martedì 30 ottobre 2012

Se è possibile imparare da un’altra sconfitta di Claudio Grassi, www.esserecomunisti.it



Si possono fare tante riflessioni sul dato siciliano. Ed è giusto analizzare criticamente il dato della Lista di Sinistra il cui risultato è indubbiamente negativo. Ma da questo non discende assolutamente – almeno questo è il mio punto di vista – che sarebbe stato meglio e giusto sostenere il candidato Crocetta. Candidato proposto dall’Udc, partito con il quale oggi dovrà comporre una giunta per governare la Regione.
Fermo restando quindi che è stato giusto presentare una coalizione di sinistra, aggiungo due riflessioni.
Una di ordine strategico: le attuali forze della sinistra di alternativa non sono in grado di intercettare il consenso prodotto dalla crisi economica e dalla crisi della politica e quindi devono mettersi in discussione e a disposizione per costruire una nuova aggregazione di sinistra. La seconda è che, pur in un risultato che sarebbe stato comunque non positivo, dovevamo presentare una unica lista della sinistra che, superando molto probabilmente lo sbarramento, avrebbe reso meno drammatica la sconfitta.
Ovviamente i compagni e le compagne che si sono ammazzati in questa campagna elettorale vanno ringraziati, in primo luogo la compagna Giovanna Marano. Detto questo i dati che arrivano dalla Sicilia sono drammatici per noi. Tre per cento raccolto da Fds (Prc+Pdci+Salvi-Patta), Sel e Verdi testimoniano di una scarsissima capacità attrattiva. E in questo caso non vale né l’argomento che eravamo con il Pd, né che eravamo soli contro tutti. Il Pcl che va completamente da solo prende lo 0,5 e la coalizione del Pd vince, ma perché perde meno voti della destra, non perché va avanti. Vince Grillo e su questo non ci sono dubbi, così come cresce l’astensione: ha votato meno della metà degli aventi diritto.
Ma noi non possiamo cavarcela parlando degli altri. Va finalmente aperto un ragionamento vero su di noi. Pensare di uscire da questa terribile difficoltà salvandosi singolarmente – come è stato fatto in questi anni – si è rivelato esiziale. Il progetto della Fds si è arenato, cosi come Sel e Idv – a fronte del calo di popolarità dei rispettivi leader – hanno esaurito la loro spinta propulsiva. Occorre un atto di generosità e di responsabilità da parte di tutti.
Dobbiamo metterci a disposizione affinché, con l’apporto indispensabile di forze nuove, si avvii finalmente il percorso per la costruzione di una vasta aggregazione della sinistra di alternativa. Il tempo è ora, le forze ci sono e lo spazio pure, come dimostrano le recenti elezioni in molti paesi europei.

Dopo il grande successo del No Monti Day andiamo avanti.


La manifestazione del 27 ottobre a Roma ha visto una partecipazione enorme di popolo, che ha rotto il silenzio colpevole dei palazzi della politica e dell'informazione e che ha mostrato la forza reale e ancor più quella potenziale di uno schieramento che si opponga a Monti dal punto di vista dell'eguaglianza sociale, dello stato sociale dei beni comuni e della scuola pubblica, dei diritti del lavoro e del reddito, della democrazia.
Chi e' sceso in piazza lo ha fatto consapevole che gli avversari principali di ogni movimento di lotta sono oggi il governo Monti e la sua politica del rigore e di tagli sociali, assieme alla corrispondente politica europea guidata dai governi liberisti, dalla banca europea, dal fondo monetario internazionale. Questa politica fa pagare alla grande maggioranza della popolazione tutti i costi della crisi e fa solo gli interessi del grande capitale multinazionale.
Chi è sceso in piazza lo ha fatto consapevole che questa politica europea contro i popoli è definita dai trattati liberisti che, come il fiscal compact, distruggono la democrazia e lo stato sociale, principali conquiste dopo la vittoria contro il fascismo. Questi patti iniqui sono alla base del governo Monti e sono stati votati dalla gran parte del parlamento italiano, assieme alla controriforma delle pensioni, alla cancellazione dell'articolo 18, alla distruzione della scuola pubblica, fino alla modifica dell'articolo 81 della Costituzione con l'obbligo del bilancio in pareggio.
Chi è sceso in piazza lo ha fatto consapevole che senza stracciare questi patti e senza rovesciare questa politica non ci sarà alcun cambiamento positivo, la crisi si aggraverà e la condizione sociale dell'Italia sarà sempre più simile a quella della Grecia e di tutti i paesi europei che subiscono le stesse misure di massacro sociale. Non saranno i patti sociali, in Italia come in Europa, né la disastrosa pratica della riduzione del danno a fermare questa devastazione.
Chi è sceso in piazza lo ha fatto consapevole del ritardo che c'è nel nostro paese rispetto a tutti gli altri ove cresce la mobilitazione contro le politiche europee. Questo ritardo è dovuto anche ai danni provocati dalla lunga egemonia della destra berlusconiana, che hanno fatto sì che una sapiente campagna dei poteri forti potesse presentare Monti come il nuovo, anziché come il più rigoroso continuatore delle politiche della destra liberista e conservatrice. Ma questo ritardo è dovuto oggi in primo luogo al ruolo negativo che stanno svolgendo le principali forze del centrosinistra e del sindacalismo concertativo, che con la politica di unita' nazionale danno sostegno alle scelte di Monti.
Chi è sceso in piazza lo ha fatto consapevole che non si possono ripercorrere vecchie strade, che occorre rompere con tutte le continuità del sistema italiano e che e' necessario costruire una alternativa a tutte le forze che direttamente o indirettamente danno appoggio alle politiche di Monti,cioè sia alla destra che al centro sinistra.
Chi è sceso in piazza lo ha fatto sulla base di un appello di persone e forze sociali e politiche diverse tra loro , ma accomunate dalla consapevolezza che una vera alternativa alle politiche di Monti si costruisce mettendo assieme tutte le forze che non ci stanno Questo ha chiesto con convinzione la manifestazione: netta discriminante verso chi nelle forze sociali e politiche non rompe con Monti e con chi lo sostiene, e forte unità' di coloro che questa discriminante condividono.
Sulla base del messaggio chiaro e forte del No Monti Day il comitato promotore e le forze che lo compongono decidono di dare continuità all'iniziativa. A tale scopo il comitato promotore e tutte le forze che hanno promosso il No Monti Day si incontreranno il prossimo 6 novembre a Roma.
In quella sede si definiranno le mobilitazioni già annunciate in piazza S.Giovanni per il 14 novembre, tra cui quella davanti al Parlamento.
Si definiranno proposte e discriminanti comuni da portare al meeting 8-11novembre di Firenze, sulla base della piattaforma del No Monti day.
E soprattutto si discuterà su come andare avanti assieme, consolidando e diffondendo un programma alternativo a quello di Monti e di chi lo sostiene, in una assemblea delle opposizioni sociali e politiche da svolgere alla fine di novembre.
Il grande successo del No Monti Day consegna a tutte e tutti noi la responsabilità di proseguire sulla strada percorsa a Roma da tante persone.
Il 27 ottobre siamo ripartiti, andremo avanti.
29 ottobre 2012.
COMITATO PROMOTORE NO MONTI DAY

La sovranità che conta di più di Luciana Castellina, Il manifesto

A Torino un politicissimo congresso di Slow Food con delegati provenienti da 96 paesi. Tema: «La centralità del cibo, punto di partenza di una nuova politica, di una nuova economia, di una nuova socialità»

La politica si reinventa. Per fortuna.Trova la strada di tematiche ufficialmente ritenute distanti da quelle delegate a rappresentarla nelle sedi istituzionali, e perciò si rivolge a soggetti estranei a quello che viene chiamato "professionalismo politico"; e, di conseguenza, si colloca anche in sedi diverse.Per esempio qui a Torino dove si è svolta in questi giorni la politicissima triplice e concomitante scadenza promossa da Slow Food: il nono Salone del gusto (centinaia di migliaia di visitatori); la quinta assemblea di Terra Madre (migliaia di contadini in rappresentanza della rete mondiale nata nel 2004 e cui oggi aderiscono 135 paesi); il sesto Congresso internazionale di Slow Food (delegati provenienti da 96 paesi). Tema: «La centralità del cibo, punto di partenza di una nuova politica, di una nuova economia, di una nuova socialità».
Tanti appassionati dell'agricoltura dentro i tetri spazi del Lingotto, fabbrica dismessa dell'industria per eccellenza, la Fiat, fa un bel vedere: riequilibra il pensiero e rende più facile rendersi conto che il dramma che si prepara è la sparizione della terra, mangiata a bocconi giganti - migliaia di ettari ogni anno (6 milioni di ettari in trent'anni solo in Italia) - dalla cementificazione indotta da industrializzazione e urbanizzazione dissennate. Constatabile a vista d'occhio: fra Lombardia e Piemonte non c'è ormai che un ininterrotto agglomerato di edifici, la campagna ridotta a qualche aiuola. (Di cui le ciminiere spente delle fabbriche chiuse è solo un'altra faccia della crisi).
La nuova rapina dell'Africa
Che la terra sia tornata ad essere oro se ne stanno rendendo conto in tanti che cercano ora di accaparrarsela, investendo come un tempo si faceva col mattone: i cinesi per primi, che pure di spazio a casa loro ne hanno tanto, che stanno comprando l'Africa pezzo per pezzo. Land grabbing, così si chiama la nuova rapina.
Per fortuna è oramai da un po' di anni che solo pochi dinosauri si azzardano ancora a parlare di Slow Food come del club dei buongustai. La nascita, dal suo grembo, di Terra Madre, la rete di contadini che continuano a produrre senza offendere la natura e facendo barriera conto la forza distruttiva dell'agrobusiness, ha contribuito a dare un colpo decisivo alle interessate accuse rivolte all'associazione fondata nel 1989, per combattere l'invadenza del fast food, da Carlin Petrini, oggi presidente di un'organizzazione diventata internazionale, negli anni '70-80 consigliere comunale di Bra per il Pdup assieme al suo attuale braccio destro, Silvio Barbero, i più votati fra tutti i consiglieri del partito in Italia. Perché già allora avevano cominciato a gettare nella nostra cultura iperoperaista il seme fertile della Terra che, avevano capito, era un problema centrale. E in una regione come la loro, fra le Langhe e Barolo, il messaggio era stato capito subito.
Oggi che la coscienza ecologica si è fatta più forte ed estesa è più facile capire il guasto di politiche che allora erano state fatte passare come progresso. Innanzitutto la famosa "rivoluzione verde" avviata dalla Banca Mondiale, una modernizzazione dell'agricoltura del terzo mondo che ha sconvolto le campagne, introducendo le sementi prodotte dalle grandi corporations del grano, merce a buon mercato e perciò mortalmente competitiva con quella locale, ma dotata di un piccolo colossale imbroglio: si tratta di semi sterili, privi dei semi necessari alla successiva semina. Di qui l'indebitamento drammatico dei contadini (solo in India se ne suicidano per debiti dai 200 ai 300 mila l'anno, ma nessuno li conta), i più giovani che scappano verso le città, ingrossando le mostruose immense megalopoli dove sopravvivono mangiando rifiuti e rimanendo inproduttivi.
A chi dice che senza l'applicazione delle moderne tecnologie (non solo la meccanica, ma la chimica e la biogenetica) non si può salvare il mondo dalla fame bisognerebbe rispondere con più forza con i dati raccolti e analizzati dai tanti interventi al congresso di slow food, mostrare la contabilità di un modo di produrre e di vivere che avvelena gli esseri umani, inquina l'acqua che bevono, l'aria che respirano, producendo danni che riparare sarà tanto costoso da rendere impossibile. E denunciare lo spreco: oggi si produce cibo per 12 miliardi di persone, ma un miliardo non mangia a sufficienza.
Rispetto agli altri congressi di Slow questo ha mostrato una rete di quadri maturati, documentati, sperimentati, con tanta voglia, hanno detto molti di loro, di rendere sempre più politica la loro azione. Non basta l'azione dal basso, dobbiamo investire di più i centri del potere. Ma politica, e non solo godereccia, era quest'anno anche la folla che si è assiepata al Salone del gusto, accostandosi agli stand dove venivano offerti prodotti inusitati, perché antichi e non in scatola, il contrario delle "merendine", non solo per assaggiarli ma per informarsi, per assaporare un modo diverso di consumare, e anche di vivere. La diffusione a macchia d'olio dei mercatini contadini nelle nostre città, il «cibo a km zero», sottratto alle inutili e costose peregrinazioni attraverso il mondo di prodotti artefatti dalla conservazione, sono la testimonianza che si cominciano a capire i guasti del mercato.
Giusta retribuzione per i contadini
Costa troppo mangiar buono e pulito? Sì, costa di più. Ma lo slogan di Slow aggiunge un altro aggettivo su cui occorre riflettere: «giusto». Vuol dire che i contadini vanno retribuiti in modo giusto altrimenti scompariranno, abbandoneranno le campagne lasciandole al dissesto e al cemento, e la nostra nutrizione in mano a un gruppo di speculatori che lucreranno anche sulle nostre insorgenti malattie da malnutrizione. Di quanto spendiamo per nutrirci, solo pochi centesimi vanno in tasca a chi lavora i campi. E il consumismo sconsiderato ha stravolto la gerarchia dei nostri piaceri, riempiendoci di inutili gadget e privandoci delle cose buone. Slow ha dedicato le manifestazioni di quest'anno alla mela: la mela di Newton, l'ha chiamata per invitare ad usare la testa nelle nostre scelte alimentari.
Remunerazione giusta: perché da decenni i contadini non sono più pagati equamente per il loro lavoro, strozzati dall'agrobusiness e dai supermarket. In Europa i contadini al di sotto dei 35 anni sono oramai solo il 7 per cento. Ma anche questo è stato interessante al Lingotto: una quantità di giovani, e un crescente movimento di ritorno ai campi. Ne fa fede anche lo straordinario successo dell'Università di scienze gastronomiche creata a Pollenzo da Slow food 8 anni fa, ma oggi riconosciuta dallo stato, dove per tre anni si insegna agricoltura, veterinaria, biologia, medicina, storia. Un successo: vi studiano giovani provenienti da 70 paesi diversi, gli stranieri sono oltre il 50 per cento; e pare persino che, una volta laureati, trovino lavoro.
Il cibo è un diritto recita lo slogan di Slow food, e dunque l'alimentazione, come l'acqua, un bene comune. E invece, per l'Onu, è ancora solo diritto economico e sociale (Convenzione del 1966), non umano, mentre non potrebbe essere più chiaro che senza il cibo non c'è sopravvivenza, e dunque non c'è vita. L'acqua, sorella del cibo, ha conquistato questo status nel 2010, ora dovrebbe toccare al nutrimento.
Nella sala del congresso gremita di tutte le razze ci sono i colori di bandiera difficilmente accostate: quella dei delegati della Palestina e quella dei delegati di Israele, quella cinese e quella giapponese, quella cubana e quella americana. Quel che conta, per noi, dice un delegato, è la sovranità che conta di più: quella alimentare.

Le nuove forme della protesta di Donatella Della Porta, Il Manifesto

Un linguaggio cosmopolita, la rivendicazione di diritti globali e la critica al capitale finanziario internazionale. Ecco cosa pensano gli «europeisti critici»

Emersa a dieci anni di distanza dalla nascita del movimento per una giustizia globale, la nuova ondata di protesta che è cresciuta in Europa, contro la crisi finanziaria e le politiche di austerity, mostra certamente continuità ma anche discontinuità rispetto al passato. Diversa è soprattutto la forma di transnazionalizzazione della protesta, simile l'attenzione alla costruzione di un'altra democrazia.

Per quanto riguarda la costruzione di un movimento transnazionale, entrambe le ondate di protesta parlano un linguaggio cosmopolita, rivendicando diritti globali e criticando il capitale finanziario globale. In entrambi i casi, in Europa i movimenti hanno sviluppato una sorta di europeismo critico, opponendosi all'Europa dei mercati (e oggi, di banche e finanza) e impegnandosi a costruire una Europa dal basso (oggi, «con l'Europa che si ribella»). Mentre il movimento per una giustizia globale si è però mosso dal transnazionale al locale, coagulandosi nel Forum sociale mondiale e nei controvertici, e organizzandosi poi nei forum continentali e nelle lotte locali, la nuova ondata di protesta sta muovendosi verso un percorso opposto, dal locale al globale.

Seguendo la storia, la geografia e l'economia della crisi - che ha colpito aree diverse in momenti diversi, con diversa intensità, ma anche con caratteristiche differenti (debito pubblico o private, indebitamento con banche nazionali o internazionali) i movimenti anti-austerity hanno dei più evidenti percorsi nazionali. Innanzitutto, tra la fine del 2008 e l'inizio dell'anno successive, in Islanda - primo paese europeo colpito dalla crisi - cittadini autoconvocati hanno reagito al crollo provocato dal fallimento delle tre principali banche del paese, denunciando le responsabilità delle otto famiglie che dominavano politica ed economia (significamente definite come parte di un octopus tentacolare), e imposto un referendum che si è concluso stabilendo una rinegoziazione del debito. Proteste nelle forme più tradizionali dello sciopero generale e delle manifestazioni sindacali hanno accompagnato la crisi irlandese, opponendosi ai tagli nelle politiche sociali. Nel marzo del 2011, in Portogallo, una manifestazione organizzata via Facebook ha portato in piazza 200 mila giovani. In Spagna, un paese rapidamente caduto dalla ottava alla ventesima posizione in termini di sviluppo economico, la protesta degli Indignados si è diffusa da Madrid in tutto il paese, conquistando visibilità globale. Mentre il numero degli attivisti accampati a Puerta del Sol a Madrid cresceva da quaranta il 15 maggio del 2011 a 30 mila il 20 maggio, centinaia di migliaia occupavano le piazza centrali di centinaia di città e paesi. La protesta del 15 di Maggio ha poi ispirato simili mobilitazioni in Grecia, il paese più colpito da drammatiche politiche di austerity, che hanno aggravato le condizioni economiche del paese, facendo crescere esponenzialmente il numero dei cittadini al di sotto della soglia di povertà. In Italia, dove il governo di Mario Monti (governo di grande coalizione, sostenuto da una maggioranza parlamentare Pdl-Pd-Udc) ha imposto politiche ultra-liberiste, la protesta sta crescendo dal basso, a livello locale, ma anche con momenti di aggregazione nazionale.

Ci sono stati certamente numerosi esempi di diffusione cross-nazionale di forme d'azione e schemi interpretative della crisi. Dall'Islanda, simboli e slogans hanno viaggiato verso il Sud Europa, diffondendosi attraverso canali indiretti, mediatici (soprattutto attraverso le nuove tecnologie), ma anche diretti, fatti di contatti tra attivisti di diversi paesi, per natura geograficamente mobili. Il 15 ottobre 2011, una giornata mondiale di lotta, lanciata dagli Indignados spagnoli, ha visto eventi di protesta in 951 città di 82 paesi. Nel 2012, mentre le proteste sindacali e gli scioperi si susseguono intense in tutto il Sud Europa, i sindacati spagnoli, greci e portoghesi hanno chiamato ad una giornata di lotta europea contro le politiche di austerità, oltre che a scioperi generali in tutti e tre i paesi per il 14 novembre. Tra i sindacati dei paesi più colpiti dalle politiche di austerità, solo quelli italiani, confermando subalternità ai partiti che sostengono il governo, non hanno (ancora) proclamato uno sciopero generale.

Il grado di coordinamento transnazionale della protesta è comunque certamente ancora minore che per il movimento per una giustizia globale, per il quale i forum mondiali e i controvertici hanno rappresentato fonti di ispirazione per identità cosmopolite e occasioni importantissime di costruzione di reticoli transnazionali. Sondaggi fra i cittadini mobilitati nelle proteste anti-austerity in Europa hanno inoltre indicato una crescente attenzione alla dimensione politica nazionale, seppure non disgiunta da quella alla politica europea e mondiale. Le forme di comunicazione transnazionale di questi movimenti sono emerse, se non più deboli, certamente diverse rispetto a quelle dei movimenti di inizio millennio. La dispersione sociale prodotta dalle politiche di austerity ha portato anche ad una maggiore rilevanza delle forme di comunicazione più individuali favorite dal Web 2.0, rispetto a quelle dei network organizzati della precedente ondata.

Nonostante questa (importante) differenza, ci sono comunque molte continuità rispetto alla precedente ondata di protesta: una delle più importanti è l'attenzione alla degenerazione della democrazia liberale in democrazia neoliberista («La chiamano democrazia, ma non lo è», recitano i cartelli degli indignados spagnoli), insieme però alla volontà di costruire una democrazia diversa: dal basso, partecipata e deliberativa. Le critiche sono, allora come ora, alla corruzione di parlamenti e governi, accusati di avere provocato la crisi, non solo per adesione ideologica alle dottrine economiche neoliberiste ma anche per diffuse connivenze politico-affaristiche in un coacervo di interessi forti (dell'1% contro il 99%). Anche dal movimento per una giustizia globale viene ai movimenti di oggi l'attenzione alla privazione di diritti di cittadinanza provocata dalla sempre maggiore delega di decisioni ad organizzazioni internazionali, che sfuggono strumenti di controllo - privazione aggravata oggi dal moltiplicarsi di trojke totalmente prive di legittimazione democratica. Allora come ora, inoltre, i movimenti rivendicano il loro ruolo nello sperimentare nuove forme di democrazia, basate su una ampia partecipazione dei cittadini non solo nel momento della decisione, ma anche nella elaborazione di idee, identità, soluzioni ai problemi. In questo, i movimenti di oggi rappresentano anzi una sorta di radicalizzazione della idea di partecipazione e deliberazione estesa a tutti. Nelle acampadas si realizza infatti una continua sperimentazione di quello che gli attivisti di inizio millennio chiamavano il "metodo" del social forum, che vuole facilitare il consenso attraverso la costruzione di una molteplicità di sfere pubbliche, plurali e orizzontali. E' attraverso queste pratiche democratiche che, anche oggi, movimenti transnazionali possono crescere dal basso.

27 ottobre. Manifestazione riuscita, guardiamo avanti di Sergio Cararo, www.contropiano.org

Il No Monti Day è stato un risultato importante. Si è rotta la stagnazione, ma sul prossimo futuro occorre evitare la coazione a ripetere. Sedimentare le forze e acquisire credibilità sono passaggi ineludibili.

La manifestazione del 27 ottobre, il No Monti Day, è stata indubbiamente un successo dal punto della
partecipazione di massa e della capacità di fare “massa critica” su una piattaforma contro le politiche antisociali del governo Monti e i diktat dell'Unione Europea. Non solo, la manifestazione e la sua dichiarazione di esplicita rottura con l'incantesimo su Monti come salvatore del paese, è stata percepita come “fatto politico” (vedi l'apertura strumentale, ma significativa, dell'editoriale del Corriere della Sera di lunedi).
La riuscita dell'iniziativa è stata in qualche modo anche il risultato della tenuta e della tenacia del Comitato No Debito che è riuscito ad essere l'unica realtà “unitaria” e attiva nell'anno trascorso dall'assemblea del 1 ottobre 2011 all'Ambra Jovinelli a oggi.
La riuscita della manifestazione ha sconfitto molti iettatori che si auguravano temporali dissuasivi o scontri di piazza che alimentassero in eterno il fantasma del 15 ottobre. Non solo. Ha dimostrato che l'indipendenza politica e organizzativa è un discrimine appropriato e un motore efficace dell'iniziativa anticapitalista e del conflitto sociale. La riuscita della manifestazione ha indubbiamente creato molte aspettative e dato forza a tanti compagni e realtà di lotta specifiche, i quali si sono sentiti supportati da un fronte politico, sociale, sindacale più ampio e dunque meno deboli o isolati (basta pensare ai compagni dell'Ilva o dei comitati dei terremotati etc.). Per dire tutto questo, sono stati più che sufficienti tre minuti di intervento dal palco dell'assemblea finale in piazza San Giovanni.

Ma dobbiamo ammettere che è stata ancora una manifestazione “di nicchia”, per quanto ampia. In piazza c'erano soprattutto militanti, lavoratori e lavoratrici sindacalizzati,attivisti sociali, figure rappresentative di lotte e vertenze in corso, ma la l'intercettazione del blocco sociale antagonista ai diktat della borghesia europea è un lavoro ancora tutto da fare. La manifestazione è stata un passaggio importante, dunque né un inizio né una fine e su questo dobbiamo essere chiari.
E' emerso con evidenza infatti come il binomio tra una riuscita partecipazione di massa e la costruzione di un fatto politico, abbia fatto riscattare la “coazione a ripetere” di molti, soprattutto nel contesto in cui si è venuta a collocare la manifestazione del 27 ottobre. Per un verso la fibrillazione elettorale che ci porteremo dietro nei prossimi mesi, per un altro il richiamo della foresta del movimentismo rischiano di rimettere in moto vizi del passato, vizi deleteri come quelli che ci hanno portato alla percepibile situazione di stagnazione e disgregazione precedente alla manifestazione.
Emblematico di questo rischio è stata la presenza nel corteo di personaggi di una obsoleta e sconfitta “sinistra plurale” come Bertinotti (che ha subito pure qualche contestazione) o la corsa a tenere lo striscione d apertura di personaggi che non abbiamo mai incrociato nella preparazione politica e materiale della manifestazione, immagine di un notabilato “dei movimenti” che ci aveva provato già il 15 ottobre dello scorso anno e nei prossimi giorni cercherà di rinverdire il passato dei Social Forum con un meeting a Firenze.

Sarebbe politicamente criminale che il percorso che ha portato alla manifestazione del 27 ottobre, un percorso che ha creato enormi aspettative tra tanta gente, venga di nuovo dirottato verso le devastanti consuetudini del recente passato. Rimettere tutto in gioco e a rischio intorno alla data del 14 novembre, ad esempio, è parte di questa coazione a ripetere. Uscire da una iniziativa politica per passare subito ad un'altra senza mai costruire, sedimentare, verificare un qualche passo in avanti concreto in mezzo, invocare la generalizzazione del conflitto come in Grecia o in Spagna ma ritenere che il conflitto e il “movimento” possano darsi senza però organizzarlo concretamente tra i settori popolari di questo paese, ripetere in eterno la rappresentazione senza mai porsi il problema della rappresentanza politica come organizzazione di pezzi di società reale, è parte dell'armamentario che ci ha portato alla disperante situazione che molti lamentavano fino alla vigilia della manifestazione del 27 ottobre. Pensare che una manifestazione riuscita possa di colpo cancellare quella situazione di difficoltà, è velleitario.

Abbiamo lavorato seriamente e unitariamente alla riuscita della manifestazione del 27 ottobre, lo abbiamo fatto fin nei dettagli. Condividiamo la rivendicazione collettiva della sua riuscita perchè la convergenza delle forze è un fatto positivo e non negativo. Nei prossimi giorni ci confronteremo nel Comitato No Debito e con gli altri promotori del No Monti Day per spingere più avanti possibile una ipotesi unitaria sul piano politico e sociale. Ma vogliamo anche affermare, all'indomani di una manifestazione riuscita, che non siamo disponibili a rimettere i piedi esattamente sulle piste fangose che hanno portato fuori strada e impantanato i movimenti e la sinistra di classe in questi anni.

Un risultato positivo va finalizzato a definire nelle prossime settimane proposte, soluzioni, indicazioni che cerchino almeno di penetrare e intercettare quei settori sociali che alla manifestazione ancora non c'erano, che spesso hanno ancora una percezione indebolita dei propri interessi nella crisi e che per rompere la gabbia e “riconoscersi come soggetto collettivo” devono intravedere, di nuovo, delle alternative “generali” credibili per rovesciare il tavolo contro i diktat dell'Unione Europea e l'egemonia ideologica dell'avversario di classe.

lunedì 29 ottobre 2012

Il senso della sconfitta di Alfonso Gianni

Non abbiamo perso solo noi, come con generosità ha commentato Fava assumendosene la responsabilità, hanno perso tutti, seppure in modi e gradazioni diverse in Sicilia. Se non è mai vero, malgrado le dichiarazioni televisive, che dalle elezioni possono uscire tutti vincenti, può accadere il contrario, che siano tutti perdenti, con buona pace di Bersani che dichiara storico il suo risultato. Lo è, ma in senso negativo. L’astensione ha sfondato abbondantemente il muro del 50%. L’elezione dell’assemblea siciliana e del suo presidente riguarda cioè la minoranza (senza contare schede bianche e nulle) degli aventi diritto al voto. Non è e non sarà in ogni caso rappresentativa.
L’affermazione di Crocetta avviene da un lato sulla divisione dello schieramento della destra berlusconiana, un tempo partito prendi tutto in Sicilia. Allo stesso tempo si appoggia in modo rilevante sull’Udc. Quindi il sistema di potere Lombardo è tutt’altro che sepolto. Anzi si cercherà di stabilire in partenza una continuità.
Il successo di Cinque Stelle è rilevantissimo. Più ancora dell’esito del suo candidato colpisce il fatto che diventi il primo partito nell’isola, a dimostrazione della disgregazione del sistema politico-partitico-istituzionale preesistente. Tuttavia neppure il populismo grillino intercetta la grande marea dell’astensione. Ed è questa realtà, non tanto le difficili somme algebriche per raggiungere la soglia dei 46 seggi, che renderà ardua la effettiva governabilità della Sicilia. Pensare quindi che la vittoria di Crocetta, come egli stesso ha immediatamente dichiarato, costringa di per sé la Mafia a fare le valigie (del resto è una multinazionale) è pura vanagloria.
Il risultato della lista capitanata dalla compagna Marano è indubbiamente deludente. Pesano anche errori banali e specifici. Pesa la storica debolezza della sinistra radicale in quell’isola. Pesano i tristi chiari di luna che si sono abbattuti sulla stessa Idv. E’ evidente che la somma di organizzazioni, senza un lavoro di lunga lena di ricostruzione di un tessuto popolare e la connessione con le esperienze della sinistra diffusa e di movimento, non porta lontano. Le singole organizzazioni, compresa Sel, devono interrogarsi perché esse in primo luogo siano così deboli nella capacità di intercettare la protesta popolare e la disaffezione alla politica e al voto, anziché rimproverarsi di non essersi accodate al carro del vincitore in quella che è una minoranza della popolazione siciliana.
Ovviamente, come sempre, le elezioni siciliane avranno un riflesso sulle scelte nazionali. E sarà negativo. Spingerà ancora di più il Pd verso la ricerca di un’alleanza alla propria destra, in primis l’Udc, rendendo più evidente che “l’alleanza dei progressisti e dei democratici” è apertissima a destra e chiusa a sinistra. Nello stesso tempo affretterà quei processi di ulteriore scomposizione e ricomposizione a destra e sul lato destro del centro, di cui si hanno avvisaglie nel documento di laici e cattolici tra cui spiccano le firme di Montezemolo, di Riccardi e di Bonanni.
Il problema che resta del tutto aperto è chi rappresenta e chi organizza la sinistra. Intendo quella sinistra diffusa, che non si riconosce e non è riconoscibile nella somma delle sigle esistenti, che tantomeno può sentirsi rappresentata, quantomeno non tutta, dalla “carta di intenti”, che vive nel mondo del lavoro che nessuno vuole o sa rappresentare direttamente in tutti i suoi aspetti e dimensioni, che si organizza sul territorio attorno alla difesa dei beni comuni e delle istituzioni minacciate dello stato sociale, che riesce anche a vincere grandi battaglie, come nei referendum, ma vuole dare ad esse continuità e solidità, che si fa promotrice di un nuova cultura e di un nuovo senso del vivere comune.
Comprendo bene che è un lavoro che richiede pensieri e tempi lunghi, ma se non vogliamo che anche le elezioni politiche del 2013 siano affossate nel baratro dell’astensionismo bisogna pensarci da subito.

ELEZIONI SICILIANE: UN ANTICIPO DI ANALISI di Franco Astengo, http://sinistrainparlamento.blogspot.it

A scrutinio in via di ultimazione mi permetto di anticipare alcune valutazioni politiche di massima, attorno all’esito delle elezioni siciliane.
Tutti i commentatori hanno già fatto rilevare come il dato più evidente e importante che esce dai numeri di questa consultazione riguarda la crescita esponenziale dell’astensionismo: un fenomeno che dura ormai da molti anni, in progressiva espansione, del quale le forze politiche si occupano soltanto nei giorni immediatamente seguenti le diverse tornate elettorali, per poi tornare tutti tranquilli alle proprie esercitazioni di “tempeste in un bicchier d’acqua” (leggi primarie) convinti, in quel modo, di realizzare chissà quali mirabolanti aperture verso la partecipazione democratica.
Verrebbe da rispolverare Mao: mentre sarebbe necessario guardare alla luna (leggi: astensionismo) si preferisce guardare il dito (primarie).
Astensionismo ,beninteso, che ormai da molto tempo la scienza politica non considera più come un “rifiuto della scelta”, bensì come una vera e propria “scelta” composta di diversi fattori e che, quando assurge a numeri così rilevanti come nel caso che stiamo esaminando, colpisce trasversalmente tutti: certo alcuni più di altri, ma appare del tutto stonato celebrare, in queste condizioni, la propria vittoria come “storica”.
Infatti, punto più, punto meno il nuovo Presidente della Giunta Regionale Siciliana sarà eletto con il 13% dei voti dell’intero corpo elettorale: pensate nella primavera scorsa fu giudicata pessima la “performance” del nuovo sindaco di Genova, Doria, che – al ballottaggio- risultò eletto dal 22% dell’elettorato (più o meno la quota con la quale è eletto il Presidente degli USA: il paese delle più grandi diseguaglianze sociali nel pianeta) e adesso siamo a livelli ai quali, a mio giudizio si gioca la stessa credibilità democratica delle istituzioni.
Allora vediamo qualche numero per rendere più pregnante quest’analisi.
Le sezioni scrutinate, nel momento in cui scrivo, sono 4.483 su 5308, ne mancano quindi 825 per un totale presumibile di circa 412.000 voti validi.
E’ dalla comparazione dei voti validi che, infatti, si può comprendere meglio la dinamica del voto, tra un’elezione e l’altra.
Dunque, in questo momento per i vari candidati si sono espressi 1.676.683 voti validi, ai quali se ne aggiungeranno, ripeto, circa altri 412.000 per un totale di 2.090.000 voti validi totali.
Ebbene, nel 2008, i voti validi per i candidati presidenti (che erano cinque) furono 2.845.793: ne mancano all’appello – più o meno – 800.000: davvero un’enormità.
Così come, ed è l’altro esempio che mi permetto di fare in questo momento, rispetto ai voti utili per eleggere il nuovo presidente, registriamo questo dato, nel 2008 Lombardo fu eletto con 1.859.821 voti, in quest’occasione Crocetta dovrebbe, approssimativamente, toccare quota 650.000, essendo così eletto con circa 1.200.000 voti in meno del suo predecessore.
Certo ci sono le specificità siciliane: a qualcuno, maliziosamente, è venuto in mente di pensare che forse in determinati ambienti, nei quali si è storicamente sempre lavorato per “contribuire” all’esito elettorale, questa volta l’esito non interessasse più di tanto: un altro segnale non semplicemente di disinteresse, ma di “scadimento” nella possibilità vera per la politica di determinare assetti economico-sociali.
Poiché questo disinteresse verrebbe da ambienti sempre molto “sensibili” all’esercizio del potere, allora questo calo di tensione, se davvero ci fosse stato, sarebbe da analizzare assai attentamente.
Il risultato del candidato del Movimento 5 Stelle appare comunque impressionante, ma va inquadrato in questo stato di cose: presumibilmente il Movimento 5 stelle ha compiuto un’operazione di “abbordaggio” rispetto alle altre liste, piuttosto che di fronteggiamento dell’astensione che, come si è visto, è crescita a valanga. Al massimo il candidato di Grillo ha fatto la parte del bambino che copriva con un dito il buco nella diga dello Zuiderzee.
Ancora un’annotazione al riguardo del Movimento 5 Stelle: credo che sia l’ora di finirla di definirlo come “antipolitica”. Il Movimento 5 Stelle è per intero dentro alla politica, tanto è vero che – proprio in Sicilia – quattro anni fa presentò già una candidatura alla presidenza della Regione, con la persona di Sonia Alfano che ottenne 68.970 voti pari al 2,42%.
Il Movimento 5 Stelle non è di facile collocazione, non lo si può neppure definire come “qualunquista” seguendo i modelli di Giannini e Poujade: in ogni caso si può definire come si vuole, ma non certo come “antipolitica”.
Infine la sinistra: il risultato è fortemente negativo, direi del tutto negativo: la sinistra paga l’incapacità di cambiare registro, di affidarsi o ai vecchi schemi oppure a seguire gli schemi dell’avversario (vedi personalizzazione).
Questo è sicuramente il momento di una forte riflessione da aprire subito, dal basso, al di fuori dagli steccati di appartenenze veramente ormai superate.
Le ragioni di questo vero e proprio “tracollo di sistema” , in generale, possono essere rintracciate in questi quattro punti:
1) La sofferenza popolare nella crisi, cui sono state date risposte in tutt’altra direzione;
2) L’emergere, nel ceto politico, di una “corruzione sistemica” che, tra l’altro, pare aver coinvolto anche quei soggetti che della “questione morale” avevano fatto la loro stessa ragione sociale;
3) Un’errata valutazione, da parte delle forze politiche, nell’uso dei mezzi di comunicazione di massa tra TV e nuove tecnologie. La forzatura delle diuturne apparizioni in TV, al di là della qualità dei personaggi, potrebbe aver già cominciato a provare fenomeni di vero e proprio rigetto;
4) Il logoramento nel meccanismo della personalizzazione, che sta entrando in una vera e propria crisi da quando il suo inventore e dominus lo usa per esaltare un proprio incredibile “ridotto della Valtellina”.
A sinistra risulta così ancor più decisivo porre, ancora una volta, il tema dell’agire politico, di una nuova soggettività capace di riannodare i fili tra progetto e programma e tra rappresentanza politica e partecipazione.
Occorre far tornare in campo un soggetto collettivo, direi un partito, che rialzi la bandiera (ricordate la metafora del rialzare dal fango le bandiere lasciate cadere dalla borghesia?) dell’integrazione sociale.
Esiste, ancora, per fortuna anche se limitata una capacità di rapporto tra politica e movimenti: dobbiamo verificare subito se questa rappresenti una base sufficiente per ripartire.
Certo che i tempi sono molto stretti.

No Monti Day, siamo tornati in Europa di Giorgio Cremaschi, Micromega

Ce l’abbiamo fatta. Nonostante il mal tempo che sappiamo aver ridotto la partecipazione, ma grazie anche ad un improvviso vento amico che ha fermato le nubi per tutto il pomeriggio, un corteo imponente ha percorso le vie di Roma e piazza S. Giovanni si è riempita come nelle grandi manifestazioni sindacali.
È un successo che ci dà forza per ripartire e che ci fa tornare in Europa. Sì perché stavamo diventando il paese più passivo e sfiduciato del continente. Mentre tutti i popoli colpiti dalla politica di austerità della Troika (Banca Europea, Commissione europea, Fondo Monetario) si ribellano, finora Monti poteva vantare all’estero l’assenza di proteste nel nostro paese. E in un certo senso aveva ragione, perché in ogni parte dell’Italia si lotta per il lavoro la salute, i diritti, ma finora una mobilitazione di massa direttamente rivolta contro il governo non c’era. Ci avevamo provato il 31 marzo a Milano sotto la Borsa, ma ci eravamo fermati, ancora non era in campo un movimento generale contro Monti, la sua politica e chi li sostiene. Ora c’è.
Lavoratrici e lavoratori del sindacalismo di base e che nella CGIL dicono basta alla complicità e alla subalternità al governo. Movimenti civili, in testa i disabili in sciopero della fame, ambientalisti, per la democrazia. Tutte le formazioni politiche che hanno detto no a Monti e al centro sinistra che lo appoggia. I protagonisti di lotte durissime, dai No Tav a chi è stato per mesi su una torre alla stazione di Milano. E poi un grande corteo di quegli studenti a cui bisogna riconoscere il merito di aver aperto oggi lo scontro con il governo, e con loro giovani precari della scuola e di ovunque.
Quello del 27 ottobre a Roma è un popolo in via di formazione e organizzazione. Il popolo anti Monti.
Il palazzo in tutte le sue espressioni, comprese le finte alternative e le finte opposizioni, ha fatto il possibile per cancellare questo popolo. Una censura di regime ha colpito la stessa elementare informazione sul No Monti Day. Ma tutto questo non ha fermato le persone che sono scese in piazza con la voglia di rompere il gelo del silenzio e della passività. E il ghiaccio alla fine si è rotto. Siamo tornati nell’Europa dei popoli che lottano, è solo l’inizio, sarà dura come non mai, ma siamo partiti e non ci fermeremo più.

Pupazzi e furbastri di Dante Barontini, www.contropiano.org

Fanno fatica a pensare, quindi si sbrigano ad emettere condanne preventive. Provano a spaventare la gente agitando un giorno lo spettro dei black blok e quello successivo il fantasmatico “ritorno” di Berlusconi. In ogni caso l'obiettivo sembra evidente: non lasciare alcun punto di riferimento nella testa delle persone alle prese con gli effetti della crisi.

Vediamo cosa accade, senza tanti fronzoli. Il Corriere della sera, ex “salotto di concertazione” della borghesia familiare italiana, affida ad Antonio Polito un editoriale “anti-populista”. Incipit fulminante e rivelatore: “Con l’adesione di Silvio Berlusconi al No Monti Day, il Pdl si è virtualmente dimesso dal Partito popolare europeo”.

In scia si muove Il Sole 24 Ore, organo di Confindustria, che titola così la sua apertura online di oggi: “Caos Pdl, prevale la linea dei «no Monti» dopo lo strappo del Cavaliere. I falchi chiedono testa di Alfano“.

Pierluigi Bersani e Norma Rangeri si occupano di confondere il “popolo di sinistra” dipingendo come un mostro pieno di forza un ometto rabbioso e sull'orlo di una crisi di nervi, che non sa più come arginare “l'avanzata delle Procure” e non dispone più nemmeno di un esercito di fedelissimi pronti a fargli da scudo; semmai stanno trattando con i vincitori per “lasciarlo solo”. Ma la “linea politica” del centrosinistra è chiara: tutti intorno a Monti e al Pd, altrimenti vi riprendete il Cav. Terrorismo di bassa lega, suonato su un tamburo fesso che ormai manda un suono scopertamente falso. Basta dare un'occhiata all'andamento dello spread oggi per capirlo.

Altrove l'hanno presa decisamente meno sul serio. Altan – con una vignetta di perfida genialità – centra icasticamente il cul de sac in cui il Cavaliere s'è infilato da solo. Casini preconizza senza troppo sforzi di fantasia la solitudine finale del Caimano. La “destra dal volto nuovo” - Matteo Renzi – si sbilancia fin troppo nel chiarire la posta in gioco: “La mia candidatura è l'unica che potrebbe scardinare un blocco del sistema”.

Il “sistema” da sbloccare è questa classe politica decotta, Bersani come Berlusconi o gli innumerevoli Mastella del sottobosco. Per dare “finalmente” a questo paese una nomenklatura antipopolare di alta affidabilità europea. Come Monti, ma “eletti dal popolo”. Anche se magari da meno del 50% degli elettori, come in Sicilia.

Progetto non facile, perché la destra liberista in questo paese ha – per ragioni di composizione di classe – numeri davvero bassi. Quindi, spargere paura diventa una linea di condotta di lunga durata; con i media al centro della battaglia. Non è stato proprio Berlusconi a farsi strada così?

Restiamo a noi. Il successo imprevisto del “No Monti Day” è stato tale da farne paradossalmente un'occasione per i seminatori professionali di paure. Attendiamo con (annoiata) ansia il pezzo di un fine politologo che ci spieghi il gioco degli “opposti populismi”. Deja vù? No, preistoria della reazione attuale. I “moderati” di oggi sono i “benpensanti” di 44 anni fa. Cambiano volti e nomi, non gli argomenti, le soluzioni retoriche, lo schema di gioco. Chi contesta una politica economica che ci sta facendo sprofondare nella povertà collettiva, viene sbrigativamente assimilato ai banditi che quelle stesse cerchie dirigenti hanno avallato per venti anni come “il nuovo che avanza”.


Ma c'è una differenza profonda, tra allora e oggi. La crisi spazza via la possibilità di riproduzione di interi settori sociali. Non solo il lavoro dipendente e i pensionati, non solo il precariato più o meno giovanile e il pubblico impego. Devono pagare pegno anche le colonie di batteri famelici prosperate negli interstizi tra l'amministrazione e l'impresa, tra un appalto e un evasione fiscale, tra un'impresa in nero e la malavita organizzata. La poltiglia maleodorante che appesta questo paese in misura “superiore alla media europea” va – nell'ottica della borghesia multinazionale riassunta nella troika - normalizzata tanto quanto il movimento operaio.

Una “macchina da competizione” internazionale non sopporta antagonismi operai nel cuore del motore produttivo, ma nemmeno zavorra a bordo, né merda sulle ruote o passeggeri a sbafo.

È interesse di questa borghesia e dei suoi terminali “politici (dal Corriere al “centrosinistra di governo”) descrivere avversari sociali diversi come se fossero “la stessa cosa”. È nostro interesse – in ogni istante – mantenere lo sguardo concentrato sul processo di costruzione europea, alimentare la resistenza sociale alle politiche della troika, senza accettare confusioni.

Non ci spaventerete col feticcio berlusconiano. Sappiamo distinguere bene e ricoscerere come simile – non uguale – la mano di chi ci ha tolto diritti e salario ieri e quella di chi ce li sta togliendo oggi. Il “No Monti Day” ha aperto la via che porta a mandarvi via insieme, così come insieme siete stati da sempre.

Sicilia: un voto che parla al paese di Gianluigi Pegolo

121029elezioni sicilia
Il risultato elettorale che si profila in Sicilia nelle elezioni regionali è clamoroso, talmente clamoroso da mettere in evidenza tendenze che trascendono il quadro regionale e parlano al paese. Mi riferisco in particolare al grado di disagio manifestato dall’elettorato e alla crisi profonda che tocca il sistema politico. Non vi è dubbio, infatti, che l’enorme incremento dell’astensione (quasi il 20% in più rispetto alle precedenti elezioni regionali) e il parallelo successo del Movimento 5 stelle indicano che la crisi della politica è giunta a livelli ben superiori di quanto si potesse immaginare solo poche settimane fa. Il Movimento 5 stelle ottiene con il suo candidato intorno al 18%, ma come lista supera il 14%, diventando il primo partito in Sicilia. E questo, si consideri, solo pochi mesi dopo le recenti amministrative nelle quali aveva ottenuto nei comuni del sud percentuali esigue.
Il fenomeno del “grillismo”, quindi, si afferma anche nella parte del paese dove sembrava - fino ad oggi - non riuscire a scalfire il tradizionale meccanismo del voto di scambio. Se proiettato sul piano nazionale un simile trend può annunciare in vista delle prossime elezioni politiche un risultato straordinario, tale da modificare la geografia politica del paese.
In questo contesto il PD, in alleanza con l’UDC, ottiene una vittoria significativa e si prepara a governare la regione. Non si tratta di uno sfondamento - se è vero che il confronto con le precedenti elezioni regionali, almeno a stare ai primi dati, evidenzia una sostanziale tenuta dello stesso PD e dei suoi alleati – quanto piuttosto del confermarsi di un peso elettorale significativo in presenza del crollo degli avversari del centro destra e in particolare del PdL. Il dato conferma così le tendenze generali che si riscontrano a livello nazionale ed in particolare: la irreversibilità del processo di disgregazione del centro-destra, lo spostamento del baricentro dell’area moderata verso i centristi e la tenuta del PD, non significativamente logorato dall’appoggio dato al governo Monti. Non vi è dubbio che un simile scenario incoraggia (anziché frenare) l’orientamento del gruppo dirigente del PD a stabilire un asse con le forze di centro nella costruzione di una nuova maggioranza di governo dopo le prossime elezioni politiche.
Infine, il risultato dell’alleanza di sinistra guidata da Giovanna Marano è deludente. La candidata presidente si attesta attorno al 6% e le due liste apparentate, quella dell’Italia dei Valori e quella unitaria in cui sono confluiti la FdS, SEL e i Verdi, non raggiungono ciascuna il 4%, non avendo quindi la possibilità di accedere alla ripartizione di seggi a livello regionale, data la particolarità della legge elettorale che prevede una soglia di sbarramento per singola lista del 5%, a prescindere dal risultato delle coalizioni. Questo esito  insodddisfacente è certamente da mettere, in larga misura, in relazione con il cambiamento del candidato presidente. Come è noto,  per irregolarità nella presentazione della candidatura di Fava, la coalizione di sinistra ha dovuto individuare un nuovo candidato nella persona di Giovanna Marano. Al di là del prestigio della nuova candidata, non vi è dubbio che il cambiamento abbia penalizzato seriamente la coalizione, anche per il paradosso del mantenimento nel simbolo di una delle due liste del riferimento al precedente candidato. In ogni caso è evidente che la scelta di partecipare alle elezioni con due liste apparentate anziché con una sola lista unitaria è stata un errore. Il problema naturalmente non si limita a questo. In particolare, il simmetrico risultato della lista del Movimento 5 stelle pone un problema di prima grandezza circa la rappresentanza dell’enorme disagio (sia politico che sociale) presente nell’elettorato. Dal voto siciliano emerge che tale disagio non si traduce che in minima parte nel sostegno alla sinistra, che sceglie invece altre strade, rifluendo in larga misura verso il disimpegno o premiando posizioni di ispirazione populista. Bisognerà attentamente riflettere su queste dinamiche. Siamo entrati in una fase del tutto nuova, uno scenario inedito, che richiede risposte altrettanto inedite.

Grecia. Pubblica elenco grandi evasori: arrestato giornalista di Marco Santopadre, www.controlacrisi.org

Il deputato nazista che prese a cazzotti una collega comunista in diretta tv i poliziotti greci non sono proprio riusciti a trovarlo, ma nel caso del giornalista che ha reso pubblico un elenco di evasori fiscali sono stati assai più efficienti. E così Kostas Vaxevanis è finito in manette poche ore dopo la pubblicazione di un elenco di nomi di presunti evasori contenuti in una lista di cittadini greci che possiedono dei conti correnti in Svizzera. Ieri il cronista ha diffuso tramite la rivista 'Hot Doc' di cui è direttore i 2059 nomi della lista trasmessa nel 2010 al governo ellenico dall'allora ministro delle Finanze francese Christine Lagarde (oggi odiata direttrice dell’FMI), documento la cui copia originale sarebbe - secondo Atene - sparita. Il governo greco ha infatti "richiesto" alcuni giorni fa alla Francia di inviare di nuovo il documento - ottenuto nell'ambito dell'inchiesta sulle rivelazioni di un ex dipendente della banca svizzera Hsbc - e attende una "risposta" da Parigi. In realtà la polizia ellenica aveva ottenuto i dati già il 2 ottobre, ma il Ministero delle Finanze di Atene li aveva chiesti di nuovo perché i dati erano stati ottenuti illegalmente dalla fonte originale e dunque il loro utilizzo sarebbe stato analogo allo spionaggio industriale. Poi però l’indignazione popolare scatenata dalle melina del governo ha obbligato il ministro Yannis Sturnaras a dimostrare di darsi da fare. Sturnaras - che a suo dire aveva appreso dell'esistenza del file dai giornali (!) - aveva dovuto lanciare una ricerca che ha visto coinvolti anche i servizi segreti per rimettere le mani sul file incriminato, dopo che anche la Corte Suprema aveva confermato che i dati provenivano "da un rappresentante ufficiale di uno Stato per via diplomatica" e dunque potevano essere usati senza problemi. La stampa ellenica non ha risparmiato il veleno sulla classe dirigente, affermando che tutti nel governo attuale e in quelli precedenti conoscevano benissimo le identità degli evasori e che semplicemente hanno fatto di tutto per non perseguirli. E non si parla di pochi spiccioli: lo stesso Ministero delle Finanze a luglio aveva indicato come negli ultimi due anni oltre 16 miliardi di euro siano stati esportati legalmente fuori dal Paese, il 10% di questi in Svizzera.

Fatto sta che questa mattina il direttore della rivista è stato arrestato per ‘violazione della privacy’. "Ha pubblicato una lista di nomi senza permesso e ha violato la legge sulla privacy. Non c'e' prova che queste persone hanno violato la legge" hanno spiegato i magistrati che hanno deciso la detenzione, attirandosi le critiche dell’opinione pubblica e del sindacato dei giornalisti ellenico.

In un video e in alcuni messaggi pubblicati su Internet poco dopo il suo rilascio nel pomeriggio – dovrà presentarsi domani davanti al giudice - Vaxevanis ha difeso il suo operato: "Non ho fatto altro che quello che ogni giornalista è obbligato a fare. Ho rivelato la verità che stavano nascondendo. Invece di arrestare gli evasori, cercano di arrestare la verità e la libertà di stampa".

Nella lista di nomi di presunti evasori figurano tre ex Ministri, l’attuale presidente del Parlamento, molti funzionari pubblici, diversi uomini d'affari ellenici e giornalisti, nonché un importante consigliere dell’attuale premier Antonis Samaras e lo stesso leader del partito di governo Nea Dimokratia.

Il Comune di Capannori ci prova: entro il 2020 rifiuti zero

121029plasticadi Elisa Zanetti
Sacchetti dell’immondizia dotati di microchip, supermercati alla spina, un centro per riparare oggetti che altrimenti finirebbero in discarica, e uno di ricerca per ideare prodotti non inquinanti. Tutto questo accade a Capànnori, in Provincia di Lucca, Comune che entro il 2020 smetterà di produrre spazzatura.
Prevenire, ridurre, riparare, compostare e poi nel caso riciclare. È questa la filosofia di Capànnori, comune di poco più che 46mila abitanti in provincia di Lucca, dove cittadini e amministrazione comunale stanno cercando di portare a quota zero la produzione di rifiuti nel territorio. Dal 2007 infatti Capannori ha aderito a Zero Waste, Rifiuti Zero, un progetto promosso da Paul Connettt, professore di chimica e tossicologia presso la St. Lawrence University di New York, che prevede l’abbattimento totale della produzione di spazzatura e l’abolizione dell’uso degli inceneritori.

Pur vantando ad oggi una percentuale di raccolta differenziata pari al 73%, contro una media nazionale del 33,6% (dati rapporto Ispra 2011), ai capannoresi questo non sembra bastare: «Riciclare è importante, ma non è sufficiente – spiega a Linkiesta Rossano Ercolini, coordinatore dell’osservatorio Rifiuti Zero – il nostro obiettivo è quello di ridurre al minimo la produzione di spazzatura: se non creiamo rifiuti non occorrerà nemmeno riciclarli». Il risultato da raggiungere è quota zero entro il 2020 e sembra proprio che il Comune sia sulla strada giusta: da un po’ infatti a Capannori le lancette del tempo sono tornate al 1995 con una produzione di rifiuti pari ai livelli di oltre 15 anni fa. «Siamo molto orgogliosi di questo risultato, in molti comuni del resto d’Italia, nonostante gli effetti della crisi che hanno tendenzialmente portato a una battuta d’arresto, la quantità di rifiuti prodotti continua a crescere».

Per portare avanti al meglio Rifiuti Zero, a Capannori è nato un centro di ricerca e riprogettazione che si occupa di analizzare i materiali conferiti nel “sacco nero”, ovvero quello della raccolta indifferenziata. «Guardare dentro i sacchetti – prosegue Ercolini – ci permette di capire se ci sono stati “errori di comunicazione” per quanto riguarda i rifiuti conferibili o meno e di individuare quali sono i rifiuti più presenti fra i non riciclabili per poi elaborare possibili soluzioni. Il residuo, ciò che non può essere riciclato, va reso visibile, perché rappresenta una patologia del sistema, un errore di progettazione cui porre rimedio».

Scarpe, tessuti, giocattoli, piccoli elettrodomestici e utensili di metallo sono fra le presenze fisse del sacco nero dei capannoresi e così, per ridurre la loro presenza, il comune ha lanciato le cosiddette “soffitte in piazza”, una sorta di mercatino delle pulci dove tutti possono vendere oggetti che altrimenti butterebbero. Da ottobre è stato inoltre inaugurato un centro di riparazione e riuso, che permette il recupero e la redistribuzione di oggetti destinati alla discarica. «Il centro si trova proprio accanto all’isola ecologica – spiega Ercolini – in questo modo i nostri operatori con “un’occhiata clinica” possono salvare dalla discarica oggetti che possono invece avere una seconda vita. Si riparano bici, elettrodomestici e si recuperano vestiti che poi vengono dati a chi ne ha bisogno».

Per quello che riguarda invece i prodotti non riciclabili, il comitato locale di Rifiuti Zero si sta muovendo su un altro fronte, contattando direttamente i produttori e cercando di favorire una loro maggiore responsabilizzazione. «Abbiamo aperto un tavolo con Aiipa (l’associazione italiana industrie prodotti alimentari) per risolvere il problema della capsule da caffè, in modo da rendere la plastica dell’involucro separabile dalla polvere; con Ecobimbi stiamo lavorando a un prototipo di pannolino riutilizzabile, mentre con l’editore Pizzardi stiamo cercando di produrre delle figurine riciclabili. Infine – conclude Ercolini – stiamo cercando di coinvolgere un centro calzaturiero nella produzione di “calzature ecologiche”, fatte con materiali biodegradabili e riciclabili e senza l’uso di colle tossiche».

Tra i progetti già attivi “la spesa alla spina”: detersivi, bibite, pasta, biscotti e molti altri prodotti possono essere comprati riutilizzando i propri contenitori, mentre da gennaio è partita la sperimentazione di sacchetti dell’immondizia dotati di microchip. In questo modo è possibile controllare quante volte l’utente mette in strada il sacco nero della raccolta indifferenziata e in base al numero di esposizioni calcolare la tassa sui rifiuti, incentivando così il compostaggio domestico dei rifiuti organici e una sempre più attenta raccolta differenziata.

Attualmente i comuni che hanno aderito a Rifiuti Zero sono 106 e se fino al 2010 il loro numero era decisamente modesto, a partire dal 2011, al ritmo di quattro Comuni al mese, le iscrizioni sono aumentate velocemente, arrivando così a toccare un totale di più di due milioni e 800mila cittadini coinvolti. Ad eccezione di Napoli che l'anno scorso ha aderito a Rifiuti Zero, e di Parma, che da pochissimi giorni ha scelto di sposare questa causa, all'appello mancano però le grandi città italiane. Una strada troppo in salita per i centri urbani? Forse, ma di certo non impraticabile se si pensa che all’estero città come San Francisco hanno preso parte al progetto del professor Connett raggiungendo una percentuale del 78% di raccolta differenziata.

da Linkiesta.it

La sinistra di classe cresce ed è solo l'inizio. Intervista a Anghelos Irakelis, area marxista di Syriza di Stefano Galieni, www.controlacrisi.org


Anghelos Irakelis è un esponente di Syriza che fa parte della corrente “Epanastasi” (Rivoluzione) un’area politica simile a quella che in Rifondazione da fra l’altro vita al giornale “Falcemartello”. In questi giorni sta girando in assemblee in tutta Italia (il 30 sarà a Roma) per far conoscere meglio quanto sta accadendo attualmente in Grecia. Si parla poco nell’informazione mainstream italiana di quanto avviene nella sinistra greca, cosa ci vuoi dire in proposito?
«Si è vero, all’estero si parla dei nazisti di “Alba dorata”, degli scontri ma non dell’evoluzione politica. Gli ultimi sondaggi dimostrano che Syriza sta ancora aumentando i consensi e ormai abbiamo superato il 30%. Fra le forze di coalizione governative legate a Samaras, si prevede un crollo del Pasok mentre “Sinistra Democratica” sta ricevendo forti pressioni dalla base per non restare a sorreggere il governo. Alba dorata cresce ma è normale che i media facciano propaganda per discriminarci e che facciano di tutto per oscurarci. Per essere sinceri, dopo le elezioni c’è stato un momento di disillusione ma ora si sta votando l’austerità in parlamento e si preparano nuovi scioperi generali. Dinamiche che portano la sinistra in ascesa».
Ma si continuerà con questo governo o si andrà a nuove elezioni?
«In Grecia servirebbe un governo stabile ma questo non sarà possibile con questo parlamento. Sono emersi anche nuovi scandali che coinvolgono il Pasok. Un partito che potrebbe anche sparire come forza parlamentare. Sinistra democratica vive la sofferenza delle opposizioni interne e molti dei loro non sono disposti a votare la nuova riforma sul mercato del lavoro. Se si arriva al voto Sd a mio avviso si spacca. Questa non è una coalizione stabile. La classe dominante cercherà di utilizzare ogni mezzo per non andare a nuove elezioni, ma non è detto che queste manovre riescono».
Come procede la trasformazione di Syriza da coalizione in partito vero e proprio? Tenendo conto che questa trasformazione consentirebbe in caso di vittoria di avere un numero maggiore di seggi in parlamento?
«Dopo le elezioni si è aperta una campagna per aumentare anche gli iscritti. Ma il processo costituente va velocizzato. Ci sarà a dicembre una conferenza e prima dell’estate 2013 faremo un vero congresso di fondazione. Come area crediamo che queste dinamiche si debbano tradurre in un nuovo partito in grado di coinvolgere. Il partito deve divenire strumento di cambiamento. Durante le precedenti elezioni non c’era neanche stato modo di discutere il programma. Invece dobbiamo costruire un partito di massa e democratico che comprenda le proprie diverse sentenze e che deve costruire una partecipazione militante ai processi decisionali. A mio avviso non siamo ancora all’altezza delle responsabilità che ci attendono e dobbiamo diventarlo in tempi brevi».
Le manifestazioni in gran parte d’Europa sembrano indicare che sta nascendo una nuova spinta propulsiva della lotta di classe?Nuova spinta propulsiva lotta di classe in Europa
«Sappiamo tutti che questo è un periodo turbolento. La crisi del capitalismo si sta approfondendo dovunque, le lotte di cui parli si sviluppano in maniera anche diversa a livello. È importante anche per noi in Grecia capire che non siamo isolati, è importante capire che le lotte che facciamo noi sono legate. Hanno cominciato gli Indignados in Spagna a cui si sono subito legati i greci, in Piazza Syntagma e poi le numerose rivoluzioni arabe. Per il 16 novembre ci sarà uno sciopero generale in Spagna Grecia e Portogallo. Credo che di questo bisogna dare una valutazione positiva»
In Italia solo in questi giorni, col “No Monti Day” si comincia a rialzare la testa
«Guardando la nostra esperienza in Grecia, non è che abbiamo avuti movimenti continui per decenni. Ci sono stati momenti di chiusura che hanno creato anche pessimismo fra gli attivisti. Le mobilitazioni degli ultimi anni sono esplose senza preavviso. Anche in Italia l’austerità sta colpendo ora e sarà più dura nei prossimi mesi. Da voi poi ci sono direzioni sindacali che finora hanno messo un grande freno alle mobilitazioni. Ma voi avete una grande tradizione e ci fate sperare in un futuro di solidarietà internazionale».
Nel frattempo in Grecia la situazione delle persone in carne ed ossa peggiora di giorno in giorno
«Vero si parla di masse di persone di cui neanche si parla più. Ma la situazione è tragica, veniamo da quattro anni di recessione in cui il crollo del Pil non è stato di 1 punto ma di 5. Le ultime previsioni preannunciano un calo di 10 punti. La disoccupazione ufficiale è del 25%, quella giovanile del 55% La maggioranza della popolazione attiva non ha un lavoro, i suicidi sono cresciuti del25%, nella sola Atene ci sono 40 mila senza casa. Molti erano proprietari che non possono più pagare il mutuo e da noi non esiste edilizia popolare. Ma io sono convinto che le cose cambieranno soprattutto grazie ai giovani che si stanno radicalizzando. Un solo dato per concludere, la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze sotto i 25 anni sotto i 25 anni, il 55% ha votato Syriza. È solo l’inizio».

domenica 28 ottobre 2012

La sinistra Keynesiana e il suo cocktail di desideri di Claus Peter Ortlieb


In Germania, stavolta, saranno guai per i ricchi. La coalizione "Per una ripartizione equa" ha lanciato un'iniziativa, chiamando, non senza una certa audacia grammaticale, ad una giornata d'azione nazionale:

"C'è una via d'uscita alla crisi economica e finanziaria: redistribuzione! Noi non vogliamo più soffrire per la mancanza di prestazioni sociali e di servizi pubblici, e non vogliamo che la grande maggioranza della popolazione venga penalizzata. E' piuttosto la ricchezza eccessiva, e la speculazione finanziaria, che deve essere tassata. Non si tratta solo di denaro, ma anche di solidarietà concreta in questa nostra società."
In tal modo, la coalizione reclama un'imposta permanente sulle fortune eccessive dei contribuenti eccezionali, alfine di "finanziare in tutta equità la spesa pubblica e sociale indispensabile e ridurre il debito", senza dimenticare la "lotta costante contro l'evasione fiscale ed i paradisi fiscali, ed in favore della tassazione delle transazioni finanziarie, contro la speculazione e contro la povertà, dappertutto nel mondo".

Alcune frazioni dell'SPD e dei Verdi hanno accolto con favore la campagna e la sua concretizzazione, per mezzo dei loro rispettivi programmi, che dovrebbero in line adi principio aumentare il tasso più alto di imposizione fiscale, dal 42% al 49%. Deliberatamente, dimenticano di ricordarsi che, negli anni '90, loro stessi hanno abbassato tale tasso, che allora si attestava sul 53%.
Nella misura in cui, entrambi i partiti hanno anche sostenuto l'iscrizione nella Costituzione, della regola del pareggio di bilancio, e la politica di austerità di Angela Merkel, si può dire che non ci sia molto da aspettarsi da un eventuale governo rosso-verde, nel 2013, se non delle misure di ordine simbolico: si alzerà leggermente il tasso massimo di imposta, per sottolineare che siamo "tutti insieme" sulla stessa barca. In definitiva, la prossima riduzione delle pensioni passerà meglio se i pensionati colpiti potranno dire che "quelli che stanno in alto" versano anche loro le loro quote.

I membri di "Per una ripartizione equa", tuttavia, prendono la cosa molto sul serio. Attac, per esempio, esige un prelievo eccezionale e progressivo sul patrimonio dei milionari e dei miliardari, del quale circa il 50% dovrà essere sequestrato e versato nelle casse pubbliche.  Quattromila miliardi di euro potrebbero così devoluti a livello europeo. Per il resto, la ricetta che dovrebbe salvarci dalla crisi attuale sembra riassumersi in un ritorno agli anni '70, a quel sistema di ripartizione del reddito e della ricchezza, ed agli strumenti di politica fiscale corrispondenti. Ridateci il nostro capitalismo renano!

La comprensione delle crisi che sottende queste rivendicazioni potrebbe essere ancora più semplicistica di quella, fondata sul modello neoclassico della "casalinga di Voghera", che la maggior parte dei tedeschi condivide con il proprio cancelliere: dal momento che "tutti insieme", e tutti particolarmente nei "nostri paesi del sud", abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, ed ora è tempo di risparmiare, risparmiare e ancora risparmiare. Che questa politica non porti ad altro che ad una crisi più profonda, è cosa talmente di dominio pubblico, dopo il decreto legge d'urgenza di Brüning, che è inutile starlo a ricordare.

Quanto al modello keynesiano di sinistra rappresentato da Attac e compagnia, esso considera la ineguale ripartizione del reddito e della ricchezza come la causa - e in alcuni casi la conseguenza - dei fenomeni di crisi: il neoliberismo ci avrebbe deviato dalla retta via, quella del "capitalismo buono", e portato alla crisi.

In contrasto con questi modelli semplicistici, c'è la teoria delle crisi formulata da Robert Kurz a partire dal 1986. Come aveva già stabilito Marx, la contraddizione nel processo del capitale fa sì che, da un lato, la sua ricchezza astratta ha per unica sorgente il lavoro, mentre dall'altro lato, nella misura in cui la produttività aumenta, la forza-lavoro umana diventa sempre più svantaggiata ed espulsa dal processo di produzione. Per Marx, tale contraddizione è suscettibile di far saltare la base del capitale. Da certe evidenze, a partire dagli anni '70, con l'utilizzo della microelettronica - i cui potenziali ai fini dell'automazione sono, del resto, assai lontani dall'essere esauriti - il capitalismo sia entrato in questa fase terminale che la teoria marxiana aveva anticipato.

La serie di crisi finanziarie che abbiamo conosciuto in questi ultimi trent'anni e che, con il crack del 2008, ha assunto per la prima volta una dimensione planetaria, ha il suo punto di partenza in quella che è la "stagflazione" degli anni '70, cioè la coincidenza della stagnazione dell'economia mondiale con dei tassi di inflazione elevati, che possono arrivare fino a due cifre. La politica economica keynesiana, il cui dominio, in quest'epoca, non è ancora stato messo in discussione, può certo attenuare i fenomeni di crisi, ma non è più in grado di generare una nuova ondata di accumulazione. La conseguenza è stata che ha ceduto il passo al neoliberismo.
La risposta di questi, a fronte dell'impossibilità di produrre un plus-valore reale in quantità sufficiente, consiste, in breve, nel garantire i profitti con altri mezzi: in primo luogo, l'aumento crescente della disoccupazione permette di esercitare una pressione sui salari; secondo, in virtù di quella che si chiama una politica economica "basata sull'offerta", si diminuiscono le imposte sulle società e sui redditi da capitale; terzo, in mancanza di reali possibilità di investimento, un cospicuo numero di imprese si rivolgono verso il credito, contribuendo così, col loro capitale finanziario, a generare delle bolle che possano dare in questo modo una parvenza di equilibrio ai loro bilanci. La Siemens, per esempio, dagli anni '90 si è vista ironicamente qualificare come una banca, con annesso un dipartimento elettronico.

Da un punto di vista fenomenologico, Attac e gli altri hanno completamente ragione. Da un lato, i salari reali sono effettivamente scesi. D'altra parte, abbiamo visto in trent'anni - e anche questa è una conseguenza della deregolazione del settore finanziario - moltiplicarsi per venti la quantità di attività finanziarie e immobiliari a livello mondiale, senza che si possano collegare tali attività ad un qualche valore reale.

Il problema sta proprio qui: queste attività sono in maggior parte fittizie, sia che provengano da bolle finanziarie, sia che consistano in crediti dubbi. Ogni tentativo, in grande scala, volto a trasmutarle in ricchezza materiale porta alla loro svalutazione immediata.
Sarebbe questo che, all'occorrenza, provocherebbe il progetto di Attac, di reindirizzare la metà di queste risorse verso le casse dello Stato. L'idea che ci sarebbero soldi a bizzeffe, e che si tratterebbe semplicemente di ripartire diversamente, si rivela un progetto decisamente un po' troppo semplicistico, equivalente a quello che dice che basterebbe stampare la quantità necessaria di denaro.
Anche l'appello ad un ritorno, in materia di ripartizione dei redditi e della ricchezza, al "buon capitalismo" degli anni '70, non è meno irrealistico. La rivoluzione neoliberale non è stato un semplice errore ma una risposta intracapitalista alla crisi degli anni '70 ed al fallimento del keynesismo. Con questo stratagemma non si supera la crisi, ci si accontenta semplicemente di rimandarla e, così facendo, di aggravarla. Il ritorno al punto di partenza è impossibile - tanto più che le condizioni di produzione di plus-valore si sono ancora deteriorate a causa del livello di produttività nel frattempo raggiunto.

Ciascuno ha il diritto di esprimere i propri desideri. Però, al di fuori dei compleanni dei bambini, si dovrebbe chiarire sotto quali condizioni essi possono essere realizzati. E per quanto riguarda il vecchio e pio desiderio del "Per una ripartizione equa", una sola cosa è sicura: la sua realizzazione non è più possibile sotto le condizioni del capitalismo.

(Apparso su Konkret, settembre 2012)

A Elsa Fornero il Nobel per la simpatia: per i giovani supera Cossiga e Pol Pot di Alessandro Robecchi, Il Misfatto

Dopo “bamboccioni”, “sfigati” e “choosy”, il governo studia altre formule per incentivare l’entusiasmo giovanile, come la garrota e il dentifricio nelle scarpe. Il ministro del lavoro si scaglia contro i privilegi dei precari: “Se cominciate a lavorare a cinquant’anni non potete andare in pensione a settanta!”. Monti precisa: “E se morite a 71 anni dovete renderci i soldi!”.
Il coraggio di rischiare l’impopolarità, di dire una verità scomoda, di rompere convenzioni e luoghi comuni. Elsa Fornero, ministro del lavoro, ha fatto invecchiare di colpo decine di proverbi e modi di dire. La frase sui giovani italiani che sono un po’ “choosy”, schizzinosi, di fronte al mondo del lavoro spazza via altre frasi dello stesso tipo, come “I terroni non hanno voglia di lavorare”, “Gli zingari rubano i bambini”, e “E’ tutta colpa dei sindacati”. Tutte cose vecchie, superate dalla nuova frase del ministro Fornero: prendete il primo lavoretto del cazzo e poi guardatevi intorno da dentro.
“Io l’ho fatto – dice un giovane di Salerno che preferisce restare anonimo – pur di lavorare ho cominciato con il piccolo spaccio e ora sono un apprezzato killer di camorra. La Fornero ha ragione, c’è sempre spazio per chi si dà da fare”. Ma è nelle realtà metropolitane che l’entusiasmo dei giovani è alle stelle. Dice un turnista di un call center della capitale: “Anch’io all’inizio ero un po’ schizzinoso a pulirmi il culo con la mia laurea, ma poi ci ho fatto l’abitudine e ora sono felice di aver studiato vent’anni per guadagnare tre euro all’ora. Sto pensando di prenderne un’altra, visto che vale meno della carta doppio velo”.
L’apprezzamento per il ministro del lavoro trabocca dai social network. Scrive ad esempio Giovanni, da Milano: “La mia laurea in lettere si è rivelata preziosa per il mio lavoro nei cessi della stazione: mi aiuta a correggere le scritte sul muro davanti ai pisciatoi”. Anche chi inizialmente aveva pensato a un autogol della ministra ora deve ricredersi, basta guardare i sondaggi. “E’ vero – dicono alla Swg – non si era mai visto un ministro italiano scalare così velocemente la classifica. Ora la Fornero, per simpatia, si colloca tra Pol Pot e Cossiga, e la tendenza è in crescita”. “Oltretutto – aggiungono alla Doxa – si è rivelata eccellente nell’aggregare i giovani italiani. I numeri parlano chiaro. 35 su 100 sono disoccupati. 40 su 100 sono precari, e a 99 su 100 sta prepotentemente sul cazzo Elsa Fornero”. Non è stato reso noto il nome del centesimo intervistato del campione, che subito dopo aver risposto al sondaggio si è affrettata a chiamare mamma al ministero del lavoro.

Intervista a Paolo Solier sul No Monti Day di Francesco Piobbichi, www.controlacrisi.org


Paolo Solier per  molti tifosi  del Perugia ( e non solo per loro) è più che una bandiera. Il suo libro “ calci sputi e colpi di testa” è stato la bibbia per moltissimi di noi.  Solier a distanza di anni è rimasto sempre coerente con quella foto con la quale salutava la sua curva, con quel pugno chiuso che portava il conflitto nella domenica dell'italiano medio. Oggi lo abbiamo intervistato mentre andava in Valsusa per l'acquisto collettivo dei terreni contro la TAV, e gli abbiamo chiesto cosa ne pensasse del No Monti Day.

Cosa ne pensi della manifestazione di ieri, del fatto che l'opposizione sociale e politica è scesa in piazza?
C'era un grande bisogno di una manifestazione come questa, c'era bisogno di far sentire una voce che dicesse ai nostri governanti che la strada che hanno preso è sbagliata. Che non accettiamo le manette che ci hanno messo con il Fiscal Compact ed il vincolo di bilancio in costituzione. L'eredità che ci lascia Monti è pesante e i prossimi governi rischiano di essere già segnati da queste scelte
Non tutta la sinistra però la pensa così, IDV SEL e PDCI ieri non c'erano.
Già, questo mi dispiace. Penso che la crisi rende evidente le posizioni, le chiarisce, manifestazioni come queste rendono evidente chi sta da una parte e chi sta dall'altra. La stessa cosa se ci pensi bene sta avvenendo in Valsusa per quanto riguarda la TAV. Ti faccio un esempio, ad Avigliana il PD e il PDL hanno fatto una lista insieme per impedire ad un sindaco No Tav di poter governare e sono stati sconfitti. Per schematizzare a sinistra ci sono tante bandiere, ma alla fine occorre capire da che parte sventolano. Se la sinitra come il PD appoggia Monti o favorisce dispendiose opere inutili come la TAV questa cosa mi fa incazzare.
Da quello che dici sembra che in questi tempi si chiarisce chi è  il nostro avversario?
Certo, il capitalismo è il nostro avversario, lo è sempre stato. Già 20 anni fa denunciavo l'errore di quelli di sinistra che pensavano di poter governare questa belva, la sinistra che è andata dietro Tony Blair ha fallito ed ora ne paghiamo le conseguenze. Il “Governo delle Multinazionali” esiste per davvero, è un Governo che ci porta via la democrazia. E' questo che la nostra gente deve capire.
Già, ma per far capire certe cose occorre anche farsi comprendere, spesso la sinistra ha paura di parlare il linguaggio delle classi popolari.
Il linguaggio è una scelta politica, se dici Termovalorizzatore dai una idea diversa dell'inceneritore, fa meno paura. Parli della stessa cosa ma addolcisci la pillola. La stessa cosa avviene anche per quanto riguarda il lavoro, dove con il termine imprenditore hanno cancellato quello di padrone. Per me esiste un interesse comune, ma in questo interesse ognuno fa il suo gioco, c'è chi di questo interesse se ne giova di più chi se ne giova di meno. La stesso vale  per la precarietà, prima parlavano di flessibilità per far credere che frammentando le figure del lavoro avrebbero aumentato sviluppo e occupazione. Sappiamo invece com'è andata, l'unica cosa che hanno fatto aumentare è disoccupazione e ricatti per i lavoratori.
Lo stesso vale per la crisi.
Certo, vogliono far credere alla maggioranza delle persone che la crisi sia caduta dal cielo da un giorno all'altro, in realtà questo processo è frutto di scelte precise fatte dalle classi dominanti. Mica è un temporale.
Rispetto a questo tema almeno la manifestazione di ieri  almeno rompe il rumore di fondo.
Certo, ora occorre trovare i tratti comuni di questa forza che ieri era in piazza. Io sono pessimista, siamo ancora deboli e frazionati per rompere la gabbia del bipolarismo. Occorre un lavoro lungo, ieri è stato un punto d'inizio ma occorre riconoscere che un punto d'inizio potevano essere anche i referendum sui beni comuni. Abbiamo vinto una grandissima battaglia ma ora ce la stanno smontando senza che si riorganizzi l'opposizione, eppure hanno votato decine di milioni di cittadini.
Quindi?
Quindi occorre organizzarsi per dare uno sbocco politico a quanto si muove. Ma non sarà semplice è non sarà un lavoro a breve termine. C'è molta gente incazzata contro le scelte di questo Governo, ma non si trova ancora la quadra. Occorre lavorare su parole semplici e battaglie chiare come facciamo in Valsusa. Diamo addosso ai paradisi fiscali ad esempio, io sarei per chiuderli ma visti i rapporti di forza già sarebbe importante limitarne l'attività. Lo stesso vale per chiedere in borsa lo stop alle vendite allo scoperto che favoriscono la speculazione, o proporre che si riducano a due o tre le forme di contratti sul lavoro.
Oggi come ieri allora , calci sputi e colpi di testa.
Si, ma contro il capitalismo.