Chi
è Matteo Renzi? In un Parlamento pieno di morti che camminano («dead
men walking») e in uno Stato marcio, il giovane Matteo è l’astro
nascente («rising star») della politica italiana nella nuova fase aperta
dal governo Monti. A sostenerlo non è un qualunque sfasciacarrozze di
provincia, e neppure il prof. Ichino, ma il Financial Times del 6 marzo 2012.
I mercati guardano avanti. Dopo aver fatto scendere da cavallo il Cavaliere, e dopo aver allocato alla testa del governo il rettore bocconiano, adesso allevano con cura lo scalpitante venditore fiorentino. In questo non c’è alcuna novità, a parte lo scapigliato “stil novo” di un politico di professione che fa il verso al caposcuola di Arcore. È manifesta, invece, una razionale continuità, volta a consolidare il potere di comando dei cosiddetti investitori istituzionali, veri proprietari universali.
«Non c’è alternativa a proseguire nella direzione indicata da Monti e dalla Bce. In caso contrario lo spread salirà di nuovo a livelli insostenibili»: il giudizio di Davide Serra, quello che con lo spread ci gioca tra Londra e le Cayman per intascare lauti guadagni, non fa una grinza. E rassomiglia da vicino a un ricatto. Lui le tasse non le paga in Italia, ma è venuto in Italia per «dare una mano», e forse qualche spicciolo, all’amico Renzi radunando a porte chiuse una schiera di finanzieri, manager e cospicui proprietari.
Serra ha spiegato come si fa a costruire in Italia una vera finanza d’assalto, libera da ogni condizionamento. Sono lontani i tempi in cui, al G20 di Londra, si annunciava con grandi squilli di tromba di voler eliminare i paradisi fiscali e mettere sotto controllo i mercati. E forse il giovane squalo della city è tra coloro che hanno lavorato perché quegli annunci non avessero seguito. Così oggi il capitale finanziario globale è libero di agire a norma di legge avendo imposto la sua legge, e cavalcando un meccanismo di funzionamento che distrugge congiuntamente l’uomo e la natura, quindi il lavoro. Questo è il dramma in cui viviamo.
Loro agiscono per consolidare ed estendere la dittatura del capitale, che Hans Tietmeyer, ex presidente della Bundesbank, chiama «democrazia della finanza». E Renzi cosa fa? Ride, ed è contento di dare più di una mano. Lo dice lui stesso: il suo modello è americano, la sua stella polare è il blairismo. E così ci propone di compiere un viaggio senza ritorno nel passato, verso il vecchio liberismo e il suo pensiero unico. Cioè, verso le condizioni materiali e culturali che hanno fatto esplodere la crisi, strappando ai giovani la speranza nel futuro.
Merce scaduta, venduta come la novità del secolo. Con ciò si dimostra che la coazione a ripetere gli errori del passato non è solo prerogativa dei vecchi. E che quando la praticano i giovani è ancora più grave, perché l’assenza di innovazione viene mascherata con la violenza del linguaggio e la manipolazione dei media. E’ evidente che un fenomeno come quello di Renzi nasce dalla crisi dei partiti e dalla degenerazione corruttiva della politica. Segnatamente, dallo stato fluido del Pd, dalla evaporazione di un amalgama culturale e sociale, progettuale e strategico, senza il quale nessun partito vive.
Ma è altrettanto evidente che la proclamazione della fine del conflitto sociale da parte di Renzi e dei suoi seguaci va bene al di là di una lotta generazionale per la conquista di un «partito che non c’è». Come ha dimostrato anche Luciano Gallino nel suo ultimo libro, la forma più sofisticata e temibile della lotta di classe consiste nel negare l’esistenza delle classi, spossessando i lavoratori della loro identità e della loro autonomia. E’ il mestiere Renzi, l’astro nascente annunciato dal Financial Times.
I mercati guardano avanti. Dopo aver fatto scendere da cavallo il Cavaliere, e dopo aver allocato alla testa del governo il rettore bocconiano, adesso allevano con cura lo scalpitante venditore fiorentino. In questo non c’è alcuna novità, a parte lo scapigliato “stil novo” di un politico di professione che fa il verso al caposcuola di Arcore. È manifesta, invece, una razionale continuità, volta a consolidare il potere di comando dei cosiddetti investitori istituzionali, veri proprietari universali.
«Non c’è alternativa a proseguire nella direzione indicata da Monti e dalla Bce. In caso contrario lo spread salirà di nuovo a livelli insostenibili»: il giudizio di Davide Serra, quello che con lo spread ci gioca tra Londra e le Cayman per intascare lauti guadagni, non fa una grinza. E rassomiglia da vicino a un ricatto. Lui le tasse non le paga in Italia, ma è venuto in Italia per «dare una mano», e forse qualche spicciolo, all’amico Renzi radunando a porte chiuse una schiera di finanzieri, manager e cospicui proprietari.
Serra ha spiegato come si fa a costruire in Italia una vera finanza d’assalto, libera da ogni condizionamento. Sono lontani i tempi in cui, al G20 di Londra, si annunciava con grandi squilli di tromba di voler eliminare i paradisi fiscali e mettere sotto controllo i mercati. E forse il giovane squalo della city è tra coloro che hanno lavorato perché quegli annunci non avessero seguito. Così oggi il capitale finanziario globale è libero di agire a norma di legge avendo imposto la sua legge, e cavalcando un meccanismo di funzionamento che distrugge congiuntamente l’uomo e la natura, quindi il lavoro. Questo è il dramma in cui viviamo.
Loro agiscono per consolidare ed estendere la dittatura del capitale, che Hans Tietmeyer, ex presidente della Bundesbank, chiama «democrazia della finanza». E Renzi cosa fa? Ride, ed è contento di dare più di una mano. Lo dice lui stesso: il suo modello è americano, la sua stella polare è il blairismo. E così ci propone di compiere un viaggio senza ritorno nel passato, verso il vecchio liberismo e il suo pensiero unico. Cioè, verso le condizioni materiali e culturali che hanno fatto esplodere la crisi, strappando ai giovani la speranza nel futuro.
Merce scaduta, venduta come la novità del secolo. Con ciò si dimostra che la coazione a ripetere gli errori del passato non è solo prerogativa dei vecchi. E che quando la praticano i giovani è ancora più grave, perché l’assenza di innovazione viene mascherata con la violenza del linguaggio e la manipolazione dei media. E’ evidente che un fenomeno come quello di Renzi nasce dalla crisi dei partiti e dalla degenerazione corruttiva della politica. Segnatamente, dallo stato fluido del Pd, dalla evaporazione di un amalgama culturale e sociale, progettuale e strategico, senza il quale nessun partito vive.
Ma è altrettanto evidente che la proclamazione della fine del conflitto sociale da parte di Renzi e dei suoi seguaci va bene al di là di una lotta generazionale per la conquista di un «partito che non c’è». Come ha dimostrato anche Luciano Gallino nel suo ultimo libro, la forma più sofisticata e temibile della lotta di classe consiste nel negare l’esistenza delle classi, spossessando i lavoratori della loro identità e della loro autonomia. E’ il mestiere Renzi, l’astro nascente annunciato dal Financial Times.
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