martedì 31 dicembre 2013

Scontro su urbanistica e centri commerciali


Di Luca Benedetti - da Il Messaggero del 30-12-2013
PERUGIA - È appassionato di calcio e sa come affondare il tackle. Stefano Vinti, assessore regionale alla casa arrota i tacchetti e mette i piedi nel piatto. Osserva cosa sta succedendo in via Settevalli e apre un fronte caro al Prc: quello dell’urbanistica che passa anche per i centri commerciali e il destino dell’acropoli.
“Premetto – dice Vinti – che non sono contro l’iniziativa dell’imprenditore. Ma far realizzare un nuovo polo commerciale a settanta metri dall’Emisfero mi sembra un assurdo. Così accade che in quell’area di Perugia si cancella un campo da calcio storico per realizzare un complesso religioso a pochi metri da un santuario e si cancella un boschetto per far costruire una casa di riposo privata. Il nodo non sono le mosse degli imprenditori, ma la mancata programmazione che squilibra la città”.
Vinti guarda alla periferia, ma il suo chiodo fisso è il centro storico. Ancora l’assessore del Prc: “Gli effetti di questi tre esempi sono duplici. Da una parte si cementifica un quartiere che perde identità, dall’atra si crea un assedio di iper e supermercati alla città che mi ricorda l’assedio di Augusto a Perugia. Oramai si va verso un modello che caratterizza la città: il consumo e il tempo libero intorno ai luoghi di consumo. Ed è logico, allora, che l’acropoli sia diventata un fatto marginale, un luogo sempre meno sociale. Dove ci sono residenti che resistono e studenti universitari che hanno luoghi e percorsi diversi, che non si incontrano”.
Come se dentro l’acropoli si trovassero due minoranze di un pezzo di città che va dall’altra parte. Per l’assessore regionale il punto chiave è il rilancio del centro storico. Ancora Vinti: “il punto critico irrisolto è la crisi del centro storico che deve, per essere superata, passare attraverso interventi innovativi che abbiano una visione strategica. Bene la partita della capitale europea, va bene l’ex carcere utilizzato come incubatore di start-up. Ma è necessario altro. Per esempio: politiche fiscali che permettano di rendere appetibile il centro. Chi apre un negozio otterrà uno sconto sulle tasse locali se garantisce contratti in regola e la chiusura domenicale. E poi perché non dare la possibilità di portare in centro le imprese digitali? Sono gli artigiani del nuovo millennio, possono benissimo aprire in centro. Per fare questo serve una città  smart. Dove diventa strategica una politica abitativa che favorisca le giovani coppie”.
Vinti ricorda l’operazione sulla Torre degli Sciri (12 appartamenti quasi pronti proprio per le giovani coppie) e apre un fronte: “serve un protocollo tra Governo, Comune, Regione e privati per ristrutturare spazi che la rendita tiene chiusi, affittare a canone sociale e concordato. E poi il comune deve imporsi nella politica dei parcheggi. O la Sipa fa scendere del 50% il costo, oppure Palazzo dei priori metta più sosta gratis”.

lunedì 30 dicembre 2013

Anus Horribilis di Alessandra Daniele, Carmillaonline.com

2013-L’essere riusciti a schiodare il culo flaccido di Berlusconi dal seggio senatoriale è uno dei pochi ricordi positivi che il 2013 lascerà nella nostra memoria. In tasca non ci ha lasciato niente, e la nuova stagione fiscale è appena cominciata. Sono in arrivo la TRASI, tassa sulle entrate, non intese come finanziarie, ma come porte d’ingresso; la TREK, tassa quinquennale che arriva dove nessun’altra era mai giunta prima; e la cosiddetta tassa sul web, la TROLL.
Intanto il mercatone democristiano delle clientele continua via decreto: il Mille Proroghe sarà seguito dal Cento Vetrine.
Per combattere la disoccupazione, l’Articolo 18 sarà rimpiazzato da un Comma 22: solo i disoccupati non potranno essere licenziati. Beppe Grillo annuncia un’altra iniziativa rivoluzionaria diretta a risolvere i problemi concreti degli italiani: la notte di capodanno terrà un discorso parallelo a quello di Napolitano. Poi i due si scambieranno i testi, e ognuno leggerà quello dell’altro. Alla fine leggeranno insieme un testo dei Modà.
I poveri non possono aspettare” ha detto papa Francesco, e il drappello di Forconi in Piazza S Pietro ha applaudito entusiasta.
Dopo però Bergoglio non ha aggiunto “quindi tutti i beni che non sono strettamente indispensabili alla Chiesa per la sua sopravvivenza verranno da noi interamente distribuiti ai più bisognosi”. E nemmeno un più semplice “quindi rinunciamo all’otto per mille, e alle esenzioni fiscali”.
E neanche un banale ”quindi ai prossimi che chiamo regalo una ricarica”.
Era proprio il “quindi” che mancava.
C’era invece un ”però”: “i poveri non possono aspettare. Però devono rinunciare alla violenza”.
Ci è stata venduta una scatola con scritto ”Democrazia”, e invece ci abbiamo trovato dentro un mattone, però dobbiamo rinunciare a usarlo per spaccare una centovetrina.
Anche questo è stato applaudito dai Forconi. La maggioranza di loro abitualmente è gente tranquilla, che vede gli sconttri di piazza solo alla tv.
E parteggia per la polizia.
Per quanto adesso siano incazzati, comunque non si oppongono al sistema in sé, che infatti non gli scatena contro i suoi anticorpi manganellanti, ma li blandisce per riassorbirli.
Non vogliono mica la luna, come diceva Fiordaliso prima della menopausa, né tanto meno la Rivoluzione. Vorrebbero solo un po’ meno tasse.
Invece ne avremo di più.
E’ il regalo di Natale del governo Letta, un regalo riciclato, l’agenda Letta non è che l’agenda Monti con una copertina diversa.
L’IMU non è stata affatto abolita, s’è moltiplicata come il virus Andromeda, indistruttibile perché capace di mutare a ogni generazione rimanendo comunque letale.
Così come la Democrazia Cristiana, oggi Renziana.
Renzi, Letta, Alfano, Salvini, l’Italia ha battuto un altro poco invidiabile record: abbiamo i quarantenni più vecchi del mondo. Schiodato un culo flaccido, ne arriva sempre un altro.

Nel baratro di Sandro Moiso, Carmillaonline.com

padroni1

Luca Ciarrocca, I padroni del mondo. Come la cupola della finanza mondiale decide il destino dei governi e delle popolazioni, Chiarelettere, Milano 2013, pp. 242, euro 13,90
Il libro di Ciarrocca, giornalista che ha vissuto per molti anni a New York, dove ha fondato il sito indipendente di economia, finanza e politica Wall Street Italia, è interessante per almeno due motivi. Il primo è sicuramente costituito dalla mole di dati riguardanti l’attuale crisi economica, esposti con chiarezza e semplicità (doti di cui quasi tutti gli analisti economico/finanziari sono generalmente sprovvisti). Il secondo dal fatto di essere un testo (inconsapevolmente?) contraddittorio. Molto.
Ma procediamo con ordine.
Il testo, pur inserendosi nell’attuale dibattito sull’utilità o meno dell’euro e delle scelte governative ad esso collegate, evita i toni della campagna anti-europeista ed anti-euro che rappresenta, nella confusione generale odierna, la panacea universale per molte, troppe forze politiche.
Inoltre, nonostante il titolo e i riferimenti ad una “cupola” finanziaria, l’opera non si occupa di ipotesi complottistiche né, tanto meno, del solito, strombazzatissimo dai poveri di spirito, Club Bilderberg.
Parla invece, e molto, di concentrazione finanziaria ed economica. . “La cupola non è il risultato di una colossale cospirazione di illuminati attuata con diabolica strategia, quanto un corollario oggettivo di decisioni che si producono per via di un’interazione parcellizzata di migliaia di interessi utilitaristici” (pag. 126).
Accumulando dati su dati e seguendo, anche se forse l’autore non vorrebbe sentirselo dire, quel lavoro iniziato nel 1916 da Lenin con “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”. Tanto che, per fare un esempio, Deutsche Bank costituisce un elemento di continuità tra i due libri così distanti nel tempo e dal punto di vista ideologico, mentre i processi di concentrazione finanziaria e bancaria degli ultimi decenni fanno impallidire i già significativi dati riportati all’epoca dal rivoluzionario russo.
Protagonisti indiscussi dell’opera sono i cosiddetti banksters (banchieri gangster) che si muovono a capo degli organismi finanziari più potenti e più ricchi, almeno sulla carta, della maggioranza delle nazioni del globo. Quegli organismi che oggi sono definiti come Too Big To Fail (troppo grandi per poter fallire), in gergo Tbtf. E che per questo motivo non si accaparrano soltanto i profitti prodotti dal sudore e dal lavoro di decine di milioni di lavoratori, ma anche gli aiuti degli stati, di cui, naturalmente, finiscono col dettare la politica.
Sarebbero in tutto una cinquantina, le mega aziende internazionali (in maggioranza istituti finanziari e banche Tbtf) che, attraverso un complicato incrocio proprietario, controllano il 40 per cento del valore economico e finanziario di 43.060 multinazionali globali. E’ qui il vero cuore dell’economia occidentale [...] Tra le prime venti ci sono tutte le più nore Tbtf, tra cui, ai primi posti, Barclays Bank, JPMorgan Chase, Goldman Sachs. L’unica italiana è UniCredit, in 43esima posizione” (pp. 121 – 123) Mentre, si può aggiungere, sulla base dei dati forniti, Deutsche Bank Ag si trova al dodicesimo.
Ma la concentrazione finanziaria, tipica della progressione imperialistica, non si ferma lì. “Lo ha spiegato bene James Petras, professore di sociologia all’Università di Binghamton (New York), in un articolo dal titolo eloquente Who Rules America?, pubblicato nel novembre del 2007 sul suo sito web: « Oggi, secondo alcuni calcoli, il 2 per cento delle famiglie controlla l’80 per cento dell’intero patrimonio mondiale» [...] Questi gruppi, secondo Petras, premono sui governi per salvare banche e aziende in bancarotta o fallite, spingono perché si arrivi al pareggio di bilancio tagliando la spesa sociale e il welfare” (pag. 121)
Naturalmente, oltre che determinare i governi e le loro scelte, i Tbtf sono anche coinvolti in vere proprie truffe finanziarie e in operazioni di riciclaggio oltre che protagonisti dei più clamorosi casi di evasione fiscale, ma gli istituti Too big to fail sono anche Too big to jail (troppo grandi per essere condannati ed andare in prigione).
Il 6 marzo 2013, nel corso di una testimonianza in un’audizione alla Commissione Giustizia del Senato al Congresso di Washington, Eric Holder (procuratore generale degli Stati Uniti) ha dichiarato: «Le dimensioni delle più grandi istituzioni finanziarie hanno fatto sì che per il dipartimento di Giustizia fosse difficile proporre l’azione penale e un processo per reati criminali. L’accusa – che potrebbe minacciare l’esistenza della banca stessa – nel caso degli istituti più grandi può anche mettere a repentaglio l’economia nazionale e quella globale, per via delle dimensioni e delle interconnessioni» Le grandi banche costituiscono dunque il vero «nocciolo duro» del potere politico ed economico su cui poggia il moderno capitalismo” (pag. 42)
I megaistituti di credito del mondo hanno asset1 complessivi per un totale di 47 trilioni di dollari2 “ (pag. 24). Mentre “James Henry, ex-capo economista della società di consulenza aziendale McKinsey, nel suo studio condotto nel 2012 The Price of Offshore revisited, sostiene che i patrimoni dei super ricchi di tutto il mondo occultati in circa ottanta paradisi fiscali ammontano a 21.000 miliardi di dollari. Anzi, in realtà la cifra potrebbe addiritura salire a 32.000 miliardi, dal momento che l’esperto nella sua analisi ha monitorato e preso in considerazione solo i depositi bancari e gli investimenti finanziari, tralasciando beni e proprietà come case, appartamenti, ville, yacht e collezioni d’arte. Una cifra spropositata, che in termini nominali è superiore al Pil di Stati Uniti, Giappone e Germania messi insieme [...] Scrive Henry: «Le mancate entrate fiscali che risultano dalle nostre stime sono enormi. Abbastanza da cambiare le finanze di molti paesi. Il tutto costituisce un enorme buco nero nell’economia mondiale»” (pp. 58 – 59)
Non occorre qui dilungarsi oltre sulla mole enorme di dati che l’autore porta ancora sui fenomeni di riciclaggio di denaro sporco, sull’autentico gioco d’azzardo costituito dagli investimenti e dalle speculazioni sui diversi tipi di autentica spazzatura finanziaria (derivati e altro) che “animano” bolle speculative e mercati azionari. Anche per non togliere il “piacere della scoperta” ai futuri lettori del libro. Ma una cosa è certa: “la speculazione ha nomi e volti. Sono i grandi player della finanza che si indebitano per moltiplicare le loro scommesse sui mercati, affiancati dagli hedge fund, che dipendono direttamente dalle banche per linee di credito e operatività, e infine dalle grandi multinazionali, la cui attività sui mercati è spesso più redditizia e importante di quella produttiva” (pag. 97)
Alla fine della lettura del testo risulta dunque che la rovina di un sistema economico e finanziario sempre più vicino alle regole del gioco d’azzardo e dei casinò è stata soltanto procrastinata dal 2008 in poi. L’azzardo sui derivati ha gonfiato a dismisura il valore nominale del capitale circolante. “I numeri parlano chiaro, lo squilibrio è stupefacente anche per i non addetti ai lavori: questi prodotti nel mondo valgono in totale 637 trilioni di dollari, cioè circa dieci volte il Pil mondiale [...] Non abbiamo mai assistito a nulla di simile nella storia del mondo. Soprattutto se pensiamo che il Pil globale si attesta a 71,6 trilioni di dollari (dati del 2012), mentre è intorno ai 190 trilioni la dimensione approssimativa del valore totale del debito pubblico e privato in tutto il mondo” (pp.102-103)
E’ un tavolo del casinò truccato, dove il banco vince sempre. La vera corruzione risiede nel fatto che, se la scommessa funziona, l’istituto di credito guadagna, in caso contrario, le perdite vengono socializzate. Un espediente diabolico in cui tutti noi ormai siamo vittime in prima persona, in quanto il nostro tenore di vita, di singoli e di paese, continua a calare” (pag. 113)
“Il meccanismo è perverso e totalmente fuori controllo. Un intreccio malsano tra debiti governativi e passivo del bilancio delle banche che continuerà a pesare per decenni sulle spalle dei cittadini inermi, vessati da classi politiche miopi se non corrotte. E’ scandaloso che per il solo saldo di interessi su debiti che crescono a dismisura, e non saranno mai estinti, le economie nazionali come quella greca o italiana siano ingabbiate nella non crescita e le popolazioni debbano sopportare una micidiale doppietta di tasse alte e di tagli dei servizi essenziali” ( pag. 109)
banksters1Un debito che non potrà mai essere pagato, basti pensare alla situazione italiana in cui la crescita esponenziale del debito pubblico è dovuta principalmente alla crescita dei titoli emessi per ripagare annualmente gli interessi su quelli emessi precedentemente richiederebbe manovre dell’ordine degli 80 – 90 miliardi di euro all’anno, porterà inevitabilmente ad un’ulteriore catastrofe economico finanziaria. Che l’autore, insieme a numerosi altri esperti interpellati o intervistati, situa, al più tardi, intorno al 2018. A meno che non siano prese drastiche, rigorose ed autoritarie misure tese a limitare decisamente lo strapotere dei banksters e dei loro istituti.
Ma qui si apre anche l’altra parte del libro, quella più contraddittoria, in cui Ciarrocca tenta di delineare un progetto di uscita dal disastro senza dover per forza modificare le regole del modo di produzione capitalistico e della società mercantile basata sulla circolazione delle merci e del denaro. Una proposta comunque di difficile attuazione poiché, come dice ancora lo stesso autore: “se avessimo a che fare con uomini intelligenti e lungimiranti e non con personaggi dominati dall’avidità, forgiati dalla cultura del profitto avvallata da imponenti studi legali, governi e banche dovrebbero puntare a una graduale riduzione della leva (leverage), la perpetuazione di rischi fondata sull’indebitamento, sull’uso dei derivati e sul sistema bancario ombra. Invece i banksters non accetteranno nulla che ridimensioni il loro potere, a meno che non venga imposto loro con la forza. Perché non è nel loro interesse” (pag. 107)
Nella proposta di cambiamento, basata su una diversa offerta di denaro, non più soggiogata e determinata dai colossi del credito, e su una svalutazione dell’euro, Marx non viene mai preso in considerazione, così come non lo è, sicuramente, la lotta di classe e il suo diverso punto di vista prospettico sull’antagonismo sostanziale e irriducibile tra lavoro e capitale mentre l’attenzione è ancora rivolta alle difficoltà, anzi all’autentica scomparsa, della classe media.
La politica ha continuato a fare il suo gioco, truccato, succhiando dall’economia reale le poche risorse ancora disponibili. Risultato: la classe media, acquirente e consumatrice dei beni prodotti e immessi sul mercato dalle quarantamila multinazionali della «cupola», annaspa, alla ricerca di un benessere perduto che non troverà mai più. Con diverse declinazioni: l’Asia cresce (anche se a ritmi rallentati); gli Stati Uniti riemergono, ma con rischi sistemici latenti e irrisolti. L’Europa arretra e si impoverisce” (pag. 128)
Ma questa sembra essere la condanna di questa nuova età di mezzo in cui ci troviamo a vivere: la certezza del disastro accompagnata dall’insicurezza e dalla debolezza delle proposte di coloro che ancora rifiutano l’ipotesi, classista e rivoluzionaria, dell’esproprio e della ridistribuzione della ricchezza socialmente prodotta in nome di valori identitari che sono già storicamente e definitivamente morti (nazione, patria e patrimonio famigliare).

  1. Asset (in italiano cespite), è un termine usato per indicare i valori materiali e immateriali a utilità pluriennale facenti capo ad una proprietà. Nello stato patrimoniale sono parte delle attività  
  2. Un trilione equivale a mille miliardi  

La Coop, chi? di Augusto Illuminati, Alfabeta


Antonio Dias2

Prendiamolo alla lettera, il motto: la Coop sei tu! Come l’hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon frère che apre i Fiori baudelairiani. Se sei tu, devi condividere senza ipocrisia, per fraterna similitudine, i miei vizi. Oppure prenderne le distanze, denunciare quello di torbido che è in me ma forse anche in te.
Ha un bel dire il dott. Poletti, presidente di Legacoop, che essa «è un’associazione che rappresenta le cooperative e quindi non è titolare di alcuna attività di gestione» (19.12.2013), o che le singole aderenti si muovono secondo canoni di mercato applicando le regole contrattuali vigenti: allora è ingannevole sostenere che le coop hanno una marcia “sociale” in più.
Non si può lucrare un vantaggio emotivo politicamente qualificato facendo le peggio cose che fanno gli altri, non è insomma il normale rincalzo che acquisisce la Coca Cola dalle festività natalizie. Legacoop con quello slogan fa appello a uno schieramento politico o morale e si sottopone dunque a una verifica supplementare, se scivola su quel terreno. Oppure, ammette di essere come tutti gli altri, rinuncia alla spocchia a buon mercato e si appiattisce sul senso corrivo in materia di migranti, affari, regime contrattuale, cioè la guerra fra poveri e l’ammirazione per il merito/successo di chi la sfanga speculando sui contributi assegnati ai migranti ristretti nei Cie, sugli appalti di grandi e piccole opere, sui bilanci bancari e assicurativi.
Questo si ricava dai giornali e dal web, ma vorrei soffermarmi su una piccola storia vissuta in diretta. L’occupazione della Scup a Roma, via Nola 5 – palestra, sale studio, ludoteca infantile, mensa sociale, ecc.– si è ritrovata per controparte non il Demanio e la Fip, che ne gestisce la valorizzazione, e neppure la società fittizia F&F immobiliare cui aveva ceduto l’edificio per far cassa, ma la potente Unieco, holding di decine di cooperative “rosse”, oggi uno dei dieci principali general contractor italiani.
Dopo un primo sgombero e rioccupazione, si è aperta una procedura giudiziaria, nel cui corso la struttura cooperativa ha negato di avere a che fare con la società fantasma di cui sopra, mentre usciva fuori che in realtà la Unieco, sull’orlo del fallimento, si sta impegnando con le banche a modulare il debito dismettendo beni immobiliari per 142 milioni di euro, fra cui probabilmente l’edificio Scup.
Fioccano le smentite, s’intende, come per Lampedusa, gli altri Cara gestiti da Cono Galipò e le numerose vertenze per contratti irregolari dei dipendenti, con le consuete caratteristiche di opacità e scatole cinesi che consentono di scaricare la responsabilità per li rami. Cooperazione e socialità in questo caso vanno poco d’accordo…
Non voglio entrare nel merito di singole controversie e scandalizzate deplorazioni, ma solo registrare un’impressione: il pieno adeguamento alle dinamiche neoliberiste, con il ricorso a tutti gli espedienti di flessibilizzazione e sub-appalto, esprime una stridente contraddizione fra pratiche effettuali e ricordi evocativi della primitiva missione. Coop, chi? Non puoi operare come Walmart e fingerti Onlus, sfruttare legami privilegiati con le amministrazioni locali di sinistra e agire nel solco del mercato e della precarizzazione.
La Coop sei tu suona derisorio nell’orrore di Lampedusa o nell’ordinaria prassi di un lavoro domenicale di fatto obbligatorio. A meno che quel tu implichi la complice omologazione dell’interlocutore, il popolo coop, alla medesima rassegnata logica dell’impoveritevi e buttate dalla scialuppa chi si aggrappa.
Il ruolo delle cooperative rosse, bianche e delle strutture cielline nel trasformare in affare la gestione dei migranti e dei loro luoghi di segregazione è assai significativo nella governamentalità neoliberista analizzata ne La nuova ragione del mondo di Dardot e Laval, qui già recensito. Il neoliberismo non solo incastra in modo indissolubile funzioni di governo e di mercato, ma costruisce una soggettività auto-imprenditoriale e competitiva, disciplinata e rendicontabile, servendosi di figure intermedie semi-private, che sono imprese a tutti gli effetti ma con parvenze di socialità e magari vantate ascendenze progressiste. Big Society all’italiana.
Ciò consente alle cooperative, in maniera diversa dal riformismo degli albori del capitalismo e poi del fordismo, di prendere l’iniziativa, superando – nella faccia esposta al pubblico, la grande distribuzione – la contraddizione, sempre latente nell’esercizio commerciale, fra promozione edonistica del consumo e salvaguardia del lavoro ascetico dei dipendenti e dei clienti. Luogo elettivo per le tecniche di Pnl (programmazione neuro-linguistica) e di coaching (come imbambolare il cliente e sentirsi realizzati), la vendita che fa leva sull’empatia si completa felicemente con il rinnovo forsennato di brevi contratti oltre ogni limite legale e con salari abbastanza bassi da predisporre a un totale disponibilità per straordinari, festivi e spostamenti di sede secondo i flussi di domanda.
A monte sta l’illusione che la prestazione intermittente costituisca un “percorso formativo”, una soggettività multiforme e potenziata che accoppia gioiosamente management dell’anima e d’impresa, cura di sé e orari di merda, a valle una pubblicità friendly e populista accomoda il cliente sull’impresa, garantendo con il passato la democraticità e con lo slogan la comunanza fra il venditore precario e l’acquirente altrettanto precario e affannato – entrambi interiorizzano la crisi quali imprenditori di se stessi…
Che l’impettita Legacoop o il più casual Eataly di Oscar Farinetti (che strizza l’occhio alla Leopolda quanto la prima, prima di saltare sul carro renziano, al vecchio Pd) vogliano trarne vantaggio è ben comprensibile, che si debba abboccare a tali trucchi aziendali e all’ideologia politica che veicolano – Farinetti in tono sgradevole e vistoso – è tutto da vedere. Bella sfida, comunque, vendere sotto crisi. Merci e illusioni, surplus di prestazione e di godimento. Fantasmi, a breve in saldo.

Italia sbalzata al “palio di Siena” Di ilsimplicissimus


0416_montepaschi_630x420Pagheremo caro, pagheremo tutto, si potrebbe dire parafrasando un vecchio slogan studentesco. E da come si sta mettendo pare che i 4 miliardi prestati da Monti ai Paschi di Siena per superare la crisi dovuta alla folle politica di acquisizioni e investimenti di Mussari (nome che la grande stampa evita singolarmente di citare), finirà per essere pagato dai cittadini. La restituzione del malloppo e dei suoi interessi, oltre che la tenuta stessa dell’Istituto entro i criteri europei, può essere garantita solo da un aumento del capitale di pari importo, quello proposto dal presidente del Cda Profumo e perigliosamente rinviato l’altro giorno per volontà dalla omonima Fondazione bancaria che detiene il 33,5% delle azioni.
Il senso di questa vicenda, assai più intricata di quanto non appaia in chiaro, è uno spaccato della classe dirigente di questo Paese, degli intrecci tra politica e affari, della palude in cui ci troviamo. Ora bisogna sapere che la Fondazione Monte Paschi, è di fatto un grande elemosiniere della politica locale e nazionale e forse proprio per questo non ha un soldo in cassa: quindi non è in grado di affrontare alcun aumento di capitale. Se questo fosse stato deliberato per gennaio come prospettato da Profumo, oggi di fatto dimissionario, la sua quota azionaria sarebbe scesa vertiginosamente con la perdita del controllo della banca, specie se poi fossero comparsi azionisti stranieri, come erano quelli (Ubs in testa) trovati dal consiglio di amministrazione. Verrebbe così compromesso il suo ruolo di cinghia di trasmissione fra Siena, la politica nazionale, in particolare piddina, ma non solo perché partecipa attivamente anche il Pdl e i suoi apparati o personaggi di spicco fuori e dietro le quinte.
Vade retro dunque. Meglio un rinvio per vedere se sia possibile un qualche grottesco marchingegno, vale a dire restituire i soldi dei cittadini chiedendo un prestito di 4 miliardi alla Cassa depositi e prestiti, cioè sempre con i soldi dei cittadini. Un vero pasticcio che comunque o potrebbe portare a una nazionalizzazione di fatto (se la banca non potrà ripagare i Monti bond, dovrà cedere azioni al ministero dell’economia che così diventerebbe proprietario di una quota variabile dal 16 al 28 per cento del Monte Paschi) oppure essere acquista per quattro soldi da un forte istituto di credito europeo, vista la quasi certa caduta delle azioni.
Ma chi dirige la Fondazione che ha deciso di affrontare questi rischi e di farli affrontare al Paese pur di non perdere la primogenitura? Antonella Mansi, ennesima figlia di papà proiettata nella stratosfera della classe dirigente come jolly utile a “segnare il territorio”: oggi è vicepresidente di Confindustria nazionale (con delega all’organizzazione) dopo essere stata, giovanissima, presidente di confindustria Toscana. E’ anche presidente di Sipi e Aedificatio due aziende partecipate al 100% dall’organizzazione degli industriali. Questo dopo aver annunciato al momento della suo insediamento che avrebbe dato le dimissioni dalle cariche confindustriali . Insomma è evidente che proprio quelli che straparlano di meriti, che svergognatamente si infarinano nella retorica della stessa barca, che recitano il paternoster al dio mercato, che incitano allo smantellamento del welfare e il meno Stato possibile, hanno le mani in pasta nel tentativo di conservare assetti opachi tra politica, industria e finanza, che niente hanno a che vedere con la religione ufficiale e il suo catechismo. E nei quali alla fine è proprio lo Stato, vale a dire i cittadini, che paga il conto per tutti: solo che in questo caso i grandi delocalizzatori e globalizzatori invocano l’italianità. Ma che andassero a montepascolare.

La spesa pubblica per interessi (II)

La sostenibilità.

Come annunciato nel precedente articolo, in questa sede andremo ad analizzare aspetti dei conti pubblici italiani relativi agli anni precedenti il divorzio tra Banca d'Italia e Ministero del Tesoro, facendo considerazioni sulla sostenibilità dell'indebitamento e proponendo, alla fine, una simulazione per un piano di crescita e stabilità alternativo al fiscal compact.
 
Torniamo ad analizzare il grafico relativo ai deficit pubblici e la spesa per interessi, considerando i decenni '60 e '70.
Come si può rilevare, la spesa per interessi si è mantenuta a livelli bassissimi per tutti gli anni 60, pari a circa l'1,4% del PIL per poi iniziare a crescere a metà degli anni settanta, per assestarsi a circa il 5% del PIL nel biennio conclusivo. Gli indiziati numero uno di tale crescita sembrano essere i facilmente individuabili deficit pubblici che, negli anni 70, si sono mediamente avvicinati al 7%.
Confrontando questo periodo con i quasi due decenni successivi, si può notare come l'accennata crescita della spesa per interessi, assestatasi sul finire degli anni 70, abbia preso un andamento esplosivo dal 1981, per toccare un picco massimo all'inizio degli anni 90 e per scendere fino al 5% solo nel 2004, dopo un periodo di convergenza globale verso tassi di interesse ridotti, come visibile nel seguente grafico che mette a confronto i tassi italiani con quelli di altri paesi.
Andiamo ora a studiare l'andamento del rapporto debito/PIL in quegli anni.
Da una rapida occhiata si può verificare come il decennio 1970-1980 abbia sperimentato un incremento del rapporto debito PIL del 20%, passando da circa il 40% al 60%, per raggiungere, poi, il 120% nel 1992, solo 12 anni dopo, con un incremento di ben 60 punti percentuali.
 
Ora, per individuare le reali cause di questa esplosione debitoria, si andrà a verificare l'andamento dei tassi di interesse reali sul debito confrontandoli con il tasso reale di crescita del prodotto interno lordo [1], andando a cercare eventuali condizioni di insostenibilità. [2]

 
Da questo grafico, in apparenza complesso, possono desumersi due importanti fatti riguardanti la nostra economia: il primo è il progressivo calo del tasso di crescita reale, passato dal quasi 6% medio degli anni 60, ai valori negativi dell'attuale depressione; il secondo è l'incredibile crescita del costo reale effettivo e dei rendimenti reali medi dei titoli di stato [3]. Questi ultimi, negli anni 60, avevano valori medi positivi ma inferiori al tasso reale di crescita e, negli anni 70, essendo i rendimenti nominali inferiori all'inflazione, erano addirittura negativi. Nel 1981, non a caso, si può notare l'inversione di tendenza, con rendimenti reali medi rapidamente passati dal -5% circa del 1980 ai quasi 9 punti percentuali del 1992. Da questo punto in poi, i tassi reali sono via via scesi, rimanendo tuttavia sempre positivi e comunque superiori al tasso reale di crescita del PIL, condizione la quale, se non controbilanciata da maggiori esportazioni ed avanzi primari, come accaduto nel periodo dello sganciamento della Lira dallo SME, porta inevitabilmente all'incremento del rapporto debito/PIL.
Il tutto lo si può meglio riassumere con il seguente grafico, che va ad illustrare i valori medi per periodo di ciascun indicatore:

 
Ricapitolando, da quanto se ne può dedurre, l'incremento del rapporto debito PIL è certamente dovuto a due fattori:
  • il calo tendenziale del tasso di crescita reale del PIL
  • l'adozione di una banca centrale indipendente e l'abbandono di quell'insieme di strumenti che permettevano allo stato di finanziarsi a rendimenti nominali medi dei titoli pubblici inferiori al tasso nominale di crescita o, come negli anni 70, al di sotto di quello di inflazione. [4]

Per dimostrare quanto affermato, possiamo effettuare una simulazione (*) partendo dai dati disponibili del 2012 e andando a vedere l'evoluzione dei vari indicatori rispettando determinate condizioni.
Le ipotesi sono le seguenti:
  • Il ritorno alla sovranità monetaria, con annessa svalutazione nei confronti di una valuta di riferimento ed effetto inflattivo mediato da un coefficiente che determina quanto di questa svalutazione va a trasformarsi in aumento dei prezzi.
  • Il progressivo abbassamento dei rendimenti nominali medi dei titoli di stato al di sotto del tasso di inflazione, tali da determinare un costo reale effettivo medio negativo, ripristinando gli strumenti idonei a perseguire tale obiettivo.
  • Il mantenimento di un deficit primario pubblico, tale da costituire un costante stimolo all'economia interna amplificato da un valore moltiplicativo. [5]
 
Ecco il grafico generato utilizzando le ipotesi meglio specificate nella tabella riassuntiva:
Ipotesi    
Saldo primario programmato %PIL -1,50
Svalutazione rispetto a valuta di riferimento % 25,00
Pass Through svalutazione/inflazione % 15,00
Tasso di crescita inflazione % 7,00
Scarto tra costo del debito ed inflazione % -33,33
Moltiplicatore fiscale (applicato al deficit primario)   1,20
Esito simulazione    
Costo reale effettivo del debito medio % -1,41
Deficit bilancio pubblico medio %PIL -5,16
Inflazione media % 5,03
Interessi medi %PIL 3,84
Tasso di crescita reale medio % 1,61
Debito pubblico iniziale %PIL 127
Debito pubblico finale %PIL 89
(* La simulazione, ha necessariamente solo valore indicativo, non potendo tenere conto di inevitabili fluttuazioni dei vari tassi e degli effetti del saldo con l'estero ma mostra come, riconquistando la sovranità monetaria, si potrebbe imboccare una strada di stabilizzazione del debito che possa anche essere di stimolo all'economia, senza andare a cercare costanti e recessivi avanzi primari.)
 
Per meglio cogliere l'effetto di tali ipotesi, si può osservare il seguente grafico che mette a confronto la crescita del debito pubblico, dovuta alla spesa a deficit, e la crescita del PIL, incentivata dallo stimolo fiscale.

 
Si vede facilmente come il PIL cresca più rapidamente del debito pubblico, senza effettuare alcuna manovra di austerità, andando, nella sostanza, a drenare i fondi necessari allo stimolo dalla riduzione della spesa per interessi, che verrà quindi redistribuita con effetti moltiplicativi data la maggiore propensione marginale al consumo [6] delle fasce di popolazione a reddito più basso, stimolando di conseguenza l'occupazione, gli investimenti e permettendo una riduzione della tassazione.
Antonello Nusca – ARS Abruzzo

 
 
Note:
[1] Con tassi reali si intendono quelli nominali depurati della componente inflattiva, ad esempio un tasso del 5% con inflazione al 2% equivale ad un tasso reale del 3%.
[2] Per riassumere le condizioni di sostenibilità dei conti pubblici, riporto questo chiaro estratto dalla pagina Wikipedia trattante il debito pubblico:
Relativamente dunque al rapporto tra il debito pubblico e il Prodotto interno lordo, ci sono quattro possibili situazioni in cui può trovarsi lo Stato in un determinato anno:
  • il tasso di crescita del PIL risulta minore del tasso di interesse dei titoli di Stato e c'è pure un disavanzo primario in rapporto al PIL, nel senso che le uscite dello Stato sono maggiori delle entrate in rapporto al PIL. In tal caso il rapporto debito/PIL tenderà a divergere ovvero ad aumentare all'infinito con forte rischio insolvenza nel medio-lungo termine. [Situazione degli anni '80 ndr.]
  • il tasso di crescita del PIL n risulta maggiore del tasso di interesse dei titoli di Stato i, ma c'è ancora un disavanzo primario in rapporto al PIL. In tal caso il rapporto debito/PIL convergerà in modo decrescente verso un certo valore (che si dice "stato stazionario") se, e solo se, il rapporto debito/PIL iniziale è maggiore dello stato stazionario. In particolare, in tal caso, affinché il rapporto debito/PIL decresca, occorre che il PIL cresca a tal punto da rendere la differenza n-i sufficientemente grande e il disavanzo primario sia invece il più piccolo possibile. Se invece il rapporto debito/PIL iniziale è minore dello stato stazionario, il rapporto debito/PIL convergerà sempre verso lo stato stazionario, ma in modo crescente. [Situazione anni '60-'70 ndr.]
  • il tasso di crescita del PIL n risulta minore del tasso di interesse dei titoli di Stato i, ma non c'è un disavanzo primario ovvero le entrate sono più delle uscite. In tal caso il rapporto debito/PIL decrescerà annullandosi dopo un certo tempo se, e solo se, il rapporto debito/PIL iniziale è minore dello stato stazionario. In particolare, affinché il rapporto debito/PIL decresca, occorre che la differenza n-i sia sufficientemente piccola e che le entrate siano sufficientemente grandi. [Situazione simile a quella degli anni 90 dopo la fuoriuscita dallo SME, dove la riduzione debitoria venne cercata con avanzi primari superiori anche al 5% del PIL, sfruttando il contributo del settore estero ndr.] Se invece il rapporto debito/PIL iniziale è maggiore dello stato stazionario, il rapporto debito/PIL tenderà ad aumentare all’infinito con aumentato rischio insolvenza. [Condizione simile a quella attuale, con avanzi primari che deprimono ulteriormente l'economia interna, senza l'ausilio del settore estero, dato il vincolo della moneta unica ndr.]
  • il tasso di crescita del PIL risulta maggiore del tasso di interesse dei titoli di Stato e c'è un avanzo primario per cui le entrate sono maggiori delle uscite. In tal caso il rapporto debito/PIL decrescerà rapidamente fino ad annullarsi, abbattendo il rischio insolvenza. [Condizione auspicata dai sottoscrittori del Fiscal Compact, palesemente irrealistica e smentita dall'analisi dei dati ndr.]
    [https://it.wikipedia.org/wiki/Debito_pubblico]

[3] Il rendimento reale medio dei titoli di stato è dato dalla media ponderata dei rispettivi rendimenti depurata dall'inflazione. Il costo reale effettivo è dato dalla spesa per interessi al tempo t diviso il debito pubblico al tempo t-1, moltiplicato per 100, meno l'inflazione al tempo t.
[4] Per un'estensiva trattazione di questo argomento si rimanda a questo articolo: Repressione finanziaria, potere monetario e cancellazione del debito
[5] La trattazione estesa del moltiplicatore fiscale va oltre gli obiettivi divulgativi del presente articolo. Scegliendo di applicarlo al solo deficit primario, si è effettuata una semplificazione che necessariamente ne sottostimerà gli effetti, dato che si potrebbe effettuare lo stimolo sia aumentando la spesa, sia riducendo le tasse con valori moltiplicativi differenti.
[6] La propensione marginale al consumo è il rapporto tra l'incremento del consumo e l'incremento del reddito che ne è la causa. [https://it.wikipedia.org/wiki/Propensione_marginale_al_consumo]

LETTERA APERTA DI UN DELEGATO METALMECCANICO A MAURIZIO LANDINI

120302landini
Caro Segretario Generale,
ogni giorno apriamo le pagine dei giornali (soprattutto Repubblica) con un misto di preoccupazione e stupore: cosa avrai dichiarato stamattina, a proposito del nostro articolo 18?
Si, perchè devi sapere che dopo ogni tua intervista, i nostri colleghi ci chiedono conto di quello che hai detto. E la domanda più comune è sempre la stessa: ma possibile che questi continuIno ancora a discutere del nostro art. 18?
Ora, io capisco che sono in corso grandi manovre pre o para congressuali; che il campo politico è terremotato; che i gruppi dirigenti del PD e della CGIl si stanno tutti riposizionando. Ma è bene che sappiate che di queste manovre, ai lavoratori non interessa più niente: sono tutti movimenti tattici che riguardano una piccolissima e provincialissima porzione del nostro mondo.
L'unica cosa che i lavoratori percepiscono con chiarezza è che è in corso l'ennesimo scambio malsano condotto sulla loro pelle: lo scalpo dell'articolo 18 in cambio di una promessa sulla legge per la rappresentanza? O in cambio della segreteria della CGIL?
Se passasse questo scambio, cosa andremmo a raccontare nelle assemblee? Che l'ulteriore manomissione dell'art.18, contro cui abbiamo chiamato i nostri colleghi a scioperare e bloccare le autostrade, adesso è diventato un legittimo terreno di trattativa? Chiunque lavora ( o abbia lavorato almeno qualche giorno in vita sua) sa bene che l'affievolimento di un diritto per qualcuno, indebolisce l'esercizio di quel diritto per tutti: è una legge che i padroni conoscono bene e che hanno provato spesso a praticare nella contrattazione centrale e integrativa. Se l'art. 18 lo togli per 3 anni ai neo-assunti, stai solo preparando le consizioni per l'offensiva prossima ventura che, in nome dell' "egualitarismo al ribasso" (che è l'ideologia dominante in questi anni), proporrà a breve di toglierlo definitivamente a tutti, per "contrastare le discriminazioni a danno dei giovani e l'egoismo sociale dei vecchi". Tutti sappiamo che finirà così, perchè è un film che abbiamo già visto. Solo tu sembri ignorarlo.
Stupisce anche la tua presunzione di riuscire a "spacchettare" il Job Act di Renzi, sfogliandolo come un carciofo e prendendo solo le cose che potrebbero piacerti: in nessuna trattativa sindacale funziona così. A freddo, senza conflitto, senza vertenza, senza rapporto di forza, se porti a casa un risultato è perchè hai lasciato sul tavolo qualcos'altro. E qui viene la domanda finale: ma chi sta decidendo tutto questo? In quale Comitato Centrale o altra istanza dell'organizzazione, si è deciso che il dibattito doveva andare in quella direzione? Ma c'è ancora un gruppo dirigente in Fiom, o tutto è gestito dal ritmo dei pronunciamenti del Capo? Capisci che con le tue interviste stai ponendo un ipoteca pesante sul dibattito interno? E le migliaia di funzionari e quadri della Fiom, che si stanno preparando ( sempre più perplessi) alla stagione congressuale, cosa andranno a raccontare nelle assemblee di base che partiranno a Gennaio? Che bisogna ripristinare l'art.18, com'è c'è scritto sul tuo emendamento, o che si può ulteriormente assottigliarlo, come sostieni nella trattativa a distanza che hai aperto con Renzi, a mezzo stampa? Capisci che livello di confusione stai inducendo in mezzo alla nostra gente?
Prima delle primarie del PD, ti ho sentito dichiarare:
"bisogna smetterla con l'idea che un uomo solo al comando possa risolvere tutti i problemi..."
Giusto, sottoscriviamo in pieno. La nostra cultura, la cultura del movimento operaio e dell'organizzazione che dirigi, non è quella della leadeship carismatica e personalistica. Con quella si finisce solo nella deriva sub-culturale in cui sono affogati i partiti italiani.
Per favore, Maurizio, concedici una moratoria natalizia alle interviste. Fermati. Mangia il pandoro.
Non crearci ulteriori difficoltà, perchè non hai idea di quanto sia difficile oggi per noi delegati, stretti tra crisi aziendali, incazzatura e disillusioni vari, esercitare con autorevolezza il nostro ruolo e continuare a parlare chiaro alla nostra gente nelle assemblee: dove continueremo a dire che l'art.18 non si tocca, che abbiamo già dato abbastanza e che dovremo prepararci a rintuzzare ogni nuovo attacco ai nostri diritti, da qualsiasi parte dovesse provenire.
GIOVANNI IOZZOLI

Sinistra, levare dei Flores dai nostri cannoni

di Checchino Antonini,
http://popoff.globalist.it
Il direttore di Micromega vorrebbe alle europee una lista con Tsipras ma senza il partito di cui è presidente. Il solito vecchio nuovo che avanza
E' più democratica la forma-partito o la forma movimento oppure la democrazia virtuale che costruisce a furor di popolo una lista o una mobilitazione stimolata da personalità più o meno vip? Il dibattito si ripropone con tutte le sue insidie a ridosso delle europee.
«Oggi c'è una sola forza politica di sinistra in Europa e si chiama Syriza. Per questo pensiamo che in Italia alle prossime elezioni europee una lista dei movimenti e della società civile, totalmente autonoma (ed estranea alle forze organizzate del "Partito della sinistra europea"), con Tsipras candidato alla presidenza, potrebbe avere un buon risultato». Con un'intervista del quotidiano greco Avgi (Aurora), molto vicino a Syriza, il direttore di MicroMega Paolo Flores d'Arcais entra a gamba tesa nel dibattito (ancora abbozzato) sulle prossime elezioni europee».
Certo l'esito disastroso di tentativi come "Cambiare si può" meriterebbe un dibattito serio che non sia la riproposizione di schemi logori, nuovismi avanzanti e la ricerca affannosa di una propria visibilità nel panorama politico. Di quale discontinuità, insomma, c'è bisogno a sinistra? Flores non sembra discostarsi da luoghi comuni beceri e vecchie "nuove idee":
«In Italia, per essere molto espliciti, una qualsiasi lista che poniamo potenzialmente avesse il 10% dei voti se si allea anche con Rifondazione o i Verdi o i Comunisti Italiani prenderebbe il 5%. Una lista autonoma che avesse potenzialmente il 5% dei voti se si allea con Rifondazioni e gli altri prenderebbe il 2%. Oggi allearsi con qualsiasi di questi partitini invece di produrre una somma produce una sottrazione. Perché godono di una credibilità negativa», dice Flores ad Argiris Panagopoulos che lo intervista. Il nuovo che avanza anche stavolta dovrebbero stimolarlo: «almeno un centinaio di persone eminenti nei vari campi, scrittori, filosofi, sociologi, scienziati, personalità del cinema, della musica ecc».
Così il direttore di Micromega, inseguitore dal 1986 del nuovo che avanza (qualcuno ricorderà un'altra sua suggestione senza storia: la "sinistra dei club"), si sente orfano della Fiom, preannuncia la crisi del grillismo entro un paio d'anni, rivendica il successo dei girotondi e dei referendum e ricanta un suo vecchio cavallo di battaglia: «Trent'anni fa avevo scritto che dobbiamo passare dalla politica come mestiere alla politica come bricolage. Gli ultimi quindici anni confermano che questa è la vera sfida. Inventare delle forme organizzative anche di rappresentanza che pero facciano meno della politica come professione, che realizzino quasi unicamente la politica come bricolage». Appiattire la forma partito sulla sua degenerazione burocratica e sulla decadenza di partiti legati ai pessimi governi di centrosinistra impedisce a Flores di capire quanto pesi la partecipazione di quello che resta della sinistra radicale (del Prc in particolare) alle grandi mobilitazioni. E anche di quanto sia imperfetta, e ostaggio di pochi professionisti (vedi i cinque stelle), la forma più leggera e virtuale dei cosiddetti movimenti.
Anche la proposta avanzata da Flores non brilla né per originalità, né per fecondità: «La parola sinistra rischia di esser equivoca oggi. Paradossalmente non usarla è meno equivoco che usarla. Perché a volte sinistra indica anche l'opposto dei due suoi ideali fondamentali, giustizia e libertà. Noi abbiamo bisogno di una forza politica Giustizia e Libertà (oltretutto era il nome del movimento della Resistenza non comunista, perche antistalianiano). "Sinistra" per qualcuno richiama a volte ai regimi più antioperai che siano esistiti, quelli stalinisti. "Sinistra" ricorda in periodi più recenti il PCI e le sue continue trasformazioni, che sono state una non-opposizione al berlusconismo, che hanno permesso al berlusconismo di fiorire. "Sinistra" ricorda ora i partitini che si definiscono neocomunisti e sono una parodia».
Film già visto, canzone risaputa. Poche idee ma ben confuse: «Ora abbiamo un'altra occasione con le elezioni europee. Se a maggio ci fossero le elezioni politiche direi che l'unica cosa da fare è votare Beppe Grillo, perche non ci sarebbe spazio reale per una lista nuova di Giustizia e Libertà. Ma per le elezioni europee si vota con sistema proporzionale puro. Le posizioni di Grillo sull'Europa sono molto ambigue e non è molto credibile».
La prima reazione è quella di Fabio Amato, già responsabile esteri di Rifondazione: «Il Partito della Sinistra Europea ha deciso di candidare Alexis Tsipras a Presidente della Commissione europea. Fra l'altro, come è noto, la proposta è stata fatta dal PRC. Che si mette a disposizione per una lista di sinistra in Italia ampia e che aggreghi tutti coloro condividono la lotta contro l'austerità e i trattati neoliberisti europei, a partire dal Fiscal compact e da quello di Lisbona, e che sostenga Tsipras, il programma minimo della sinistra europea e che sieda nel GUE nel prossimo Parlamento europeo. Questi sono dati di fatto, una realtà che i desideri di alcuni non possono cambiare. Soprattutto da parte di chi, nel tempo, ha sostenuto tutto e il contrario di tutto. Da Mario Segni a Di Pietro, passando per Occhetto e Veltroni, il maggioritario e le guerre, non ultima quella in Libia».
L'attacco di Flores arriva all'indomani dell'endorsement di Barbara Spinelli (che difende l'operato di Tommaso Padoa Schioppa, il banchiere-ministro di Prodi) per Tsipras: «E' chiaro che non dovrebbe essere una coalizione dei vecchi partiti della sinistra radicale, perché non avrebbe alcuna possibilità di successo. Abbiamo bisogno di qualcosa di più grande, qualcosa per scuotere la coscienza della società, superando i margini molto stretti delle formazioni politiche della sinistra radicale. Con l'obiettivo di unire le forze della società colpite dalla crisi».

domenica 29 dicembre 2013

Scontro di titani. A spese dei lavoratori di Dino Greco, Liberazione.it


Non ha fatto in tempo, il neo-segretario del Pd, nonché rottamatore di non si sa cosa, a metterci a parte dei pessimi orientamenti che stanno alla base del suo Job act, che subito si è fatta viva la concorrenza. E' stato Angelino Alfano, in un'intervista pubblicata oggi da la Repubblica, forse preoccupato per le note di consenso che Matteo Renzi riscuote sempre più apertamente fra i padroni, a spiegare che si può anche fare di peggio. Così l'ex virgulto di Berlusconi ha detto chiaro e netto che se si vogliono liquidare i contratti nazionali di lavoro non servono complessi marchingegni di architettura lavorista, basta semplicemente abolirli. Potranno restare, se proprio si insiste e visto che neppure le associazioni imprenditoriali li disdegnano, i contratti aziendali. Del resto, come si sa, essi possono già derogare alla contrattazione nazionale.
E persino alle leggi dello Stato. Ma, aggiunge Angelino, la cosa migliore sono sempre i vecchi, benedetti contratti individuali che, come l'asso piglia tutto, superano ed annullano ogni forma di fastidiosa negoziazione collettiva. Sì, perché quest'ultima, malgrado tutto, presuppone che i lavoratori di un sito produttivo possano coalizzarsi per esprimere rivendicazioni condivise. E magari difenderle con qualche forma di conflitto. Mentre meglio di tutto è mettere il singolo dipendente davanti al padrone, liberi entrambi, ovviamente, l'uno di comprare e l'altro di vendere la propria forza lavoro come meglio loro aggrada. Che bello codificare, ope legis, rapporti sociali che cancellano oltre un secolo di storia e trasformano definitivamente il proletariato in plebe senza coscienza di sè, pronta a scannarsi per l'osso spolpato che il padrone butta nel recinto. Dovrà guardarsi, Matteo Renzi, da un competitor così agguerrito come il segretario del Nuovo Centrodestra. Ma siamo certi che troverà argomenti solidi nella munita neo-ideologia democrat.
In fondo, non ci ha spiegato il Pd medesimo che la lotta di classe non ha più senso per l'ottimo motivo che vere e proprie classi neppure esistono più e che la società in cui felicemente viviamo è popolata da lavoratori, siano essi imprenditori oppure operai, solo diversamente affaccendati per tirare a campare? In questa rappresentazione fasulla che neppure la fantasia del Mago di Oz avrebbe potuto concepire, si muove il surreale dibattito in casa democratica. Mentre lavoristi del calibro di Marianna Madia, Filippo Taddei e Debora Serracchiani stanno limando il progetto che Renzi porterà al parlamentino del Pd, la sedicente sinistra interna si affanna a spiegare che le cose così non vanno. I giornali di oggi si scervellano nel tentativo di scoprire di che cosa si tratti. Ci abbiamo provato anche noi. Senza riuscirci. Creteteci: lo diciamo senza ironia.

Il lupo Mannheimer Di ilsimplicissimus


renato-mannheimer-facendo-115182Evasione da 7 milioni di euro, fatture false e operazioni inesistenti per 30 milioni, conti off – shore con relativo e reiterato sfruttamento di scudi fiscali. Si avvicina la Befana, così possiamo per un attimo far finta di credere alle favole e pensare che il sondaggista Renato Mannheimer e il suo istituto, ovvero l’Ispo, siano vittime degli errori del commercialista, come sostengono. Mettiamo solo per un attimo tra parentesi le distrazioni fiscali per dare attenzione a un altro aspetto messo in luce da questa vicenda, ovvero al gigantesco giro d’affari e di soldi che circola attorno al sondaggismo nazionale per chiederci se in presenza di un lucro così abbondante ci si possa davvero fidare dei rilevamenti di opinione che ci vengono serviti quotidianamente e con tanta sollecitudine.
La facilità con la quale si possono presentare risultati graditi al committente senza abdicare in apparenza alla “scientificità”, il contatto ravvicinato tra politica e mercato dei sondaggi commerciali che sono il core business di queste società, unito alla quantità di denaro che gira dovrebbero essere elementi tali da consigliare molta prudenza nel prendere per buoni o magari per assoluti i responsi che vengono da questi strumenti. Se poi si aggiunge anche il peso di un’etica ballerina nelle dirigenze nasce davvero il sospetto che i sondaggi -quelli ovviamente pubblici – siano uno strumento per influenzare l’opinione pubblica piuttosto che analizzarla. Del resto se già da molto tempo  i media main stream, più che informare, si sono trasformati in strumenti di controllo dell’informazione da parte di questo o di quel gruppo di pressione o di potere, facendo scomparire la figura dell’editore puro non si vede perché questo non possa accadere anche per sondaggi e sondaggisti.
Mannheimer in un certo senso è quasi un caso di scuola provenendo più che dalla scienza statistica dalla politica che lo ha lanciato nel mondo accademico e poi degli affari, tanto da essere stato per qualche tempo il sondaggista dell’Ulivo. Poi il “tradimento” quando i suoi rilevamenti di opinione cominciarono a scivolare verso il Cavaliere che di certo era a capo di un conglomerato di potere più lucroso. Lo stesso slogan dell’Ispo è sociologia + marketing (qui la brochure di presentazione) che la dice lunga a volerlo interpretare.
Così probabilmente i sondaggi che vengono diffusi sono degni di fede come i bilanci delle società di sondaggio.

sabato 28 dicembre 2013

Settant'anni fa l'eccidio dei fratelli Cervi. Le iniziative "per non dimenticare"


Settant’anni fa, all'alba del 28 dicembre 1943, nel poligono di tiro di Reggio Emilia, Gelindo, Antenore, Aldo, Agostino, Ferdinando, Ovidio, Ettore Cervi vengono fucilati senza processo dai fascisti repubblicani. Il piu' vecchio, Gelindo, ha 42 anni, il piu' giovane, Ettore, 22 anni. I fratelli Cervi sono stati catturati insieme al padre Alcide nella notte tra il 24 e il 25 novembre nella loro cascina ai Campi Rossi di Gattatico, attaccata in forze dai fascisti e incendiata. Dopo oltre un mese di carcere, la loro fucilazione viene decisa come rappresaglia per l'uccisione del segretario del fascio di Bagnolo in Piano, un paese vicino. Alcide con due suoi figli aveva dato un contributo importante alla lotta partigiana costituendo un gruppo clandestino.

Tante le iniziative di commemorazione in programma, da quelle di movimento a quelle istituzionali. “A settant'anni da quella pagina drammatica della nostra storia,noi che crediamo che non si possano mettere sullo stesso piano i partigiani con i repubblichini, ci troviamo alle 9.30 al poligono di tiro a Reggio Emilia e alle 11 alla Casa Cervi a Campegine. Per non dimenticare, perché non vengano cancellati quegli ideali per i quali i Sette Fratelli Cervi e altri migliaia di partigiani e partigiane come loro hanno dato la vita. Viva la Resistenza!”, si legge in un comunicato.
Alle 15.00, poi, a Guastalla (RE) (Cimitero-tomba Quarto Camurri), cerimonia commemorativa e alle 18.00 a Campegine (RE), fiaccolata commemorativa "La vigilia del sacrificio".

Ci sono anche i dipinti di Renato Guttuso nella mostra che apre oggi fino al 25 aprile al museo di Gattatico ('I Cervi, una storia che resiste'), a cura di Orlando Piraccini e Paola Varesi che collaborano con l'Ibc e l'Istituto Cervi che la promuovono. Vengono esposti dipinti, sculture, disegni, fotografie del Museo Cervi e di altre collezioni pubbliche e private, approfondite evidenze della storia di questa famiglia di contadini antifascisti.

Sono esposte opere della stagione realista italiana, come il grande dipinto di Nello Leonardi per la vicina scuola media di Sant'Ilario d'Enza o le scene del sacrificio dei Cervi di Omero Ettorre e Anna Coccoli, di stretta militanza artistica figurativa ma cariche di umanita', e della pittura d'impegno sociale, che rimanda la 'sequenza' dei ritratti dei sette fratelli Cervi firmati da Renato Guttuso - forse la firma piu' prestigiosa della mostra -, qui insieme al volto di papa' Alcide dipinto da Guttuso tra i personaggi illustri riuniti per i funerali di Togliatti. Tra gli autori in mostra anche Aldo Borgonzoni, Nani Tedeschi, Ennio Calabria, Arnaldo Bartoli, Luigi Bront, Nikolaj Zukov, Franco Ori, Giovanni Sesia, Alfonso Borghi, Gino Covili, Piero Ghizzardi. Un capitolo e' riservato al 'racconto popolare' che la pittura naive dedica alla vicenda della Famiglia Cervi, un altro alle copertine delle tante edizioni delle memorie di Alcide Cervi, pubblicate per la prima volta nel 1954; una sezione e' per alcuni fotogrammi del film di Gianni Puccini, con sceneggiatura di Cesare Zavattini, e due rare fotografie scattate da Arturo Zavattini in occasione del documentario tv girato da Elio Petri. Un dialogo tra storia e contemporaneo negli stessi luoghi lo rappresenta l'installazione artistica del Collettivo FX di Reggio Emilia, che ha coinvolto la torre radar di Arpa costruita a poche decine di metri da Casa Cervi: e' una diversa forma di "esercizio della memoria", spiega Rossella Cantoni, presidente dell'Istituto Alcide Cervi.

L'inaugurazione della mostra, alle 11.30 con l'orchestra da camera Carl Orff (Amici della Musica di Gattatico) e alle 12.30 al Parco del Museo proprio per l'installazione "Distributore permanente di cultura resistente" del Collettivo FX; annunciata anche Loretta Camellini dell'Arpa di Reggio Emilia, che sostiene il progetto. Questa sera, infine alle 21.15 su Rai Storia "Una Giornata Particolare" presenta il film I sette fratelli Cervi preceduto da un'intervista ad Alcide Cervi, accompagnata da brevi interventi del professor Alberto Asor Rosa, docente di letteratura italiana all'universita' di Roma "La Sapienza".