La vicenda dei cosiddetti esodati e il
continuo manifestarsi di problematiche economiche e sociali ad essa
collegate costituiscono una esemplificazione delle gravi contraddizioni e
degli effetti controproducenti delle politiche economiche e sociali
attuate nel nostro paese. Effetti che sono stati esasperati dall'Agenda
Monti. In una crisi economica così profonda, diffusa e protratta, mentre
il sistema produttivo è sempre più incapace di creare le posizioni
lavorative che per quantità e qualità sarebbero necessarie ad assorbire
l'offerta di lavoro esistente e a soddisfare bisogni anche primari che
sempre più rimangano inappagati, un punto di riferimento e di masochista
soddisfazione della politica economica e sociale attuata nel nostro
paese continua ad essere l'innalzamento dell'età di pensionamento.
In presenza di alti tassi di crescita,
di elevato invecchiamento demografico e di scarsità delle persone in età
attiva disponibili a lavorare, incentivare l'aumento dell'età di
pensionamento sarebbe sensato; ma non c'era bisogno di grandi conoscenze
tecniche per capire che dal combinato disposto di una grave e crescente
insufficienza di posti di lavoro e dell'imposizione di un prolungamento
consistente e repentino della vita lavorativa sarebbero derivati gravi
problemi sia per i giovani - i cui tassi di disoccupazione non a caso
sono esplosi - sia per coloro che, vicini all'età di pensionamento e già
espulsi dal mondo produttivo, sarebbero incappati nell'assenza
prolungata di una fonte di reddito.
La settimana scorsa ha fatto notizia l'informazione data dall'Inps che le pensioni liquidate nei primi nove mesi del 2012 sono diminuite del 35% rispetto allo stesso periodo del 2011. Sono andate in pensione circa 110 mila persone in meno dell'anno precedente, per effetto non della riforma Fornero (i cui più sostanziosi effetti si avranno nei prossimi anni), bensì per i provvedimenti presi dal governo Berlusconi e da quello precedente di centrosinistra. Questo dato è stato salutato come un segno dell'accresciuto rigore della politica economica italiana, ma implica un'ulteriore riduzione dei posti di lavoro per i giovani e l'aggravamento del problema dei cosiddetti esodati. È anche la conferma che l'ulteriore allungamento dell'età di pensionamento deciso con la riforma Fornero ha versato altro olio bollente sulle ferite economiche e sociali generate dalla crisi. D'altra parte, gli interventi in materia previdenziale che si susseguono da un ventennio al ritmo di circa uno ogni due anni hanno perso da molto tempo la loro giustificazione di risanare finanziariamente il sistema pensionistico pubblico, il quale, già dal 1998, presenta un saldo attivo tra entrate contributive e prestazioni previdenziali nette; l'ultimo dato disponibile riferito al 2010 indica che l'avanzo corrente è stato di circa 26 miliardi, pari all'1,7% del Pil.
Le riforme che continuano a prelevare risorse dal mondo del lavoro e della previdenza non hanno dunque una giustificazione finanziaria tecnica, ma rappresentano una scelta redistributiva di segno conservatore, controproducente per l'intero sistema produttivo. È paradossale che ci si preoccupi degli effetti negativi sulla crescita economica della proposta di modificare la legge di stabilità prelevando un 3% sui redditi superiori a 150 mila euro per finanziare misure a favore degli esodati. Non v'è dubbio che un aumento delle imposte possa incidere negativamente sui consumi (e su crescita e occupazione), ma ciò è tanto più vero quanto minori sono i redditi colpiti. È curioso che ci si preoccupi dei minor consumi dei fruitori di alti redditi e non degli effetti provocati da riforme che lasciano senza entrate più di 300 mila persone e che sospingono fino ad oltre il 35% il tasso di disoccupazione giovanile.
L'ulteriore paradosso è che queste riforme vengono spesso accompagnate da argomentazioni che mettono in conflitto tra loro giovani e anziani mentre entrambi, come i capponi di Renzo, pagano i costi di queste politiche che dovrebbero contrastare la crisi ma in realtà l'accentuano, facendone pagare i costi ai lavoratori e ai ceti più deboli.
La settimana scorsa ha fatto notizia l'informazione data dall'Inps che le pensioni liquidate nei primi nove mesi del 2012 sono diminuite del 35% rispetto allo stesso periodo del 2011. Sono andate in pensione circa 110 mila persone in meno dell'anno precedente, per effetto non della riforma Fornero (i cui più sostanziosi effetti si avranno nei prossimi anni), bensì per i provvedimenti presi dal governo Berlusconi e da quello precedente di centrosinistra. Questo dato è stato salutato come un segno dell'accresciuto rigore della politica economica italiana, ma implica un'ulteriore riduzione dei posti di lavoro per i giovani e l'aggravamento del problema dei cosiddetti esodati. È anche la conferma che l'ulteriore allungamento dell'età di pensionamento deciso con la riforma Fornero ha versato altro olio bollente sulle ferite economiche e sociali generate dalla crisi. D'altra parte, gli interventi in materia previdenziale che si susseguono da un ventennio al ritmo di circa uno ogni due anni hanno perso da molto tempo la loro giustificazione di risanare finanziariamente il sistema pensionistico pubblico, il quale, già dal 1998, presenta un saldo attivo tra entrate contributive e prestazioni previdenziali nette; l'ultimo dato disponibile riferito al 2010 indica che l'avanzo corrente è stato di circa 26 miliardi, pari all'1,7% del Pil.
Le riforme che continuano a prelevare risorse dal mondo del lavoro e della previdenza non hanno dunque una giustificazione finanziaria tecnica, ma rappresentano una scelta redistributiva di segno conservatore, controproducente per l'intero sistema produttivo. È paradossale che ci si preoccupi degli effetti negativi sulla crescita economica della proposta di modificare la legge di stabilità prelevando un 3% sui redditi superiori a 150 mila euro per finanziare misure a favore degli esodati. Non v'è dubbio che un aumento delle imposte possa incidere negativamente sui consumi (e su crescita e occupazione), ma ciò è tanto più vero quanto minori sono i redditi colpiti. È curioso che ci si preoccupi dei minor consumi dei fruitori di alti redditi e non degli effetti provocati da riforme che lasciano senza entrate più di 300 mila persone e che sospingono fino ad oltre il 35% il tasso di disoccupazione giovanile.
L'ulteriore paradosso è che queste riforme vengono spesso accompagnate da argomentazioni che mettono in conflitto tra loro giovani e anziani mentre entrambi, come i capponi di Renzo, pagano i costi di queste politiche che dovrebbero contrastare la crisi ma in realtà l'accentuano, facendone pagare i costi ai lavoratori e ai ceti più deboli.
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