"Che vediamo
da fuori dell’Europa? Vediamo un’Europa abbattuta....Non è il popolo
europeo quello che ha perso la virtù, … l’unica Europa che vediamo nel
mondo è l’Europa neoliberista, dei grandi affari finanziari, dei
mercati e non l’Europa del lavoro. …
…E a questo
punto le sinistre non devono solo accontentarsi dell’unità delle
organizzazioni di sinistra. Devono espandersi verso l’ambito dei
sindacati, che sono il supporto della classe lavoratrice e la loro forma
organica di unificazione. Ma bisogna pure prestare molta attenzione –
compagni e compagne - ad altre forme inedite di organizzazione della
società. La riconfigurazione delle classi sociali in Europa e nel mondo
darà luogo a forme differenti di unificazione, forme più flessibili,
meno organiche, forse più territoriali, meno per centri di lavoro. Tutto
è necessario: l’unificazione per centri di lavoro, l’unificazione
territoriale, l’unificazione tematica, l’unificazione ideologica".
Intervento del Vicepresidente dello Stato Plurinazionale di Bolivia, Alvaro García Linera, nel IV Congresso della Sinistra Europea a Madrid (13 - 15 dicembre 2013):
*****
Buona sera a voi tutti.
Permettetemi
di congratularmi per questo incontro della Sinistra Europea, e, a nome
del nostro Presidente Evo, a nome del mio paese, del nostro popolo,
ringraziare per l’invito che ci avete fatto per condividere un insieme
di idee, di riflessioni in questo importantissimo congresso della
Sinistra Europea.
Permettetemi di essere diretto, franco, ma anche propositivo.
Che
vediamo da fuori dell’Europa? Vediamo un’Europa che langue, vediamo
un’Europa abbattuta, vediamo un’Europa concentrata su se stessa e
soddisfatta di sé, vediamo un’Europa in un certo modo apatica e stanca.
Sono parole molto brutte e molto dure, ma è così che vediamo l’Europa.
È
rimasta indietro l’Europa delle luci, l’Europa delle rivolte, l’Europa
delle rivoluzioni. Indietro, molto indietro, è rimasta l’Europa dei
grandi universalismi che hanno mosso il mondo, e che hanno spinto i
popoli di molte parti del mondo ad acquisire una speranza e a
mobilitarsi intorno a quella speranza.
Indietro
sono rimaste le grandi sfide. Quell’interpretazione che facevano e che
fanno i post-modernisti della fine delle grandi narrazioni, alla luce
degli ultimi fatti, sembrano restare solo i grandi affari dei grandi
gruppi e del sistema finanziario.
Non
è il popolo europeo quello che ha perso la virtù, né ha perduto la
speranza, perché l’Europa alla quale mi riferisco, stanca, l’Europa
esaurita, l’Europa piena di sé, non è l’Europa dei popoli, che è
azzittita, asfissiata. E l’unica Europa che vediamo nel mondo è l’Europa
dei grandi consorzi d’impresa, l’Europa neoliberista, l’Europa dei
grandi affari finanziari, l’Europa dei mercati e non l’Europa del
lavoro.
Carente
di grandi dilemmi, di grandi orizzonti e speranze, si ode –parafrasando
Montesquieu- si ode solo il deplorevole rumore delle piccole ambizioni
e dei grandi appetiti.
Delle
democrazie senza speranza e senza fede sono democrazie sconfitte. Delle
democrazie senza speranza a senza fede sono democrazie fossilizzate. In
senso stretto non sono neanche democrazie. Non c’è democrazia valida
che sia solo un appiglio annoiato a istituzioni fossili in cui si
compiono riti ogni tre, ogni quattro o cinque anni per eleggere quelli
che decideranno malamente sui nostri destini.
Tutti
sappiamo, e nella sinistra più o meno condividiamo, un pensiero comune
su come siamo arrivati a tale situazione. Gli studiosi, gli accademici, i
dibattiti politici ci danno un insieme di assi interpretativi su quanto
stiamo male e su come ci siamo arrivati.
Un
primo criterio condiviso di come siamo arrivati a questa situazione è
che capiamo che il capitalismo ha acquisito, senza dubbio, una
dimensione geopolitica planetaria assoluta. Il mondo intero si è
globalizzato. E il mondo intero diventa un grande laboratorio mondiale.
Una radio, un televisore, un telefono non hanno più un’origine di
creazione, ma il mondo intero è diventato l’origine della creazione. Un
chip si fa in Messico, il progetto si fa in Germania, la materia prima è
latinoamericana, i lavoratori sono asiatici, l’imballaggio è
nordamericano e la vendita è planetaria.
Questa è una caratteristica del moderno capitalismo, è fuor di dubbio, ed è a partire da questo che bisogna agire.
Una
seconda caratteristica degli ultimi vent’anni, è una specie di regresso
a un’accumulazione primitiva perpetua. I testi di Karl Marx, che
descrivevano l’origine del capitalismo dei secoli XVI, XVII, oggi si
ripetono e sono testi del XXI secolo. Abbiamo una permanente
accumulazione originaria che riproduce meccanismi di schiavitù,
meccanismi di subordinazione, di precarietà, di frammentazione,
descritti mirabilmente da Carlo Marx. Solo che il capitalismo moderno
riattualizza l’accumulazione originaria. La riattualizza, la espande, la
irradia ad altri territori per estrarre maggiori risorse e più denaro.
Ma insieme a questa accumulazione primitiva perpetua (che definirà le
caratteristiche delle classi sociali contemporanee, sia nei nostri paesi
sia nel mondo, perché riorganizza la divisione del lavoro localmente,
territorialmente, e la divisione del lavoro del pianeta), insieme a
questa abbiamo una specie di neo-accumulazione per espropriazione.
Abbiamo un capitalismo depredatore che accumula (in molti casi
producendo nelle aree strategiche) conoscenze, telecomunicazioni,
biotecnologie, industria automobilistica. Ma in molti dei nostri paesi
accumula per espropriazione. Vale a dire occupando spazi comuni:
biodiversità, acqua, conoscenze ancestrali, boschi, risorse naturali.
Questa è un’accumulazione per espropriazione, non per generazione di
ricchezza, ma per espropriazione di ricchezza comune, che diventa
ricchezza privata. Quella è la logica neoliberista. Se critichiamo tanto
il neoliberismo è proprio per la sua logica depredatoria e
parassitaria. Più che un generatore di ricchezza, più che uno
sviluppatore di forze produttive, il neoliberismo è un espropriatore di
forze produttive capitaliste e non capitaliste, collettive, locali,
delle società.
Terza
caratteristica dell’economia moderna è, oltre l’accumulazione primitiva
permanente, l’accumulazione per espropriazione, la subordinazione. Marx
direbbe sussunzione reale della conoscenza e della scienza
all’accumulazione capitalista. Quello che alcuni sociologi chiamano
società della conoscenza. Non c’è dubbio, quelle sono le aree più
potenti e di maggior dispiego delle capacità produttive della società
moderna.
Anche
la quarta caratteristica, sempre più conflittuale e rischiosa, è il
processo di sussunzione reale del sistema integrale della vita del
pianeta. Vale a dire dei processi metabolici tra gli esseri umani e la
natura.
Queste
quattro caratteristiche del moderno capitalismo, ridefiniscono la
geopolitica del capitale su scala planetaria, ridefiniscono la
composizione di classe delle società, ridefiniscono la composizione di
classe e delle classi sociali nel pianeta.
Non
c’è solo l’esternalizzazione, alle estremità del corpo capitalista,
della classe operaia tradizionale (classe operaia che abbiamo visto
sorgere nel XIX secolo e all’inizio del XX che ora si trasferisce nelle
zone periferiche: Brasile, Messico, Cina, India, Filippine), ma sorge
anche, nelle società più sviluppate, un nuovo tipo di proletariato. Un
nuovo tipo di classe lavoratrice. La classe lavoratrice dei colletti
bianchi. Professori, ricercatori, scienziati, analisti, che non vedono
se stessi come classe lavoratrice, si vedono piuttosto come piccoli
imprenditori, ma che in fondo costituiscono una nuova composizione
sociale della classe operaia dell’inizio del XXI secolo. Ma
contemporaneamente abbiamo nel mondo la creazione di quello che potremmo
chiamare: un proletariato diffuso, società e nazioni non capitaliste
che sono formalmente sussunte all’accumulazione capitalista. America
Latina, Africa, Asia. Parliamo di società e di nazioni non strettamente
capitaliste, ma che nel loro insieme appaiono sussunte e articolate come
forme di proletarizzazione diffusa non solo per la loro qualità
economica, ma anche per le peculiari caratteristiche della loro
unificazione frammentata, o di difficile frammentazione, a causa della
loro dispersione territoriale.
Abbiamo,
quindi, non solo una nuova modalità dell’espansione e
dell’accumulazione capitalista, ma abbiamo anche una ridefinizione delle
classi e del proletariato e delle classi non proletarie nel mondo. Il
mondo di oggi è più conflittuale. Il mondo di oggi è più proletarizzato.
Solo che le forme di proletarizzazione sono diverse da quelle che
abbiamo conosciuto nel XIX secolo e all’inizio del XX. Le forme di
organizzazione di questi proletari diffusi, di questi proletari in
colletto bianco, non prendono necessariamente la forma del sindacato. La
forma sindacato ha perso la sua centralità, in alcuni paesi, e sorgono
altre forme di unificazione di quello che è popolare, lavorativo ed
operaio.
Che fare? La vecchia domanda di Lenin. Che
facciamo? Condividiamo le definizioni di quello che non va,
condividiamo le definizioni di quello che sta cambiando nel mondo. E
davanti a questi cambiamenti non possiamo rispondere. O meglio, le
risposte che avevamo prima sono insufficienti, se no non starebbe
governando la destra qua in Europa. È mancato qualcosa e qualcosa sta
mancando alle nostre risposte. Qualcosa sta mancando alle nostre
proposte. Permettetemi, con modestia, di dare cinque suggerimenti in
questa costruzione collettiva del che fare che assume la sinistra
europea.
La
sinistra europea non può accontentarsi della diagnosi e della denuncia.
La diagnosi e la denuncia servono per generare indignazione morale, ed è
importante l’espandersi dell’indignazione morale, ma non generano la
volontà di potere. La denuncia non è la volontà di potere. Può
essere l’anticamera di una volontà di potere, ma non è la volontà di
potere. La sinistra europea, la sinistra mondiale, di fronte a questa
voragine distruttiva, depredatrice della natura e dell’essere umano
portata avanti dal capitalismo contemporaneo, deve essere presente con
proposte o iniziative. La sinistra europea e le sinistre di tutte le
parti del mondo dobbiamo costruire un nuovo senso comune. In fondo, la
lotta politica è una lotta per il senso comune. Per un insieme di
giudizi ed anche di pregiudizi. Per il modo semplice in cui la gente
(il giovane studente, il professionista, la venditrice, il lavoratore,
l’operaio) ordina il mondo. Questo è: “il senso comune”, la concezione
base del mondo, quella con cui facciamo ordine nella vita quotidiana, il
modo in cui diamo valore a quello che è giusto e quello che è ingiusto,
a quello che è desiderabile e a quello che è possibile, a quello che è
impossibile e a quello che è probabile. E la sinistra mondiale, la
sinistra europea, devono lottare per un nuovo senso comune, un nuovo
senso comune progressista, rivoluzionario, universalista. Ma è obbligatoriamente un “nuovo senso comune”.
In
secondo luogo, abbiamo bisogno di recuperare (come faceva
brillantemente il nostro primo relatore) il concetto di democrazia. La
sinistra ha sempre rivendicato la bandiera della democrazia. Ed è la nostra bandiera. È
la bandiera della giustizia, dell’uguaglianza, della partecipazione. Ma
per fare questo dobbiamo staccarci dalla concezione di democrazia come
fatto meramente istituzionale. La democrazia sono le istituzioni? Sì,
sono le istituzioni, ma è molto di più che l’istituzione. La democrazia è
votare ogni quattro o cinque anni? Sì, ma è molto più di questo. È
eleggere il Parlamento? Sì, però è molto più di questo. È rispettare le regole dell’alternanza? Sì, ma è molto più di questo. Quella
è la maniera liberale, fossilizzata, d’intendere la democrazia in cui a
volte rimaniamo imprigionati. La democrazia sono valori? Sono valori,
principi organizzativi dell’intendere il mondo: la tolleranza, la
pluralità, la libertà d’opinione, la libertà di associazione. Vanno
bene, sono principi, sono valori, ma non sono solamente principi e
valori. Sono istituzioni, ma non sono solo istituzioni. La democrazia è
pratica. La democrazia è azione collettiva. La
democrazia fondamentalmente è crescente partecipazione
nell’amministrazione delle cose comuni che ha una società. C’è
democrazia se noi cittadini partecipiamo nelle cose comuni che abbiamo.
Se come patrimonio comune abbiamo l’acqua: democrazia è partecipare alla
gestione dell’acqua. Se come patrimonio comune abbiamo l’idioma, la
lingua: democrazia è la gestione comune della lingua. Se come patrimonio
comune abbiamo i boschi, la terra, la conoscenza: democrazia è
partecipare alla gestione dell’acqua, alla gestione dell’aria, della
terra, della conoscenza. Democrazia è gestione, amministrazione comune,
crescente partecipazione nella gestione del bosco, nella gestione
dell’acqua, nella gestione dell’aria, nella gestione delle risorse
naturali. Ci deve essere democrazia, c’è democrazia, nel senso vivo, non
fossilizzato del termine, se la popolazione e la sinistra aiuta,
partecipa alla gestione comune delle risorse comuni, istituzioni,
diritti, ricchezze.
I
vecchi socialisti degli anni ’70 dicevano che la democrazia dovrebbe
bussare alle porte delle fabbriche. È una buona idea, ma non è
sufficiente. Deve bussare alla porta delle fabbriche, alla porta delle
banche, alla porta delle imprese, alla porta delle istituzioni, alla
porta di tutto quello che sia comune alle persone. [Applausi]. Mi
chiedeva il nostro delegato di Grecia sul tema dell’acqua. Come abbiamo
cominciato noi in Bolivia? Per temi base di sopravvivenza: l’acqua. E
intorno all’acqua, che è una ricchezza comune, che stava per essere
espropriata, il popolo porta avanti una guerra di recupero dell’acqua
per la popolazione. E poi abbiamo recuperato non solo l’acqua, abbiamo
fatto un’altra guerra sociale e ci siamo buttati a recuperare il gas e
il petrolio e le miniere e le telecomunicazioni. E c’è ancora molto da
recuperare. Ma in ogni caso questo è stato il punto di partenza, la
crescente partecipazione dei cittadini nella gestione delle cose comuni,
dei beni comuni che ha una società, una regione.
In
terzo luogo, la sinistra deve recuperare la rivendicazione
dell’universale, delle ideologie universali. Delle ideologie comuni. La
politica come bene comune. La partecipazione come partecipazione nella
gestione dei beni comuni. Il recupero delle cose comuni come diritto:
diritto al lavoro, diritto alla pensione, diritto all’istruzione
gratuita, diritto alla salute, diritto all’aria pulita, diritto alla
protezione della madre terra, diritto alla protezione della natura. Sono diritti, ma sono universali. Sono
beni comuni universali di fronte ai quali la sinistra, la sinistra
rivoluzionaria, deve prospettare misure concrete, obiettive e di
mobilitazione.
Leggevo,
su una rivista, che in Europa si stavano utilizzando le risorse
pubbliche per salvare beni privati. È un’aberrazione. Stavano usando i
soldi dei risparmiatori europei per salvare dal fallimento le banche.
Stavano usando il comune per salvare il privato. Il mondo è al
contrario! Deve essere al contrario: usare i beni privati per salvare e
aiutare i beni comuni. Non i beni comuni per salvare i beni privati. Le
banche devono avere un processo di democratizzazione e di
socializzazione nella loro gestione. Perché altrimenti le banche
finiranno per togliere non solo il lavoro, ma anche la casa, la vita, la
speranza, tutto. E questo non si può permettere. [Applausi].
Ma
[bisogna] anche rivendicare (nella nostra proposta come sinistra) una
nuova relazione metabolica tra l’essere umano e la natura. In Bolivia,
per la nostra eredità indigena, la denominiamo come nuova relazione tra
l’essere umano e la natura. Il Presidente Evo dice: la natura può
esistere senza l’essere umano, l’essere umano non può esistere senza
natura. Però non bisogna cadere nella logica dell’economia verde, che è
una forma ipocrita di ecologismo. [Applausi]
Ci
sono imprese che, davanti a voi europei, appaiono come protettori della
natura… e con l’aria pulita…. Però quelle stesse imprese portano da
noi, in Amazzonia, in America o in Africa, tutti gli scarti che si
generano qui. Qui sono depredatori o sono difensori, e lì diventano
depredatori. Hanno fatto della natura un nuovo affare. E la preservazione radicale dell’ecologia non è un nuovo affare, né una nuova logica d’impresa. Bisogna restituire una nuova relazione. Che è sempre tesa. Perché
la ricchezza che va a soddisfare delle necessità richiede la
trasformazione della natura, e trasformando la natura modifichiamo la
sua esistenza. Modifichiamo il BIOS. Però, modificando il BIOS, come
contropartita, molte volte, distruggiamo l’essere umano e anche la
natura. Al capitalismo questo non importa perchè è un affare per lui. Ma
a noi sì, alla sinistra sì, all’umanità sì, alla storia dell’umanità sì
che importa! Abbiamo bisogno di rivendicare una nuova logica di
relazione... Non direi armonica, ma metabolica. Mutuamente utile
all’ambiente vitale, naturale ed all’essere umano. Lavoro, necessità.
Infine,
non c’è dubbio che abbiamo bisogno di rivendicare la dimensione eroica
della politica. Hegel vedeva la politica nella sua dimensione eroica. E,
seguendo Hegel immagino, Gramsci diceva che le società moderne, la
filosofia e un nuovo orizzonte di vita, devono diventare fede nella
società, o possono esistere solo come fede all’interno della società.
Questo significa che abbiamo bisogno di ricostruire la speranza, che la
sinistra deve essere la struttura organizzativa, flessibile,
crescentemente unificata, capace di rivitalizzare la speranza nella
gente. Un nuovo senso comune, una nuova fede, non nel senso religioso
del termine, ma un nuovo credo generalizzato per il quale le persone
scommettono eroicamente il loro tempo, il loro sforzo, il loro spazio,
la loro dedizione.
Mi compiaccio di quanto commentava la compagna quando ci diceva che oggi stiamo riunendo 30 organizzazioni politiche. Eccellente! Vuol dire che è possibile unirsi. Che
è possibile uscire dagli spazi stagnanti. La sinistra, tanto debole
oggi in Europa, non può prendersi il lusso di allontanarsi dai suoi
compagni. Ci potranno essere differenze in 10 o 20 punti, ma coincidiamo
in 100. Quei 100 devono essere i punti di accordo, di avvicinamento, di
lavoro. E teniamoci gli altri 20 punti per dopo. Siamo troppo deboli
per concederci il lusso di continuare in litigi di parrocchia e piccoli
feudi, distanziandoci dal resto. Bisogna assumere una logica nuovamente gramsciana: unificare, articolare, promuovere.
Bisogna
prendere il potere dello Stato. Bisogna lottare per lo Stato. Però non
dobbiamo mai dimenticare che lo Stato, più che una macchina, è una
relazione. Più che materia, è idea. Lo Stato è
fondamentalmente idea. E un pezzo è materia. È materia come relazioni
sociali, come forze, come pressioni, come bilanci, come accordi, come
regolamenti, come leggi. Ma è fondamentalmente idea di credere in un
ordine comune, in un senso di comunità. In fondo, la lotta per lo Stato è
una lotta per una nuova maniera di unificarci, per un nuovo universale,
per un tipo di universalismo che unifica volontariamente le persone.
Però questo richiede di aver vinto precedentemente le credenze, aver
sconfitto precedentemente gli avversari nella parola, nel senso comune;
aver sconfitto le concezioni dominanti di destra nel discorso, nella
percezione del mondo, nelle percezioni morali che abbiamo delle cose. E
perciò questo richiede un lavoro molto arduo. La politica non è solo una
questione di rapporti di forza, di capacità di mobilitazione (che al
momento giusto lo saranno), è fondamentalmente convinzione,
articolazione, senso comune, credenza, idea condivisa, giudizio e
pregiudizio condiviso rispetto all’ordine del mondo. E a questo punto le
sinistre non devono solo accontentarsi dell’unità delle organizzazioni
di sinistra. Devono espandersi verso l’ambito dei sindacati, che sono il
supporto della classe lavoratrice e la loro forma organica di
unificazione. Ma bisogna pure prestare molta attenzione –compagni e
compagne- ad altre forme inedite di organizzazione della società. La
riconfigurazione delle classi sociali in Europa e nel mondo darà luogo a
forme differenti di unificazione, forme più flessibili, meno organiche,
forse più territoriali, meno per centri di lavoro. Tutto è necessario:
l’unificazione per centri di lavoro, l’unificazione territoriale,
l’unificazione tematica, l’unificazione ideologica. È un insieme di
forme flessibili di fronte alle quali la sinistra deve avere la capacità
di articolare, di proporre e di unificare e di andare avanti.
Permettetemi
a nome del Presidente e a nome mio, di complimentarmi con voi ed
elogiare questo incontro, di augurarvi ed esigervi (in modo rispettoso
ed affettuoso): lottate, lottate, lottate! Non lasciate soli noi popoli
che stiamo lottando isolatamente in alcuni luoghi, in Siria, qualcosa in
Spagna, in Venezuela, in Ecuador, in Bolivia. Non lasciateci soli.
Abbiamo bisogno di voi e ancor più di un’Europa che non solo guardi da
lontano quello che succede in altre parti del mondo, ma di un’Europa che
torni nuovamente a illuminare il destino del continente e il destino
del mondo.
Complimenti e molte grazie!
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