La
missione che si è dato Emiliano Brancaccio – brillante economista
napoletano – è quanto mai difficile. Nientedimeno che rompere un tabù:
quello che si è creato attorno alla dottrina del libero commercio
mondiale. La sua tesi è che con la crisi della globalizzazione
capitalistica, nei fatti nuove forme di protezionsimo e controllo
politico stanno crescendo. E che quella dottrina è in crisi e ormai
superata. Ed è tempo che la sinistra se ne accorga, se non vuole che le
proposte di limitazione dei movimenti di capitali e di merci, che
incontrano crescenti consensi – un po’ ovunque e anche in Italia – siano
cavalcate soltanto da forze populistiche e nazionaliste.
Il protezionismo sta tornando di moda?
Tra il 2008 e il 2012 la Commissione europea ha registrato 534 nuove misure protezionistiche. Non solo l’Argentina, ma anche colossi come Cina, India, Brasile, Russia e Stati Uniti hanno introdotto restrizioni. L’unica che ancora resiste alla tentazione di introdurre controlli sui movimenti di capitali e di merci è l’Unione europea. Dietro ci sono gli interessi del paese più forte, la Germania, che dal libero scambio trae grandi vantaggi. Tuttavia, man mano che la crisi avanza, anche in Europa e in Italia aumentano i consensi verso misure di controllo dei commerci, di limitazione delle acquisizioni estere e di ripristino della sovranità nazionale sulla moneta. E’ un’illusione pensare di contrastare quest’onda con la solita vuota retorica europeista.
Tra il 2008 e il 2012 la Commissione europea ha registrato 534 nuove misure protezionistiche. Non solo l’Argentina, ma anche colossi come Cina, India, Brasile, Russia e Stati Uniti hanno introdotto restrizioni. L’unica che ancora resiste alla tentazione di introdurre controlli sui movimenti di capitali e di merci è l’Unione europea. Dietro ci sono gli interessi del paese più forte, la Germania, che dal libero scambio trae grandi vantaggi. Tuttavia, man mano che la crisi avanza, anche in Europa e in Italia aumentano i consensi verso misure di controllo dei commerci, di limitazione delle acquisizioni estere e di ripristino della sovranità nazionale sulla moneta. E’ un’illusione pensare di contrastare quest’onda con la solita vuota retorica europeista.
In effetti i segnali di protezionismo non mancano. Lo stesso
Marchionne, in qualità di presidente dell’associazione europea dei
costruttori automobilistici, ha criticato l’apertura indiscriminata alle
importazioni di autoveicoli prodotti in Asia.
Non solo: Marchionne ha pure chiesto alla Commissione europea di governare i tagli di capacità produttiva delle case automobilistiche europee, in modo da lasciare invariate le quote di mercato: una vera e propria pianificazione pubblica europea dei volumi di produzione. È una posizione sensata che tuttavia apre una contraddizione, visto che al tempo stesso Marchionne rivendica piena libertà di trasferimento del capitale di Fiat all’estero ed esige dai lavoratori una totale sottomissione alle leggi del mercato. È l’ennesimo sintomo di crisi del liberismo e dei suoi ideologi, che da un lato si arrampicano sugli specchi per giustificare i massicci aiuti pubblici ai capitali privati, e dall’a ltro continuano a pretendere di avere mani libere nello scontro con i lavoratori.
Non solo: Marchionne ha pure chiesto alla Commissione europea di governare i tagli di capacità produttiva delle case automobilistiche europee, in modo da lasciare invariate le quote di mercato: una vera e propria pianificazione pubblica europea dei volumi di produzione. È una posizione sensata che tuttavia apre una contraddizione, visto che al tempo stesso Marchionne rivendica piena libertà di trasferimento del capitale di Fiat all’estero ed esige dai lavoratori una totale sottomissione alle leggi del mercato. È l’ennesimo sintomo di crisi del liberismo e dei suoi ideologi, che da un lato si arrampicano sugli specchi per giustificare i massicci aiuti pubblici ai capitali privati, e dall’a ltro continuano a pretendere di avere mani libere nello scontro con i lavoratori.
E la sinistra, dice lei, risalta per il suo silenzio.
Per troppi anni ha subito il condizionamento ideologico del liberismo, dell’idea che la globalizzazione capitalistica fosse un dato ineluttabile e in fin dei conti benefico. Quando Fiat, o i vertici di Alcoa o la famiglia Riva – che hanno ricevuto varie forme di sostegno statale – hanno minacciato di abbandonare l’Italia e investire all’estero, Berlusconi e Monti hanno dato loro man forte sostenendo che un’impresa privata deve esser lasciata libera di trasferirsi dove meglio crede. Non mi risulta che da sinistra si siano levate molte critiche verso questa indiscriminata libertà di spostamento dei capitali.
Per troppi anni ha subito il condizionamento ideologico del liberismo, dell’idea che la globalizzazione capitalistica fosse un dato ineluttabile e in fin dei conti benefico. Quando Fiat, o i vertici di Alcoa o la famiglia Riva – che hanno ricevuto varie forme di sostegno statale – hanno minacciato di abbandonare l’Italia e investire all’estero, Berlusconi e Monti hanno dato loro man forte sostenendo che un’impresa privata deve esser lasciata libera di trasferirsi dove meglio crede. Non mi risulta che da sinistra si siano levate molte critiche verso questa indiscriminata libertà di spostamento dei capitali.
Molti però mettono in guardia: il protezionismo, dicono, può
provocare danni economici, pericolosi nazionalismi e persino guerre.
È un convincimento tanto diffuso quanto privo di evidenze. Il premio Nobel per l’economia Paul Samuelson, che non era un protezionista, ci ha spiegato che in presenza di disoccupazione il libero scambio crea problemi, non certo vantaggi. E l’economista di Harvard Dani Rodrik ci ricorda che negli anni Cinquanta e Sessanta sussistevano numerosi controlli sui movimenti di capitali e di merci, eppure lo sviluppo, l’occupazione e la distribuzione del reddito erano molto migliori di oggi, anche perché quei controlli permettevano ai singoli stati di perseguire obiettivi interni, occupazionali e distributivi. Si potrebbe anche ricordare che la massima liberalizzazione dei movimenti internazionali dei capitali fu raggiunta esattamente alla vigilia della prima guerra mondiale. È dunque proprio un incondizionato liberoscambismo, soprattutto in tempi di gravissima crisi economica, che rischia di alimentare le peggiori pulsioni nazionaliste .
È un convincimento tanto diffuso quanto privo di evidenze. Il premio Nobel per l’economia Paul Samuelson, che non era un protezionista, ci ha spiegato che in presenza di disoccupazione il libero scambio crea problemi, non certo vantaggi. E l’economista di Harvard Dani Rodrik ci ricorda che negli anni Cinquanta e Sessanta sussistevano numerosi controlli sui movimenti di capitali e di merci, eppure lo sviluppo, l’occupazione e la distribuzione del reddito erano molto migliori di oggi, anche perché quei controlli permettevano ai singoli stati di perseguire obiettivi interni, occupazionali e distributivi. Si potrebbe anche ricordare che la massima liberalizzazione dei movimenti internazionali dei capitali fu raggiunta esattamente alla vigilia della prima guerra mondiale. È dunque proprio un incondizionato liberoscambismo, soprattutto in tempi di gravissima crisi economica, che rischia di alimentare le peggiori pulsioni nazionaliste .
Lei arriva anche ad argomentare che una minaccia
‘neo-protezionista’ da parte dei paesi del Sud Europa potrebbe
contribuire a salvare l’unità europea. Ci spiega meglio quest’idea che
suona un po’ paradossale? L’Europa può ritrovare coesione
interna solo se mette un freno alla competizione salariale al ribasso e
attiva un “motore interno” dello sviluppo economico e sociale. Per
adesso, tuttavia, ci stiamo muovendo in direzione contraria. La Germania
ha imposto ai paesi periferici dellazona euro una ricetta a base di
depressione, disoccupazione e fallimenti aziendali.
La stessa Banca centrale europea segue questa linea: è disposta a
difendere i paesi periferici dalla speculazione solo a condizione che
questi comprimano ulteriormente la spesa pubblica e il costo del lavoro e
si dispongano a vendere i capitali nazionali, incluse le banche. Questa
violenta ristrutturazione a guida tedesca trasformerà vaste aree del
Sud Europa in deserti produttivi, destinati solo a fornire manodopera a
buon mercato alle aree più forti. I gruppi d’interesse prevalenti in
Germania sanno che questi processi potrebbero scatenare tensioni tali da
indurre i paesi del Sud ad abbandonare l’euro, ma questa eventualità
non basta a spaventarli. L’unica vera paura dei tedeschi è che con la
moneta unica salti anche il mercato unico europeo, sul quale si fonda la
loro egemonia: cioè temono che i paesi del Sud introducano limiti alla
libera circolazione dei capitali e delle merci in Europa. In Francia di
questa opzione si discute da tempo ma il governo socialista non sembra
disposto a esplicitare una minaccia protezionista.
In Italia, per evitare tentazioni, abbiamo addirittura messo un
irriducibile liberoscambista ai vertici del governo. La crisi però
avanza, i nodi verranno al pettine. E se la sinistra insiste con il suo
liberoscambismo acritico, a scioglierli verranno chiamate forze
completamente estranee alla tradizione del movimento dei lavoratori.
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