaccando la "Casta", intesa non soltanto come ceto politico – come nel caso italiano - ma anche come oligarchia formata da banchieri ed imprenditori (corrotti). Tutti i dirigenti, a partire dal leader Pablo Iglesias, provengono dalle proteste No War e alterglobaliste o dalle recenti piazze indignate del 2011. "Podemos è un partito, ma pensato con una logica di movimento" afferma il responabile culturale Jorge Lago. Rompe culturalmente col Novecento, rifiutando ogni collocazione a sinistra dello scacchiere politico. Una posizione - dettata dagli studi del post marxista Ernesto Laclau - abilmente riassunta dall'espressione, ripetuta da Iglesias, "il potere non ha paura della sinistra, ma piuttosto del popolo". Il segreto starebbe nel costruire la sinistra, senza nominarla. E il partito avrebbe senso soltanto se in relazione coi movimenti e le realtà sociali.
La domanda fondativa, infatti, è quella che l'autore trae dal professor Alfio Mastropaolo, esperto della cosiddetta antipolitica: "Come può in una società così complessa operare una democrazia senza partiti, evitando che si trasformi in una democrazia plebiscitaria?". Il tema vero non è il "se", ma il "come" organizzarsi. Lorefice ci chiama a riflettere, rifuggendo da dogmatismi, a due esperienze della "periferia" della politica italiana: i "Luoghi Idea(li)", cioè la sperimentazione tracciata da Fabrizio Barca nel Pd, con un coinvolgimento molto marginale del partito. E il "partito sociale", nato all'interno di Rifondazione Comunista, sperimentato in alcune federazioni e oggetto di riflessioni congressuali. Può un partito centralizzato, con una propensione totalizzante, riunificare ciò che il neoliberismo ha diviso?
I partiti vanno separati dallo Stato, riportati nella società: evitano la deriva oligarchica, e la degenerazione odierna, solo se si socializzano nelle pratiche. Lorefice parla dei circoli come nuovi "sindacati territoriali". Altrimenti la politica muore. E trascina con sé la crisi della democrazia costituzionale. Il rischio è che nell'assenza delle organizzazioni e dei corpi intermedi si generino pulsioni vandeane, populiste e razziste. Va, allora, accettata secondo l'autore la sfida della "complessità", contro il "monoteismo" economicista e politicista.
Il sociologo Luciano Gallino, nel suo ultimo testo, scrive di "cattura cognitiva", perché dinanzi ai grandi, radicali problemi del nostro tempo la destra e la sinistra hanno programmi simili. E' questa la base del pensiero, anzi della "ragione unica". Di fronte ad un popolo che non esiste più in quanto tale, muto e atomizzato, il primo compito è ricostruire perfino le componenti rituali, i luoghi dello "stare insieme": nuove case del popolo, camere dei lavori territoriali, pratiche dell'autogestione, mutualismo, spazi della coalizione sociale. Sperimentare nuove forme di partecipazione e servizi dove lo Stato non riesce più a giungere.
Un partito, in definitiva, funzionerebbe soltanto se coniuga due stringenti questioni d'attualità: il conflitto sociale e la solidarietà. "Il nesso che sembra volersi ricostruire – si legge nel libro – è quello relativo all'efficacia dell'azione politica: la capacità cioè di produrre cambiamenti materiali, concreti, tangibili e quindi identità, legittimità e senso". Lorefice ci ricorda l'importanza del basso e il grande tema della connessione tra vertenzialità e mutualismo. Il partito o intercetta i bisogni delle persone riacquisendo una parvenza di utilità o non è. E non sarà.
Ma – qui bisogna interrogarsi – ha senso riformare i partiti o il problema risiede nella stessa forma partito? Se lo chiede il ricercatore Fulvio Lorefice che recentemente ha scritto per Bordeaux edizioni "Ribellarsi non basta": un libro che ha il coraggio di andare controcorrente e analizzare il rapporto tra organizzazione e risultati concreti di avanzamento delle classi sociali più deboli, dando un taglio storico alla discussione.
"Il tema della strutturazione della società, della connessione delle sue articolazioni deboli e della forma della loro coscienza, è oggi più che mai cruciale" sostiene l'autore che sviluppa la sua ricerca da un preciso punto di vista: nel Novecento il partito è stato lo strumento più efficace di emancipazione per le classi subalterne. Lo stesso Antonio Gramsci scriveva che la spontaneità deve essere incanalata ed integrata in una direzione consapevole: "Questo è il compito del partito politico che lotta per l'egemonia".
Nella prima parte del libro l'autore conduce un'analisi storico/politica sulla crisi dei partiti e, più in generale, della rappresentanza. Qui risalta l'egemonia totalizzante dell'ideologia neoliberale. Fin dall'Unità d'Italia, i ceti dominanti avrebbero identificato la propria rappresentanza con le forme del potere, mentre gli sfruttati hanno avuto bisogno dell'organizzazione del partito. In passato – argomenta Lorefice – le elite avrebbero aspramente lottato contro la nascita dei partiti, ritenuti veicolo di sovversivismo "in quanto organizzatori delle istanze proletarie". Non a caso, il Pci di Palmiro Togliatti, nel secondo dopoguerra, denunciava la lotta dei padroni "contro la partitocrazia" che logorava lo spirito democratico e "apriva la strada ad avventure reazionarie". Ora è tutto diverso. Un'altra fase.
Nel libro si traccia la degenerazione degli attuali partiti. Ai vertici una classe dirigenziale screditata agli occhi dei cittadini i quali associano – lasciandosi ad andare a facili demagogie – il "partito" ad ogni forma di ruberia possibile, ai privilegi dei politici e ai loro vitalizi. Sono gli anni della post democrazia e della crisi della rappresentanza. I partiti di massa, come li abbiamo conosciuti nel Novecento, sono un lontano ricordo, così come le sezioni e il radicamento territoriale. Viviamo l'epoca dei "partiti liquidi" dove lo scontro tra diverse posizioni si focalizza sul terreno mediatico. "Meglio un tweet che visitare le periferie disagiate" è il pensiero che va per la maggiore.
Il vertiginoso calo degli iscritti, a sinistra come a destra, dimostra come la disaffezione della gente sia totale. E l'astensionismo esprime una precisa connotazione (per intenderci) di classe. Sono i settori popolari a scivolare verso il disimpegno e quelli più sfiduciati nei confronti della politica e dei corpi intermedi.
Delineato lo status quo, il secondo capitolo del libro si intitola, significativamente, "Gramsci nel Mediterraneo" soffermandosi sulle due esperienze, nel campo della sinistra, più interessanti in Europa: Syriza e Podemos.
Il partito di Tsipras, mentre era all'opposizione e al potere c'era ancora la destra di Neo Demokratia, ha rappresentato un'alternativa valida al disastro dei memorandum imposti dall'Europa: ha contribuito a far nascere nel Paese mense del mutuo soccorso, ambulatori e farmacie popolari, riallaccio di utenze, cooperative socio-lavorative per disoccupati, fabbriche recuperate e altre esperienze di autogestione. "Mutualismo" era la parola magica per contrapporsi al disastro umanitario causato dall'austerity. In quella fase Syriza creava un sistema nato dal basso che si sostituiva alle manchevolezze dello Stato: dove non arrivava il welfare, arrivavano le forme di autorganizzazione dei cittadini ellenici.
Così Podemos, in Spagna, è figlio del movimento degli Indignados che è riuscito a rompere lo storico bipartismo spagnolo Psoe/PP attaccando la "Casta", intesa non soltanto come ceto politico – come nel caso italiano - ma anche come oligarchia formata da banchieri ed imprenditori (corrotti). Tutti i dirigenti, a partire dal leader Pablo Iglesias, provengono dalle proteste No War e alterglobaliste o dalle recenti piazze indignate del 2011. "Podemos è un partito, ma pensato con una logica di movimento" afferma il responabile culturale Jorge Lago. Rompe culturalmente col Novecento, rifiutando ogni collocazione a sinistra dello scacchiere politico. Una posizione - dettata dagli studi del post marxista Ernesto Laclau - abilmente riassunta dall'espressione, ripetuta da Iglesias, "il potere non ha paura della sinistra, ma piuttosto del popolo". Il segreto starebbe nel costruire la sinistra, senza nominarla. E il partito avrebbe senso soltanto se in relazione coi movimenti e le realtà sociali.
La domanda fondativa, infatti, è quella che l'autore trae dal professor Alfio Mastropaolo, esperto della cosiddetta antipolitica: "Come può in una società così complessa operare una democrazia senza partiti, evitando che si trasformi in una democrazia plebiscitaria?". Il tema vero non è il "se", ma il "come" organizzarsi. Lorefice ci chiama a riflettere, rifuggendo da dogmatismi, a due esperienze della "periferia" della politica italiana: i "Luoghi Idea(li)", cioè la sperimentazione tracciata da Fabrizio Barca nel Pd, con un coinvolgimento molto marginale del partito. E il "partito sociale", nato all'interno di Rifondazione Comunista, sperimentato in alcune federazioni e oggetto di riflessioni congressuali. Può un partito centralizzato, con una propensione totalizzante, riunificare ciò che il neoliberismo ha diviso?
I partiti vanno separati dallo Stato, riportati nella società: evitano la deriva oligarchica, e la degenerazione odierna, solo se si socializzano nelle pratiche. Lorefice parla dei circoli come nuovi "sindacati territoriali". Altrimenti la politica muore. E trascina con sé la crisi della democrazia costituzionale. Il rischio è che nell'assenza delle organizzazioni e dei corpi intermedi si generino pulsioni vandeane, populiste e razziste. Va, allora, accettata secondo l'autore la sfida della "complessità", contro il "monoteismo" economicista e politicista.
Il sociologo Luciano Gallino, nel suo ultimo testo, scrive di "cattura cognitiva", perché dinanzi ai grandi, radicali problemi del nostro tempo la destra e la sinistra hanno programmi simili. E' questa la base del pensiero, anzi della "ragione unica". Di fronte ad un popolo che non esiste più in quanto tale, muto e atomizzato, il primo compito è ricostruire perfino le componenti rituali, i luoghi dello "stare insieme": nuove case del popolo, camere dei lavori territoriali, pratiche dell'autogestione, mutualismo, spazi della coalizione sociale. Sperimentare nuove forme di partecipazione e servizi dove lo Stato non riesce più a giungere.
Un partito, in definitiva, funzionerebbe soltanto se coniuga due stringenti questioni d'attualità: il conflitto sociale e la solidarietà. "Il nesso che sembra volersi ricostruire – si legge nel libro – è quello relativo all'efficacia dell'azione politica: la capacità cioè di produrre cambiamenti materiali, concreti, tangibili e quindi identità, legittimità e senso". Lorefice ci ricorda l'importanza del basso e il grande tema della connessione tra vertenzialità e mutualismo. Il partito o intercetta i bisogni delle persone riacquisendo una parvenza di utilità o non è. E non sarà.
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