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Su quali fattori deve basarsi la linea di condotta dei
rivoluzionari?
di Moreno Pasquinelli
Prendo lo spunto da discussioni avute con compagni e amici
accomunati da un rifiuto radicale dell’esistente, come dal disprezzo per il
sistema e le élite che detengono il monopolio assoluto dei poteri. Si tratta di
persone molto diverse fra di loro, per livelli ci cultura per convinzioni
politiche, ed infine per estrazione sociale.
Etica e Spirito del tempo
Comunanza di sentimenti, d’indignazione, non quindi
un’autentica fratellanza, né di classe, né ideale. Un’empatia basata su comuni
valori etico-morali, qualcuno potrebbe dire. Non lo penso. Basta scavare un
poco per scoprire, alle spalle della medesima indignazione per lo stato di cose
presente, profonde differenze politiche e ideali. Il sentimento d’indignazione
è solo negativo, mentre un’etica implica una positiva e razionale (non meramente
intellettualistica) visione del mondo, una gerarchia dei valori, un’idea della
prassi.
Negatio
est determinatio, affermava Spinoza, ed è vero, ma sul piano politico
questo è soltanto il primo stadio della coscienza. Una negazione, tanto più se
essa si avvita attorno alla propria irriducibilità, non conduce in altro luogo
che in quello del nichilismo.
Ed in effetti nella sinfonia dell’indignazione crescente, al
di la dell’anarchia dei suoni, è proprio il rumore di fondo del nichilismo che
prevale, l’abisso in cui si spegne ogni eticità. Non c’è infatti eticità al di
fuori del perimetro del bene comune, della vita della comunità, della sua
destinazione.
E che prevalga il nichilismo, nel lamento generale, non è
sorprendente. Esso è figlio dei tempi, messo al mondo dal connubio tra potenti
fattori materiali e non meno potenti fattori culturali e spirituali. Non conta
impiccarsi ai nessi causali, nei fatti l’atomizzazione sociale combacia a perfezione
con l’ipertrofia dell’Io, con la vittoria, dopo una lunga guerra di
logoramento, della supremazia delle singolarità su quella comunitaria e di classe. Atomizzazione sociale,
frantumazione e imborghesimento della classe proletaria, sono alla base della
polverizzazione politica dell’area rivoluzionaria, e dell’ipertrofia dell’Io.
E’ sempre parlando con questi compagni e con questi amici
che si avverte lo Spirito del tempo,
l’idea che tutto sia oramai perduto, che il sogno di un futuro migliore
ce lo
siamo lasciati alle spalle, che la storia sia pregiudicata, che il
Sistema sia
invincibile. Li accomuna poi l'idea, sbagliata, che il monopolio
sistemico sui mezzi d'informazione, quindi la presa ideologica della
classe dominante, contino ben più, nello spiegare la pace sociale, più
delle condizioni materiali d'esistenza e di vita.
Questo è il senso comune, la coscienza che tutto permea e che è
quindi egemone. E’ l’idea dunque che l’attuale crisi, per quanto grave, non sarà
davvero fatale per il sistema. Che quindi non esistono contraddizioni
intrinseche su cui poter fare affidamento, che ogni sollevazione di massa,
semmai ci sia, può essere non solo assorbita, ma metabolizzata dal Sistema
stesso.
Questo è lo sconfortante Spirito
del tempo, che tutto afferra nella sua pulsione di morte. Uno Spirito che quindi si dilegua in due
anime opposte: l’una quella della rassegnazione o dell’ozio della coscienza,
l’altra quella della centralità di minoranze eroiche che con la loro azione
possono colpire il nemico e, semmai, risvegliare i sudditi dal loro torpore.
Questi amici affermano: «La vostra fede nelle masse è
ingiustificata. Voi che credete fermamente che solo l’irruzione di grandi masse
può davvero cambiare il corso della storia, siete tenuti a spiegarci perché,
giunti al quarto anno di una crisi economica senza precedenti, la situazione
non si sblocca; il perché di questo mortorio delle masse».
Esistenza
materiale e coscienza sociale
Marx affermava «Non
è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza»,
volendo sottolineare la priorità assoluta dell’esistenza materiale, di cui la
sfera ideale non sarebbe che un mero rispecchiamento. Questa proposizione va
corretta: è vero che l’esistenza determina la coscienza, ma solo in quanto sta
concatenata al suo opposto: che la coscienza determina l’esistenza, o il principio
dialettico della codeterminazione. L’azione degli uomini certo si espleta
nell’ambito di circostanze storico-naturali fattuali date, da cui essi non
possono prescindere, ma quest’agire, determinato ma non predeterminato, è
finalistico, orientato a raggiungere uno scopo, e questo porre uno scopo è ciò che
chiamiamo coscienza. Un’azione che quindi prende necessariamente forma nella
sfera del pensiero, pensiero che non è un mero riflesso delle condizioni
materiali d’esistenza, ma che è il precipitato di secoli e millenni di sviluppo
della ragione. Questo modellare l’esistente in base ad un non-ancora-esistente
(se pre-esistente solo nella sfera
ideale), questo trasgredire o trascendere l’ordine delle cose, è proprio ciò
che distingue ontologicamente l’uomo dalla natura, la quale procede sì, ma
ubbidendo in modo incosciente ad un impulso vitale —essa non ha dunque idee,
non pensa, e propriamente non si pone alcuno scopo.
Il congedo ogni
meccanicismo, non revoca tutta via in dubbio che le condizioni materiali
d’esistenza sono il fondamento su cui si erge la battaglia ideale, su cui
crescono e mutano lo Spirito del tempo
e quel suo surrogato che chiamiamo senso
comune. L’analisi delle condizioni materiali d’esistenza di una
classe o di un popolo resta il primo compito di una minoranza rivoluzionaria, se
vuole comprendere in che direzione cambi il senso comune e quindi calibrare la
sua propria azione.
Affinché grandi masse, e non singolarità o minuscole
minoranze irrompano sulla scena debbono concorrere due fattori: uno
sconvolgimento delle abituali condizioni materiali di vita e che si affacci un
nuovo Spirito del tempo. L’azione di
queste minoranze, siccome poco o nulla può sul primo piano, deve invece
concentrarsi sul secondo. Una minoranza è rivoluzionaria se è il deposito e il
conduttore di uno Spirito nuovo, se
quindi espleta un’opera di trasmissione e divulgazione. L’azione, se non vuole
essere fine a sé stessa, implica possedere una visione ideale, e dunque
adeguate modalità di trasmissione e divulgazione. Un’opera complessa, che non
si risolve nella pura propaganda, che implica l’azione e l’esempio, ovvero un
agire esemplare che, per essere efficace, richiede un habitat adeguato, un quantum
di forze accumulate, che questo agire sia commisurato alla situazione concreta,
ai rapporti di forza tra le forze in campo.
Grandi masse passano all’azione solo a certe condizioni
obiettive. Due essenzialmente: «Che chi sta in basso non possa più vivere come
prima, e chi sta in alto non possa più governare come prima». [Lenin]
Abbiamo forse, oggi, qui da noi, queste due condizioni? No,
non le abbiamo. Definendo questa crisi del capitalismo come storico-sistemica,
stiamo dicendo che essa non è un singolo evento catastrofico, ma un processo
fatto di fasi, anche alterne, le quali in ultima istanza conducono ad una resa
dei conti finale, allo scontro frontale tra forze antagoniste che deciderà le
sorti della società per un lungo periodo.
Analisi
concreta della situazione concreta
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Parafrasando Lenin, oggi, qui da noi, chi sta in basso,
ovvero, la sua grande maggioranza può ancora vivacchiare come prima mentre, chi
sta in alto, pur a fatica, può ancora governare come prima. La crisi
economico-sociale non è un colpo di maglio, né colpisce chi sta in basso in
modo indiscriminato —del resto chi sta in alto ha imparato la lezione che gli è
venuta dai secoli precedenti, evita se può di procedere per strappi violenti.
Pensiamo siano istruttive le tabelle più sopra. Fotografano la
situazione generale del nostro paese.
In Italia la ricchezza privata complessiva (la somma di
tutti i beni, mobili e immobili, a valori di mercato correnti al netto delle
passività finanziarie) è pari a 5,4 volte il Pil. Il dato immobiliare è noto:
più dell’80% della popolazione italiana abia in alloggi di proprietà. Se si
divide questa ricchezza complessiva per abitante abbiamo 140mila euro procapite.
Se la si divide per famiglie abbiamo che ognuna dispone mediamente di una
porzione di ricchezza di 350mila euro. Così, tanto per dire, 1.900 miliardi di
debito pubblico sono appena il 22% dello stock di ricchezza privata accumulata
—confortando la tesi di chi sostiene che il debito pubblico italiano sia più
sostenibile di quello di altri paesi, considerati “virtuosi” perché non vengono
considerati i loro debiti privati. Non basta: il saggio di risparmio lordo degli
italiani, pur in calo (oggi è dell’11% rispetto al 22% del 1995), è secondo
solo a quello dei tedeschi (16,7%). E per comprendere quale fosse la situazione
prima della grande crisi del 2008-2009 va segnalato che nei 14 anni che l’hanno
preceduta la ricchezza delle famiglie è cresciuta costantemente passando da
4.212 miliardi del 1995 agli 8.414 miliardi del 2007. Il ciclo accumulativo si
interruppe appunto nel 2008, col sopraggiungere della recessione economica.
Questi dati grezzi ci aiutano a capire le ragioni per cui la
situazione è bloccata. La grande maggioranza dei cittadini, compresi i
lavoratori salariati, viene da un lungo ciclo di benessere diffuso. La consapevolezza
che la sopraggiunta crisi sia una cosa terribilmente seria, ha prodotto un
sentimento di timore, prevale la paura di perdere certi benefici, che il modo
di vita consumistico sia pregiudicato. E il sentimento di paura determina a sua
volta un comportamento conservatore, per altro ancor più accentuato tra gli
operai che non tra la piccola borghesia. Questo spiega come mai, i soggetti e i
settori colpiti frontalmente dalla crisi sono stati lasciati soli e i focolai
di ribellione non solo si sono generalizzati, ma sono stati risucchiati nel
clima generale di paura.
Non dobbiamo nemmeno temere di dire cose antipatiche, o
sconvenienti a tanti militanti antagonisti: il panico della catastrofe, lungi
dal risvegliare le masse dalla loro apatia, non solo rafforza la loro inerzia,
a malapena nasconde la loro intima speranza che il sistema guarisca, che tutto
ritorni come prima. Di qui alla fiducia che il salvatore della patria Mario
Monti ce la faccia, il passo è breve.
Anche coloro i quali contestano la cura da cavallo imposta
dall’Unione europea e portata avanti dai “tecnici”, numero destinato a crescere
con l’avvitamento della crisi, non stanno approdando alla sponda dei
rivoluzionari. Essi hanno solo iniziato a spostarsi, a muoversi, ma a passo di
lumaca, riponendo le loro speranze a forze che sì contestano la terapia
liberista ma che non vanno oltre ad un keynesismo variamente declinato —dal Pd
ai neofascisti, passando per l’M5S fino ai seguaci della Mmt. Altra farina deve
macinare il mulino della crisi prima che da un fuoco qua e la si passi
all’incendio generale, alla sollevazione. Devono saltare le paratie difensive
del sistema, fallire i dispositivi di salvataggio dell’Unione europea. Noi non
abbiamo dubbi che questo avverrà, che chi sta in alto non riuscirà a far
ripartire il motore grippato del capitalismo occidentale, europeo in particolare.
Non riuscirà ad evitare lo sbocco “naturale” di questa crisi: una
pauperizzazione generale delle masse con una contestuale concentrazione della
ricchezza nelle mani di una ristretta minoranza di possidenti, decisi questi
ultimi a difendere ad ogni costo la loro supremazia, se serve anche
sbarazzandosi del poco che resta della democrazia.
Per questo le statistiche di cui sopra vanno prese con le
pinze. Ogni grande aggregato statistico nasconde infatti le disparità sociali.
E’ l’Istat a dirci (rilevazioni 2011) che gli italiani che vivono di stenti o hanno grandi difficoltà
ad arrivare a fine mese sono praticamente raddoppiati dal 2008 ad oggi. L’anno
scorso l'11,1%
delle famiglie era relativamente povero (per un totale di 8.173 mila persone) e
il 5,2% lo è in termini assoluti (3.415 mila). Queste percentuali praticamente
raddoppiano nel Mezzogiorno, che la crisi contribuisce a staccare dal resto del
paese. Ed è sempre la Banca d’Italia a dirci che il 10% più ricco della
popolazione possiede più del 50% della ricchezza finanziaria.
Per questo decisiva è l’analisi concreta della situazione
concreta, dalla quale dipendono linea politica e linea di condotta, che non
devono basarsi sull’umore delle masse, per sua natura volatile, ma anzitutto
sui fattori oggettivi. Ciò che
conta è cogliere nella situazione la linea di tendenza principale, e della
catena quali sono gli anelli deboli destinati a spezzarsi per primi.
Non si tratta quindi di avere una cieca fiducia nelle masse.
Si tratta di comprendere ciò che queste masse saranno costrette a fare una
volta spinte in condizioni di abiezione sociale e morali inaccettabili. E certo
che la rivoluzione non sarà solo un atto mondano e materiale, che sarà anche un
rivolgimento spirituale. Grandi masse non abbracciano un ideale come i singoli
individui, le modalità sono differenti, come pure i tempi lo sono. Una
coscienza rivoluzionaria si fa largo nel disfacimento della società, e
l’ampiezza del suo raggio dipende dalla profondità di questa dissoluzione.
Siamo all’inizio di questo cammino. Compito delle minoranze
rivoluzionarie non è quello di lanciarsi in avanti per raggiungere
velleitariamente per prime la meta, ma di agire, con ogni mezzo che conduca
agli scopi: far crescere, assieme ad una nuova coscienza sociale, un’attiva e
massiccia partecipazione diretta da parte dei cittadini.
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