di Annamaria Rivera, Micromega
Le aveva provate tutte, il povero Florin Damian, prima di compiere il gesto clamoroso di darsi fuoco davanti al Quirinale. Aveva denunciato per vie legali i responsabili dell’azienda, l’Arcese Trasporti, che l’aveva licenziato dopo tredici anni di lavoro. Era andato a Strasburgo con la famiglia per presentare il suo caso alla Corte europea dei diritti umani. Aveva perfino fatto uno sciopero della fame per molti giorni. E aveva messo in rete, in forma di video, un appello lucido e disperato rivolto al presidente della Repubblica italiana. Da tre anni, diceva in quel video-appello, il datore di lavoro usa contro di me un terrorismo psicologico fatto di discriminazioni, offese razziste, isolamento, riduzione in schiavitù, minacce di violenza fisica. Eppure, continuava, sono una persona seria, un buon lavoratore, un cittadino onesto che paga le tasse e i contributi. E aggiungeva - per rimarcare il senso di appartenenza alla società italiana - che la figlia, una bambina di sei anni, “è nata in Italia e sogna in italiano”.
Gli appelli di Florin Damian, 55 anni, di origine romena, sono caduti nel vuoto. In un forse utopico paese normale qualche autorità, almeno la magistratura, avrebbe indagato sul suo caso, visto che egli aveva denunciato comportamenti del suo datore di lavoro che configurano reati ben definiti. Niente di questo è accaduto. E alla fine, per reclamare attenzione, denunciare l’ingiustizia subita, salvaguardare la sua dignità, al povero Florin non è rimasto altro che il suicidio pubblico, il più atroce e spettacolare, davanti al Quirinale. La sua vicenda è ancor più esemplare per l’intreccio perverso tra sfruttamento e razzismo. Ma non è la sola di tal genere, poiché egli è stato preceduto da una teoria di torce umane “straniere”: il marocchino Noureddine Adnane (Palermo, 10 febbraio 1011), il tunisino Nadir (Palazzo San Gervasio, 17 febbraio 2011), l’albanese Georg Semir (Vittoria, 16 marzo 2011) e altri lavoratori immigrati, supersfruttati, discriminati, vessati e/o licenziati.
In altri paesi, niente affatto utopici, per esempio in Grecia e in Israele, i rispettivi movimenti di lotta contro l’ingiustizia sociale e le politiche di austerità riescono a cogliere bene il nesso fra le proprie rivendicazioni e la rivolta disperata che spinge alcune persone a immolarsi. Perciò avrebbero raccolto il grido strozzato di Florin, rivendicato come proprie le ragioni della sua protesta, gridato in piazza “Siamo tutti Florin Damian”, così come hanno fatto per i “loro” autoimmolati. Da noi non si usa, neppure quando a compiere il suicidio più pubblico e atroce sono cittadini italiani licenziati, rovinati dagli effetti della crisi, mortificati nella loro dignità. Per citare uno fra i tanti, chi ricorda più il disoccupato Angelo di Carlo? Parliamo di quell’attivista ecologista che in un giorno afoso dello scorso mezz’agosto -quando non è possibile sublimare l’angoscia, la disperazione e il senso d’impotenza partecipando a proteste collettive- partì da Forlì, dove abitava, per raggiungere la Capitale e darsi fuoco davanti a Montecitorio. E’ davvero paradossale che si metta a tacere perfino chi sceglie il suicidio più doloroso e spettacolare pur di prendere la parola in pubblico, protestare, essere “ascoltato”.
Il 18 ottobre, mentre Florin si trasformava in torcia umana, nelle librerie italiane usciva l’ultimo lavoro di chi scrive: Il fuoco della protesta. Torce umane dal Maghreb all’Europa (Dedalo). Non è per qualche dote profetica che avevamo intuito che l’ondata di autoimmolazioni pubbliche e di protesta che percorre i paesi del Maghreb e altri del Sud globalizzato sarebbe arrivata a lambire le sponde del Mediterraneo a settentrione e a toccare le sue coste orientali. Ci era bastato osservare la realtà, coglierne gli indizi, coltivare la convinzione della non-separatezza fra ciò che accade al di là e al di qua del Mare nostrum, sapere quanto universali siano non solo gli effetti della crisi economica, ma anche la siderale distanza delle istituzioni dai bisogni dei cittadini, il sentimento di morte sociale, le ferite alla dignità personale inferte dai poteri, che siano o no apertamente autoritari. Ben prima di pubblicare il libro ne avevamo scritto in articoli e post, pubblicati anche qui. Nell’indifferenza dei più, dei media e delle istituzioni, perfino di certi sociologi nostrani: quelli che, riposti gli strumenti del mestiere e dimenticata la lezione di Émile Durkheim, non solo continuano pervicacemente a negare che in Italia siano in aumento i suicidi detti economici, ma neppure scorgono le abbaglianti fiamme di protesta che illuminano la scena pubblica.
In realtà, le torce umane sono un’espressione, neppure troppo implicita, del conflitto sociale. E perciò racchiudono anche il senso della sconfitta della politica, dei sindacati, degli stessi movimenti di base. Essi non sanno percepire, interpretare, raccogliere quei gridi di rivolta e di protesta, per farne parola rivendicativa, per rendere esplicito il conflitto e organizzarlo in forme razionali ed efficaci. Così che esso possa fare a meno di corpi che ardono nelle piazze.
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