È evidente a tutti la profonda crisi del
sistema politico italiano e dei suoi partiti, eppure non stiamo
parlando di “partiti storici”, bensì di organizzazioni nate
recentemente, al massimo venti anni fa. Paradossalmente l’Italia ha
insieme il sistema di partiti più giovane e maggiormente in crisi tra le
nazioni europee, dove invece sono in campo organizzazioni storiche che
affondano le loro radici non solo nel tanto detestato Novecento (il
cosiddetto “secolo delle ideologie”), ma persino nell’Ottocento. I
vecchi partiti (socialdemocratici, cristiano-democratici, liberali,
conservatori o della sinistra di classe) di Paesi come Francia,
Germania, Inghilterra, Austria, Spagna, Portogallo, continuano
a rinnovare le rispettive classi
dirigenti, senza per questo fondare nuove organizzazioni a ogni sussulto
storico, e hanno uno stato di salute ben maggiore dei giovani ma
acciaccati partiti nostrani. Tuttavia questo non è il solo paradosso
italiano. In questi mesi in tanti celebrano la fine del berlusconismo,
inteso come forma moderna di populismo conservatore, imperniato
sull’abile uso della comunicazione di massa, l’adozione spregiudicata di
parole d’ordine accattivanti sul piano mediatico, l’idea dell’uomo solo
al comando («ghe pensi mi!») capace di risolvere, grazie a doti
individuali e storia personale, tutti i problemi che affliggono i
cittadini. A guardare bene, se anche fosse vera la fine politica di
Silvio Berlusconi, dovremmo comunque parlare di una vittoria postuma del
berlusconismo, e non solo nel suo campo politico. Questo discorso vale
almeno per due aspetti: la spettacolarizzazione mediatica della
politica; la personalizzazione carismatica del messaggio politico. Sul
primo non ho modo di soffermarmi per ragioni di spazio, ma basta
guardare lo scenario attuale (traversate a nuoto dello stretto di
Messina, monologhi con piglio da telepredicatore del sindaco che sta
attraversando l’Italia in camper per portare il verbo della “gioventù al
potere”, autonarrazioni familiari nelle quali dovrebbero riconoscersi
gli italiani, a fianco di una pompa di benzina, e via dicendo) per
vedere come il fenomeno non possa più essere circoscritto solo al campo
del centro destra. Sul secondo, invece, la “berlusconizzazione” della
politica italiana è evidente in primo luogo per un fatto: oggi la gran
parte dei partiti politici italiani reca o ha portato nei rispettivi
simboli il nome del proprio leader. Ma la manifestazione più
plateale di questa vittoria postuma viene dalle modalità con cui si sta
conducendo la campagna per le primarie, dalle quali sta emergendo una
insopprimibile, e insopportabile, tendenza al “culto della personalità”
dei diversi candidati. Questa incarnazione nominalistica di una linea
nella figura e nella biografia personale del leader, è un carattere di semplificazione del messaggio politico tipicamente berlusconiano,
sulla cui efficacia è legittimo nutrire più di un dubbio. Se si pensa
di risolvere il problema del rapporto di rappresentanza con forme
attualizzate di cesarismo, evidentemente, non si è compresa o non si
conosce la lezione della storia e ben poco si è capito dell’attuale
crisi. La politica, se realmente vuole ricomporre la frattura tra
rappresentati e rappresentanti, deve ricostruire questo rapporto su
altre basi, realmente collegiali, piuttosto che assegnare deleghe
passive al demiurgo di turno. Personalmente alla politica in mano ai
capi carismatici preferisco l’idea dell’intellettuale collettivo, nella
convinzione che le due cose non sono solo diverse, ma incompatibili.
Possiamo discurere a lungo sull’attualità o inattualità di un pensatore
come Gramsci, ma siamo realmente convinti che quanto abbiamo sotto gli
occhi in questi giorni sia il tanto invocato rinnovamento, la risposta
“nuova” alla cosiddetta crisi della politica?
da Gianni Fresu.it
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