sabato 31 dicembre 2011

Buon anno!


Finanziamento pubblico ai giornali: un giornalista precario risponde a Beppe Grillo

Dopo l'azzeramento dei contributi pubblici, Liberazione chiuderà il 1° gennaio, e altre 30 testate potrebbero fare prestissimo la stessa fine. Beppe Grillo gioisce: 'così imparano a parlar male di noi'. La risposta di un bravo giornalista, precario

La fine del finanziamento pubblico ai giornali
"Il 2012 non sarà del tutto negativo. Porterà in dono anche la chiusura di molti giornali finanziati con soldi pubblici, veri cani da guardia dei partiti. Giornali che hanno attaccato il MoVimento 5 Stelle prima ancora che esistesse o che, nel migliore dei casi, ne hanno taciuto le iniziative. Il V2day del 2008 fu un atto di accusa contro la disinformazione dei giornali assistiti e legati a filo doppio ai partiti e venne chiesta l'abolizione dei finanziamenti pubblici. Tra le testate che attaccò l'iniziativa, prima, dopo e durante, spiccò l'Unità. Ora è in crisi, si metta sul mercato, si faccia pagare dai lettori come il Fatto Quotidiano e, se non vende, chiuda i battenti. Se qualche esponente del MoVimento 5 Stelle la pensa diversamente non è un problema. Il Pdmenoelle lo accoglierà subito tra le sue braccia." Beppe Grillo


La risposta di Daniele Nalbone, giornalista di Liberazione:
Caro (nel senso di quanto costa seguire un suo spettacolo-comizio) sig. Beppe Grillo.
Sono un giornalista della casta: lavoro per Liberazione, sono precario da sempre, ho 30 anni e presto la mia professione, quella di giornalista pubblicista, sarà cancellata dalla faccia della terra. Il mio reddito annuo è pari a (circa) 8mila euro. Credo nel giornalismo libero e indipendente, sono stato tra i primi a scoperchiare le nefandezze dei mondiali di nuoto del 2009, per primo ho raccontato su un quotidiano italiano la vicenda di Niki Aprile Gatti e del maestro di Vallo della Lucania Franco Mastrogiovanni, il primo “morto” di carcere, il secondo “morto” di Trattamento Sanitario Obbligatorio. Potrei continuare, ma questo è per farle capire che il merito di aver trattato tra i primi questi temi non è mio, o soltanto mio, ma del quotidiano per il quale collaborerò ancora per due giorni: Liberazione.
Un quotidiano che esiste da venti anni, per il quale hanno lavorato e lavorano decine di professionisti, che non è tra i preferiti del mercato della pubblicità e per questo ha bisogno, come ogni quotidiano indipendente d'Europa, del finanziamento pubblico non per sopravvivere e basta, ma per continuare a fare informazione.
Leggendo quanto da lei scritto mente nella redazione di Liberazione lavoratori dell'informazione sono costretti ad occupare il proprio posto di lavoro per non finire letteralmente per strada (fortuna che io abito ancora a casa di mamma...) non vedo nulla di politico né di comico. Leggo solo il 'rosicamento' di un personaggio pieno di sé incazzato per il fatto che i giornali in generale avrebbero attaccato il MoVimento 5 Stelle ancor prima che venisse fondato o che i giornali in generale ne avrebbero taciuto le iniziative.
Mi dispiace constatare che lei – di riflesso o direttamente poco importa – con questa parole attacca un giornale come Liberazione che ha sempre dato spazio a questa iniziative. Le ha criticate, certo, ma le ha prima raccontate.
Dopo le amministrativa di un anno fa io stesso feci un pezzo di resoconto sui risultati del MoVimento 5 Stelle chiudendo con questa frase il mio pezzo: “Altro che antipolitica. La sensazione, tanto sotto le due Torri che sotto la Mole, è quella di una vittoria molto politica che viene da lontano: dalle regionali dello scorso anno, non certo da facebook”.
Dall'alto del suo conto in banca, le chiedo: chi le dà il permesso di attaccare il lavoro – non le idee – con il quale vivono migliaia di famiglie italiane e sopravvivono ancor più migliaia di precari italiani?
Lei parla di “libero mercato”, pontifica sul fatto che un giornale dovrebbe vivere di copie vendute. Benissimo. Repubblica, Corriere, Sole, etc. vivono di copie vendute oppure di pubblicità e di contributi? La scuola pubblica italiana dovrebbe vivere di rette pagate o di contributi pubblici?
Il sistema di trasporto pubblico italiano dovrebbe vivere di biglietti venduti o di contributi pubblici?
La sanità italiana dovrebbe vivere di ticket pagati o di contributi pubblici?
Lei crede nel diritto all'informazione o nel pluralismo dell'informazione come crede nel diritto alla mobilità, alla salute, etc. o no?
E allora le parlo come lei parla ai suoi devoti: se la risposta è sì – credo nel diritto all'informazione o nel pluralismo dell'informazione - nessun problema: qualunque idiota continuerà a votarla.
Se la risposta è no – credo che l'informazione non sia un bene comune e quindi debba essere il libero mercato a decidere della vita o della morte di centinaia di testate - nessun problema: qualunque forza neofascista è pronta ad accoglierla tra le sue braccia.
E ora, dagli alla casta, signor Grillo. Io, dal basso dei miei 8mila euro all'anno, sono qui che la guardo, dall'alto dei suoi X milioni di euro l'anno.
Alla prossima pontificata.
Ps. non ho volutamente riletto quanto scritto: troppa rabbia. Correggendo, sarei molto meno democratico, quindi mi scuso per gli errori che sicuramente ci saranno. Ma, si sa, noi pennivendoli manco scrivere sappiamo.

BUON ANNO COMUNQUE - di Galapagos, Il Manifesto

Buon anno. Si fa per per dire. «Il 2011 è stato un anno horribilis, ma il 2012 potrà essere peggiore», era il titolo di ieri di un servizio dell'agenzia Radiocor. Titolo corretto: il 2012 si annuncia non orribile, ma terribile. E non solo in Italia. Il decreto varato da Monti a Natale forse ha salvato l'Italia - come vanta il presidente del consiglio - ma non gli italiani. Forse ha salvato i possessori del debito pubblico, ma non i milioni di cittadini onesti che vivono del proprio lavoro o della propria pensione.
Ieri in serata sulla torta del sacrifici sono stare aggiunte due nuove ciliegine: un nuovo aumento delle bollette di luce, gas e riscaldamento dal primo gennaio e quello del 3,5% dele tariffe autostradali. Stando ai dati raccolti dall'Osservatorio Nazionale Federconsumatori, in totale gli aumenti di prezzi e tariffe costeranno - nel 2012 - 2.103 euro a famiglia, «quasi la metà di quanto una famiglia media spende per la spesa alimentare in un anno in base ai dati Istat» spiega l'organizzazione. Che aggiunge: saranno «aumenti insostenibili che determineranno pesantissime ricadute sullo stile di vita delle famiglie e sull'intera economia, che dovrà continuare a fare i conti con una profonda e prolungata crisi dei consumi». Ma non è finita: nel 2012 - ci hanno fanno sapere Unioncamere e Prometeia - il Pil pro capite, a prezzi correnti, in Italia sarà pari a 23.280, in discesa dai 23.414 euro di quest'anno. Considerando, però, che l'inflazione dovrebbe superare il 3% soprattutto se scatteranno a metà anno gli aumenti di 2 punti dell'Iva, questo significa che il Pil pro capite sarà significativamente più basso di quello del 2011. Insomma, saremo tutti (o quasi) più poveri e il reddito pro capite sarà inferiore di molto a quello dell'inizio del 2000.
Trovare i responsabili di questa caduta non è difficile: basta ricordare chi ha governato l'Italia dal 2001 e che provvedimenti di politica economica - decisamente classita e filo evasione - ha preso.
Ma guardare al passato serve poco, soprattutto quando abbiamo un futuro decisamente nero di fronte a noi. E' più interessante capire le conseguenze delle manovre «correttive» varate a raffica da Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti e ora da Mario Monti. 
Complessivamente si tratta per il 2012 di circa 70 miliardi di euro. Una enormità che toglierà il fiato al sistema economico. Tanto per ricordarlo, la domanda interna cadrà pesantemente, il Pil diminuirà di almeno il 2%, l'inflazione rifarà capolino, i giovani non troveranno lavoro e, tra i lavoratori «protetti», si moltiplicheranno i casi «Omsa». E la crescita della disoccupazione produrrà a catena minore domanda, minori consumi, minore crescita e il rischio - ce l'ha detto due giorni fa l'Istat - che il 25% delle famiglie finisca in povertà o in situazione di grave «deprivazione economica».
Un futuro nerissimo che sarà risparmiato solo al sistema finanziario e ai possessori di Btp. Un tempo si diceva: «Chi può, batta un colpo». Il dramma - leggete la prima pagina de l'Unità di ieri - è che ormai c'è un appiattimento totale su Monti, anche di chi di questa crisi non ha colpe, ma ha sposato - fino a che «morte non divida» - l'ideologia liberista. Tutto questo mentre Monti sembra vittima consapevole (e felice di esserlo) delle interferenze tedesche, come scrive il Wall street journal.
In ogni caso, buon anno a tutti.

venerdì 30 dicembre 2011

LIBERAZIONE, ALCUNE PAROLE FUORI DAL CORO


Sono stato nel 1992 tra i sei giornalisti professionisti che costituivano la prima redazione di Liberazione. Le parole amare e crude che sto scrivendo le ho dette, inascoltato ed in rigorosa minoranza, da tre anni in ogni sede di partito in cui sono stato coinvolto . Per il legame fortissimo che mi lega a quella esperienza non le ho mai dette a cuor leggero e sempre nel rispetto di chi Liberazione la faceva uscire ogni giorno. Chi ha ucciso Liberazione? Ho una risposta diversa da quelle che circolano, l’una contro l’altra, in questi ultimi amari giorni di vita del nostro giornale. Non ho dubbi su chi l’ha uccisa : gli elettori. All’indomani della sonora sconfitta della Sinistra Arcobaleno (di nuovo un rimosso??) gli elettori avevano bocciato non solo un progetto politico ma anche il suo braccio comunicativo : l’unico quotidiano che sosteneva quella strana avventura politica. Per me non c’erano dubbi : una forza extraparlamentare non può permettersi un quotidiano politico che raggiunge a mala pena cinquemila lettori spolpando le residue risorse economiche del partito. Era capitato anche al Quotidiano dei Lavoratori che uscì solo per tre giorni dopo il mancato raggiungimento del quorum di DP ( che si presentava nel cartello di Nuova Sinistra Unita). Proponevo di chiudere Liberazione quotidiano cartaceo e di trasformarlo in settimanale e in quotidiano on line con tanto di radio e tv via web. In quella rovinosa sconfitta potevamo inventarsi forme nuove di comunicazione in grado di aumentare la superficie di contatto delle nostre idee con un maggior numero di persone. Suggerivo di guardare a cosa succedeva in Europa nella comunicazione alternativa e di sinistra e facevo notare che ormai nella tradizione classica del partito/ quotidiano nel vecchio continente rimaneva solo l’Humanitè (tra l’altro bruscamente ridimensionato nella sua parte cartacea e potenziato invece nella parte on line). Ma la rifondazione dei nostri modi di comunicare evidentemente, ma aggiungo io incredibilmente, non era all’ordine del giorno. Prima si è usata Liberazione, quella di Sansonetti, contro il progetto politico scelto democraticamente dagli iscritti ed iscritte di non sciogliere Rifondazione Comunista. Poi mi si è spiegato che se non facevamo uscire il giornale ci rimettevamo economicamente (ma intanto vendevamo le sedi di partito e nelle direzioni nazionali eravamo costretti a votare diversi salvataggi economici del giornale). Poi Berlusconi prima , Monti dopo non avendo in alcun modo a cuore la libertà d’informazione hanno falcidiato fino ai minimi termini il fondo sull’editoria sulle quale fondavamo le residue speranze di far vivere un quotidiano di otto pagine che chiudeva in redazione alle 19.30 raggiungendo solo una parte dell’edicole del Paese. Il segretario Paolo Ferrero ha spiegato molto bene quello che il partito ha fatto per far sopravvivere Liberazione come quotidiano e a questa parte di storia non ho niente da aggiungere.
Rimane il mio cruccio che in tutta questa vicenda non si sia mai posto sul serio il problema di quale comunicazione avevamo bisogno, se l’impresa che con Doddoli iniziammo ormai quasi venti anni fa aveva ancora un senso , nel mondo di internet, di facebook, di twuitter. Per intenderci una esperienza come www.controlacrisi.org ha una platea di lettori molto superiore a quella di Liberazione, eppure il partito ci ha investito poco o niente.
Pur ritenendomi un comunista libertario, alla disciplina di partito e alle decisioni collegialmente assunte mi sono sempre attenuto. Il partito decideva che Liberazione quotidiano doveva vivere e come un soldatino ho obbedito partecipando alle cene di sottoscrizione, alle campagne di autofinanziamento, avendo l’onore di scriverci ogni volta che mi è stato chiesto. Ho solidarizzato con i lavoratori e sostenuto ogni iniziativa che ne limitasse il disagio.
Non posso però non insorgere davanti ai maldestri tentativi di questi giorni di addossare sul partito le responsabilità della chiusura di Liberazione. Mi incazzo letteralmente quando leggo che qualcuno, strumentalmente, mette in contraddizione il Prc che solidarizza con i lavoratori delle aziende in lotta con la decisione di chiudere, a causa dei tagli di Monti, l’esperienza del quotidiano cartaceo.
Allora è utile ricordare le cose che sono scritte all’inizio di questo articolo : a decretare la morte di Liberazione quotidiano cartaceo sono stati gli elettori che ci hanno severamente punito il 14 e 15 aprile 2008. Di fronte a quella catastrofe politica l’idea di rimanere uguali a se stessi è stato un grave errore. Come per il Prc anche per Liberazione è arrivato il tempo di ripensare se stessi e diventare maggiormente utili socialmente. C’è un grande patrimonio di saperi, esperienze e inchieste da non disperdere e che meritano di arrivare ad un pubblico più vasto e non solo di nicchia. Ragioniamo di una Liberazione settimanale , più aderente anche ai bisogni militanti del partito e di un quotidiano on line al quale affiancare radio e tv via web. Liberazione può e deve vivere . Innoviamoci e impegniamoci insieme per questo obiettivo.
 
di Alfio Nicotra, www.controlacrici.org

Deve essere chiaro che... - di Dino Greco, Liberazione

Rifondazione e Liberazione stanno dalla stessa parte. Chi soffia sul fuoco? Cui prodest


Il taglio secco del Fondo per l’editoria, deciso da Berlusconi e di cui Monti – confermandolo – si è reso pienamente corresposabile, è l’unica e sola ragione che ha costretto l’editore a sospendere la pubblicazione di Liberazione. Immaginare o, peggio, sostenere che l’intervento del governo non sia altro che un alibi che nasconderebbe l’intento di Rifondazione di disfarsi del proprio unico e fondamentale strumento di controinformazione e lotta politica è una tesi che non ha alcun fondamento.
In questi anni il giornale ha ricostruito una propria precisa identità politica ed ha riscosso l’apprezzamento dei lettori, dei militanti e di tante soggettività collettive che hanno trovato in questo spazio l’eco robusta delle proprie battaglie e delle proprie pratiche sociali.
Le testimonianze che senza soluzione di continuità affluiscono da giorni presso la redazione non fanno che confermare quanto questo sentimento sia radicato fra la nostra gente.
La sospensione dell’edizione cartacea è dunque un danno gravissimo – e come tale vissuto – per l’intera comunità politica del Prc. E non solo per essa. Ma annullare ogni percezione della cruda realtà dei conti, mischiare e rovesciare le responsabilità, significa offrire al governo e alla eterogenea compagnia di giro che lo sostiene, il pretesto per affermare che le ragioni vere della sospensione non stanno nell’impressionante dimensione dei tagli, ma in una occulta propensione suicidiaria del Prc. Alimentare questa tesi nel mentre la direzione del giornale, con il pieno coinvolgimento del partito, sta lanciando una grande sottoscrizione popolare proprio per dare una speranza ed un futuro possibile al giornale, significa praticare un atto di puro autolesionismo.
E sorprende che anche i nostri amici e compagni de il manifesto, vittime sacrificali, al pari di noi, di una furibonda offensiva contro la stampa libera e indipendente, con i quali stiamo conducendo una dura battaglia per ottenere il reintegro dei finanziamenti pubblici, diano l’impressione di accreditare l’idea di un retropensiero di Rifondazione, di un suo recesso dalle proprie responsabilità, di una decisione aprioristicamente coltivata.
Francamente, a chi come me ha vissuto questi anni in trincea, riuscendo – grazie ai sacrifici di tutti e ad un impegno senza soste – a riportare il bilancio in sostanziale equilibrio, riesce molto difficile capire su cosa si fondi la reiterazione di un sospetto pesante quanto privo di consistenza. Ne sia prova ulteriore, benché non necessaria, che ove il fondo fosse reintegrato non ci troveremmo sotto questa incudine e promuoveremmo, come stiamo in ogni caso facendo, la sottoscrizione di massa per assicurarci la liquidità necessaria a pagare – “sull’unghia”, come ci viene imposto dalla situazione presente – carta, tipografie, distribuzione, considerato che le banche non ci concedono un centesimo di credito.
Leggo poi che la disponibilità offerta da il manifesto e da l’Unità ad ospitare temporaneamente la “prima” di Liberazione, viene contestata dal nostro Cdr sino a chiederne la revoca, poiché in questo modo quei fogli si renderebbero complici della chiusura di Liberazione. Di più: si afferma che quella «miniLiberazione» assomiglierebbe ad un «volantino», piuttosto che ad un «prodotto giornalistico». Anche qui, veniamo in chiaro: la “prima” di Liberazione non è un volantino. Foto, titolo, sommario ed editoriale politico sono stati, in questi anni, la vetrina, il tratto identitario del giornale, immediatamente percepibile, qualificato ed apprezzato. Da dove viene, allora, questo giudizio liquidatorio che coinvolge, direttamente, la direzione del giornale?
Un modesto suggerimento a quanti – redattori, poligrafici, lettori, amici, compagni, militanti – tengono alla sorte di questo giornale: studiamole tutte, proviamole tutte, sondiamo sino in fondo ogni possibilità, senza preclusioni pregiudiziali. Facciamolo insieme, con tutta la determinazione necessaria. Senza evocare fantasmi e con l’onestà intellettuale che aiuta sempre, in particolare chi si ingaggia in imprese complicate.
So, per diretta esperienza e convinzione profonda, che quando sono in gioco i posti di lavoro è sempre necessario combattere. E il direttore di Liberazione è a fianco di chi combatte. Altrettanto decisivo è individuare con precisione alleati ed avversari, essendo deleterio confondere gli uni con gli altri. Occupy Liberazione serve a tutti se è chiara la consapevolezza che l’avversario sta a palazzo Chigi. E che Rifondazione non sta a Wall Street.

Poche, vaghe e misere parole


Chissà quanti italiani poveri avranno ascoltato la conferenza stampa del presidente Monti. Il 25% della nostra popolazione che vive una condizione di esclusione sociale o di povertà, ha un sacco di tempo libero da passare davanti alla tv. Disoccupati, precari, cassintegrati, in mobilità, lavoratori sommersi e al nero, costretti a vivere dentro una porta girevole, oggi lavoro e mangio, domani è un altro giorno. La fase due non esiste, ha detto Monti, era già dentro la fase uno. Diciamo che è sinergica alla fase uno. Diciamo che la crescita era nella stangata votata da una maggioranza «bulgara», ma noi non ce n’eravamo accorti.  
Cos’altro ha detto il presidente alla conferenza stampa di fine anno? A chiunque gli chiedesse del mercato del lavoro o della Libia, dell’accordo con la Svizzera o dell’evasione fiscale, la risposta era sempre la stessa: «Sto studiando il dossier», dunque «ci stiamo lavorando».
Mentre Monti ci stava lavorando, 239 operaie nuove povere, alla Omsa non ci lavorano più. Il padre-padrone Nerino Grassi ha inviato un fax ai sindacati per dire che alla fine della cassa integrazione licenzierà tutte le «maestranze». Ha fretta di trasferire la produzione da Faenza in Serbia, e visto che c’è, chiuderà anche uno stabilimento nel teramano e manderà altre 360 operaie a irrobustire le fila della nuova povertà. Viva la Serbia che offre spazi, incentivi, capannoni, detassazioni e un accordo di libero mercato, cioè senza dazi, con la Russia. Una volta i giovani italiani andavano all’est con i bagagliai imbottiti di calze di seta – valore di scambio – mentre oggi i vecchi padroni ci vanno per produrle, le calze di seta. Chissà se all’est il Nerino Grassi recupererà il vecchio Carosello: «Omsa, che gambe!». Certo non proietterà le performances artistiche e rabbiose delle operaie di Faenza che hanno fatto di tutto per difendere il lavoro. Come i loro compagni autoreclusi all’Asinara, o i ferrovieri arrampicati sui grattacieli.
Per un liberista, guai a mettere limiti alla libertà di movimento del capitale. La libertà – non pretendiamo dal bisogno ma almeno dalla povertà – di chi lavora è meno interessante. Il lavoro dev’essere flessibile, mica libero. Sarà per questo che il governo italiano non dice una parola sulla chiusura dei cantieri navali di cui è proprietario, così come il governo precedente non aveva nulla da contestare alla Fiat che chiudeva la fabbrica italiana di autobus per rafforzare quelle ceche e francesi. Per non parlare della chiusura di fabbriche di automobili. La libertà di spostamento, è il caso di ripeterlo, non vale per i lavoratori e per i cittadini ma solo per i capitali che si muovono on-line. Nessuno ha chiesto a Monti cosa pensi di tutti questi capitali coraggiosi, e se non creda che tra i compiti di un governo ci sia anche la difesa – lasciamo stare la crescita – del proprio patrimonio professionale, industriale, economico. E culturale. Se glielo chiedessimo, probabilmente, ci risponderebbe: «Ci stiamo lavorando». Ma forse, quello che abbiamo visto ieri in tv non era Monti ma Crozza.

martedì 27 dicembre 2011

Nazionalizzare le banche di Giorgio Cremaschi, Liberazione


E se la breve e ridicola campagna per cancellare l'articolo 18 fosse stata solo un depistaggio?
Sì, certo, Fiat, Fincantieri, il grande padronato italiano, tutti assieme non vedono l'ora di avere la libertà di licenziamento. Tuttavia la goffaggine con la quale la ministra del lavoro ha portato avanti la sua offensiva contro lo Statuto dei lavoratori mi ha fatto venire qualche dubbio. Così infatti è passata in secondo piano la catastrofe della manovra appena approvata e in particolare il massacro sociale sulle pensioni che colpisce vergognosamente gli operai e le donne.
E così è passata sotto silenzio la scandalosa manovra finanziaria attuata in questi giorni dalla Bce.
Ben 500 miliardi di euro sono stati prestati alle banche europee al tasso natalizio dell'1%. 116 di questi miliardi sono stati accaparrati dalle banche italiane. E' bene ricordare che lo stato italiano, se vuol fare prestiti per finanziare il debito con cui si pagano anche i beni e i servizi sociali, deve pagare il 7%, per ora, di interessi. Le banche hanno ottenuto questa cifra enorme con il tasso dell'1%, per cui se decidessero di prestare i soldi allo stato italiano, solo in virtù di questa operazione, guadagne-rebbero il 6%.
Non sappiamo se lo faranno, perché la speculazione finanziaria dice alle banche di non acquistare buoni del tesoro. Quindi può darsi che quei soldi, versati dai cittadini europei, è bene ricordarlo, vadano persino in altri lidi, verso altre scelte speculative. Il peso complessivo delle manovre Berlusconi, Monti, Tremonti è di 75 miliardi di euro che gravano per il 90% su salari, pensioni, servizi sociali. Alle banche è stato dato molto di più di quello che i governi ci hanno preso. Questa è l'Europa reale di oggi. Sbaglia il Presidente della Repubblica nell'esaltare la necessità di sacrifici nel nome di valori europei che in realtà non esistono. L'Europa di oggi è governata da un'alleanza tra tre grandi forze. La finanza internazionale, la tecnocrazia liberista, i governi di destra. Costoro sono quelli che comandano e le sinistre che accettano i loro ordini, in Italia come in Grecia come in tutta Europa, o si suicidano o diventano altro. Oppure entrambe le cose assieme.
No, quest’Europa della speculazione finanziaria che presta soldi alle banche ma che nello stesso tempo chiede agli stati di licenziare, di chiudere i servizi pubblici e distruggere i contratti nazionali, quest'Europa è oggi il nostro avversario. E per combattere questo avversario dobbiamo mettere in campo altri obiettivi, altre politiche rispetto a tutte quelle che si succedono stancamente nel disastro. Prima di tutto è chiaro che il finanziamento alle banche a fondo perduto deve finire. E' una scelta di buon senso che le banche, salvate dai nostri soldi, siano prese direttamente in mano pubblica. E così governate al fine di tagliare le unghie alla speculazione finanziaria e per fornire all'economia quel credito che oggi viene concesso a tassi di usura.
Il debito pubblico va congelato e ricontrattato. In ogni caso non può pesare a questi tassi di interesse su economie già in recessione. Gli economisti antiliberisti oggi sono divisi tra chi pensa prioritario uscire dall'euro, moneta che oggi strangola la ripresa economica, e chi invece ritiene indispensabile prima di tutto non pagar più il debito, almeno alla finanza internazionale. In realtà questa divisione non ha molto senso, perché la sostanza di tutte le posizioni critiche è che noi non possiamo più accettare i vincoli imposti dal potere tripartito che governa l'Europa. Dobbiamo rilanciare l'economia reale partendo dai beni comuni e dai servizi pubblici, dobbiamo aumentare i salari e i redditi, dobbiamo trasferire ricchezza dalla speculazione finanziaria e dai grandi patrimoni ai cittadini in difficoltà. Tutte queste misure richiedono che salti completamente quel meccanismo di salvaguardia dell'euro e della finanza che oggi, sotto il nome di patto di stabilità, sta destabilizzando le vite della maggioranza dei popoli di tutta Europa. La nazionalizzazione delle banche è quindi solo un passo necessario per  riconquistare il potere democratico di decidere sul nostro futuro, per sottrarre alla finanza internazionale impazzita il potere di decidere sulle nostre vite.
Finché non si percorrerà una strada di rottura in questa direzione continueremo a fare sacrifici sociali e di diritti sempre più ingiusti quanto inutili. Questa è la sostanza, questo è ciò che abbiamo di fronte nel 2012. Dobbiamo darci obiettivi ambiziosi, ambiziosi non perché irrealistici, ma perché mettono in discussione il sistema di potere finanziario che ci impone i suoi diktat distruttivi. Dobbiamo sperare e operare affinché l'Europa del lavoro e dei popoli si ribelli all'Europa dei padroni e delle banche.

P.S. un editoriale come questo può uscire solo su Liberazione. Diamoci tutti da fare perché nel 2012 questo nostro giornale sia ancora al fianco delle nostre lotte.


venerdì 23 dicembre 2011

VENDOLA RISPONDE A FERRERO: «NOI E IL PD LA VERA ALTERNATIVA».


In un'intervista su L'Unità, Vendola rilancia il centro sinistra sbarrando di fatto la strada ad ogni ipotesi di riunificazione a sinistra proposta da Paolo Ferrero segretario del partito della Rifondazione Comunista. Centrale la questione del Governo, del tutto assente la questione europea, e il colpo di stato finanziario che stiamo subendo. Per Vendola il ruolo della BCE, le politiche di austerity imposte dal SIX PACK, e tutto il resto del corollario sono cose che non contano evidentemente. Portare ancora acqua al mulino di un PD in crisi di legittimità dopo il pieno appoggio al Governo Monti vuol dire essere d'ostacolo allo sviluppo di una sinistra di opposizione di cui in questo paese oggi c'è estremo bisogno. 

Auguri Niki, ieri sera uno dei tuoi amici sindaci del centro sinistra ha privatizzato l'ATAF. Si Chiama Matteo Renzi.

Ecco a voi l'intervista.

Il leader di Sel: «La foto di Vasto non esiste più. E ora temo per il Pd». Il governo affronti con la patrimoniale il tema della redistribuzione della ricchezza.
La foto di Vasto oramai è strappata, ma Bersani non faccia morire sull’altare del governo Monti quel «nuovo centrosinistra» che non solo era dato vincente da tutti i sondaggi, ma aveva ridato speranza a milioni di italiani. Il leader di Sel e presidente della Puglia Nichi Vendola appare preoccupato e mette in guardia il Pd dal pericolo di considerare il governo dei tecnici non come strumento d’emergenza, ma come propedeutico per nuove alleanze.

Presidente, la manovra Monti è legge. Servirà?
«È sbagliata socialmente e probabilmente inutile dal punto di vista del contenimento del debito pubblico perché non è in grado neppure di evocare il tema dirimente della crescita. Viceversa spinge il paese dentro la voragine recessiva».

Il premier dice che ora comincia la fase due?
«La logica dei due tempi non ha mai funzionato. Sono ancora in attesa di vedere la fase uno, quella che aggredisce alle radice le ragioni della crisi, che pone il tema della ridistribuzione della ricchezza. Dov’ è l’ossigeno che può consentirci di tornare a respirare a pieni polmoni se milioni famiglie subiranno contemporaneamente gli effetti del sadismo sociale di Tremonti e le conseguenze di questa manovra sbagliata?»

Lei che cosa proporrebbe?
«Chiederei di ripartire dalla reintroduzione di una patrimoniale pesante per affrontare i nodi di fondo di questa crisi che è figlia della più grande rapina che il lavoro subordinato ha subito col trasferimento della ricchezza dalle tasche dei lavoratori ai portafogli dei fondi di investimento e delle banche. E poi li inviterei a non dire più la parola crescita senza metterci l’aggettivo sostenibile e a imitare Germania e Inghilterra per fare un protocollo di intesa con la Svizzera per la tassazione dei capitali depositati nelle banche elvetiche. E infine a toccare anche le spese militari. Un sommergibile può contare di più della vita delle persone?»

Sarà riformato anche il mercato del lavoro. Sull’articolo 18, anche grazie ai paletti di Bersani come lei ha riconosciuto, il governo ha fatto marcia indietro. Ma l’articolo 18 è un tabù?
«Sì, perché è il simbolo di un secolo di lotte operaie che da pietra di scarto ha fatto diventare il lavoro pietra angolare della democrazia come testimonia il primo articolo della nostra Costituzione. A Bersani e al sindacato dico: bene questa capacità di tenere saldamente in mano la bandiera dell’articolo 18, ma attenzione perché le relazioni industriali a partire da Pomigliano conoscono un crescente stravolgimento. Ciò che ha animato il Pd e Bersani nei confronti del governo Monti è un sentimento di assoluta generosità nei confronti del Paese, ma ora corre da due pericoli».

Quali?
«Che appunto il mercato del lavoro possa essere stravolto non dalla porta principale, ma da una miriade di microscopiche controrivoluzioni. E poi dall’immagine, coltivata anche da esponenti del Pd, del governo Monti non come governo d’emergenza che gestisce questa fase eccezionale con un timbro palesemente conservatore, ma come governo con un carattere costituente che allude al sistema politico e sociale del futuro. Perché su questo terreno non esisterebbe più il centrosinistra e io sarei all’opposizione».

Con l’Idv che vota no a Monti la foto di Vasto si sta sbiadendo?
«Non c’ è più la foto di Vasto, ma a Bersani chiedo se davvero non ci interessa più definire un’orizzonte di cambiamento, un’alternativa di governo per oltrepassare il berlusconismo. Non ci interessa più quell’elettorato di Di Pietro che è un pezzo di centrosinistra e confrontarci con la rete dei sindaci che sta nascendo attorno a De Magistris? Nell’evo che ha preceduto il governo Monti non solo il centrosinistra era dato vincente nei sondaggi, ma aveva vinto a nelle sfide più importanti come Milano. Ma era il centrosinistra del cambiamento, non genuflesso che si comporta come un chierichetto nei confronti dei poteri costituiti. Voglio dedicare le mie energie a costruire quel nuovo centrosinistra, c’ è bisogno di uscire dall’ambiguità e di aprirne il cantiere. Serve all’Italia perché vedo montare un’onda nera in questo Paese di cui sono fatti evocativi la strage dei senegalesi di Firenze e la luce livida dei pogrom anti-rom di Torino».

Ferrero la invita a unirsi a Rifondazione per ricostruire la sinistra?
«Mi spiace che alla mia sinistra invochino l’unità delle sinistre radicali sul terreno dell’opposizione. Questa richiede un’alternativa di governo. Ma ha bisogno di essere alimentata. Bersani rompa questa specie di autoipnosi per cui col governo tecnico la politica vive una crisi di afasia. Anche perché capisco la situazione d’emergenza, ma non capisco come si possa sopportare il sorgere di alleanze spurie fra Pd e Pdl come a Ischia. C’ è da dare un segnale. Quella non è alta politica dettata da senso di responsabilità, ma pessima politica nata sul terreno dell’affarismo e della corruzione».
 
Di Vladimiro Frulletti 23 dicembre 2011 www.unità.it

mercoledì 21 dicembre 2011

Manovra/ Fausto Bertinotti ad Affaritaliani.it: “Ne penso tutto il male possibile”

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"Il governo Monti non può essere considerato una parentesi, ma un esecutivo costituente che forma cioè delle nuove realtà, sia sul terreno economico-sociale, sia su quello politico-istituzionale. Credo che la geografia politica italiana con cui si andrà al voto nel 2013 sarà totalmente diversa da quella che c'era prima del governo Monti. In ogni caso mi sembra evidente che la Seconda Repubblica sia morta così come il Centrosinistra". Fausto Bertinotti, presidente della Fondazione della Camera dei deputati, ed ex leader della Sinistra arcobaleno, con un'intervista al quotidiano online Affaritaliani.it, analizza le prospettive future della politica italiana. La manovra? "Ne penso tutto il male possibile". Poi boccia la proposta Ichino e sull'articolo 18 dice: "La compressione drammatica dei diritti dei lavoratori  è già in essere.  Dunque, il problema non è quello di attendersi il colpo di maglio sull'articolo 18 ma sarebbe quello di mettere mano a delle politiche del lavoro che costituiscono una  via d'uscita a quelle finora perseguite".
Che giudizio dà della manovra del governo Monti?
"Ne penso tutto il male possibile perché è totalmente interna a questa linea che fa dell'abbattimento del debito l'alfa e l'omega della politica economica secondo le direttive dell'Bce, che ha in larga misura ha uniformato i comportamenti dei governi in Europa e che ci sta portando alla recessione. Una manovra che somma al danno assai grave di una recessione che spinge ancora più in basso l'occupazione  e contemporaneamente mette in discussione il modello sociale europeo che avevamo ereditato con un attacco sistematico allo stato sociale e ai diritti dei lavoratori con l'idea che questo sia il ventre molle da comprimere per fare ripartire un’economia che non riparte. In primo luogo perché la domanda interna, in questo caso la domanda europea, è penalizza da queste stesse politiche".
Secondo lei Monti metterà mano all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori?
"Questo non lo so. Certo è che siamo in una stagione di compressione drammatica dei diritti dei lavoratori già in essere. La politica sembra distratta, ma stiamo vivendo i primi giorni dell'intero secondo dopo guerra in cui l'Italia vede messo in discussione il contratto nazionale di lavoro che è stato l'architrave su cui si sono costruite le relazioni sindacali, le relazioni contrattuali, i diritti e il potere d'acquisto dei lavoratori. L'operazione con cui Marchionne l'ha demolito porta la sua responsabilità e quella dei partiti politici che glielo l'hanno consentito. Non ho bisogno poi di ricordare come le assunzioni avvengano ormai con contratti a termine e la precarietà si sia diffusa. Per cui il combinato disposto è il prolungamento dell'età pensionabile, la messa in discussione dei diritti contrattuali dei lavoratori nei settori industriali strategici a partire dai lavoratori della Fiat, un aumento esponenziale delle diseguaglianze e perdita del potere d'acquisto di salari, stipendi e pensioni. Dunque, il problema non è quello di attendersi il colpo di maglio sull'articolo 18 ma sarebbe quello di mettere mano a delle politiche del lavoro che costituiscono una  via d'uscita a quelle finora perseguite".
Il Pd su questo argomento è molto diviso. Nel partito aumentano i sostenitori della proposta Ichino volta a introdurre il contratto unico. Lei che cosa ne pensa?
"Mi astengo dal giudizio sulle forze politiche perché non è il mio cimento di questo periodo visto che mi occupo di ricerca e di cultura politica e un mio giudizio sui partiti sarebbe incongruo. Nel merito il contratto unico nella proposta Ichino contiene degli elementi negativi molto visibili".
Quali?
"In primo luogo prevede l'indiretta e pure decisiva messa in discussione dell'articolo 18 che verrebbe messo fuori campo in tutto il periodo di tre anni di assunzione con possibilità di licenziamento diretto. In secondo luogo si chiama contratto unico, ma unico non è perché coabiterebbe con contratti a termine, con quelli stagionali e con altro ancora. Se fosse unico, ovvero se cancellasse tutte le fattispecie di contratti a termine ci potrebbe essere un terreno di discussione. Invece nella proposta del senatore ichino c’è di sicuro la morte dell'articolo 18 e ci sarebbe totalmente incerta la scomparsa del lavoro precario. Anzi ci sarebbe la coesistenza tra un'altra forma di precarizzazione e quelle preesistenti".
Passando agli scenari politici. E' possibile che Pd-Pdl e Terzo Polo si presentino insieme alle prossime Politiche?
"Non lo so. Quello che so è che il governo Monti non può essere considerato una parentesi ma invece come un esecutivo costituente che forma cioè delle nuove realtà sia sul terreno economico-sociale sia su quello politico istituzionale. Credo che la geografia politica italiana con cui si andrà al voto nel 2013 sarà totalmente diversa da quella che c'era prima del governo Monti. In ogni caso mi sembra evidente che la Seconda Repubblica è morta"
Anche le primarie sono morte?
"Quello che è morto è il Centrosinistra. Le primarie no, si possono sempre fare. Sarebbe utile farle per lo schieramento che in quel caso avesse bisogno per questa  via di formare dei candidati alla rappresentanza politica ma anche per contenuti programmatici. Diciamo che le primarie possono essere una modalità di selezione dei rappresentanti che merita di essere sviluppata. Ripeto, è il Centrosinistra ad essere  morto".
 
Daniele Riosa, http://affaritaliani.libero.it

martedì 20 dicembre 2011

L'articolo 18 tra fatti e propaganda di CARLO CLERICETTI, La Repubblica

IL fatto che in una situazione economica drammatica come quella che stiamo vivendo si senta il bisogno di riaccendere lo scontro sociale tentando di nuovo l'affondo contro l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è quantomeno stupefacente. Conviene ricapitolare di che cosa si sta parlando, perché c'è il rischio, nel tourbillon delle polemiche, di dimenticare l'esatto motivo del contendere.

Chi dice che "in Italia non si può licenziare" mente sapendo di mentire. L'articolo 18 vieta esclusivamente i licenziamenti individuali, cioè di quella particolare persona, "senza giusta causa o giustificato motivo". Qualora ciò avvenga si può ricorrere al giudice del lavoro che, se non riscontra la giusta causa, dispone il reintegro nel posto di lavoro; altrimenti il licenziamento resta valido. Nei ruggenti anni '70 i magistrati tendevano a dar quasi sempre ragione al lavoratore, anche contro l'evidenza dei fatti (colpa comunque non della norma in sé, ma di come era applicata). Ma l'aria è cambiata da un pezzo, tanto nel paese che tra i magistrati, e oggi l'esito di queste cause non è affatto scontato. Quindi, licenziare una persona si può, se ci sono giusta causa o giustificato motivo.

Lo Statuto dei lavoratori si applica soltanto nelle aziende che abbiano più di 15 dipendenti, quindi riguarda circa la metà dei lavoratori dipendenti. E' stato affermato più volte, in passato, che questo costituisce un freno alla crescita dimensionale delle imprese,
che è uno dei problemi della nostra economia. E' semplicemente falso: se così fosse, si dovrebbe riscontrare una discontinuità nel numero delle aziende per classe dimensionale, con un addensamento appena sotto i 15 dipendenti (quelle che "non crescono" per non ricadere nell'applicazione dello Statuto). Invece nessun dato conforta questa affermazione. Quanto ai licenziamenti per motivi economici  -  cioè perché l'azienda è in difficoltà  -  si possono fare eccome, come tutti purtroppo hanno potuto constatare specialmente da quando è scoppiata questa ultima crisi.

Uno degli argomenti più singolari in favore dell'abolizione, che l'ex presidente di Confindustria Antonio D'Amato aveva all'epoca ripetuto più volte, è che "se un imprenditore scopre che la moglie lo tradisce con un suo dipendente non ha la possibilità di licenziarlo". Ora, delle due una: o questi casi sono frequenti, e allora forse gli imprenditori dovrebbero fare più attenzione a chi sposano, oppure, come sembra più probabile, qualche caso del genere sarà pure accaduto, ma non si vede perché qualche evento casuale e sporadico dovrebbe essere ritenuto sufficiente per eliminare una norma che garantisce tutti rispetto a una cosa assai più seria, come l'eventuale arbitrio del datore di lavoro.

Ma al di là di queste motivazioni folcloristiche, che però testimoniano la pochezza delle argomentazioni degli "abolizionisti", nessuno ha mai dimostrato perché mai la possibilità del licenziamento individuale andrebbe a favore di chi il lavoro non ce l'ha o subisce la piaga del precariato. Nessuno ha mai spegato perché mai sarebbe questa la via per far aumentare i posti di lavoro.

L'argomento oggi più utilizzato per sostenere l'abolizione è quello del "dualismo" del mercato del lavoro, diviso tra coloro che sarebbero "iperprotetti" e coloro invece che sono privi di tutte o quasi le protezioni. In quest'ultima condizione si trova la maggioranza dei giovani, il che permette di sostenere un'altra tesi insensata, e cioè che le garanzie conquistate dai padri vanno a scapito dei figli.

Si tratta, appunto, di nient'altro che pessima propaganda. A prescindere dal fatto che, come si è ricordato, circa la metà dei dipendenti non è coperta dallo Statuto dei lavoratori (e certo non sono tutti giovani), c'è un motivo molto semplice per la prevalenza tra i giovani delle forme di contratto precarie: la "Legge Treu", ossia il primo pacchetto di norme che ha introdotto varie tipologie di contratti diverse da quello fino ad allora standard, ossia il contratto a tempo indeterminato, è relativamente recente, del 1997. Le tipologie sono state ulteriormente aumentate dalla legge 30 del 2003 (quella impropriamente definita "Legge Biagi": altro colpo propagandistico). Da allora sono state utilizzate prevalentemente queste forme contrattuali, ed è ovvio che vi siano incappati coloro che entravano sul mercato del lavoro, appunto i giovani.

Ma perché questi nuovi contratti (che sono un numero abnorme: ben 46, come ricorda la Cgil) sono così tanto preferiti al vecchio? Il primo e più importante motivo è che costano molto meno. In molti casi non si ha diritto a ferie, e nemmeno alla malattia. Il carico contributivo, che per i contratti a tempo indeterminato è all'aliquota del 33%, per questi contratti all'inizio era addirittura al 10, e poi negli anni è stata progressivamente aumentata ed è arrivata (dal 2010) al 26,72%, comunque ancora meno di quella standard. Ovviamente, essendo tutti contratti a termine, consentono la massima flessibilità nell'uso della forza lavoro senza alcun problema né normativo né economico.

Questi "contratti senza diritti" hanno favorito o no un boom dell'occupazione? Proviamo ad esaminare qualche dato. Tra il '97 e il 2008 (inizio della crisi e massimo storico dell'occupazione) gli occupati sono cresciuti di 3,225 milioni. Ricordiamo che gli "occupati", secondo la definizione Istat (dalle cui serie storiche sono stati estratti questi dati), sono coloro che hanno svolto almeno un'ora di lavoro retribuito nella settimana della rilevazione. Prendiamo un altro periodo di 11 anni, cominciando dal 1970, anno di entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori: tra il '70 e l'81 l'aumento è stato di 1,425 milioni, meno della metà. Naturalmente stiamo valutando questa variazione alla luce di una sola variabile, quella dei cambiamenti contrattuali (e peraltro solo i più rilevanti) senza considerare tutti gli altri aspetti della congiuntura che possono aver pesato. Ma insomma, se si afferma che il problema più serio è l'articolo 18, almeno per avere un'idea è legittimo farlo.

Confrontiamo ora un altro dato, le unità di lavoro. In questa definizione le posizioni lavorative a tempo parziale, principali o secondarie, sono aggregate in modo da formare posizioni a tempo pieno. Quindi si conta, in questo caso, quanti posti di lavoro a tempo pieno ci sono. Dal '97 al 2008 le unità di lavoro sono aumentate di 2 milioni e 268.000. Ma la "tara" di questa cifra è costituita innanzitutto dalla grande ondata di regolarizzazione degli immigrati (circa 700.000); e poi si può supporre che sia stata in questo modo regolarizzata una qualche quantità di lavori che altrimenti sarebbero rimasti in nero: effetto non disprezzabile ma certo non una svolta epocale. Vediamo ora cosa è successo tra il '70 e l'81. Le unità di lavoro sono aumentate di 2 milioni e 110.000: quasi la stessa quantità, e senza regolarizzazioni di immigrati, nonostante l'entrata in vigore del "terribile" articolo 18.

Che cosa se ne può concludere? Che  i 46 nuovi tipi di contratti "precari" non hanno generato una creazione di posti di lavoro (quelli li crea la crescita, non le regole contrattuali), ma hanno solo sparpagliato su più persone pezzi di lavoro peggio retribuito ed assistito.

Ma almeno, questo grande aumento della flessibilità nell'uso del lavoro è andato a vantaggio della competitività? Anche in questo caso la risposta è negativa, come tutti sanno. Peraltro, è anche noto che la produttività delle imprese è direttamente correlata alla loro dimensione, ossia sono le più grandi ad essere più produttive. Le più grandi: ossia quelle in cui si applica lo Statuto dei lavoratori con il suo bravo articolo 18. Il che dovrebbe far venire per lo meno qualche dubbio sul fatto che l'uso del fattore lavoro sia l'elemento determinante rispetto a produttività e competitività.

E dunque: è giustissimo proporsi di eliminare il dualismo del mercato del lavoro, ma non è stato finora avanzato un solo motivo valido a sostegno del fatto che ciò debba avvenire riducendo i diritti di quella parte che li ha ottenuti con un lungo e travagliato processo storico. L'unico motivo a cui si può pensare è  -  non a caso  -  non detto. Che cioè la libertà di licenziamento possa servire per liberarsi progressivamente dei lavoratori più anziani (quelli stessi a cui si è appena elevata l'età di pensionamento), che hanno il difetto di aver maturato retribuzioni mediamente più elevate, assumendo al loro posto i giovani "a basso costo". Se è così si capirebbe che cosa voglia effettivamente dire che "la protezione dei padri toglie il lavoro ai figli". Ma certo l'impatto psicologico è un po' diverso.

C'è comunque in tutto questo un altro fattore davvero singolare. Non è mai stata la Confindustria  -  tranne ai tempi del berlusconiano D'Amato  -  a guidare la crociata contro l'articolo 18. Questo è un tema caro alla cultura di destra, con l'appoggio di alcune personalità che, pur collocandosi nello schieramento di centro-sinistra, di quella cultura hanno evidentemente subito l'egemonia culturale. Anche questo dovrebbe far sorgere qualche dubbio sulla rilevanza per l'economia dell'articolo 18. Si spera che il governo dei tecnici rifletta bene prima di impegnarsi in questa battaglia.

Costi della politica/ Dal Consiglio regionale stop ai vitalizi, ma dal 2015

PERUGIA - Approvata a larga maggioranza dal consiglio regionale dell'Umbria la legge predisposta dall'ufficio di presidenza della stessa assemblea in cui si dispone l'abolizione degli assegni vitalizi dei consiglieri regionali. E' sulla data di decorrenza di questa disposizione che si e' sviluppato il confronto, con due forze dell'attuale maggioranza che governa l'Umbria - Rifondazione comunista ed Italia dei valori - a favore di una proposta di legge alternativa, presentata dallo stesso Prc, che disponeva il taglio dei vitalizi gia' dall'attuale legislatura e non dalla prossima (cioe' a partire dal 2015) come prevede invece la legge approvata oggi (con il consenso di Pd, Pdl e altri gruppi).
Con Idv e Prc ha votato per lo ''stop'' da subito anche il consigliere regionale umbro della Lega Nord, Gianluca Cirignoni. Respinti invece gli emendamenti (Idv e Prc) miranti tra l'altro ad introdurre il divieto di cumulo tra vitalizi erogati derivanti da diverse funzioni elettive.
L'Umbria e' l'ottava Regione italiana ad abolire i vitalizi. Il testo approvato (predisposto dall'ufficio di presidenza ma non siglato, ovviamente, da Orfeo Goracci, del Prc, firmatario della proposta del Prc) e' stato modificato in aula con l'approvazione degli emendamenti presentati dallo stesso ufficio di presidenza: riguardano l'adeguamento del vitalizio in base agli indici Istat ''sospeso fino al 31 dicembre 2014 ad esclusione degli assegni vitalizi inferiori ai 1.400 euro''.
Respinti invece gli emendamenti presentati da Italia dei valori e Rifondazione comunista, miranti tra l'altro ad introdurre il divieto di cumulo tra vitalizi erogati derivanti da diverse funzioni elettive. Su questo punto Paolo Brutti, dell'Idv, non ha partecipato al voto in quanto ''in conflitto di interessi'' (come ex parlamentare) mentre Orfeo Goracci (anche lui ex parlamentare) ha annunciato voto favorevole, pur ritenendosi ''direttamente ed unicamente colpito dalla previsione della norma''.
Il testo della legge - come detto - prevede che l'assegno venga abolito a decorrere dalla prossima legislatura. Manterranno il diritto all'assegno (al compimento dei 65 anni) i consiglieri gia' cessati dal mandato o in carica nella legislatura attuale che abbiano corrisposto i relativi contributi per almeno cinque anni. Questi stessi soggetti potranno optare per il mantenimento del diritto all'assegno oppure chiedere la restituzione in un'unica soluzione dei contributi complessivamente versati.
L'ammontare mensile del vitalizio e dell'assegno di reversibilita' sara' aggiornato annualmente sulla base dell'indice Istat. Infine i consiglieri regionali che hanno gia' svolto il mandato per una legislatura potranno chiedere l'anticipazione dell'indennita' di fine mandato maturata nelle legislature precedenti: la richiesta dovra' essere motivata da motivi di salute o dall'acquisto della prima casa e subira' una decurtazione del 10 per cento.
 
da www.umbrialeft.it

domenica 18 dicembre 2011

Ci stanno prendendo gusto... di Claudio Conti, www.contropiano.org

Altre bastonate in arrivo. Per facilitare l'individuazione delle aree redditali su cui si ta meditando di colpire, abbiamo preso questo articolo dalla Repubblica di oggi e abbiamo provato a decodificare l'intenzione. Speriamo di ver fatto un lavoro utile per voi. 

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Ora tocca ai tagli di spese. Scure sugli sconti fiscali

L'obiettivo è trovare risorse per aiutare i disoccupati. Dalle palestre ai veterinari agli oneri funerari, ecco le agevolazioni da disboscare. Iva, aumento evitabile. Monti e Giarda aprono un nuovo dossier sui conti pubblici, ma con l'impegno a distinguere gli sprechi dalle spese necessarie. Verranno rivisti federalismo fiscale e patto con i Comuni

di ROBERTO PETRINI
ROMA - Dopo tasse e pensioni ora tocca alla spesa pubblica e alle agevolazioni fiscali. Appena incassato il via libera definitivo alla manovra è già in agenda un appuntamento che coinvolgerà il presidente del Consiglio Monti e i maggiori ministri economici, da Giarda a Passera, per aprire il dossier spesa pubblica. Due le misure sul tavolo: blocco dell'aumento della spesa primaria al 50 per cento della crescita del Pil e sfoltimento dei 720 sconti fiscali, tra famiglie e imprese, che costano al nostro sistema 253 miliardi. Oltre a una stretta su beni e servizi e sprechi vari. Nel complesso, sul versante della spesa, si potrebbero risparmiare circa 10 miliardi aggiuntivi.
Un record per le spese
Sul tavolo dell'incontro una tabella con cifre impressionanti: al netto delle pensioni e degli interessi la spesa pubblica italiana ha raggiunto i 480 miliardi di euro. Troppo per essere sostenibile e troppo sperequata per aderire a tutti i crismi dell'equità. La montagna della spesa non fa neppure differenze o discriminazioni tra centro e periferia: è distribuita - secondo le ultime osservazioni del governo - al 50 per cento tra amministrazione centrale e Regioni-Comuni-Province.
Redazione. La regola prima dell'”emergenza” è ingigantire un problema in modo da renderlo irrisolvibile con gli strumenti normali. Quindi si passa a una proposta di soluzione assolutamente “semplice”, in stile Calderoli “ministro della semplificazione”. La seconda regola, tipica di questo governo di furbastri sussiegosi, è anteporre la parola “equità” al colpo d'ascia che stanno per calarti sulla testa. In questo lavoro sporco, naturalmente, Repubblica dà il meglio di sé.

La regola del 50%
La cornice all'interno della quale si muoverà il governo per aggredire la spesa pubblica, al netto delle pensioni sulle quali si è già operato, è quella della spending review, cioè la selezione tra sprechi e spese necessarie. Ma in mano all'esecutivo, votato con l'ultima legge di Stabilità che porta la firma dell'ex ministro Tremonti del settembre scorso, c'è anche il cosiddetto emendamento Morando, dal nome del senatore del Pd che l'ha presentato e fatto approvare dall'assemblea di Palazzo Madama, e che ora il governo Monti vuole rendere immediatamente operativo. La norma prevede che la spesa primaria del bilancio dello Stato non possa aumentare in termini nominali (cioè inflazione compresa) più del 50 per cento della crescita del Pil stimata dal Documento di economia e finanza. Una vera e propria mordacchia ai conti pubblici che, unita al pareggio di bilancio inserito in Costituzione, renderà stazionario lo stato dei conti pubblici italiani.
Redazione. La soluzione è così “semplice” che veramente uno è costretto a chiedersi come mai nessuno ci avesse pensato prima. Un po' come al bar dei leghisti, dove senti dire che per risolvere i problemi del paese basta mandar via gli immigrati e staccare la spina a quelli del Sud. La riduzione dell'aumento della spesa pubblica al 50% della crescita del Pil somiglia terribilmente ai “tagli lineari” di Tremonti. Non si distingue affatto tra spesa utile e spesa inutile (15 miliardi per comprare aerei militari dagli americani come dobbiamo classificarli?), ma si procede col fissare un tetto e poi andare a vedere cosa eliminare. Spending review (la revisione della spesa, insomma) avrebbe una logica se fosse selettiva e coerente con un disegno. E abbiamo il dubbio – fortissimo – che il disegno ci sia, ma non si voglia affatto esplicitarlo. Ma intanto, come dice l'esimio collega del prestigioso giornale, si mette la mordacchia alla spesa. Ovvero: mettiamo in cantina Keynes, facciamo stringere la cinghia a qualcun altro e vediamo poi come va a finire.
Federalismo da rivedere e nuovo patto con i ComuniMa non basta: il governo sta studiando tre mosse che comportano un'azione pressante e coordinata. Il primo fronte si chiama federalismo fiscale: spinto a tappe forzate dalla Lega nella prima parte del 2011 ora, anche in vista dei nuovi equilibri politici, dovrà essere rivisto. Il secondo fronte si chiama "tagli lineari": serve un intervento per modificare la tecnica "proporzionale" e indiscriminata adottata da Tremonti per tagliare la spesa pubblica che ha ormai "congelato" bilanci di enti e amministrazioni costretti ad incorporare le nuove regole. Terzo fronte, il patto di stabilità interno: i Comuni hanno avuto parte delle risorse per l'aumento delle imposte e l'introduzione della tassa sui servizi, ma resta la necessità di rivedere pesi e impostazioni.
Redazione. Qui non c'è scritto nulla di più di un intento. Se il diavolo si nasconde nei dettagli, occorrerà vedere le modalità concrete di applicazione di questa intenzione.
Meno agevolazioni e si evita l'IvaA completare il quadro dell'agenda delle prime settimane dell'anno, che sarà oggetto della ricognizione governativa tra Natale e Capodanno, c'è il taglio delle agevolazioni fiscali eccessive, inutili o che si sovrappongono ad analoghe provvidenze assistenziali Inps. La norma è nata sotto l'emergenza dell'estate scorsa e prevedeva, nel caso di mancata attuazione, l'introduzione automatica e indiscriminata di tagli lineari del 5 per cento fin dal prossimo anno. Il governo, considerando i tempi assai stretti per attuare la delega, l'ha accantonata e coperta per ora con l'aumento dell'Iva che scatterà da ottobre. Ma l'intenzione dell'esecutivo è quella di evitare l'aumento dell'Iva (o di ridimensionarlo) e di approvare in tempi rapidi la legge di riforma del fisco, praticando tagli selettivi delle agevolazioni fiscali per circa 3-4 miliardi. Senza sacrificare quelle basilari, come le detrazioni per figli e lavoro dipendente.
Redazione. E qui si comincia a cedere qualcosa. “Taglio delle agevolazioni fiscali eccessive” e delle “previdenze assistenziali Inps”. Il gioco di Tremonti (taglio lineare) viene confermato e aggravato. Che le agevolazioni fiscali siano tante e molto poco “eque” lo diciamo tutti; quali eliminare è questione “di classe”. Si riducono quelle per le imprese o quelle per i lavoratori? Insomma, si vanno a rivedere le detrazioni per i figli a carico, le spese mediche, gli interessi sul mutuo, oppure gli sconti a pioggia per le aziende? In assenza di queste precisazioni, di che stiamo parlando?

Più ammortizzatoriCon i risparmi che arriveranno dal taglio delle agevolazioni si dovrebbe finanziare la riforma dell'assistenza e degli ammortizzatori sociali, per aiutare soprattutto i disoccupati. La giungla degli sconti sui quali il governo si propone di operare è enorme: dalla Commissione presieduta dall'attuale sottosegretario all'Economia Vieri Ceriani è emerso che nel nostro sistema ci sono 720 agevolazioni fiscali che costano allo Stato 253 miliardi.
Redazione. Terza regola dell'emergenza: tutto ciò lo facciamo per aiutare chi soffre... Ridurre assistenza e agevolazioni per “aiutare i disoccupati” è uno slogan di merda. L'unica cosa vera sono i tagli, sul merito dei quali nulla viene detto di preciso, tranne la “dimensione abnorme” che giustifica da sola un intervento terrorizzante.

I doppioni Fisco-InpsMa soprattutto è la confusione che regna. Per detrazioni per abbonamenti a bus e metro, per palestre, per spese funebri bisogna rivolgersi al Fisco. Per esperimenti come la social card per anziani indigenti, oppure bonus bebè da 1.000 euro per i nuovi nati, bisogna bussare all'Inps. Fisco e assistenza, erario e Inps sono due torri di Babele. Dove, nel corso degli anni, si sono cumulate detrazioni con finalità assistenziali che spesso si sovrappongono con analoghi e simili interventi ad erogazione diretta da parte dell'Inps. Di fatto due Welfare. Che camminano ciascuno per conto proprio.
Redazione. Come sono razionli e ragionevoli, questi professori... La realtà è indubbiamente questa: due insiemi (fisco e Inps) ben poco coerenti, con larghe aree di sovrapposizione. Ma in questi insiemi ci sono “elementi strutturali” ed elementi di propaganda dei passati governi. Facciamo degli esempi. Le pensioni sono un elemento strutturale, così come le detrazioni fiscali per le spese mediche. Le quali, tra l'altro, incentivano la richiesta della fatturazione e quindi aiutano il fisco ad aumentare le entrate, a monitorare la formazione del reddito in determinate aree professionali e quindi a ridurre l'evasione. Questo tipo di detrazioni sono dunque “virtuose” e andrebbero semmai moltiplicate (estendendole ad altri consumi, come per esempio l'idraulico o i libri, sul modello francese e tedesco), non ridotte. Altre cose come la social card, invece, sono solo uno specchietto per allodole inventato da Tremonti e che non è servito affatto a migliorare la condizione dei pensionati poveri, trasformandosi in un business supplementare a favore dei vari intermediari (banche, ecc). Disboscare dunque si può, accorpando ed eliminando. Ma il sospetto, anche qui, è che sotto la melassa discorsiva della “razionalizzazione” ci sia un molto visibile intento di riduzione delle prestazioni sociali a favore dei redditi più scarsi.

La giungla degli sconti fiscaliDentro questo marasma - che prevede circa 80 voci di agevolazioni nella denuncia dei redditi - c'è di tutto. Alcune fanno sorridere come quella per le cure veterinarie di cani e gatti di cui beneficiano 60 mila amici degli animali. Altre sono duplicazioni come le agevolazioni per le donazioni alla Biennale di Venezia o all'Ospedale Galliera, ottime istituzioni ma che comunque potrebbero beneficiare del sistema più moderno del 5 per mille. Ma ci sono poi aiuti ben più importanti e gettonati, come quelli per i mutui prima casa (ne beneficiano 3,8 milioni di contribuenti) e quelli per le assicurazioni sulla vita e contro gli infortuni (6,6 milioni di contribuenti). O ancora quelli sulle spese sanitarie: sono 18 milioni gli italiani che le detraggono regolarmente dalle tasse, e sarà difficile intervenire qui. Dove si pensa di affondare la lama è sulle agevolazioni Iva e quelle sulle accise (che ad esempio facilitano autotrasporto e traffico aereo).
Redazione. E qui si vede chiaro l'intento... Tutte le detrazioni elencate sono di tipo “virtuoso”, ovvero incentivano l'emissione di fattura e fanno salire il gettito. Eliminarle sarebbe un'idiozia criminogena (aumenterebbe l'evasione); ridurne la portata (per esempio portando da detrazione dal 19% al 15 o addirittura al 10) sarebbe un'idiozia doppia: si colpirebbe il reddito di chi già è obbligato a spendere molto (es. in cure mediche) e smonterebbe il “conflitto di interesse” tra possibile emittente fattura e cliente interessato alla detrazione.

sabato 17 dicembre 2011

J'ACCUSE/ Bertinotti: l'operazione-Monti, un "golpe" dell'Europa e della sinistra


J'ACCUSE/ Bertinotti: l'operazione-Monti, un golpe dell'Europa e della sinistra 


Quali sono le condizioni che rendono necessario lo “stato d’eccezione”? Ma soprattutto chi stabilisce che si siano realizzate e ha quindi la facoltà di “sospendere” la democrazia? Sui grandi giornali il dibattito si riaccende mentre il governo Monti si appresta a far approvare dal Parlamento una manovra da 30 miliardi.
Fausto Bertinotti, già leader di Rifondazione Comunista, ha le idee chiare in merito, come spiega nell’ultimo numero della rivista Alternative per il socialismo, dal titolo “Rompere il recinto”.
«Chi definisce e governa lo stato d’eccezione (che tra l’altro tende a diventare regola) è il “sovrano”, oggi rappresentato dal potere tecnocratico. Una sorta di organizzazione neobonapartista europea attraverso la quale la borghesia sta riprendendo in mano il comando della società e dell’organizzazione statuale, nazionale e sovranazionale. Oggi, in pratica, stiamo vivendo la fase costituente di un’Europa post-democratica – dice a IlSussidiario.net l’ex Presidente della Camera –. Un regime neoautoritario che definisce i suoi connotati attraverso la cesura con il ciclo democratico. È comunque la coda di un lungo processo, non un colpo di maglio delle ultime settimane».

Secondo la sua analisi quando avrebbe avuto inizio tutto ciò?

È una tendenza che ha avuto origine a partire dall’ultimo quarto di secolo e che si è aggravata con il successivo sviluppo della crisi del capitalismo finanziario globalizzato che ha interrotto la sua spinta ascensionale per entrare in una nuova fase dominata dall’instabilità e dall’incertezza.
In questo periodo, il processo attraverso cui le costituzioni materiali avevano logorato progressivamente l’eredità delle carte costituzionali europee, ha compiuto un salto di qualità portando alla progressiva riduzione della democrazia a tecnica di governo. Si è affermato così il primato della governabilità, una controrivoluzione culturale e istituzionale che ha dato luogo allo svuotamento della democrazia rappresentativa. Il risultato? Un potere sovranazionale privo di legittimazione democratica che, nel precipitare della crisi, si è attribuito addirittura il carattere di sovrano (o di tiranno), proclamando lo “stato d’eccezione”.

Ed è ciò che è avvenuto nel nostro Paese, secondo lei?

Certo, in questo caso possiamo parlare di “golpe bianco”. D’altronde, se la Bce arriva a definire esplicitamente il confine entro cui si può esercitare l’arte di governo significa che il potere è stato ormai ceduto a “podestà forestiere”, come scriveva lo stesso Mario Monti quando vestiva ancora i panni dell’editorialista.
I premier sono così ridotti al ruolo di “proconsoli”, o di “sacerdoti”, del governo centrale.

Monti sarebbe quindi il console di un’Europa neo-autoritaria?

Sì, al pari degli altri leader europei. Chi infatti ha provato a “ribellarsi”, appellandosi alla democrazia, come George Papandreu, è stato destituito.
L’“operazione Monti”, ad ogni modo, è stata molto raffinata.  Il professore, infatti, ha tutte le caratteristiche per essere parte integrante dell’establishment europeo e non solo uno dei suoi bracci. È uno degli “ottimati” che hanno preso in mano il governo dell’Europa secondo uno schema molto semplice: o la nostra politica o il caos.

In questa fase però ha avuto un ruolo centrale anche il Presidente della Repubblica.
Questo è innegabile. Credo però il Capo dello Stato sia stato mosso da un’ispirazione politica: il “terrore dell’orrore”, o la “paura del vuoto”.
Ha scelto la continuità: la cessione di sovranità al governo europeo, infatti, era già incipiente durante il governo Berlusconi e il Presidente della Repubblica ha soltanto assecondato una tendenza.

Ma ha ragione Piero Sansonetti quando dice che la sinistra italiana, pur di liberarsi di Silvio Berlusconi, ha permesso che si verificasse il suo superamento a destra?

Anche questo processo si può comprendere se si parte da più lontano. Dagli anni Novanta, infatti, la sinistra ha commesso l’errore di adottare la globalizzazione come storia naturale e non come processo politico determinato da rapporti sociali, in cui ci sono interessi colpiti e interessi esaltati. Diciamo che ne è rimasta abbagliata, convinta di essere titolata a governarla sulla base di un’adesione di fondo e di una liberazione dai quei vecchi lacci che la imprigionavano.

Come ad esempio?

Mi riferisco allo smarrimento della lettura di classe della società, all’incapacità di usare termini come “padrone”.
Questo ha fatto sì che quando è arrivata una borghesia politica che ha saputo presentarsi con tutti i crismi e senza più elementi patologici e distorcenti, anzi, con il suo statuto e l’orgoglio di classe dominante, la sinistra si sia ritrovata prigioniera dello stato d’eccezione.
Oggi la lotta di classe continua, ma si è rovesciata. La conduce la borghesia che tenta di espugnare quei terreni che gli erano stati sottratti, dal compromesso sociale europeo al welfare.

Ma cosa intende dire quando invita la sinistra ad abbattere il “recinto”?

Il “recinto” è l’organizzazione di un muro politico e istituzionale che separa ciò che il sistema considera parte della governance da quello che ne viene escluso.
Se il recinto si assesta definitivamente la sinistra è morta. Sia quella che sta al suo interno, uccisa nella sua ispirazione fondamentale, sia quella che resta fuori, condannata a un ruolo ininfluente di protesta.
Il potere, infatti, è sempre più impermeabile alle lotte e tende a costruire decisori che non abbiano più il problema del consenso.

È questa la sfida che, secondo lei, attende le diverse forze della sinistra, dentro e fuori il Parlamento? 
Non voglio entrare nel campo della direzione politica che oggi spetta a chi ha delle responsabilità in tal senso. Dico però che all’interno delle forze politiche della sinistra c’è da sperare che ci sia una mobilitazione di energia. L’obiettivo che ho indicato si può conseguire al di là del partito in cui si milita, a patto però che vengano scelti i movimenti come baricentro politico.
La centralità dei partiti infatti è finita, come hanno dimostrato i referendum sull’acqua e sul nucleare, sindacati come la Fiom o gli Indignados. Sono questi i soggetti essenziali della costituente democratica, che possono opporsi a quella neoautoritaria.

E se l’obiettivo fosse raggiunto ne gioverebbe anche la democrazia?

Certamente. La democrazia, la politica e la sinistra sono morte insieme. Simul stabunt, simul cadent vale anche quando c’è da ricostruire...
 
Carlo Melato, http://www.ilsussidiario.net

Per un populismo di sinistra

Italia, Paese bello, ma disgraziato. Almeno tre disgrazie “politiche” ci sono toccate in sorte. La prima, e indubbiamente peggiore, una destra eversiva, razzista e mafiosa, madrina dell’evasione fiscale e dei predatori di ogni genere, e che oggi con il suo nume tutelare Berlusconi riscopre apertamente le affinità e le simpatie con Mussolini.

La seconda, un centrosinistra smidollato e decerebrato, incapace di fare gli interessi anche solo della sua base elettorale, pronto ad accorrere a “salvare la patria” ingoiando qualsiasi ricetta sia propinata, incline in taluni casi alla corruzione e a gioire comunque dei privilegi della casta.

La terza, una sinistra “aristocratica”, che ha perso anch’essa i legami con il popolo e non trova nulla di meglio da fare che arricciare il nasino di fronte al “populismo”.

Per quanto riguarda questo concetto, ha ragione da vendere Marco d’Eramo (ne il Manifesto di oggi), ricordando il grande esempio di Roosevelt, un presidente statunitense che fu tacciato all’epoca di populismo per aver adottato misure favorevoli alle grandi masse e contrastato quella che all’epoca era la dittatura dei monopoli industriali. Populisti di questo genere sono oggi in America Latina presidenti combattenti come Chavez, DilmaCristina, Morales, Correa, anche loro meritano l’infame appellativo perché mettono gli interessi del popolo di fronte a quelli del capitale finanziario.

Tempi cupi ci aspettano
. Tempi di recessione agevolata dalle politiche dissennate dell’Unione europea ad egemonia tedesca. La Confindustria prevede la perdita di ottocentomila posti di lavoro. Si può determinare un clima difficile, di cui gli episodi di razzismo avvenuti a Torino e a Firenze potrebbero costituire solo gli antipasti. Come scrive Marco Pagani, in un pregevole saggio sulla crisi greca che ospitiamo nel libro “Finanza, crisi e diritto”, in corso di pubblicazione presso Aracne, “Quando un popolo umiliato, sommerso da debiti che non sono sentiti né come giusti né come propri, viene privato delle possibilità di rialzarsi e della propria sovranità le reazioni possono essere pericolose”.

Scelte coraggiose di stampo “populista” seguendo l’esempio di Roosevelt e dei leader sudamericani rappresentano oggi l’unica speranza per l’Europa e per il nostro Paese in particolare. Occorre augurarsi che si costituisca al più presto, attorno a figure come Luigi De Magistris, Antonio Di Pietro, Paolo Ferrero, un fronte di sinistra all’altezza delle sfide incombenti. Che Vendola abbandoni machiavelliche ipotesi di elezione alle primarie e si allei anch’esso a questo fronte. Che il Partito democratico si liberi della sua casta e che personaggi come D’Alema, Veltroni, Letta junior, Renzi, etc. vadano finalmente a rimpolpare il Terzo Polo seguendo l’antesignano Rutelli, sprigionando le molte energie sane che questo Partito tuttora racchiude. E soprattutto che si sviluppi un forte movimento di massa sulle questioni concrete: lavoro, casa, acqua, ambiente, precariato, reddito, pace, ecc., e che tale movimento sia in grado di “dare la linea” alle rappresentanze politiche. Per costruire l’unico bipolarismo che vale la pena di fare: quello fra il 99% degli sfruttati e l’1% degli sfruttatori.

I prossimi mesi saranno decisivi. Da una crisi come questa si esce a destra o a sinistra. La via d’uscita di destra però è illusoria e porta solo a miseria, dittature, guerre e razzismo. Quindi bisogna essere di sinistra se si vuole bene al nostro Paese e all’umanità. Ma esserlo sul serio e fino in fondo.