La legge di stabilità è stata presentata dal governo come una riduzione della pressione fiscale
che, in combinazione coi consistenti tagli alla spesa pubblica,
dovrebbe favorire l’equilibrio di bilancio in termini strutturali senza compromettere la crescita (anzi le speranze di crescita: va ricordato che le stime di crescita del Fondo Monetario per il nostro paese sono negative almeno fino alla fine del 2013).
Raccontata
in questi termini, la legge rischia di essere percepita dal pubblico
come un insieme di misure “tecniche”, neutrali quindi sul piano della
politica. Invece il provvedimento ha un orientamento politico molto
deciso, e di natura regressiva: redistribuisce reddito dalle classi meno abbienti a quelle più ricche, peggiorando le disuguaglianze con effetti potenzialmente recessivi.
In
altri termini, al danno potrebbe aggiungersi la beffa, dato che nei
paesi dell’Ocse l’aumento delle disuguaglianze è tale da compromettere
la crescita, come ricorda l’editoriale dell’Economist in edicola questa settimana.
Anzitutto,
viene ridotta l’Irpef di un punto percentuale per le categorie di
reddito tra 0 e 15mila euro e tra 15mila e 28mila euro. Per questi due
scaglioni, le aliquote passano rispettivamente dal 23 al 22 per cento e
dal 27 al 26 per cento. Contemporaneamente viene aumentata l’Iva dal 10 all’11 per cento e dal 21 al 22 per cento.
Insomma diminuisce una tassa progressiva, l’Irpef,
che redistribuisce il reddito dai ricchi verso i poveri. E aumenta una
tassa regressiva, l’Iva, che opera nel senso opposto. Poiché la
diminuzione dell’Irpef beneficia i due scaglioni di reddito più bassi,
il governo sostiene che i due effetti “potrebbero” neutralizzarsi a
vicenda.
Ma basta uno sguardo ai dati per rendersi conto che è molto improbabile. Il primo a fare i conti è stato Paolo Manasse, economista dell’Università di Bologna, che sul suo blog ha mostrato che
le famiglie più povere, pur beneficiando della riduzione delle aliquote
Irpef, sono allo stesso tempo le più danneggiate dall’aumento dell’Iva,
poiché spendono una frazione maggiore del proprio reddito disponibile
in consumi, e in particolare in beni alimentari (la cui aliquota subisce
l’aumento percentuale maggiore passando dal 10 al 11%). L’effetto
complessivo sarà probabilmente una diminuzione del reddito disponibile.
Ma
non è tutto. Le nuove regole della “spending review” contemplano il
taglio di circa 50 miliardi di spesa pubblica “aggredibile”: 11 miliardi
per l’acquisto dei farmaci, 7 miliardi per i sistemi medici e 32
miliardi per gli investimenti. Il fabbisogno sanitario nazionale viene
tagliato complessivamente di 1,5 miliardi di euro, grazie alla riduzione
della spesa per l’acquisto di servizi, dispositivi e farmaci. Il ridimensionamento continuo del sistema sanitario ha, anch’esso, effetti regressivi e potenzialmente recessivi, perché riduce il reddito disponibile delle famiglie.
Inoltre, il governo Monti si adegua alla prassi del fisco retroattivo. Come viene spiegato dettagliatamente in questo dossier su Pmi.it, vengono abbattute detrazioni e deduzioni
e il “limite di franchigia”: nella prossima dichiarazione dei redditi
avremo un tetto massimo di 3mila euro da poter scontare, con una
franchigia di 250 euro per ogni voce, compreso il mutuo e le spese
sanitarie. Il tutto retroattivamente, per le spese 2012. Con buona pace
dello Statuto del contribuente, che non lo consentirebbe.
È quindi prevedibile che diminuiranno ulteriormente i consumi delle famiglie, con conseguenze recessive e un inasprimento della povertà, che secondo l’ultimo rapporto dell’Istat ha già raggiunto livelli mai visti prima nel nostro paese. Proprio ciò di cui non c’era bisogno adesso.
Ma in questa circostanza gli obiettivi del governo nulla hanno a che fare con la crescita. Gianfranco Polillo, sottosegretario al Ministero dell’Economia, ha scritto nel suo blog
che la “sofferta decisione” del governo ha l’obiettivo esplicito di
contenere l’inflazione e migliorare la nostra bilancia commerciale. In
altre parole, si tratta di una politica che tenta di imitare il
comportamento fin qui tenuto dalla Germania.
Come Sergio Cesaratto, economista dell’Università di Siena, ha spiegato efficacemente nel prezioso ebook “Oltre l’austerità”,
a partire dalla fine degli anni novanta del secolo scorso la Germania
ha adottato un modello di crescita sostanzialmente basato sul traino
delle esportazioni (cosiddetto mercantilista). Da un lato ha compresso
la domanda interna e l’inflazione tramite moderazione
salariale, stretta fiscale e flessibilità del lavoro. Dall’altro, ha
finanziato la domanda aggregata dei suoi partner commerciali favorendo
il deflusso di capitali finanziari verso la periferia d’Europa. Secondo
le affermazioni di Polillo la Legge di stabilità va, fatte le debite
proporzioni, nella medesima direzione.
Ma c’è un problema fondamentale. Noi non siamo la Germania,
le nostre imprese non sono propense all’innovazione e competitive come
quelle tedesche, la nostra economia è ancora in piena recessione e i
consumatori italiani, specie quelli meno abbienti, sono ridotti già allo
stremo da anni di crisi profonda. Con queste politiche economiche
l’uscita dal tunnel si allontana ulteriormente.
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