La Confindustria e i sindacati hanno criticato il governo per
l’esiguità della manovra che tende a ridurre il cosiddetto cuneo
fiscale. Ancora non si hanno dati precisi, ma nella migliore delle
ipotesi si tratta di poco più di un centinaio di euro per
i lavoratori e per le imprese. Ridicolo. Ma, ammettiamo pure che per
ridurre il cuneo fiscale fossero impiegati 4 miliardi, quelli che ci
sarebbero se fosse rimasta l’Imu sulla prima casa, che cosa avrebbero
prodotto in questa direzione? Considerando che i lavoratori
dell’industria manifatturiera e delle costruzioni ammontano a circa
6 milioni di addetti, se questo beneficio si concentrasse su
questa categoria, la riduzione del cuneo fiscale porterebbe circa
320 euro l’anno in tasca dei lavoratori e altrettanto per le imprese.
L’effetto sarebbe comunque limitato e certamente non darebbe vita
a una netta ripresa dell’occupazione per il semplice fatto che, come ci
ha spiegato Keynes, in una clima di incertezza generalizzata
l’occupazione e gli investimenti ripartono con difficoltà. Detto in
altri termini: se diminuisce il costo del lavoro di circa 55 euro al
mese in media per busta paga, come nel nostro esempio, non c’è un
incentivo sufficiente a far sì che le imprese assumano altri
lavoratori. Inoltre, bisogna considerare il fatto che in molte
produzioni, a partire da quella a media e alta tecnologia, il
costo del lavoro ha un peso relativamente basso, ed in diversi casi
non arriva al 10 per cento del costo finale al consumatore.
Se invece il governo usasse i 4 miliardi, che abbiamo ipotizzato,
per assumere direttamente dei lavoratori nella sanità, scuola,
Università, ricerca, servizi sociali, si creerebbero 130.000 nuovi
posti di lavoro in settori in cui c’è un grande bisogno, dove
i servizi sono spesso scadenti o insufficienti per la carenza di
personale.
Si tratta di posti pubblici, fissi, statali: «che orrore!» potrebbe dire il premier o il presidente di Confindustria o la Commissione Europea. Peccato che questa sia l’unica strada possibile per ridurre la disoccupazione oggi e non domani o dopodomani quando arriverà la mitica crescita che tutti i governi hanno annunciato da sei anni a questa parte.
Si tratta di posti pubblici, fissi, statali: «che orrore!» potrebbe dire il premier o il presidente di Confindustria o la Commissione Europea. Peccato che questa sia l’unica strada possibile per ridurre la disoccupazione oggi e non domani o dopodomani quando arriverà la mitica crescita che tutti i governi hanno annunciato da sei anni a questa parte.
Non solo. Questi nuovi lavoratori avrebbero un reddito da
spendere e potrebbero fare aumentare anche la domanda interna creando
altra occupazione, molto di più di quello che potrebbero fare i già
occupati con un piccolo incremento nella busta paga. Last but not
least, avere più occupati nella scuola/Università, nella ricerca, nella
sanità e nei servizi sociali, migliorerebbe la qualità della vita
per tutti e in particolare per i più poveri, che il peggioramento
dei servizi pubblici ha colpito direttamente. E si potrebbero
aggiungere alla lista i posti che servono per contrastare il
dissesto idrogeologico, per mettere in sicurezza gli edifici
pubblici, i beni archeologici, ecc.
Servirebbero altre risorse, certo, ma questa è l’unico modo che
abbiamo per creare lavori realmente utili nel medio periodo. Questa
è la linea di demarcazione tra una posizione liberista e una di
sinistra rispetto alla questione dell’occupazione. La prima punta
fideisticamente sulle virtù del mercato capitalistico di creare
occupazione attraverso la crescita con opportuni incentivi,
dimenticando che in tutto l’Occidente negli ultimi venti anni si
è sempre più spesso registrata una ripresa jobless. La
seconda posizione punta sul ruolo dello stato, e non si vergogna di
dire che questo è l’unico soggetto che, in gran parte dell’Europa,
tenendo conto della Nuova Divisione internazionale del Lavoro, possa
creare realmente nuovi posti di lavori nel breve periodo.
Ma, per chi è disperato, parafrasando Keynes, non esiste un
lungo periodo. Questa è , a nostro avviso, la vera sfida che si
giocherà alle prossime elezioni europee. Ed è ciò che, insieme alla
richiesta di ristrutturazione del Debito Pubblico, può creare la
grande alleanza tra i paesi del Sud-Europa.
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