giovedì 29 giugno 2017

Abbiamo un problema e si chiama Pd di Ida Dominijanni

Risultati immagini per renzismo fotoNel famoso paese normale che l'Italia non è mai diventata, e che peraltro temo non esista da nessuna parte, un'astensione di più del 50% in un'elezione comunale – quella in teoria più vicina agli interessi degli elettori – sarebbe l'unico argomento serio di cui parlare a commento del voto di domenica. O almeno, la cornice inaggirabile entro cui leggere i risultati, con minore esultanza da parte di chi ha vinto e minore strafottenza da parte di chi ha perso. A meno che il modello Macron non sia diventato davvero l'ultima tentazione di un sistema politico allo sbando: un leader che si prende la stragrande maggioranza del parlamento con il 20% dei voti dell'elettorato e buonanotte (come del resto consentiva il combinato disposto fra l'Italicum e la riforma costituzionale bocciata il 4 dicembre). Viene il sospetto che a questo miri, consapevolmente o no, il grosso dell'attuale classe dirigente: favorire la disaffezione per la politica e continuare a regnare sul nulla indisturbati.
    
È davvero sorprendente l'impermeabilità di Matteo Renzi e dei suoi non più alle critiche dei gufi e dei rosiconi, ma alla dura e inequivocabile realtà dei fatti. Sorprendente ma chiarificante, perché getta luce sulle ragioni di fondo del risultato stesso, che attengono, lo si voglia o no, a quello che il Pd è diventato, al centro e in periferia. A forza di rappresentarsi – come fa dalla sua fondazione, non da quando c'è Renzi – come il partito della Nazione, il partito perno del sistema politico, il partito i cui destini coincidono con i destini della democrazia italiana, il Pd ha finito con il credere che la sua esistenza e la sua centralità siano davvero una necessità storica che prescinde da quello che concretamente è e fa. Una sorta di immunizzazione politica, che gli consente di scrollarsi di dosso qualunque smentita dei fatti e degli elettori, quasi sempre, peraltro, largamente prevedibile per chiunque abbia un minimo di senso della realtà
Prendiamo il caso di Catanzaro, troppo rapidamente scomparso dalle cronache essendo invece, questa volta, alquanto sintomatico dell'aria che tira. Più di sei mesi fa, quando il sindaco uscente di Forza Italia, Sergio Abramo, era dato per spacciato e il PD non aveva idea di chi candidare, un indipendente di sinistra, Nicola Fiorita, dà la sua disponibilità, come si dice adesso, a scendere in campo. Quarantacinquenne, indipendente di sinistra, docente all'Unical (di diritto islamico nello spazio europeo, competenza che di questi tempi non guasta), scrittore (due romanzi di successo firmati con il collettivo Lou Palanca), attivista di Libera e presidente regionale di Slow Food, è il candidato ideale per aggregare il campo di centrosinistra e svegliare una città rassegnata e ripiegata.
    
Il Pd dovrebbe ringraziare e cogliere la palla al balzo. Invece chiude porte e finestre, cerca l'accordo con un impresentabile Ncd che non gli si concede, infine tira fuori il "suo" candidato, Enzo Ciconte, Pd doc, cardiologo e consigliere regionale di peso (indagato per Rimborsopoli, ma questo è perfino secondario), e lo blinda con 11 liste-omnibus che imbarcano la (peggiore) metà dell'amministrazione di centrodestra uscente e del relativo blocco elettorale di riferimento (mattone e grande distribuzione). Fiorita, nel frattempo, va per la sua strada, costruisce il movimento Cambiavento e tre liste civiche, fa una campagna elettorale empatica con la città, non recintata ideologicamente, dura contro il centrodestra e il suo gemello di centrosinistra ma priva di toni grillini e antipolitici, che sorprende fin da subito per la mobilitazione che suscita e i consensi che riceve.
    
Al primo turno supera qualunque aspettativa incassando il 23%, Ciconte si ferma al 31% (il 13% in meno della sua corazzata, che dirotta su Fiorita un buon 10% di voto disgiunto e in cui la lista targata Pd ottiene un misero 5%), Abramo resuscita con il 39%, la candidata del M5S non va oltre il 6,6%. Particolare saliente, l'affluenza alle urne, in una città da sempre in coda alle statistiche nazionali, balza a più del 72%. A quel punto, fuori tempo massimo, Ciconte cerca un impossibile accordo con Cambiavento per il ballottaggio, Fiorita rifiuta e non si schiera. Al secondo turno Abramo mantiene i suoi voti del primo, schizza al 64%, e si riprende per la quarta volta in venti anni la città senza alcun merito, Ciconte ne perde 4000 e precipita al 31%. L'affluenza precipita anch'essa e si allinea al dato nazionale del 47%
Fine della storia. Che ovviamente, come tutte le storie delle elezioni locali, non si può generalizzare. Ma che tuttavia qualcosa dice, e con chiarezza. Primo: la partecipazione al voto dipende dall'offerta politica: quando può votare per un cambiamento, o scegliere fra alternative vere, la gente va a votare, quando deve scegliere fra il peggio e il meno peggio o il gemello del peggio non ci va. Secondo. Il Movimento 5 Stelle non è un blocco granitico di voti congelati nella protesta fine a se stessa: quando c'è in campo una proposta di cambiamento seria e plausibile il M5S si disintegra. Terzo. La presunzione del Pd di essere quello che dà sempre le carte, anche quando poi si rivela un partito del 5%, lo porta alla rovina, è ostativa per qualunque politica delle alleanze, sbarra la strada a candidati e esperienze emergenti e potenzialmente vincenti. Detto più crudelmente, l'alternativa in cui si sta esercitando il dibattito nazionale è del tutto astratta: "questo" Pd non solo non ha nulla della "vocazione maggioritaria" tranne l'arroganza, ma non può essere il perno di nessuna coalizione e di nessun centrosinistra "largo"; è sempre il problema, mai la soluzione.
La campana delle amministrative suona per Renzi ma non solo per lui. Il tempo delle formule è finito per tutti. Di fronte a un paese che si riconsegna a una destra del rancore, la ricostruzione di un campo di sinistra è possibile se non procede per somme e sottrazioni né solo per i pur necessari programmi, ma per la ritessitura paziente, razionale e affettiva, di una rete di esperienze, pratiche, soggettività vive, nate e cresciute malgrado le macerie che lo ingombrano.

E’ la fine del renzismo e, forse, anche del Pd. di Aldo Giannuli

 
Il commento di Renzi ai risultati di domenica scorsa mi ricorda quella boutade del finto proverbio arabo: “se cadi ed uno stecco ti cava un occhio, ringrazia Allah: poteva essere biforcuto!”. Renzi dice che non ha perso, perché ha preso 67 comuni contri i 59 del suo concorrente, ma quello ha preso Genova, La Spezia, Alessandria, Asti, Como, lodi, Sesto, Monza, Piacenza, Pistoia, L’Aquila, Verona, Riccione, Asti, Gorizia, Oristano, Rieti, Frosinone, Catanzaro, Trapani e lui solo Lucca, Cuneo, Lecce, Taranto e Padova fra o capoluoghi, e poi deve accontentarsi di Lissone, Nocera inferiore, Misterbianco e cose così.

“Pesando” i comuni capoluogo in base alla popolazione si ricava che la vittoria del centro destra supera l’80% del campione (al netto delle civiche e dei comuni M5s). Per di più il caso pugliese (dove il Pd, oltre che i due capoluoghi, conquista anche grossi centri come Gravina, Bitonto, Martina Franca, Molfetta) meriterebbe di essere trattato a parte: è l’unica regione dove i renziani non hanno vinto nel congresso ed il partito ha coloritura diversa. Poteva andar meglio? Direi che è difficile immaginare come potesse andar peggio. C’è sempre un peggio, ma, insomma…
E, infatti, anche i commentatori delle varie testate giornalistiche iniziano a dire esplicitamente che è la fine del renzismo. In realtà, Renzi ha fatto fallimento il 4 dicembre scorso, ma sono stati pochi ad avere il coraggio di scriverlo e, dopo, il suo trionfo congressuale aveva spinto molti a parlare di rimonta in atto. Ora è tutto così evidente che nessuno azzarda più a dire cose del genere. Il Pd, quando gli va bene, limita le perdite, ma non conquista un solo voto nuovo. La capacità attrattiva di Renzi è crollata a zero. Non solo: il Pd è ormai un partito solo e privo di alleati, e si è ripetuto sostanzialmente lo schema del referendum che alleava destra, 5 stelle e sinistra contri il Pd debolmente appoggiato da centro. In questo caso c’è stata qualche coalizione con l’ex sinistra Pd ormai Mdp, ma, in compenso, è stato perso qualsiasi rapporto con i centristi, inviperiti per lo scherzo tentato della clausola di sbarramento al 5%.
Anche la prospettiva di un nuovo governo di coalizione Pd-Fi sembra sbiadire: nel Pd molti storcono il naso, Berlusconi sembra alzare il prezzo ed è condizionato dalla Lega e dagli amici della Lega in Fi, non è neppure scontato che questa coalizione, al Senato, conquisti i seggi necessari. A mezza bocca, alcuni cominciano a dire che, in caso nessuno abbia i numeri è meglio un governo d’affari di ispirazione presidenziale, Personalmente sono un tifoso del governo Pd-Fi: magari lo facciano! Sarebbe un terno secco!
La crisi è appena all’inizio ed è difficile capire dove andrà a parare ed entro che tempi. Quel che è chiaro è che per ora la crisi sta investendo in particolare il Pd.
La centralità renziana non esiste più, con il naufragio del progetto di potere contenuto nel pacchetto Italicum-riforma costituzionale Renzi non ha più nulla da dire, il re è nudo e non ha nessuna idea che non sia il momentaneo galleggiamento. Ma Renzi non è rimuovibile dalla sua posizione di potere, la segreteria del Pd: il congresso si è appena concluso ed è difficile immaginare la deposizione di un segretario che ha appena stravinto il confronto. Ma non si tratta solo di questo: chi c’è in grado di proporre una alternativa credibile nel Pd?
La prova appena finita dice che tutto quello che è venuto fuori è una fotocopia sbiadita di Renzi (Orlando) ed un capopopolo regionale (Emiliano). C’è altro nel Pd? Renzi porta il Pd nel pantano, ma il Pd non ha come liberarsene.
Molto grave è l’assoluta mancanza di autocritica per una cosa enorme come la sconfitta del 4 dicembre: un partito progetta la riforma costituzionale più profonda dall’inizio della Repubblica, cerca di imporla contro tutti gli altri, straperde il referendum con un clamoroso 40 a 60 e poi fa finta che non sia successo niente. Ma vi sembra realistico che si possa uscire da un a simile prova senza pagare dazio? Per di più, questo accade mentre quasi tutti i partiti dell’internazionale “socialista” stanno incassando sconfitte a ripetizione, per cui non si capisce perché questo debba risparmiare la sua sezione italiana. Tutto questo è semplicemente ignorato dal dibattito interno al Pd che si avvoltola su sé stesso fissandosi sulle cose più infondate o meno rilevanti ( le situazioni locali, le difficoltà organizzative, l’ostilità degli altri che non si capisce che obbligo abbiano di non esserlo eccetera).
E qui bisogna fare ancora la finanziaria….

martedì 27 giugno 2017

Al ‘popolo del Brancaccio’ e a tutti quelli che si uniranno


Al ‘popolo del Brancaccio’ e a tutti quelli che si uniranno       
di Anna Falcone e Tomaso Montanari
Vogliamo per prima cosa ringraziare tutte e tutti per l’entusiasmo, l’intelligenza e la passione civile con la quale avete partecipato all’assemblea di domenica, e poi al dibattito sulla rete e nelle tante occasioni di incontro che hanno punteggiato questa settimana.
Crediamo che il più importante risultato di questo nostro impegno comune sia stato aver riunito, dopo tanto tempo, quella ‘maggioranza invisibile’ che con la crisi è scivolata nella precarietà e nel disagio, che non è più ascoltata dalle istituzioni, e che, però, continua a mandare avanti, con immensi sacrifici, questo Paese. La stessa maggioranza a cui è stato fatto credere che non ci fosse alternativa ai tagli alle politiche sociali, alla scuola, alla mercificazione del lavoro e all’azzeramento dei diritti.
E invece l’alternativa c’è, e lo hanno dimostrato a gran voce le tante donne e uomini che il 18, sul palco del Brancaccio hanno dato voce ai problemi più urgenti e alle possibili soluzioni alternative, al dramma della diseguaglianza e alla speranza della rinascita.
A partire dalla rivendicazione dei diritti costituzionali. Che non è da estremisti, ma è il traguardo minimo a cui ambire per costruire un’idea di società e un futuro, per l’Italia e per l’Europa, alternativo al ‘turboliberismo’ e al pensiero unico dominante.
Abbiamo detto a gran voce, e tutti insieme, che il re è nudo. Il re di una politica fatta dall’alto, sulle sigle e sulla spartizione del potere: quel re è nudo. Perché fuori della porta del potere c’è un popolo che vuole davvero ripartire dalle esperienze civiche per costruire l’unità non della vecchia Sinistra, ma della Sinistra che non c’è ancora. E la vuole costruire in modo che non si rompa: e cioè dal basso, sulle cose e sulle persone. Convergendo su un progetto che convinca per concretezza e respiro.
Il 18 giugno, per la prima volta dopo tanto tempo, le forze civiche e di Sinistra che vogliono lavorare costruttivamente a questo progetto hanno iniziato a tratteggiare una piattaforma comune, mettendosi dietro le spalle una stagione di identitarismi, divisioni e personalismi. Fine delle passerelle, delle sigle e della vecchia politica: tutti i partecipanti hanno indicato priorità e idee innovative su cui lavorare per ricostruire la nostra idea di Paese, la nostra idea di progresso e di sviluppo. Un progresso e uno sviluppo umani.
Con un obiettivo finale: la realizzazione di una democrazia compiuta, in cui la libertà, l’idea di giustizia, l’uguaglianza e l’equità sociale, la possibilità di costruire il proprio percorso di vita e felicità sia condizione di tutti, non privilegi per pochi. E uno intermedio, e ad esso funzionale: la ricostruzione della partecipazione politica, della fiducia nelle istituzioni, di una libera e autorevole rappresentanza parlamentare, e l’organizzazione di una azione comune e condivisa nella società, sui territori.
Ora è il momento della proposta. Più che discutere di cosa stiamo costruendo, ci serve concentrarci sul progetto necessario per cambiare la vita delle persone.
Per questo invitiamo tutte e tutti coloro che si riconoscono negli obiettivi emersi dall’assemblea al Teatro Brancaccio a farsi promotori nel proprio territorio di assemblee sul programma aperte alla più ampia partecipazione dei cittadini, convocate e condotte secondo i principi di massima trasparenza, apertura, pluralità e democraticità interna.
Non chiedete il permesso a nessuno, non aspettate segnali dal centro, non perdiamoci nelle nebbie dei giochi politicisti: usiamo l’estate per avviare un grande percorso di ascolto e confronto sui temi!
Vi proponiamo di organizzare dal basso, coinvolgendo tutte le realtà potenzialmente interessate e già attive (singoli cittadini, associazioni, comitati, movimenti, partiti), tutti coloro che possono contribuire alla discussione e alla costruzione di proposte serie ed efficaci. Appuntamenti tematici, possibilmente all’aperto, nelle piazze e nei luoghi di incontro, in tempi e orari in cui donne e uomini, giovani e meno giovani, possano partecipare per fornire idee, mettere a disposizione competenze ed elaborazioni, raccogliere adesioni e discutere tutti insieme di proposte credibili, chiare e innovative.
In questi anni comitati, forze politiche, esperienze civiche e sociali, movimenti, non si sono limitati a protestare contro le politiche di austerità e precarizzazione che hanno impoverito milioni di persone, ma si sono organizzati, hanno analizzato, discusso, elaborato idee e soprattutto soluzioni: ora dobbiamo mettere a sistema, coordinare e affinare questo straordinario patrimonio di idee e proposte.
Da ciascun appuntamento potranno uscire richieste, problemi, nodi, proposte, soluzioni che verranno messi a disposizione del percorso nazionale.
Noi due non potremo essere ovunque: e non vogliamo neanche farlo, perché questo processo parte senza leaders e senza protagonismi. Per continuare a lavorare insieme cercheremo di rendere il sito più efficiente in attesa di darci, in un’assemblea autunnale, una organizzazione condivisa.
Ispiriamoci alla grande figura di Stefano Rodotà, che già ci manca così dolorosamente. Ispiriamoci alla sua capacità di mostrare che il mondo è irriducibile al mercato, alla forza con cui ha messo la conoscenza al servizio della costruzione di una società diversa, al suo stile dolce e fermo.
Non vogliamo in alcun modo limitare il dibattito a temi prestabiliti – anzi, il nostro questionario, già distribuito in sala il 18, rimarrà on line per continuare a raccogliere le vostre idee e i vostri suggerimenti – ma vi segnaliamo una serie di nodi sui quali crediamo che dovremo comunque riflettere insieme.
1) Attuazione della Costituzione
(Sovranità popolare; uguaglianza sostanziale; parità di genere; la democrazia nei partiti e nei movimenti – la separazione fra cariche politiche e cariche istituzionali; cancellazione del pareggio di bilancio nell’articolo 81)
2) Lavoro
(Ripristino dell’articolo 18 ed estensione delle tutele a tutte le forme di lavoro; reddito di dignità – partendo dalla proposta di Libera; lotta alla precarizzazione del lavoro e delle professioni intellettuali; riforma delle 6 ore lavorative e diritto al tempo)
3) Redistribuzione della ricchezza e giustizia sociale
(Riaffermazione del ruolo dello Stato in economia, nelle strategie di sviluppo, nella tutela dei diritti e nella erogazione dei servizi pubblici; diritto a un’equa retribuzione e parità di retribuzione fra uomini e donne: equità e progressività fiscale; strategie di contrasto all’evasione fiscale: tassa patrimoniale; tassa di successione sui grandi patrimoni)
4) Economia, Fiscalità e diritti sociali
(Diritto alla salute e potenziamento della prevenzione; accesso alla diagnostica genetica e alle cure più all’avanguardia; diritto all’assistenza sociale; sostituzione della politica dei “bonus” con servizi socio-assistenziali garantiti; diritto all’abitare e recupero del patrimonio immobiliare esistente)
5) Istruzione pubblica e libertà di manifestazione del pensiero
(Abrogazione della Buona Scuola; gratuità dell’università, da finanziare con la tassa di successione sui grandi patrimoni; potenziamento della ricerca pubblica; accesso alla conoscenza e alle reti informatiche; pluralismo e libertà dell’informazione)
6) Ambiente e patrimonio culturale
(Riconversione energetica ed energie verdi; consumo di suolo zero; un’unica grande opera pubblica: il risanamento ambientale, e la messa in sicurezza del territorio; abrogazione della riforma della conferenza dei servizi contenuta nella Legge Madia; abrogazione della riforma Franceschini e ricostruzione della tutela pubblica)
7) I migranti
(Una politica attiva di accoglienza; cittadinanza; integrazione; attuazione dell’articolo 10 della Costituzione; corridoi umanitari)
8) Giustizia
(La giustizia come “diritto sociale”: politiche di prevenzione, accorciamento dei tempi, certezza della pena, ampliamento dell’assistenza legale ai soggetti deboli e ai non abbienti; avvocati pubblici; contrasto attivo alla violenza di genere; condizioni di vita, sicurezza e diritti dei carcerati; ampliamento delle pene alternative)
9) Politica internazionale
(Il ruolo nell’Italia nel contesto internazionale; l’Italia ripudia la guerra – attuazione dell’articolo 11 della Costituzione; l’Europa: revisione dei trattati, l’euro, la costruzione della cittadinanza europea; no al CETA)
10) Lotta alle mafie e alla corruzione
(Prevenzione e contrasto alla criminalità organizzata; interdizione definitiva dai pubblici uffici e dalle cariche pubbliche per i condannati per reati contro la P.A.; impiego sociale dei patrimoni confiscati; reinserimento sociale).
Buon lavoro, e a presto
Anna Falcone , Tomaso Montanari

Podemos non è nato per ricostruire la sinistra

Le Vent Se Lève intervista Juan Carlos Monedero

Traduciamo qui un’intervista di Le Vent Se Lève a Juan Carlos Monedero, cofondatore di Podemos e professore di scienze politiche all’Università di Madrid
 
podemos26Si sente spesso dire che Podemos è nato sulla base di un’«ipotesi populista» costruita a partire dai lavori del teorico argentino Ernesto Laclau e delle esperienze latino-americane. Sei stato uno dei primi fondatori del partito ad opporsi a questa «ipotesi», considerandola una “tattica” più che una “strategia”. In effetti, già in un articolo apparso nel giugno 2015 presentavi le debolezze di questa impostazione. Potresti tornare su queste critiche in merito alla logica populista?
Ernesto Laclau non ha avuto alcuna influenza nella creazione di Podemos: questa è stata un’intellettualizzazione a posteriori. Sapevamo quello che dovevamo fare, non perché un teorico ce l’aveva dettato, ma prima di tutto grazie alle nostre esperienze in Spagna e America Latina: sapevamo che non bisognava più parlare di destra e di sinistra, sapevamo che la vita politica mancava di emozione. Lo sapevamo non per aver letto Spinoza, ma perché potevamo percepirlo grazie alle nostre stesse esperienze. Nel mio caso, avevo per esempio girato la Spagna per tre anni con il Frente Cívico, un movimento sociale creato nel 2012 da Julio Anguita [segretario del Pce dal 1988 al 1998, ndr]. In tale occasione, avevo potuto rendermi conto che le proposte e le alternative che avanzavamo (l’idea di formare un blocco civile, un contro-potere) suscitavano molto interesse ed attenzione. Era necessario recuperare questo consenso rispetto alla freddezza tradizionale del pensiero moderno della sinistra. In altre parole, bisognava iniettare un po’ di post-modernità nella sinistra. Avevamo anche capito, grazie all’esperienza latino-americana, che ci mancava un nemico, che la designazione di un tale nemico era un fatto essenziale. Sapevamo anche che in Spagna avevamo un problema supplementare per il fatto di non avere una patria, mentre tutti i processi latino-americani si erano ricostruiti sulla base di una reinvenzione della patria. Ma tutte queste cose di cui ci rendevamo conto non erano allora concettualizzate in un quadro teorico definito.
 
Nella sua tesi di dottorato, discussa nel 2012, due anni prima della nascita di Podemos, Íñigo Errejón si fondava già ampiamente sui lavori di Ernesto laclau e di Chantal Mouffe. Allo stesso modo, Pablo Iglesias ha fatto riferimento in più occasioni a questi due autori nel programma televisivo Fort Apache, a cui Chantal Mouffe è stata d’altronde più volte invitata. Benché questa influenza sia forse esagerata dai media che presentano Laclau e Mouffe come gli “ispiratori” di Podemos, mi sembra tuttavia che i loro lavori sul populismo abbiano avuto un’influenza importante sulla strategia politica del partito.
Noi siamo un gruppo di professori di scienze politiche, il che significa che tutto ciò che pensiamo, tutto ciò che diciamo e tutto ciò che facciamo sono legati. Che cosa alimenta cosa? Quando leggo qualcosa, mi sembra interessante in quanto fa eco a situazioni con cui mi sono già misurato. È dunque vero che quando abbiamo analizzato la situazione in Spagna Laclau ci è sembrato interessante, anche perché nessuno di noi veniva da un marxismo classico. Gli approcci post-marxisti ci seducevano. Penso che l’«ipotesi populista» si sia formulata chiaramente per la prima volta in Podemos in occasione delle elezioni andaluse di marzo 2015. Il documento allora presentato doveva inizialmente essere sottoscritto da tutti i fondatori di Podemos. In quel momento, decisi di non apporvi la mia firma perché in disaccordo con il suo contenuto ed ecco che apparvero le discussioni intorno alla questione. Finirono per sottoscriverlo soltanto Pablo Iglesias e Íñigo Errejón, gli unici due fondatori che difendevano in quel momento tale «ipotesi».
 
Che cosa non ti convinceva in quel documento?
In primo luogo, penso che l’«ipotesi populista», che funzionava bene in un contesto latino-americano, non fosse applicabile né in Spagna, né in Europa. La Spagna, anche al culmine della crisi, non è mai stata distrutta come l’America latina dopo la fase neo-liberista. Qui, nel momento peggiore, il 65% dei disoccupati continuava a ricevere un sussidio di qualche tipo. La struttura sociale in America latina era tale che il popolo era completamente dissolto e poteva allora essere reinventato. In secondo luogo, ritengo che l’«ipotesi populista» non sia che un momento, vale a dire che il populismo è un momento utile nella fase destituente: nella fase in cui ti confronti con le élite responsabili del divorzio fra la tradizione liberale e la tradizione democratica tipiche dell’Occidente. Ogni crisi – nel 1929, nel 1973 o nel 2008 – si caratterizza per le tensioni che sorgono tra queste due tradizioni che fondano i nostri Stati democratici, i nostri Stati di diritto. Nei periodi di crisi, si manifestano tensioni perché le forze dello status quo tentano di ignorare la dimensione democratica, quella dei diritti sociali, della partecipazione, dello sciopero. Queste tensioni generano sempre una collera popolare che provoca di conseguenza una disaffezione verso coloro che comandano, cioè, nel contesto delle nostre democrazie rappresentative, verso quelli che occupano il parlamento e il governo – oppure, se vi è una buona lettura della situazione, verso i media e le grandi imprese. Vi è sempre una disaffezione nei confronti del mondo politico ed è quello che è successo nel 2008.
 
In cosa è utile il populismo in quella che designa come la fase destituente?
Il populismo è una fase destituente che ci ha permesso, in Spagna, di costruire un “noi” e un “loro” a partire da due significanti vuoti: la casta e il popolo. Questa costruzione è stata articolata grazie ad un leader. Ma c’era un problema in questa ipotesi che mi aveva sempre preoccupato: la costruzione della catena di equivalenza implica che tutte le lotte debbano perdere in intensità e forza, essere meno esigenti con sé stesse. Penso che il significante vuoto che illustra meglio la mia posizione sia il peronismo. Il peronismo si è trasformato in un nulla, sicché chiunque poteva alla fine rivendicarne l’appartenenza: un ecologista, una persona che lotta per il diritto all’aborto, una persona di estrema sinistra, ma anche una persona di estrema destra. Il peronismo poteva includere tutto perché era vuoto. In Spagna, con la creazione di Podemos, ci trovavamo di fronte sfide complicate: non esistevamo ancora e di colpo dovevamo esistere, ci trovavamo a giocare con gli strumenti del sistema per poterlo superare utilizzando i suoi stessi spazi, come la televisione, costituendoci come partito politico. Dovevamo diventare uno di loro per poter lottare contro di loro. Era allora della massima importanza restare molto rigorosi per non trasformarci in uno di loro. C’è una frase che amo ripetere per spiegare il mio intento: «bisogna urlare con i lupi affinché essi non ti divorino».
 
Perché, secondo te, l’«ipotesi populista» non può essere valida che in questa prima fase?
Da questa fase destituente possono nascere tanto populismi di sinistra quanto populismi di destra. Il sistema cercherà un populismo di destra per rispondere alla crisi, come nel 1929 o nel 1973. In Spagna, se non avessimo rimarcato la nostra differenza, se non avessimo approfittato dell’apporto più importante del movimento 15M [il movimento degli indignados del 2011, ndt], ovvero dell’aver costruito una nuova narrazione, sarebbe potuto facilmente nascere un populismo di destra. Trump, Le Pen, Grillo, Corbyn, Sanders, Mélenchon, Podemos. Tutti noi raccontiamo le difficoltà del modello neoliberista e puntiamo il dito contro gli stessi problemi: la disoccupazione, la precarietà, gli sfratti, la globalizzazione neoliberista.
 
Qual è dunque la differenza tra Le Pen, Grillo e Podemos?
Ce ne sono due. La prima riguarda l’identificazione dei responsabili della situazione attuale: noi accusiamo i banchieri, i finanzieri, le élite politiche, mentre il populismo di destra indica come colpevoli i sindacati o gli immigrati. È sicuramente più facile addossare la responsabilità all’immigrato, una persona che puoi incontrare ogni giorno, piuttosto che ad un banchiere che vive in Svizzera. La seconda differenza, che è essenziale, risiede nella costruzione, vale a dire non tanto nella fase destituente quanto in quella costituente. L’«ipotesi populista» si riferisce ad una tattica, non ad una strategia di lungo termine. Avevamo bisogno formulare chiaramente ciò che andavamo a proporre come alternativa.
 
Quale strategia doveva quindi essere adottata in questa fase costituente? Secondo te perché era importante distaccarsi dalla logica populista?
I difensori dell’«ipotesi populista», primo fra tutti Íñigo Errejón, pensavano che quest’ultima avrebbe dovuto semplicemente mobilitare quegli elementi che avrebbero potuto farci guadagnare consenso e che noi non avremmo dovuto parlare di quei temi che avrebbero potuto farci perdere voti, vale a dire che avremmo dovuto parlare unicamente di cose astratte per ottenere l’appoggio più ampio possibile: la patria, la casta, la corruzione. Il mio approccio è stato diverso, io ritenevo che quest’ipotesi fosse stata valida per l’America Latina, ma che non lo fosse per la Spagna. Nel continuare ad insistere sulla fase destituente, nell’evitare di formulare chiaramente la nostra alternativa, abbiamo lasciato campo libero al populismo di destra. Secondo me, costruire un programma era prioritario dal momento che si stava iniziando a parlare di alcune questioni e tematiche che dovevano essere discusse rapidamente perché altrimenti, una volta al governo, non saremmo stati in grado di applicare le nostre politiche.  Il popolo ci avrebbe allora domandato: «Perché mettete in pratica queste politiche senza averne mai parlato prima?». E la destra e le élite ci avrebbero attaccato senza che nessuno ci potesse difendere, dal momento che non avevamo formulato chiaramente e a priori le nostre proposte e che non le avevamo inserite nella nostra agenda politica. Per tutte queste ragioni, nel momento in cui l’«ipotesi populista» favorisce lo svuotamento dei significanti, finisce per svuotare di senso le reali possibilità di cambiamento.
 
Quando dici che la logica populista in definitiva impedisce di mettere in campo dei veri cambiamenti, a cosa ti riferisci concretamente?
Penso alle lotte sociali, alle rivendicazioni professionali o alla struttura del lavoro. C’è un esempio concreto di qualcosa che abbiamo deciso di non accantonare pur sapendo che non sarebbe stato un cavallo vincente, ma piuttosto uno perdente: la questione della plurinazionalità.
 
La battaglia per la plurinazionalità è difesa da Íñigo Errejón, uno dei principali sostenitori dell’«ipotesi populista» in seno a Podemos.
Abbiamo avuto importanti dibattiti riguardo questa questione. Io mantengo delle differenze di fondo con Íñigo Errejón e Pablo Iglesias. Io ritenevo che fosse importante parlare di Spagna visto che noi siamo un partito spagnolo. Ti puoi presentare come un partito catalano se ti presenti in Catalogna. Nel nostro caso, noi siamo un partito spagnolo e dunque non possiamo essere a favore dell’indipendenza della Catalogna. L’indipendenza della Catalogna è una battaglia fondamentale nella biografia di Errejón, e questa è la ragione per cui ha insistito affinché noi difendessimo la questione della plurinazionalità. Per contro, ha anche insistito affinché Podemos non parlasse di politica di classe. L’«ipotesi populista» si è trasformata in questo modo in una «politica delle classi medie». Quest’«ipotesi» sbaglia nella sua lettura di Gramsci. Gramsci differenziava l’egemonia organica, che si costruisce sulle contraddizioni reali, dall’egemonia arbitraria. In Laclau, tutto è discorso, fino ad arrivare all’economia: anche l’economia è un discorso.
 
Certo, ma nei termini di Laclau, il discorso non è solamente un sinonimo di «linguaggio»: il termine include anche, per esempio, le pratiche sociali.
Quando Laclau dice che la politica e l’economia sono la stessa cosa, mette da parte le condizioni materiali della lotta di classe. Secondo me, è un errore. Cosa implica questo postulato? Nell’«ipotesi populista» di Íñigo Errejón – ma non in quella di Pablo Iglesias – c’è di fatto una sensibilità più marcata alle rivendicazioni post-moderne, una tendenza a mettere da parte il resto. C’è una cosa importante da approfondire: qual è la posizione di ciascuno dei fondatori di Podemos rispetto alle categorie sociali più colpite dalla crisi? Questa questione permette di mettere in luce gli elementi centrali che hanno strutturato le nostre discussioni sul 15M. Fra Íñigo Errejón e me c’è stata una divergenza dal principio. Errejón pensava che fosse necessario rappresentare il 15M. Io, no. Io pensavo che fosse necessario ricondurre il 15M. Il 15M era composto da settori popolari così come da classi medie colpite dalla crisi il cui fine era semplicemente tornare alla loro precedente condizione. L’interesse di queste classi medie era quindi di risolvere la crisi, non perché fossero contro il sistema, ma perché erano contro gli eccessi del sistema. A me non interessava rappresentare dei borghesi interessati ad andare tre volte all’anno in vacanza o al bar a bere, ma a cui non era mai interessato nulla dei dieci milioni di poveri che c’erano in Spagna al momento della crisi. Queste persone sono ben rappresentate da Albert Rivera [presidente del partito centrista Ciudadanos, ndr]. Io non volevo rappresentare loro. Io volevo fare in modo che le persone in collera potessero avere un’analisi e una posizione più emancipatrici.
 
Per vincere le elezioni, non è necessario riuscire a parlare anche a queste classi medie che tu descrivi? Non è importante riuscire ad ampliare l’elettorato?
Certo, ma tutto si reduce a quello che ho appena detto. Se un borghese mi vota perché l’ho ingannato, quando metterò in piedi le mie politiche lo troverò contro di me. Non mi sosterrà. Secondo la mia opinione, questo sarebbe quindi mentirgli, farlo cadere in una trappola. Ma io non voglio che questi mi votino. Io non voglio sedurli. Sedurre vuol dire imbrogliare. Io voglio che le persone facciano le loro riflessioni e che votino una formazione politica per il suo discorso emancipatore, non per un discorso mirato solamente a salvare le classi medie impoverite dalla crisi.
 
Pedro Sánchez, che viene rappresentato come l’ala sinistra dello Psoe, è da poco stato rieletto alla testa del suo partito. Cosa ci dici dei rapporti fra Podemos e il Psoe? C’è una competizione per lo spazio politico di sinistra fra i due partiti?
Sto per pubblicare un articolo a riguardo, nel quale spiego che siamo in tre a contenderci lo spazio destituente: Ciudadanos, Podemos e il Psoe di Pedro Sánchez. Quest’ultimo si trova davanti delle contraddizioni impossibili da risolversi. In primo luogo, deve tranquillizzare l’apparato del suo partito senza potersi confrontare direttamente con esso. Eduardo Madina e José Carlos Díez, le due persone più importanti dentro il Psoe, hanno per esempio rifiutato di far parte dell’esecutivo del partito a seguito dalla sua elezione. Madina ha persino dichiarato che Sánchez porterà il partito alla sconfitta. L’apparato ti divora. Sánchez deve costruire delle maggioranze nel suo confronto con Podemos. Il Psoe l’ha d’altro canto detto chiaramente: il Partito Popolare è il suo avversario, Podemos è il suo nemico. Quindi, anche se la base militante desidera che il Psoe si avvicini a Podemos, questo è impossibile dato che l’apparato di partito ci considera come il suo nemico. È una contraddizione molto importante. In più, Sánchez deve riavvicinarsi a Ciudadanos. Infine, deve soddisfare la base del partito che l’ha votato per attuare politiche di sinistra. Tutto questo mi pare contraddittorio.
 
Di fronte a queste contraddizioni, pensi che Podemos possa recuperare gli elettori del Psoe? È questo l’obiettivo per le elezioni politiche del 2020?
Ne sono certo. Era del resto la mia ipotesi tre anni fa: quando Podemos è nato, nel gennaio 2014, fra i 7 e gli 8 milioni di spagnoli non si riconoscevano in nessun partito politico e sono poi andati a votare per noi. Io avevo una lettura differente da quella di Iglesias e di Errejón: non ho mai pensato che avremmo potuto ottenere la maggioranza assoluta in Parlamento alle prime elezioni politiche del dicembre 2015. Nella mia lettura della situazione, una volta che saremmo riusciti a diventare una forza rilevante della politica spagnola, il Pp e il Psoe si sarebbero raggruppati in una sorta di grande coalizione. Questo avrebbe significato che una parte importante del Psoe avrebbe finalmente abbandonato il partito. È inevitabile che questo succeda, prima o dopo. Il Psoe si spaccherà: o verso destra o verso sinistra, ma in tutti i casi finirà per rompersi. Per esempio, possiamo vedere oggi come Sánchez si sia già allineato a Rajoy sulla mozione di sfiducia e sul referendum in Catalogna. Le sue contraddizioni sono troppo forti perché il partito tenga.
 
Come giudichi la situazione politica nel resto d’Europa? Vedi un affaticamento generale della socialdemocrazia?
In Francia ed in Italia possiamo fare la medesima constatazione sull’affaticamento del vecchio mondo. Il problema, in questi due paesi, risiede nel fatto che il nuovo, la novità, ha seguito dei percorsi diversi perché non ha avuto niente di analogo al 15M. In Francia, le Nuit Debout sono state un’imitazione del 15M. Ho avuto la sensazione che loro guardassero troppo verso la Spagna, cercando di imitare il movimento che noi abbiamo conosciuto. C’era poi anche un altro problema. In Spagna, col 15M, potevamo vedere che il vecchio mondo, nel suo insieme, stava soccombendo. Podemos esiste grazie al 15M, che ha costruito una narrazione che colpevolizza i banchieri. Qui in Spagna, le persone non potevano più rivolgersi a Pp, Psoe o Izquierda Unida. Sarebbe stato impossibile: erano troppo vecchi. Al contrario, in Francia, per certi aspetti il vecchio mondo continua a rivendicare il suo spazio. È spettacolare che un banchiere come Emmanuel Macron rappresenti la novità più di Jean-Luc Mélenchon. Credo al tempo stesso che Mélenchon non sia stato molto «generoso»: avrebbe dovuto lasciare la possibilità ad altri leader di emergere. In Italia, la stessa sinistra – sempre per mancanza di «generosità» e per la sua frammentazione – non ha potuto far emergere nuovi leader. Questo ha permesso la nascita del movimento di Beppe Grillo. Eppure, qualcosa di alternativo e proveniente da sinistra sarebbe potuto emergere in Italia. In ogni momento di crisi, nel 1929, nel 1973 od oggi, si osserva esattamente lo stesso fenomeno. Ci sono sempre quattro risposte da parte del potere: 1) dire che non ci sono alternative; 2) formare una grande coalizione, che vuol dire ugualmente che non c’è alternativa; 3) la nascita di un populismo di destra, come Dollfuss, Hitler, Rivera o Trump; 4) una soluzione autoritaria. Questi populismi di destra fanno parte del sistema. Trump è il sistema, è un milionario, non farà mai niente contro il sistema, così come Marine Le Pen è parte integrante del sistema, anche se pretende di non esserlo. Noi di Podemos non siamo contro gli eccessi del sistema, siamo contro il sistema, dato che pensiamo che le situazioni di crisi siano dovute interamente al sistema stesso.
 
Quale strategia deve quindi adottare oggi la sinistra in Europa?
Tre sono le assi più importanti per capire cosa dobbiamo fare oggi: 1) destra/sinistra, un’asse che continua ad esistere nonostante sia indebolita; 2) vecchio/nuovo; 3) alleato/opposto alle forze tradizionali. Noi dobbiamo opporci, rappresentando il nuovo e la novità. Questa è una cosa che si può fare tanto da destra quanto da sinistra. Se tu lo fai da destra, stai mentendo, perché non rappresenterai mai un vero rinnovamento o una reale opposizione. Bisogna quindi farlo da sinistra. Questo è il punto chiave. Quando Podemos è nato, non volevamo reinventare la sinistra, o dare nuova linfa alla vecchia sinistra: noi volevamo ricostruire uno spazio di emancipazione.

ELOGIO DEL MIERDAZO (e della rapina in banca)


ELOGIO DEL MIERDAZO (e della rapina in banca by the way
di Franco Berardi
Note sul signor Zonin, il suo amico Blair e Banca Intesa
 
Horst Fantazzini è una delle persone più garbate che ho conosciuto. Lo incontrai nel 1972, in una cella del carcere di San Giovanni in Monte dove scontavo una pena carceraria per manifestazione non autorizzata (la cella numero 10 per la precisione, ma non cercatela, perché quel carcere non esiste più, al suo posto oggi c’è la facoltà di storia dell’università di Bologna). Quando veniva a visitarmi nella mia cella durante l’ora d’aria indossava la giacca da camera color amaranto, e mi raccontava un po’ della sua vita. Era stato condannato per ventitré rapine compiute nella regione emiliana. Un record invidiabile (io gli invidiavo quel record, perché non ero altro un intellettuale pippaiolo e non avevo fatte rapine). Non aveva mai portato un’arma. Si avvicinava alla cassa, e con accento vagamente francese diceva: questa è una rapina la prego di darmi tutti i soldi che ha in cassa. Generalmente il cassiere gli dava un bel pacchetto di banconote e lui se ne andava non senza ringraziare. Una volta, a Piacenza, un cassiere gli rispose sgarbatamente dicendo che non c’erano soldi, e lui disse semplicemente: mi scusi per il disturbo e se ne andò.
Provateci oggi. All’ingresso ci sono congegni che vi scrutano per individuare metalli, poi c’è una dozzina di telecamere collegate a ignote centrali della sicurezza, e i cassieri, i poveri cassieri per accedere ai denari debbono compiere operazioni magiche. Lasciate perdere. La rapina in banca, pur essendo certamente l’azione più morale che si possa compiere in quel luogo, è oggi sconsigliabile. Vi condannerebbero per lo meno a venti anni di carcere duro, nel caso che riusciste a portare via qualche migliaio di euro. Zonin invece no.
Chi è Zonin, oltre che un fabbricante di vino (pessimo mi dicono gli intenditori), e un amico di Tony Blair? Soffermiamoci anzitutto su questo punto: il noto criminale di guerra Tony Blair, un uomo che ha sulla coscienza centinaia di migliaia di iracheni uccisi dalla guerra da lui scatenata (insieme a un idiota di nome Bush) passava l’estate in una villa toscana di proprietà del veneto Zonin. E’ questo irrilevante? Dal punto di vista penale lo è, ma dal punto di vista politico questo ci aiuta a capire varie cose. Infatti Zonin appartiene al ceto della finanza criminale, e Blair al ceto della politica criminale, il centro-sinistra che ha preso i voti negli ultimi trent’anni e li ha messi al servizio del sistema di cui Zonin è un rappresentante, un esperto, un eroe se mi è permesso usare toni un po’ enfatici.
L’eroico Zonin ha cominciato ad accumulare i denari degli sfigati che in Veneto come altrove guadagnano lavorando, tipo me. Io lavoro per una scuola, insegno e alla fine del mese mi pagano un salario (di merda ma lasciamo perdere). Posso riceverlo direttamente nelle mie tasche? Non sia mai. Se voglio ricevere lo stipendio debbo iscrivermi ad una banca, prendere il numero e aspettare che i soldi a me dovuti vengano versati a qualche Zonin. Nella fattispecie il mio Zonin si chiama Banca Intesa (che guarda caso adesso compra la banca fallita del signor Zonin, amico di Tony Blair).
Dunque, io lavoro, ma se voglio i miei soldi debbo andare alla Banca. Gratis? No, debbo pagare qualcosa alla banca. Sai cosa? Adesso mi è arrivata una lettera della mia Banca (mia? no, di qualche altro amico di Blair). Mi è arrivata una lettera intitolata: revisione unilaterale del contratto. Proprio così, infatti loro sono arroganti perché se lo possono permettere. Che posso farci io? Posso rescindere il contratto? Non posso, se voglio ricevere lo stipendio. Quindi loro decidono unilateralmente le condizioni, e tu zitto. In questa lettera la banca intesa (intesa col cazzo, fa quello che gli pare senza ascoltare il mio parere, altro che intesa) mi dice che dovrò pagare 150 euro in più all’anno se voglio continuare a godere dei suoi servizi. Il servizio di cui godo consiste nel fatto che io lavoro e lo stipendio lo incassano loro, e naturalmente ci fanno quel che gli pare.
La Banca Intesa dunque compra, per un euro soltanto, la fallimentare banca del signor Zonin. Ma perché fallisce la Banca del signor Zonin, amico di Tony Blair? Perché negli ultimi venti anni riceveva i soldi degli sfigati che lavorano e li prestava ai suoi amici senza fare tante domande. E adesso naturalmente i suoi amici non li restituiscono con tante scuse. E allora che si fa? Il signor Zonin non fa niente, tanto lui adesso è nullatenente, ha intestato le proprietà ai figli e tanti saluti al secchio. Ma banca Intesa (quella che mi chiede centocinquanta euro in più perché i tassi di interesse sono sotto zero) compra per un euro la banca del signor Zonin. Per un euro. Sì ma chi paga i debiti che ammontano a molto più che un euro? Come, non te l’hanno detto? Li paghi tu.
Il signor Matteo Renzi (amico di Tony Blair, il criminale di guerra amico del signor Zonin) che di banche fallimentari se ne intende, si stringe nelle spalle e lo ammette: forse i contribuenti se ne avranno a male, ma questi dieci miliardi che il signor Zonin ha regalato ai suoi amici (ma quanti amici ha il signor Zonin?) li debbono tirare fuori i contribuenti, e chi senno’?
Di che meravigliarsi? Si tratta esattamente della stessa cosa che accade ininterrottamente dal 2008, quando il crollo del sistema finanziario globale è stato pagato da chi? Dai contribuenti e soprattutto dai lavoratori. Milioni di pensionati greci e di operai spagnoli, di insegnanti italiani e di impiegati francesi hanno rinunciato a una parte (la metà, se fate i conti bene) del loro salario e del loro benessere perché i signori Zonin d’Europa potessero aumentare il capitale. Il capitale è aumentato, anche se Zonin fa finta di essere nullatenente. E la nostra vita è diventata una merda.
A proposito di merda mi è venuta un’idea. Nel 2001 (ricordate?) l’Argentina era finita nel baratro. Con l’aiuto delle banche di tutta la terra il sistema finanziario argentino aveva prosciugato l’economia nazionale lasciando la popolazione alla fame. Un gruppo di artisti che si chiamano Internacional Errorista chiamarono i loro amici a non cagare per tre giorni. 
E poi? E poi alla fine dei tre giorni chiamarono i loro amici a radunarsi davanti alle banche del paese, a calarsi le braghe e a farla lì. Cagarono a migliaia e le televisioni trasmisero la puzza. Poi il regime finanziario crollò, Miguel de la Rua, ultimo presidente delegato a gestire il fallimento per conto del sistema finanziario globale fu circondato da centomila persone e scappò dal tetto del palazzo a bordo di un elicottero. Viva l’elicottero viva l’elicottero, si grida ancora nelle strade di Buenos Aires ma questa è un’altra storia.
Quando ci decideremo a cagare collettivamente anche noi? E quando saranno costretti a fuggire in elicottero i Zonin e i Renzi d’Europa? Per il momento c’è un funzionario del sistema bancario che pretende di fare il presidente della repubblica francese anche se il 57.6% della popolazione lo ha mandato a cagare preventivamente.
Ma dicono che si è trattato di un trionfo.

sabato 24 giugno 2017

I denti di #Farinetti e il sorriso di Marta Fana – di Alberto Prunetti


Farinetti e Marta
Non guardo quasi mai la televisione e ci ho messo almeno un giorno per vedere il finto duello, con colpi telefonati, tra Porro e Farinetti, con l’irruzione – questa vera e tagliente – di Marta Fana, ricercatrice di economia a Scienze politiche a Parigi, che affonda accuse al padrone di Eataly. Accuse già comparse su libri, articoli e volantini sindacali, ma che nessuno aveva avuto il coraggio di scagliargli contro in diretta televisiva: sottomansionamenti, formazione pagata dai fondi europei e altre furbate a tutele decrescenti.
Com’è andata potete vederlo qui sotto. Porro ha dovuto ammettere che in realtà di fronte a una critica vera tocca prendere le parti di Farinetti mentre la conduttrice dava l’impressione di voler arginare un torrente che rifiutava di stare nelle briglie di contenimento.
La danza delle mozzarelleE poi il miracolo: mentre Marta parla, il sorriso di Farinetti si spenge. Il sorriso hungry and foolish si irrigidisce in una smorfia e gli occhi del padrone si fanno piccoli. Farinetti capisce che stavolta non c’è il solito tappeto rosso steso dalla Langa fino allo studio televisivo. E non trova altra via d’uscita che la minaccia, l’uso della querela per imbavagliare l’incauta ricercatrice che continua a snocciolare cifre e fatti. Cifre che parlano di diritti violati, di tutele ridotte, di operai sfruttati.
Il sorriso di Farinetti è d’ordinanza. È il sorriso del nuovo ricco, del padrone. È un po’ come il sorriso del self made man d’un tempo. Una dentatura che mi aveva già colpito, ingrandita quasi a sgranarsi, quando l’avevo vista sulla copertina de La danza delle mozzarelle, il saggio di Wolf Bukowski che passava sotto il rasoio della critica il progetto di Eataly: dietro allo storytelling renziano l’innovazione celava la valorizzazione di una merce per una nicchia di ricchi, a scapito dello sfruttamento di una classe di poveri. Poveri costretti a lavorare con tutele sempre più decrescenti nelle boutique del cibo, dove i denti del padrone manducano diritti. Diritti operai che si deterioravano con la stessa velocità di una crudité lasciata a languire sotto il sole spietato di ferragosto. In quel libro di Bukowski, le accuse di Marta Fana erano già state illustrate con dovizia di particolari. E nessuno degli avvocati di Farinetti si era mai fatto vivo per querelare.
Solo che i libri li legge poca gente. A togliere il sorriso di dosso al padrone, serviva qualcuno capace di fissarlo in televisione. Un bagno di realtà che a Farinetti non deve aver fatto piacere. Sempre più nervoso, si è rivolto a Marta Fana con modi paternalisti e autoritari (signorina, non ricordo il nome ecc.) mentre la ricercatrice replicava, candidamente, dicendo: «Io non ho niente.»
Qui Marta si sbaglia. Marta Fana e tutti quelli come lei, costretti ad andarsene da un paese che negli ultimi lustri ha distrutto lavori veri per sostituirli con lavoretti pagati col voucher dal tabaccaio, hanno ancora qualcosa da perdere. Hanno un sorriso sincero, che è la speranza di un mondo dove lavorare senza essere sfruttati o irrisi dal padrone di turno. Che al solito è un maschio che usa la propria autorità contro una giovane donna. «Una signorina», dice lui.
Ma il sorriso di Marta non è quello di Farinetti e del ceto imprenditoriale italiano da Briatore in avanti, non è lo strato artificiale di smalto che copre lo sfruttamento con lo storytelling abbagliante dell’innovazione. Non è il molare che macina le vite degli operai. Quel sorriso è bello come il movimento che abolisce lo stato di cose presenti. E nel video quel sorriso buca la cortina di minacce di querele di Farinetti.
A quel punto il programma si è risolto mettendo a nudo i veri rapporti di forza: dietro al paravento ideologico Porro e Farinetti vanno d’accordo come il gatto e la volpe. Porro usa la metafora dei soldi che non si trovano sugli alberi, già cara a Theresa May. Certo, i soldi non si trovano sugli alberi, si trovano nelle tasche dei ricchi, che li accumulano sottraendoli a ogni ora lavorata da dipendenti sottopagati e sfruttati. Mai vista tanta sincerità in tv.
Questa pagina della televisione italiana rimarrà, perché mette a nudo le contraddizioni dei nostri giorni che la fuffa dell’innovazione renziana aveva mascherato. E dietro il duello truccato e l’affabulazione dell’imprenditore simpatico e alla mano, ci fa vedere l’autoritarismo piccato del ceto padronale nell’epoca delle camicie bianche e dei collegamenti dalla Langa. Il capitale è sempre quello, non importa quale cipria usi. Marta Fana ha messo a nudo il re e gli ha tolto la maschera e il sorriso.
I denti

Non saranno invece le querele a togliere il sorriso a Marta. Il suo sorriso è un contrabbasso che spara sulla faccia del potere la contraddizione sociale. E più Farinetti aggrediva Marta, facendo finta di non sapere il suo nome e dandole paternalisticamente della signorina, come forse fa con i “suoi” operai, più le persone, i lavoratori sfruttati, i precari si riflettevano nello sguardo e nel sorriso di Marta. Più Farinetti perdeva le staffe, evitando di entrare nel merito delle accuse e usando la minaccia della querela come una museruola, più quelle accuse passavano di bocca in bocca, in un pubblico inorridito dall’arroganza padronale.
Lo spettacolo è finito e lo storytelling pure. Il duello era truccato e il re ormai è nudo.
Adesso sappiamo cosa mangiamo. Chiediamo il pane e le rose, i diritti sul lavoro e il sorriso della lotta.
Perché delle due l’una: o sorride Marta o ride Farinetti.
Se sorride la classe lavoratrice, si spenge il riso sulla bocca del padrone.
Alla fine la lotta di classe è tutta qui. E per farla ripartire, a volte basta un sorriso.

Rapina in banca, modello "Intesa" di Leonardo Mazzei


Le mani (non invisibili) sulle banche venete

Un euro privato contro 6 miliardi pubblici, come scambio ineguale proprio non fa una piega. Non devono averci messo molto i tecnici del sig. Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, a formulare la loro offerta d'acquisto per Veneto Banca e per la Banca Popolare di Vicenza.

La loro operazione sarà durata, sì e no, un paio d'orette. Lorsignori hanno preso due scatole, nella prima (denominata good bank) hanno messo la polpa - gli sportelli, i depositi, i crediti sicuri; nella seconda (denominata bad bank) hanno accatastato le ossa - i crediti deteriorati, quelli comunque considerati a rischio, le obbligazioni subordinate, i rischi connessi alle azioni legali. Per la prima si sono detti disposti a spendere nientemeno che la bella cifra di un euro. Per la seconda chiedono che lo Stato di euri ne sborsi 6 miliardi.

Naturalmente, di fronte a cotanta generosità, la stampa nazionale è già scattata come un sol uomo a ringraziare la munificenza del Messina: gli si dica subito di sì, che i mercati hanno fretta; si prepari la somma richiesta senza indugio, che si tratta di banche mica di pensionati. E, siccome - vedete le complicazioni della democrazia - per spendere quei soldi ci vuole una legge ad hoc, la si faccia subito, ovviamente per decreto, e che il parlamento esegua e zitto.

Ma al parlamento non solo questo si chiede. Oddio, "chiedere" è un verbo un tantinello inadeguato, perché il sig. Messina non chiede, ordina. E, tra le altre cose, l'ordine è quello di sfornare un'apposita legge per sterilizzare le cause legali, quelle presenti e quelle future.

Ma, signori, non c'era una volta il "mercato"? Secondo la leggenda, che ne dichiarava la sua sacralità, sarebbe stata la sua "mano invisibile" a risolvere tutto per il meglio. In fondo è quel che si dice al disoccupato: sei senza lavoro perché non sei riuscito a trovarne uno, dunque la colpa è tua, devi impegnarti di più e (soprattutto) devi abbassare le tue pretese in salario e diritti. A quel punto la mano invisibile del mercato interverrà ed avrai il tuo reddito, viceversa il "mercato del lavoro" ti punirà e morirai di fame. Ma sarà giusto così, perché «non esistono pasti gratis» (Mario Monti) e bisogna rieducarsi alla «durezza del vivere» (Tommaso Padoa Schioppa).

Ma quel che vale per il disoccupato non vale per le banche. Queste ultime non possono fallire, specie le più grandi, secondo il principio Too big to fail. Principio che evidentemente mostra la totale fallacia dell'ideologia mercatista. Dunque, per dirla alla Woody Allen (ma la frase sembra rubata a Ionesco): «Dio è morto, Marx è morto, ma anche il mercato non si sente tanto bene».

Che l'ideologia mercatista faccia acqua da tutte le parti non può negarlo neppure il Sole 24 Ore, il che è tutto dire. L'editoriale di oggi di Marco Onado ha un titolo che dice quanto basta: «Come dare una mano alla "mano invisibile». Ecco un'ammissione certo più sincera di quanto siano disposti a riconoscere i liberisti di sinistra, per il quale il "mercato" - meglio, i "mercati" - hanno sempre ragione, e chi lo nega è un residuo ottocentesco.

Naturalmente per Onado, lo Stato deve intervenire solo quando ci sono fallimenti di "mercato" che il "mercato" non può correggere. Si tratta in tutta evidenza di una tesi assai interessata, che resta però interessante nella misura in cui ammette che il mercato non è onnipotente, che può fallire, che va corretto. Il che, trattandosi della divinità più adorata degli ultimi decenni, non è davvero poco.

Ma come realizzare la suddetta "correzione"? Per lorsignori la ricetta è nota: pubblicizzando le perdite e salvaguardando i profitti privati. E qui torniamo all'offerta di Intesa Sanpaolo per le banche venete.

Chi ci segue sa quali sono le nostre idee sulla crisi bancaria: le banche vanno sì salvate, onde evitare un pesante disastro per l'intera economia del Paese, ma vanno immediatamente nazionalizzate (leggi qui).

Questa nostra posizione è stata oggetto di diverse critiche, quasi avesse una mera matrice ideologica, o fosse comunque irrealizzabile a causa dei suoi costi per lo Stato. Ebbene, il caso delle banche venete, così come quello precedente di Mps, ci dimostra l'esatto contrario. Nazionalizzare non solo è possibile, è doveroso. E lo è non solo perché soltanto con il controllo pubblico del sistema bancario sarà possibile rilanciare l'economia, ma anche perché in caso contrario il ruolo dello Stato sarebbe solo quello di servitore di giganteschi interessi privati. Certo non è questa una novità, ma non si vede proprio perché si dovrebbe avallare la prosecuzione di questo andazzo, specie dopo il disastro che le banche private hanno prodotto.

Nel caso in questione ci ritroviamo con lo Stato chiamato a sobbarcarsi tutti i costi dell'impresa. E, contrariamente a quel che si vorrebbe far credere, la proposta di Intesa Sanpaolo va addirittura oltre al modello spagnolo con il quale, nei giorni scorsi, il Banco Santander si è fagocitato il Banco Popular. Il modello non è lo stesso perché il Santander si è perlomeno accollato l'onere della ricapitalizzazione, esattamente quello che invece il sig. Messina si è premurato di escludere tassativamente, chiedendo - meglio: ordinando - che a tal fine provveda lo Stato.

Bene, cioè malissimo, abbiamo già visto come Intesa Sanpaolo voglia portarsi a casa le banche venete - conquistando così una posizione di grande privilegio nel Nord-Est - all'esoso prezzo di un euro. Ora la domanda è questa: se l'operazione andrà davvero in porto, saremo di fronte ad una valutazione equa oppure davanti ad un'incredibile regalia? Se nel secondo caso dovrebbe esservi lavoro anche per la magistratura (ma su questo non ci illudiamo proprio), in un caso come nell'altro perché non nazionalizzare le due banche? Perché sborsare 6 miliardi per ripianare il passivo, per poi risparmiarne uno (di euri non di miliardi) per non nazionalizzarle?

E' da notare che l'offerta di Intesa non tutela neppure i risparmiatori, visto che il destino dei possessori di obbligazioni subordinate, appare destinato a restare alquanto incerto. Ancora meno tutela l'occupazione, visto che dei circa 10mila lavoratori attuali cinquemila dovranno andare a casa.

E allora, perché non nazionalizzare?
Domanda retorica, dato che in realtà la risposta è nota: perché comandano le grandi oligarchie finanziarie, perché il credo mercatista resta lì a dispetto dei suoi fallimenti, perché è su questo dogma che è stata edificata la schifosissima Unione Europea. Che pretende di dettar legge su tutto, ma sulle banche ancor di più.

Tuttavia, i fatti restano. Ed hanno la testa dura, anche se non come quella di chi ancora crede nel "mercato".

E i fatti di cui ci stiamo occupando gridano davvero vendetta. Il regalo al sig. Messina ed ai suoi azionisti è ributtante. La proposta di Intesa Sanpaolo non è una "offerta", è una rapina bella e buona. Ancor più grave se legalizzata con legge dello Stato. Vedremo se alla fine tutto ciò andrà in porto, ma il fatto che a questo punto si sia arrivati è la conferma più lampante di quanto la nazionalizzazione del sistema bancario sia necessaria quanto urgente.

martedì 20 giugno 2017

Il Raggio Verde



di Alessandra Daniele
La disfatta del Movimento 5 Stelle alle comunali è pesante, quanto impossibile da attribuire soltanto agli accrocchi di liste ciniche fra le quali PD e Forza Italia si sono mimetizzati per vincere.
I candidati sindaci del M5S hanno perso dovunque e contro chiunque.
Hanno perso a Palermo contro Leoluca Orlando, che è sindaco da quando Grillo faceva ancora Domenica In.
Hanno perso a Parma contro Pizzarotti, che gli ha inflitto il gol dell’ex.
Hanno perso a Genova, dove si sono inutilmente rimangiati la prima delle loro stesse regole
Hanno perso a Trapani contro due candidati entrambi inquisiti, per corruzione e pericolosità sociale.
Hanno perso a Verona contro la Lega, e la fidanzata di Tosi.
Fino a una settimana fa sembrava che i grillini avessero la vittoria in tasca, che nessuna delle cazzate irresponsabili che combinano potesse davvero danneggiarli.
Cos’hanno sbagliato?
Hanno cercato di sembrare responsabili.
Convegni coi lobbisti di Confindustria.
Aperture sull’Unione Europea.
Concessioni ai palazzinari romani.
Trattative sulla legge elettorale.
Col Cazzaro.
E Salvini.
E Berlusconi.
Questo genere di sputtanamento governista puoi farlo digerire agli elettori della Lega, non a quelli del Vaffa Day. Loro s’aspettavano che i grillini “aprissero il Parlamento come una scatoletta di tonno”, non che diventassero un ingrediente dell’insalata.
I grillini l’hanno capito. E sono subito corsi ai ripari.
Puntando agli elettori della Lega.
Con l’assunzione del complesso e variegato programma del Carroccio di Salvini:
“Basta negri”.
Dopo tanto barcamenarsi per rastrellare voti da destra a sinistra, dopo tanto negare l’evidenza di certe posizioni xenofobe, securitarie, antisindacali, complottiste, fino a negare la stessa esistenza di destra e sinistra (come fa la Lega), la lista cinica M5S s’unisce esplicitamente alle altre destre variamente fasciste nella caccia al capro espiatorio.
Non ha nessuna importanza se Casaleggio Jr. abbia o no incontrato personalmente Salvini o Meloni, è una sfumatura che solo i sofisti di Repubblica possono considerare dirimente, quando la convergenza di fatto è politica, e rende oggi particolarmente patetica la speranza del Fatto Quotidiano che Grillo potesse essere interessato a raccattare quei quattro stracciaculo degli scissionisti MDP, o quelli di Pisapia, oggi talmente disperati da evocare Prodi, già pratico di sedute spiritiche.
Virginia Raggi e Gianni Alemanno sono di fatto già uniti da un comune nemico.
Lo Straniero.
L’Invasore.
Il problema di Roma per loro non sono i palazzinari, ma i mendicanti. Lo stadio ecomostro si farà.
Il Movimento 5 Stelle è pronto per governare.
Gli mancano solo i voti, ma ha già deciso da che parte cercarli.
No, questa non è la sua fine, ma sicuramente per alcuni dei suoi elettori e dei suoi militanti è il tramonto d’una grande illusione.

lunedì 19 giugno 2017

PISA.. CHI? di Ciuenlai

 Mi pare chiaro. il grande circo mediatico al soldo dei potenti, ha deciso che Pisapia è il capo della nuova sinistra e che Prodi è il federatore del Centrosinistra. Ce li propinano tutti i giorni. Pisapia qua, Pisapia là, Renzi ama Pisapia, Prodi qua, Prodi Là, Renzi incontra Prodi e via imbonendo. E tutto questa gran da fare è propedeutico all'unica paura che i potenti hanno. Riavere, anche in Italia una vera sinistra con un progetto – programma alternativo al liberismo imperante.
Hanno paura della fine del pensiero unico. E, allora non contenti di aver occupato la tradizione scalando il Pd, non contenti di aver fatto fare al Governo del centrosinistra quello che non era mai riuscito agli esecutivi di destra, ora provano a mettere il cappello su questo processo, mettendo in campo i loro “campioni”, Prodi e Pisapia (e contorno). Se a sinistra è rimasto ancora un po' di buon senso, bisognerà cominciare a fregarsene dei “suggerimenti” del “nemico” e andare per la nostra strada costruendo una discussione aperta sul progetto – programma prima e sulla leadership dopo. Sgombrando il campo da due concetti che i soggetti “suggeriti” ci propinano tutti i giorni :
Sinistra di Governo – La sinistra di Governo non esiste. Esiste la sinistra punto! La collocazione di un partito (Governo e opposizione) deriva dai voti presi e dalle alleanze che riesce a costruire sulle sue idee. Qualsiasi soggetto politico, anche quello di Cicciolina, si presenta alle elezioni con l'ambizione di vincerle e di governare. Ma l'allocuzione non è neutra. Viene messa in campo per giustificare lo spostamento a destra dell'asse della proposta “ Se no non si vince” (passare da Corbyn, per una lezione veloce su come una proposta “radicale” seriamente ancorata ai temi ella socialità può far saltare il banco della politica).
Partito di centrosinistra – Non esiste. Un partito è “parte” e in quanto tale ha valori ed ideali che si riferiscono a quella parte. La cosiddetta “contaminazione” porta all'attuale Pd., che non mi sembra un gran risultato per la sinistra. Non si può confondere un partito con una coalizione. (quanta sinistra c'è in una soggetto con dentro Tabacci, Letta, Prodi, Bindi e Boccia?). Partiti differenti possono trovare punti in comune e creare un “rassemblement” elettorale per governare il paese. Ma la coalizione è una cosa e il partito è un'altra. “La contaminazione” è stato un intelligente processo da parte delle forze moderate, con il quale si è svuotato il Pd di qualsiasi riferimento all'idea di socialismo. Un processo che ha permesso di far fare il “lavoro sporco”, a chi avrebbe dovuto contrastare tutte quelle “schiforme” che hanno distrutto i diritti sul lavoro e il welfare.
E allora, per la serie “uno vale uno”, se Pisapia e Prodi vogliono partecipare (ma ne dubito) a questo processo benvenuti, se no se ne tornassero a fare la “sinistra di Governo”, con i liberisti alla Renzi. Contaminassero lui, perchè noi abbiamo bisogno in vece di levarci quella puzza di “moderatismo”, quella paura di presentarci per quello che siamo, che ancora ci tarpa le ali.