Le elezioni si avvicinano e con il voto riaffiorano, nella sinistra, appena riverniciati i suoi vizi più antichi. Siccome sembra aver ereditato dalla sua storia, non le virtù, ma soltanto i vizi, questi stessi diventano come dei tic così grandi da prendere il posto della fisionomia intera del suo protagonista.
Si comincia, va da sé, dalla demonizzazione della sconfitta. Dato lo schieramento elettorale che il centro sinistra (o progressista che sia) si dà e la sua piattaforma di massima, chi lo critica lo fa perché innamorato della sconfitta. La sconfitta è, del resto, solo e nient’altro che una condanna che può colpire il “popolo dei cancelli” nei 35 giorni di lotta alla Fiat, come i referendari per l’estensione dell’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori o come la Fiom che si oppone a Marchionne a Pomigliano. Funziona anche come monito per il futuro.
Forse, bisognerebbe essere Mao Tse-Tung
per pensare che da una certa sconfitta può persino venire una lezione
più carica di futuro che da una vittoria. O, almeno, bisognerebbe essere
il vecchio Consiglio di fabbrica di Mirafiori.
Dal marchio della vocazione alla sconfitta, si passa poi, per la scelta del male minore e per l’orrore per la testimonianza e si giunge alla conclusione che ciò che conta è la contesa per il governo e dunque il “voto utile”. Ma utile a chi? Utile a che cosa?
Quando la sinistra politica corrispondeva a un’istanza di trasformazione, la questione del governo veniva indagata, in primo luogo, come possibilità di concorrere ad essa. Allora, per stabilire se ci si potesse e dovesse o no candidare a governare, venivano indagate la materialità delle condizioni oggettive, il rapporto di forza tra le classi e il favorevole o meno disporsi della soggettività e, infine, l’adeguatezza del sistema delle alleanze.
Il dibattito dei primi anni ’60 in Italia ne fa testo, specie nell’elaborazione di chi fu definito riformista-rivoluzionario. Altri tempi, ma questione non derubricata a meno di cadere, come oggi, nella voragine della governamentalità.
Eppure i fatti hanno, come si usa dire, la testa dura e neppure i tic più forti li possono scavalcare. C’è sul campo, in primo luogo, il governo Monti. Il documento per le primarie del Pd e dei suoi alleati non ne parla. Mi pare curioso che l’omissione venga considerata una buona cosa. Il governo Monti è una realtà che, a sua volta, ha modificato la realtà. Non è una parentesi che, crocianamente, possa chiudersi per esaurimento del compito.
Esso è, invece, un fattore costituente, interno a un più ampio processo che investe l’Europa. Nato e cresciuto su una soppressione della democrazia, cogeneratore di un modello economico socialmente regressivo, di cui con i suoi atti ha costituito dei presidi che investono il presente e il futuro: l’affermazione della centralità delle politiche di bilancio come risposta alla crisi attraverso la parità di bilancio in Costituzione; l’accettazione dei trattati europei e il fiscal compact; la demolizione di parti significative dello stato sociale (i provvedimenti pensionistici), dei diritti dei lavoratori (la menomazione dell’articolo 18 e la legge sul mercato del lavoro), la mutazione ulteriore del ruolo del sindacato con la soppressione (condivisa?) dell’autonomia contrattuale di quest’ultimo.
Se non ne parli, non è che tutto ciò evapori. Semplicemente e drammaticamente hai accettato che il tuo programma di governo non si ponga il problema di bonificare il terreno economico e sociale da questo impianto di controriforme, con cui ti appresti a convivere, sfuggendo al quesito su quanto di ciò di cui parli come oltrepassamento del montismo sia compatibile con questo stesso impianto, la cui vocazione dominante è iscritta nella potente vittoria ideologica del nuovo capitalismo e nel pratico rovesciamento della lotta di classe (ora agita dal capitale contro il lavoro, oltre che dalla ridicola proclamazione della scomparsa del conflitto tra l’impresa e il lavoro). Il montismo è una prigione: o ti proponi di romperla, e già così è difficile che tu possa riuscirci, o essa, inevitabilmente, ti ingabbia.
L’Europa reale è l’elemento sovraordinatore di queste politiche. Non è il caso di tornare ad analizzare la disastrosa linea di condotta dettata dalla troika ai paesi europei e assunta dai suoi governi come una nuova ortodossia. Se ne discosta ormai il Fondo Monetario Internazionale che denuncia l’impraticabilità del perseguimento degli stessi obiettivi dichiarati in materia di deficit e di debito mentre esplode la disoccupazione di massa. E’ una linea criticata da tempo da ampi settori di studiosi dell’economia. E’ una linea che provoca una drammatica crisi sociale e l’esplosione di conflitti (purtroppo non messi a valore da nessuna grande organizzazione sociale o politica, tranne eccezioni, in Italia leggi Fiom).
Eppure, malgrado tutto ciò, l’Europa reale prosegue sulla linea di austerità, perché la scena attuale della competitività delle merci (mercati) considererebbe incompatibile con essa il modello sociale e il contratto europeo. I governi si sono rivelati del tutto impermeabili a ogni ordine di critica, perché parte organica della costruzione dell’Europa reale oligarchica e definita dalle forze motrici del capitalismo finanziario. Chi scommetteva sul mutamento del colore politico dei governi come possibilità di cambiamento di questa politica è smentito dai fatti. Francia di Hollande compresa. Regge sempre il compromesso a guida tedesca.
Come ne esci? Con la collaborazione con le “forze del centro liberale”? Ma l’Europa reale non è solo il modello economico sociale imposto dall’ascesa del capitalismo finanziario globalizzato e dalle risposte date dal suo governo reale alla crisi. E’ un’Europa postdemocratica, nella quale la democrazia rappresentativa, sia al centro della sua costruzione che nei paesi membri, è mutilata. Bobbio diceva che la democrazia senza la democrazia economica smette di essere democrazia. Nel Continente la democrazia economica è sostituita dal comando dell’impresa e del mercato e quella rappresentatività è ridotta a simulacro. Le assemblee elettive sono casse di risonanza degli esecutivi. A loro volta il concerto intergovernamentale che ha diretto le politiche europee è guidato dalla troika. La cessione di sovranità è verso una sovranità senza popolo: un’oligarchia tecnocratica ha sostituito la democrazia.
In questo quadro la domanda di più Europa (in se giusta e necessaria) si rovescia in una sua maggiore integrazione all’insegna della “condizionalità”, cioè dell’imposizione alle politiche nazionali di una ferrea compatibilità con le politiche di bilancio e con i parametri di competitività adottati centralmente. Il vincolo esterno riduce il vincolo interno (i bisogni e i diritti sociali) a pura variabile dipendente. Per noi, in Italia, è il ribaltamento della democrazia concepita dalla Costituzione repubblicana.
Se le forze del centrosinistra che si candidano a governare ignorano tutto questo, come accade nel documento per le primarie con cui viene scelto il leader, se cioè ignorano le forze avverse e la loro organizzazione si condannano in realtà alla continuità delle politiche in atto, almeno nel loro nucleo portante (parità di bilancio, fiscal compact, logica dei trattati). Se ignori il governo reale, non perciò esso scompare e, allora, il governo formale, quand’anche fosse il tuo, sarebbe irretito nelle sue potenti maglie. E come dicono quelli di Occupy Wall Street gli elettori si troverebbero a scegliere tra la Cola Cola e la Pespi Cola. Ci sono situazioni e momenti in cui il governo, per le forze di sinistra, si rivela un miraggio, quando lo raggiungi esso è scomparso nella realtà. La traversata nel deserto, che certo è assai difficile, richiederebbe allora di sfuggire al miraggio e cercare nuove piste.
Dal marchio della vocazione alla sconfitta, si passa poi, per la scelta del male minore e per l’orrore per la testimonianza e si giunge alla conclusione che ciò che conta è la contesa per il governo e dunque il “voto utile”. Ma utile a chi? Utile a che cosa?
Quando la sinistra politica corrispondeva a un’istanza di trasformazione, la questione del governo veniva indagata, in primo luogo, come possibilità di concorrere ad essa. Allora, per stabilire se ci si potesse e dovesse o no candidare a governare, venivano indagate la materialità delle condizioni oggettive, il rapporto di forza tra le classi e il favorevole o meno disporsi della soggettività e, infine, l’adeguatezza del sistema delle alleanze.
Il dibattito dei primi anni ’60 in Italia ne fa testo, specie nell’elaborazione di chi fu definito riformista-rivoluzionario. Altri tempi, ma questione non derubricata a meno di cadere, come oggi, nella voragine della governamentalità.
Eppure i fatti hanno, come si usa dire, la testa dura e neppure i tic più forti li possono scavalcare. C’è sul campo, in primo luogo, il governo Monti. Il documento per le primarie del Pd e dei suoi alleati non ne parla. Mi pare curioso che l’omissione venga considerata una buona cosa. Il governo Monti è una realtà che, a sua volta, ha modificato la realtà. Non è una parentesi che, crocianamente, possa chiudersi per esaurimento del compito.
Esso è, invece, un fattore costituente, interno a un più ampio processo che investe l’Europa. Nato e cresciuto su una soppressione della democrazia, cogeneratore di un modello economico socialmente regressivo, di cui con i suoi atti ha costituito dei presidi che investono il presente e il futuro: l’affermazione della centralità delle politiche di bilancio come risposta alla crisi attraverso la parità di bilancio in Costituzione; l’accettazione dei trattati europei e il fiscal compact; la demolizione di parti significative dello stato sociale (i provvedimenti pensionistici), dei diritti dei lavoratori (la menomazione dell’articolo 18 e la legge sul mercato del lavoro), la mutazione ulteriore del ruolo del sindacato con la soppressione (condivisa?) dell’autonomia contrattuale di quest’ultimo.
Se non ne parli, non è che tutto ciò evapori. Semplicemente e drammaticamente hai accettato che il tuo programma di governo non si ponga il problema di bonificare il terreno economico e sociale da questo impianto di controriforme, con cui ti appresti a convivere, sfuggendo al quesito su quanto di ciò di cui parli come oltrepassamento del montismo sia compatibile con questo stesso impianto, la cui vocazione dominante è iscritta nella potente vittoria ideologica del nuovo capitalismo e nel pratico rovesciamento della lotta di classe (ora agita dal capitale contro il lavoro, oltre che dalla ridicola proclamazione della scomparsa del conflitto tra l’impresa e il lavoro). Il montismo è una prigione: o ti proponi di romperla, e già così è difficile che tu possa riuscirci, o essa, inevitabilmente, ti ingabbia.
L’Europa reale è l’elemento sovraordinatore di queste politiche. Non è il caso di tornare ad analizzare la disastrosa linea di condotta dettata dalla troika ai paesi europei e assunta dai suoi governi come una nuova ortodossia. Se ne discosta ormai il Fondo Monetario Internazionale che denuncia l’impraticabilità del perseguimento degli stessi obiettivi dichiarati in materia di deficit e di debito mentre esplode la disoccupazione di massa. E’ una linea criticata da tempo da ampi settori di studiosi dell’economia. E’ una linea che provoca una drammatica crisi sociale e l’esplosione di conflitti (purtroppo non messi a valore da nessuna grande organizzazione sociale o politica, tranne eccezioni, in Italia leggi Fiom).
Eppure, malgrado tutto ciò, l’Europa reale prosegue sulla linea di austerità, perché la scena attuale della competitività delle merci (mercati) considererebbe incompatibile con essa il modello sociale e il contratto europeo. I governi si sono rivelati del tutto impermeabili a ogni ordine di critica, perché parte organica della costruzione dell’Europa reale oligarchica e definita dalle forze motrici del capitalismo finanziario. Chi scommetteva sul mutamento del colore politico dei governi come possibilità di cambiamento di questa politica è smentito dai fatti. Francia di Hollande compresa. Regge sempre il compromesso a guida tedesca.
Come ne esci? Con la collaborazione con le “forze del centro liberale”? Ma l’Europa reale non è solo il modello economico sociale imposto dall’ascesa del capitalismo finanziario globalizzato e dalle risposte date dal suo governo reale alla crisi. E’ un’Europa postdemocratica, nella quale la democrazia rappresentativa, sia al centro della sua costruzione che nei paesi membri, è mutilata. Bobbio diceva che la democrazia senza la democrazia economica smette di essere democrazia. Nel Continente la democrazia economica è sostituita dal comando dell’impresa e del mercato e quella rappresentatività è ridotta a simulacro. Le assemblee elettive sono casse di risonanza degli esecutivi. A loro volta il concerto intergovernamentale che ha diretto le politiche europee è guidato dalla troika. La cessione di sovranità è verso una sovranità senza popolo: un’oligarchia tecnocratica ha sostituito la democrazia.
In questo quadro la domanda di più Europa (in se giusta e necessaria) si rovescia in una sua maggiore integrazione all’insegna della “condizionalità”, cioè dell’imposizione alle politiche nazionali di una ferrea compatibilità con le politiche di bilancio e con i parametri di competitività adottati centralmente. Il vincolo esterno riduce il vincolo interno (i bisogni e i diritti sociali) a pura variabile dipendente. Per noi, in Italia, è il ribaltamento della democrazia concepita dalla Costituzione repubblicana.
Se le forze del centrosinistra che si candidano a governare ignorano tutto questo, come accade nel documento per le primarie con cui viene scelto il leader, se cioè ignorano le forze avverse e la loro organizzazione si condannano in realtà alla continuità delle politiche in atto, almeno nel loro nucleo portante (parità di bilancio, fiscal compact, logica dei trattati). Se ignori il governo reale, non perciò esso scompare e, allora, il governo formale, quand’anche fosse il tuo, sarebbe irretito nelle sue potenti maglie. E come dicono quelli di Occupy Wall Street gli elettori si troverebbero a scegliere tra la Cola Cola e la Pespi Cola. Ci sono situazioni e momenti in cui il governo, per le forze di sinistra, si rivela un miraggio, quando lo raggiungi esso è scomparso nella realtà. La traversata nel deserto, che certo è assai difficile, richiederebbe allora di sfuggire al miraggio e cercare nuove piste.
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