mercoledì 23 marzo 2016

STOP MADIA! Lettura guidata ad un decreto/manifesto liberista


STOP MADIA! Lettura guidata ad un decreto/manifesto liberista


di Marco Bersani
STOP MADIA! 
FERMARE LE PRIVATIZZAZIONI,  
DIFENDERE IL REFERENDUM SULL’ACQUA
FUORI I BENI COMUNI DAL MERCATO
Lettura guidata ad un decreto/manifesto liberista
Contesto
Nel giugno 2011, oltre 26 milioni di cittadini hanno votato “SI” a due referendum sull’acqua, determinando, con la vittoria del primo quesito, l’abrogazione dell’obbligo di privatizzazione di tutti i servizi pubblici locali e, con la vittoria del secondo quesito, l’abrogazione dei profitti dalla tariffa del servizio idrico integrato.
Si è trattato, in maniera evidente, di un pronunciamento di massa contro le privatizzazioni e per la gestione pubblica di tutti i servizi pubblici locali.
E, nel caso dell’acqua, come ha ben specificato la Corte Costituzionale, con sentenza n. 26 del 2011, si è perseguita chiaramente:“(..) la finalità di rendere estraneo alle logiche del profitto il governo e la gestione dell’acqua”.
Si inserisce dentro questo contesto il Testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale, decreto attuativo della Legge Delega n. 124/2015, che definisce invece con le seguenti parole l’attuale quadro normativo: “(..) risultato di una serie di interventi disorganici che hanno oscillato tra la promozione delle forme pubbliche di gestione e gli incentivi più o meno marcati all’affidamento a terzi mediante gara” (relazione illustrativa, pag.1), includendo nella generazione di confusione normativa i referendum abrogativi e la sentenza della Corte Costituzionale n. 199/2012 (che difendeva l’esito referendario).
Un testo per mettere ordine, parrebbe.
Ma in quale direzione, lo esplicita subito (sez. 1, paragrafo B) l’Analisi di Impatto della Regolamentazione, allegata al testo di legge.
Fra gli obiettivi a breve termine, viene indicata “la riduzione della gestione pubblica ai soli casi di stretta necessità”, mentre sono obiettivi di lungo periodo: “garantire la razionalizzazione delle modalità di gestione dei servizi pubblici locali, in un’ottica di rafforzamento del ruolo dei soggetti privati e “attuare i principi di economicità ed efficienza nella gestione dei servizi pubblici locali, anche al fine di valorizzare il principio della concorrenza.
Si tratta, in tutta evidenza, di un decreto che si prefigge, cinque anni dopo la vittoria referendaria sull’acqua, la chiusura di quell’anomalia e la privatizzazione dei servizi pubblici locali.
  
Finalità
Altrettanto illuminanti sono le finalità della legge, così come descritte all’art.4.
Mentre il comma 1 recita incredibilmente la volontà di “affermare la centralità del cittadino nell’organizzazione e produzione dei servizi  pubblici locali di interesse economico generale, anche favorendo forme di partecipazione attiva”, il comma 2, aprendosi con le parole “In particolare” (quindi volendo rendere concreto quanto asserito nel comma 1) dice testualmente: “(..) le disposizioni del presente decreto promuovono la concorrenza, la libertà di stabilimento e la libertà di prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione dei servizi pubblici locali di interesse economico generale”
Una definizione che ricalca pedissequamente quella utilizzata in tutti i trattati di libero scambio, dall’Accordo Generale sul Commercio dei Servizi del WTO al più recente TTIP.
Funzione dei Comuni
L’art. 5 del testo sottolinea il ruolo dei comuni e delle città metropolitane, dichiarando, al comma 1 “funzione fondamentale”degli stessi “l’individuazione delle attività di produzione di beni e servizi di interesse economico generale”.
Peccato che, immediatamente dopo, e per tutto il testo della legge, questa funzione sia immediatamente misconosciuta: comuni e città metropolitane, infatti, per individuare i servizi pubblici, devono effettuare preventivamente una verifica, anche con forme di consultazione di mercato, sul fatto che tali attività non siano già fornite o fornibili da imprese operanti con regole di mercato (comma 2 e 3); verifica da inoltrare all’Osservatorio del Ministero dell’Economia sui servizi pubblici locali (comma 5).
Chi gestirà i servizi?
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Le modalità di gestione sono la polpa del provvedimento normativo, e infatti, per quanto riguarda acqua, rifiuti e trasporto pubblico locale, prevalgono su qualsivoglia normativa di settore (art. 3).
Qui il decreto (art. 2) opera una distinzione fra “servizi pubblici locali di interesse economico generale” e “servizi pubblici locali di interesse economico generale a rete”.
Entrambi sono servizi “erogati dietro corrispettivo economico su un mercato, che non sarebbero svolti senza un intervento pubblico”, i secondi sono “organizzati tramite reti strutturali”.
Il primo principio posto chiaramente sulle modalità di affidamento è che la gestione in economia o mediante azienda speciale è possibile solo per i servizi non a rete (comma 1, lettera d) art.7).
Si tratta di un preciso attacco alle proposte di ripubblicizzazione da parte del movimento per l’acqua, che da sempre propugna la gestione attraverso enti di diritto pubblico, quali le aziende speciali, e di un attacco concreto alla realtà di ABC Napoli, azienda speciale che gestisce il servizio idrico della città partenopea.
Tutti i servizi pubblici locali a rete devono di conseguenza essere gestiti attraverso società per azioni.
Ma, perché sia chiaro quali siano le opzioni privilegiate dal decreto, ecco quali ulteriori vincoli vengono posti, laddove gli enti locali scelgano una società per azioni a totale capitale pubblico.
In questo caso, gli enti locali devono deliberare con provvedimento motivato, dando conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dell’impossibilità di procedere mediante suddivisione in lotti del servizio per favorire la concorrenza (comma 3, art.7).
Inoltre, il provvedimento deve contenere un piano economico- finanziario con la proiezione, per l’intero periodo della durata dell’affidamento, dei costi e dei ricavi, degli investimenti e dei relativi finanziamenti; tale piano deve specificare inoltre l’assetto economico-patrimoniale della società, il capitale proprio investito e l’ammontare dell’indebitamento, da aggiornare ogni triennio.
Dulcis in fundo, il piano deve essere “asseverato da un istituto di credito” (comma 4, art.7).
Adempiute tutte queste incombenze, l’ente locale dovrà inviare lo schema di atto deliberativo all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, per un parere che verrà espresso entro trenta giorni (comma 6, art.7).
Nulla di tutto questo è richiesto per le gestioni attraverso società per azioni a capitale privato o a capitale misto pubblico-privato.
  
Chi gestirà le reti e gli impianti?
Poiché nulla dev’essere tendenzialmente sottratto al mercato, ecco la possibilità, sempre “per favorire la tutela della concorrenza” di affidare la gestione delle reti, degli impianti e della altre dotazioni patrimoniali separatamente dalla gestione del servizi, nel qual caso l’affidamento dovrà essere fatto ad una società per azioni a totale capitale pubblico, a società a capitale misto pubblico-privato o a società a capitale privato (coma 4, art.9)
Anche in questo caso, la preferenza per le società miste o private si esprime con la possibilità per le stesse di realizzare direttamente e senza gara d’appalto tutti i lavori connessi alla gestione della rete e degli impianti (comma 2, art. 10)
A chi andranno i finanziamenti pubblici?
Domanda retorica: gli eventuali  finanziamenti statali saranno “prioritariamente assegnati ai gestori selezionati tramite procedura di gara ad evidenza pubblica (..) ovvero che abbiano deliberato operazioni di aggregazione societaria” (comma 2, art.33)
Le tariffe remunerano i profitti
Lo schiaffo al referendum non poteva essere reso più evidente: dopo anni con cui i profitti erano stati mascherati nella tariffa sotto la definizione di “oneri finanziari”, viene reintrodotta nella determinazione delle tariffe dei servizi pubblici locali, “l’adeguatezza della remunerazione del capitale investito” (comma 1, lett. d) art. 25), nell’esatta dizione abrogata dal secondo quesito referendario del giungo 2011. 
L’Authority e il consumatore
L’ideologia liberista del decreto, trasparente in ogni paragrafo del testo, risulta oltremodo evidente laddove si affrontano le “garanzie” su erogazione e qualità del servizio. Qui scompaiono sia le comunità locali in quanto tali, sia il cittadino-utente: entrambi cedono il passo all’individuo consumatore da una parte -a cui va garantita (art. 24) la carta dei servizi- e l’Authority dall’altra, che, per l’occasione viene ridenominata (art.16): “Autorità per energia, reti e ambiente (ARERA)”.
Diritti garantiti dal mercato
Vale la pena riportare un ulteriore passaggio tratto dall’Analisi di Impatto della Regolamentazione allegata al testo di legge.
Ecco cosa si dice alla sezione 4: “(..) Il decreto attua la delega contenuta nell’articolo 19 della legge 7 agosto 2015, n. 124 e la previsione di limiti e condizioni per l’assunzione del servizio pubblico locale permette di valorizzare il ruolo dei privati, secondo la regola generale che alle esigenze dell’utenza risponde il mercato in libera concorrenza, fatta salva la necessità di garantire a tutti un servizio che non sarebbe svolto senza un intervento pubblico”.
Peccato che il comma c) dell’art. 19 della legge cosi recitasse:individuazione della disciplina generale in materia di regolazione e organizzazione dei servizi di interesse economico generale di ambito locale (..) tenendo conto dell’esito del referendum abrogativo del 12 e 13 giugno 2011
Si tratta quindi di un’ulteriore violazione: il decreto attuativo di una legge delega deve infatti attuare, e non stravolgere, quanto previsto dalla legge delega.
Riflessioni politiche finali
Il decreto Madia prova a chiudere un cerchio: quello aperto dalla straordinaria vittoria referendaria sull’acqua del giugno 2011, sulla quale i diversi governi succedutisi non avevano potuto andare oltre all’ostacolarne l’esito, all’incentivarne la non applicazione, ad impedirne l’attuazione.
Questa volta l’attacco è esplicito: forte di quanto ottenuto con gli attacchi ai diritti del lavoro (Job Acts), alla scuola pubblica (“Buona Scuola”), alla difesa dell’ambiente e dei territori (“Sblocca Italia”), il governo Renzi si sente sufficientemente forte da tentare l’assalto finale, buttando a mare il referendum del 2011 e privatizzando tutti i servizi pubblici locali.
Il rilancio delle privatizzazioni dei servizi pubblici risponde a precisi interessi delle grandi lobby finanziarie che non vedono l’ora di potersi sedere alla tavola imbandita di business regolati da tariffe, flussi di cassa elevati, prevedibili e stabili nel tempo, titoli tendenzialmente poco volatili e molto generosi in termini di dividendi: un banchetto perfetto, che Renzi e Madia hanno deciso di apparecchiare per loro.
Con l’alibi della crisi e la trappola artificialmente costruita del debito pubblico, si cerca di portare a termine la spoliazione delle comunità locali, mercificando i beni comuni e privatizzando i servizi pubblici. Per poter attuare tutto questo, è essenziale sottrarre democrazia. Per questo, lo schiaffo al referendum non è un semplice effetto collaterale del decreto Madia, me ne costituisce il cuore e l’anima.
L’ennesima drammatica partita è appena cominciata. A tutte le donne e gli uomini che da anni si battono per l’acqua, per i beni comuni e per un altro modello sociale il compito di giocarla fino in fondo.
Non dobbiamo permettere a Madia/Renzi ciò che abbiamo impedito a Ronchi/Berlusconi.

sabato 19 marzo 2016

I media con Lula di traverso Di ilsimplicissimus


Brasile Sao Paulo 
Spesso parlo dei media mainstream in mano al potere, della menzogna intrinseca e globale che vi corre. Menzogna che spesso funziona attraverso l’enfatizzazione e la negazione come è avvenuto ieri dove abbiamo dovuto seguire tutto il giorno un’azione di polizia per la cattura di un terrorista con tanto di telecamera fissa su una via prossima all’evento e voci affannate nella gonfia narrazione delle voci e dei contrordini, ma non abbiamo avuto praticamente notizia sulla gigantesca manifestazione che si è svolta a San Paolo in appoggio a Lula. Solo oggi qualche notiziario su carta e su video tenta una sortita in chiave di moralismo spicciolo, come si conviene nel paese dove anche l’etica è un balocco che si può giocare o nascondere nella scatola a seconda dei casi.
Ma basta fare la prova del nove, andare su google e cercare notizie sulla manifestazione: si trovano pochi testi e praticamente nessuna foto significativa, solo qualche immagine di repertorio di Lula stesso ed eccezionalmente quella di un gruppetto di gente con cartelli, Per trovare anche solo delle immagini si fatica e a buona ragione, visto che la campagna contro Lula è un classico dell’arancionismo di marca Usa che  ovviamente detesta ogni segnale di appoggio popolare ai personaggi che si vogliono eliminare sotto la spinta di una supposta volontà dal basso. Difficile trovare immagini anche sui giornali brasiliani, a parte il maggior quotidiano della città. Bene allora ecco quello che è accaduto a San Paolo lungo l’Avenida Paulista, cuore della metropoli, due chilometri e mezzo di strada dove hanno parlato Lula e Dilma Roussef. Basta guardare .
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Movimento Sem Terra: vogliono travolgere Dilma per tornare al neoliberismo


Movimento Sem Terra: vogliono travolgere Dilma per tornare al neoliberismo



La direzione nazionale del Movimento dei Lavoratori Senza Terra sulla situazione politica in Brasile. Il movimento ha aderito alla mobilitazione nazionale del 18 marzo contro il golpe
C’è una situazione grave nel paese
Cari compagni/e
1. Certamente tutti/e state seguendo con attenzione gli svolgimenti della crisi politica nel paese. C’è un clima di tensione, di scontri e di grande manipolazione dell’informazione da parte delle reti sociali e di incitamento sociale.
 
2.  In nome della Direzione Nazionale del nostro movimento, vogliamo arrivare a ciascuno di voi, per condividere alcuni elementi di riflessione su questo momento  e degli orientamenti politici.
 
3.  Il Brasile vive una grave crisi economica, sociale, politica e ambientale, che colpisce tutta la società e che è collegata al contesto della crisi mondiale del capitalismo, alla situazione di dipendenza del nostro paese, agli errori del governo in politica economica e all’avidità dei capitalisti che vogliono solo lucro facile, senza preoccuparsi dei destini del paese e della soluzione dei problemi del popolo.
 
4. Di fronte alla crisi c’è una disputa permanente di progetti per uscirne. I settori della borghesia, che dominano l’economia e sono allineati con il capitale straniero, vogliono il ritorno del neoliberismo. Tuttavia non possono dire esplicitamente al popolo che vogliono privatizzare la Petrobras, diminuire le risorse pubbliche per la soluzione dei problemi del popolo stesso. E non hanno ottenuto di poterlo fare attraverso il voto nelle ultime presidenziali.
5.  Così, un pezzo della società, la cosiddetta piccola borghesia è andata in strada, a gridare il suo odio per spingere la popolazione a manifestare contro il governo, predicando chiaramente il golpe. Travolgere Dilma è una loro necessità per tornare al progetto del neoliberismo, per tornare ad avere il controllo anche dell’esecutivo, delle leggi.
 
6.  Dall’altra parte si è formata una triplice alleanza tra settori del Pubblico Ministero Federale, con l’appoggio esplicito della Rete Globo, per creare eventi politici manipolati e condannare in anticipo l’ex-presidente Lula, creando una situazione di illegalità e persecuzione politica.Selezionano, manipolano e diffondono le informazioni che riguardano unicamente le persone di sinistra. Vogliono alla fine, travolgere il governo Dilma, rendere impossibile la candidatura di Lula e sconfiggere politicamente le idee di sinistra nel paese.
 
7. La  Globo è stata il principale strumento golpista, che manipola e agita l’opinione pubblica, distorcendo i fatti e creando un clima di odio. E’ il DNA golpista della Globo che si manifesta ancora una volta.
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8. Per le forze popolari, per la sinistra in generale, c’è solo una possibilità: scendere in strada. Lottare per difendere la democrazia, per difendere i diritti dei lavoratori, per esigere cambiamenti nella politica economica, per difendere la Petrobras e dimostrare al popolo, quali sono i veri nemici del paese.
 
9. Il MST partecipa attivamente al Frente Brasil Popular, che ha deciso un calendario di mobilitazioni in tutto il paese. Domani, 18 marzo, sono programmate grandi manifestazioni in tutte le capitali e le città importanti. E’ decisivo partecipare in massa a queste manifestazioni. Così invitiamo tutti a lavorare con forza per stimolare una partecipazione ampia a queste mobilitazioni popolari.
10. Il 31 marzo, giorno che ci ricorda la triste data del golpe militare, dobbiamo fare assemblee plenarie, mobilitazioni in tutti  i comuni dell’interno, per portare questa discussione al maggior numero possibile di persone, alla popolazione in genere. Dobbiamo approfittarne per discutere sulla natura della crisi e su quelle che sarebbero le vere vie d’uscita, combattendo contro il golpe e sostenendo i cambiamenti per migliorare le condizioni di vita del popolo. Difenderemo la democrazia e il mandato della Presidente Dilma, ma vogliamo cambiamenti nella politica economica.
11. Il Nostro Movimento, in particolare, insieme con altri movimenti delle campagne, si mobiliterà durate tutto il mese di aprile per ricollocare nel dibattito politico la riforma agraria. Vogliamo che si riprendano le politiche pubbliche per l’agricoltura familiare e gli insediamenti.
12. Invitiamo ognuno a riunirsi nei gruppi di base, negli insediamenti, accampamenti e preparare le nostre mobilitazioni del mese di aprile, intorno al 17, per ricordare il massacro dei 21 compagni assassinati. Ancora, a distanza di 20 anni regna l’impunità.
 
13.  Il nostro futuro è la lotta. Vince solo chi lotta. Per questo non è il momento di restare fermi, nonostante le incertezze di una congiuntura che muta continuamente.    
14.  Raccomandiamo anche che, con l’aumento della tensione, restiamo in allerta, non cadiamo nelle provocazioni della destra, dobbiamo sempre agire collettivamente. Dobbiamo avere una speciale attenzione nel salvaguardare la sicurezza delle persone, dei militanti e delle nostre strutture collettive.
 
15.   Questo è il momento di stare in allerta, riunendoci con il popolo, portando le nostre analisi, provocando la discussione sulle vie d’uscita dalla crisi, organizzando mobilitazioni nei nostri comuni e partecipando alle attività nelle capitali
Andiamo alla Lotta! Un forte abbraccio a tutti e tutte
coletivo da Direção Nacional      
São Paulo 17 marzo  2016

Dice Speranza di Lucia Del Grosso

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Dice Speranza che loro, la sinistra dem, non escono dal PD. Loro sono il PD.
Ma io sapevo che un partito si fonda su:
  1. una base sociale di riferimento:
  2. una ideologia coerente con la base di riferimento del partito;
  3. un’organizzazione.
Questa definizione di partito mi serve per sottoporre a verifica l’affermazione di Speranza.
A occhio e croce mi pare che Speranza o abbia sbagliato genere, numero e caso, o stia facendo coming out.
Infatti:
  1. da due anni gli studi dei flussi elettorali del Cattaneo di Bologna e tutti i principali istituti di sondaggi segnalano che nel PD si è verificato il più potente ricambio dell’elettorato della storia della Repubblica. Entrano gli ex elettori di Monti e di Forza Italia ed escono gli elettori di sinistra. Si deve presumere che anche la base sociale abbia subito una sensibile variazione;
  2. l’ideologia è quella di un partito liberista postdemocratico: per cancellare più rapidamente i diritti sociali il PD riforma le istituzioni in modo da comprimere la dialettica parlamentare. E’ riuscito nella mirabile impresa di attuare il programma della P2, Berlusconi non ancora ci riesce a credere;
  3. l’organizzazione è una federazione di bande che periodicamente si sottopongono all’ordalia delle primarie, che già di per sé è un rito prepolitico che contempla la scelta della classe dirigente non mediante libera discussione, ma facendo appello alla retorica e alla mozione degli effetti. Per di più non riescono ad ammantare le primarie nemmeno di uno straccetto di dignità e arrivano perfino ad imbrogliare sulle schede bianche. La discussione interna nel partito si limita a qualche riunione di direzione in diretta streaming per far assistere tutto il popolo italiano agli insulti di Renzi alla minoranza.
Ma Speranza dice che lui è il PD. Quindi le ipotesi sono 3:
  a) non ci vede bene;
  b) ci vede benissimo e si riconosce in 1, 2 e 3;
  c) crede che la questione sia sono la leadership del partito 
      e quindi un congresso potrebbe eliminare quanto vi è di
      distorto in 1, 2 e 3.
Se ricadiamo nei casi a) e b) non so che dirgli, buon pro gli faccia.
Se ricadiamo nel caso c) ci dica Speranza se crede veramente che modificazioni così profonde, estese, complesse e non reversibili che attengono alla natura del partito possano essere risolte con un congresso. Anzi, nemmeno con un congresso, perché lo statuto del partito contempla le primarie come strumento di contesa politica.  Cioè l’ordalia di cui si diceva sopra.

Varoufakis: l’Europa deve fermare la prossima ondata di fascismo



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intervista a Yanis Varoufakis 18 MARZO 2016
La sfida principale che l’Europa si trova a dover affrontare in questo momento storico consiste nel «fermare la prossima ondata di fascismo». Ne è sicuro l’ex ministro greco delle Finanze, Yanis Varoufakis, che il 23 marzo sarà a Roma per la prima assemblea di DiEM25, un movimento transnazionale il cui intento è di «trasformare l’Europa in un continente pienamente democratico entro i prossimi dieci anni». Siamo nella tempesta perfetta: «le banche centrali hanno fallito il loro scopo e il deficit Usa è salito a livelli pre-2008». Il leader della primavera ateniese propone la sua ricetta per superare il guado, cita Antonio Gramsci e fa propria l’esigenza di stabilire una nuova egemonia culturale: «invece di parlare di giustizia e uguaglianza, dovremmo parlare di libertà».
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Si definisce un marxista erratico e dice di voler salvare il capitalismo da se stesso. Qual è lo stato dell’arte del capitalismo europeo dopo l’estate greca? E quali sono i propositi del suo partito pan-europeo? Caro, vecchio, riformismo o qualcosa di diverso?
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Come ha detto una volta Gramsci, nella nostra attuale situazione il vecchio è morto ma il nuovo stenta a nascere. Perché la sinistra dovrebbe avere cura di salvare il capitalismo da se stesso? Perché la sua profonda crisi, la sua esperienza di pre morte, servirà solo a rafforzare l’ala dell’estrema destra, gli xenofobi, coloro che disprezzando la democrazia, il lavoro organizzato, i diritti umani e così via. Il capitalismo europeo è in una fase avanzata di disintegrazione e la frantumazione della Primavera Ateniese, la scorsa estate, illustra e rafforza questo dato. DiEM25, il nostro movimento Pan-Europeo (non è un partito!) si occupa delle quattro crisi parallele del capitalismo europeo: il debito (pubblico e privato), l’investimento ultra basso, banche e povertà. Senza una stabilizzazione, gli unici a beneficiarne saranno Le Pen, Alba Dorata, AfD in Germania etc. E questa stabilizzazione potrà avvenire solo in combinazione con la democratizzazione delle istituzioni europee. Questi sono i presupposti per un futuro in cui sia possibile, ancora una volta, avere un dibattito significativo su come riformare i rapporti sociali capitalistici.
Considera la morte del Minotauro globale come una conseguenza della crisi dei mutui subprime del 2008 e dice che vivremo in una sorta di aporia fino a quando una nuova era non avrà mostrato il proprio volto. La nostra impressione è che disistimi l’abilità di questo organismo diabolico di creare anticorpi e ri-territorializzarsi attraverso l’ecosistema creato dalle Banche Centrali. Riesce a intravedere la nascita di una nuova era o siamo ancora immersi nell’aporia?
Questa non è la mia interpretazione dei fatti. Le Banche Centrali semplicemente stabilizzano la finanza. Tuttavia, esse hanno miseramente fallito lo scopo di ripristinare la capacità di Wall Street, della City o di Francoforte di riciclare le eccedenze a livello globale e nella scala necessaria per rivitalizzare il Minotauro. Mentre il deficit delle partite correnti degli Stati Uniti è salito di nuovo a livelli comparabili a quelli del periodo pre-2008 e mentre la finanza sta rastrellando i suoi profitti di carta (per gentile concessione del Quantitaive Easing) non sono riusciti a compensare la domanda aggregata globale. E, come i mercati emergenti, in cui la baldoria degli investimenti finanziati dal QE si sta sgonfiando, vengono catturati in una tempesta perfetta fatta di una diminuzione del prezzo delle materie prime e di un aumento del dollaro, il capitalismo USA e dell’Unione Europea sta affrontando nuove turbolenze in un’epoca in cui non è riuscito a gestire e affrontare l’eredità della crisi del 2008. Il Minotauro, in altre parole, rimane ferito a morte anche se l’aporia causata dal suo ferimento è stata rimpiazzata da un falso senso di guarigione.
Lei sostiene che risparmi e debiti si muovano in parallelo. Abbiamo sperimentato una sorte di “debitocrazia” in tempi recenti. Stiamo entrando in una sorta di “risparmiocrazia”, ora?
No. E’ un errore pensare che ci stiamo muovendo da un periodo dominato dal debito verso uno in cui a farla da padrone sono i risparmi. Debito e risparmio aumentano di pari passo. E’ ciò a cui mi piace riferirmi come al problema Twin Peaks. In circostanze “normali”, o di equilibrio, un aumento del risparmio dà luogo a nuovo debito che si trasforma in investimenti in attività produttive, le quali generano un reddito sufficiente per pagare il debito e creare nuovi risparmi. Purtroppo, dopo il 2008, il risparmio è inutilizzato, perché siamo troppo spaventati dal trasformarlo in investimento. In questo modo, risparmi e debiti sono aumentati simultaneamente, diventando le Twin Peaks che simboleggiano l’ultima crisi del capitalismo.
L’eccesso di capitale delle più grandi piattaforme tecnologiche spinge la deflazione, fondi sovrani e fondi speculativi possono salvare o annientare intere nazioni. La gestione del risparmio e dei capitali si sta trasformando essa stessa in un vero e proprio mezzo di produzione?
No, purtroppo non può. Il problema non riguarda la gestione dei risparmi. Nemmeno il fatto di fornire liquidità agli istituti di credito. La BCE ha fatto del suo meglio per motivare le banche a concedere prestiti. Infatti in questo momento sta pagando i banchieri perché prestino denaro alle imprese. Ma il problema è che le imprese non vogliono prendere a prestito per investire perché prevedono una bassa domanda aggregata per i loro beni e servizi. La paura di un basso investimento deprime la domanda, fatto che poi conferma il timore originale. Questa è una tragedia simile a quella di Edipo cui nessun sistema di gestione del risparmio privato può porre rimedio. Ciò di cui abbiamo bisogno, in questo frangente, è un approccio simile al New Deal, dove il settore pubblico delle istituzioni si impegna a convertire il risparmio in un flusso di investimenti capace di affollare i restanti risparmi privati.
Yanis Varoufakis è un economista e politico greco, naturalizzato australiano. Professore di teoria economica all’Università di Atene è stato Ministro delle Finanze nel Primo Governo Tsipras.
Nel 2012 ha pubblicato un saggio dal titolo «Il Minotauro Globale. L’America, le vere origini della crisi e il futuro dell’economia globale», edito in Italia da Asterios.
Mercoledì 23 marzo 2016 si terrà a Roma la prima assemblea di DiEM25, il movimento “dal basso” lanciato da Yanis Varoufakis lo scorso febbraio a Berlino. “Regista” dell’evento Italiano èLorenzo Marsili, fondatore di European Alternatives, organizzazione transnazionale attiva da nove anni in tutta Europa.
Oltre a Varaoufakis e Marsili, parteciperanno Julian Assange, Cecilia Strada, Srecko Horvat, Marisa Matias, Luciana Castellina, e Jorge Moruno (Podemos). A sostegno dell’iniziativa è attiva una raccolta fondi sulla piattaforma produzionidalbasso.com

venerdì 18 marzo 2016

Bolle. Troppo successo porta al fallimento di Giorgio Cremaschi


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Chi ha la mia età salta sulla sedia quando sente le autorità monetarie ed economiche auspicare il ritorno dell’inflazione. Alla fine degli anni 70 del secolo scorso l’inflazione era diventata il male supremo. Bisognava interrompere la spirale prezzi salari, affermava perentoriamente il nuovo mantra liberista che si era impadronito dell’economia, della politica e anche dei sindacati. Ricordo Luciano Lama che nei comizi denunciava l’inflazione come il nemico dei lavoratori e come la causa economica del fascismo. Un profondo travisamento del passato, perché era stata la disoccupazione di massa, e non l’aumento dei prezzi, a far crescere l’estrema destra in Germania. Così come avviene oggi. La cattiva storia aiutava una cattiva politica. Il risultato fu che l’inflazione fu stroncata abbattendo salari, diritti e stato sociale.
Chi ha la mia età ha vissuto in tutti gli anni 80 del secolo scorso la campagna contro la scala mobile dei salari, un istituto che faceva aumentare automaticamente le retribuzioni a tutti i lavoratori, per compensare l’aumento dei prezzi. La scala mobile è inflazionistica e l’Europa non la vuole, si gridava dai pulpiti del potere, e alla fine essa fu abolita. Poi anche i contratti nazionali furono un po’ alla volta smantellati. Infine dilagarono disoccupazione di massa e precarietà, per spinte del mercato e per volontà delle leggi. Leggi che un pò alla volta distrussero le tutele dei lavoratori di fronte all’impresa, fino alla libertà di licenziamento garantita dal Jobsact.
Ora Draghi presta danaro a costo zero, perché spera che così ci sia un pò di aumento dei prezzi, ma i prezzi non crescono. Perché nessuno compra visto che i salari continuano a sprofondare. Se non facesse rabbia ci sarebbe da sorridere nel verificare che i signori del liberismo raccolgono ciò che hanno seminato. Volevano distruggere i salari per accrescere i profitti, ora che avrebbero bisogno di più salari per far ripartire l’economia e gli stessi profitti, devono constatare che la loro distruzione ha creato il deserto. Così continuano a dare soldi alle banche sperando che queste le trasformino in chissà quale sviluppo. Ridicolo. Draghi presta i soldi al sistema bancario ad interesse zero, ma se io voglio un prestito devo pagare interessi del sette per cento. E se ho uno salario, ed è già una fortuna, questo è sostanzialmente bloccato. Come l’economia. Così i soldi che Draghi regala alle banche restano lì e contribuiscono a gonfiare una bolla finanziaria che prima o poi esploderà su una economia reale sempre più in crisi. Le Borse sanno perfettamente tutto questo e così, dopo aver incamerato qualche guadagno, hanno ricominciato a franare verso il basso .
Anche Renzi ha costruito la sua bolla. Ha speso undici miliardi di euro per finanziare assunzioni. Le aziende si sono buttate sopra questo improvviso Bengodi, e hanno così concentrato in pochi mesi le assunzioni che intendevano fare in tempi più lunghi. Anche perché gran parte di esse non erano nuovi posti di lavoro, ma trasformazione di contratti già esistenti. E soprattutto perché il Jobsact garantisce che questi nuovi assunti possano essere licenziati in qualsiasi momento. Così appena son calati gli incentivi, il mercato del lavoro è crollato a livelli inferiori a quelli del 2014. Era già successo con la rottamazione delle auto. Finiti gli incentivi degli anni 90 del secolo scorso il mercato automobilistico è piombato in una depressione decennale. Anche la rottamazione dei diritti del lavoro ora segue lo stesso ciclo, e la bolla occupazionale voluta da Renzi comincia già a sgonfiarsi.
Prendersela con le misure costose e sostanzialmente inutili di Draghi e Renzi è giusto, ma non sufficiente. Le loro bolle sono la conseguenze di scelte che sono scritte nei trattati europei e nella politica economica di tutti i governi del continente. La lotta all’inflazione è nel trattato di Maastricht, mentre quella alla disoccupazione lì non è prevista. Il taglio dei salari e la distruzione dello stato sociale sono prescritti dalla riscrittura dell’articolo 81 della Costituzione, che impone il pareggio di bilancio. Al resto ci pensa poi il fiscal compact.
Se non si mettono in discussione l’euro e i trattati europei che impongono le politica di austerità, se si continua con distruzione dei salari e dei diritti del lavoro, tutti soldi immessi nell’economia finiranno in bolle speculative.
Renzi e Draghi sono come due amministratori di condominio che di fronte al crollo progressivo della casa continuino a spender soldi per riverniciarla. Sono sicuramente colpevoli, ma non perché usano poca vernice.

mercoledì 16 marzo 2016

Le nuove forze che servono per l’unità della sinistra


Le nuove forze che servono per l’unità della sinistra
di Loris Caruso
Partiti & movimenti. Un nuovo soggetto politico che abbia capacità espansiva non nascerà se non sarà preceduto da una mobilitazione in campo sociale
La situazione della sinistra italiana è diventata abbastanza disarmante anche per i militanti più fedeli. Nella situazione attuale costruire l’unità della sinistra era un obiettivo minimo. Le condizioni c’erano e ci sono, ma l’obiettivo non è stato raggiunto.
L’ennesimo fallimento indica che il problema è costitutivo, risiede nelle forze politiche che hanno sostenuto i tentativi di unità e nei rapporti tra loro. Ora le repliche, ammesso che siano possibili, non è detto che avrebbero spettatori.
Non si può lanciare un j’accuse generico a tutte le forze a sinistra del Pd, le responsabilità sono state precise. Si era arrivati a Novembre con un documento sottoscritto da tutti, premessa per il nuovo soggetto unitario. Subito dopo, il lancio del gruppo parlamentare di Sinistra italiana ha avuto un discreto ritorno in termini di partecipazione e visibilità mediatica. I parlamentari di SI hanno così pensato di poter fare a meno di Rifondazione, L’Altra Europa e Possibile, avendo presenza istituzionale, visibilità mediatica (ora già ridotta), sondaggi favorevoli (già meno) e risorse.
Così si è tornati all’impasse abituale. Diverse sinistre, concorrenti o in attesa dei rispettivi fallimenti, magari per riavvicinarsi (o assorbirsi) prima delle elezioni politiche. Le liste unitarie alle amministrative sono un’eccezione importante, ma parziale: competizione e dissidi tra le diverse forze si spostano dentro quelle liste; difficilmente una frattura nazionale può essere ricomposta dal livello locale.
L’Altra Europa e il Prc continuano a chiedere l’apertura di un processo unitario. Ma al momento è difficile vederne le basi, visto che gli interlocutori stanno facendo un’altra cosa. Dall’altra parte, il lancio di Sinistra italiana (nella versione ‘Cosmopolitica’) avviene attraverso un appello anonimo per una sinistra aperta, innovativa e plurale. Ma l’esito della tre giorni di Cosmopolitica dice che in quel contesto le intenzioni di chi immaginava un soggetto innovativo sono minoritarie: Cosmopolitica è la ricostruzione di Sel, con l’innesto di alcuni ex Pd e del gruppo di Act. Al suo interno ci sono inoltre differenze incentrate su questioni determinanti, quindi difficilmente superabili: la forma-partito, il rapporto con il Pd, il rapporto tra dimensione nazionale e dimensione europea.
Un’iniziativa politica di riunificazione interna a questo quadro, e basata su questi attori, è diventata quasi irrealizzabile.
In Italia non è stato finora possibile seguire nessuno dei tre modelli con cui le sinistre si stanno affermando in altri paesi. Il primo è quello di Syriza, l’unificazione «dall’alto» tra forze già esistenti, ed è quello che in Italia non è riuscito. Il secondo è la nascita «dal basso» di una forza alternativa: è il caso di Podemos. In Italia non è replicabile, perché non si sono verificati processi sociali e mobilitazioni collettive paragonabili a quelle spagnole. Il terzo è quello di Sanders e Corbyn: provare ad assumere la guida del partito di centro-sinistra. Anche questo è legato ai contesti in cui è in atto, e non è trasferibile: si colloca in sistemi storicamente bipartitici, in cui la costruzione di un partito alternativo è considerata irrealistica, e il tentativo di conquistare la leadership del partito mainstream può avere legittimità presso fasce ampie della sinistra politica e sociale, anche radicale. Nel caso italiano, il Pd non è inoltre recuperabile a una causa progressista.
I tre modelli hanno tre aspetti comuni. Il primo è che l’ascesa del nuovo partito o del nuovo leader è preceduta da un’ampia mobilitazione sociale. Il secondo, quasi contraddittorio rispetto al primo, è che queste ascese si affermano su un terreno di rinnovata «autonomia del politico». Hanno all’origine una mobilitazione sociale, ma non ne sono diretta emanazione. Basano l’organizzazione su reti di attivismo civico e sociale, ma agiscono prevalentemente sul piano elettorale e su quello delle rappresentazioni. A questo scopo dispongono di risorse specifiche: una leadership che incarna un progetto collettivo, abilità mediatica, strategia elettorale, capacità di costruire un discorso ideologico. Rapporto con i movimenti e «autonomia del politico» hanno due funzioni diverse. Il primo aspetto serve ad attrarre e reclutare attivisti, il secondo ad affermarsi sul piano elettorale. Ma entrambi sono necessari, senza l’uno non c’è l’altro. Il terzo aspetto comune è che in tutti e tre e i modelli al centro del discorso ideologico c’è la contrapposizione tra popolo e potere, e il linguaggio assume tonalità radicali. Il «popolo» è il soggetto di cui queste sinistre si vogliono riappropriare.
In Italia, un nuovo soggetto politico che abbia capacità espansiva non nascerà se non sarà preceduto da una mobilitazione in campo sociale, perché la sinistra italiana non dispone di risorse politiche sufficienti per fare a meno di questa mobilitazione, di nuovi attori e identità. Si deve sperare che la mobilitazione per i referendum possa costituire un fatto politico importante, che a questa si affianchino nuove mobilitazioni sociali (la Cgil può battere un colpo?), e che da questi due elementi emergano gruppi dirigenti capaci di attivare una nuova iniziativa politica. I partiti e i gruppi politici già esistenti potranno avere un ruolo importante in questa iniziativa, se ci sarà, ma molto difficilmente potranno farla partire. Saranno altri a doversi fare avanti.

lunedì 14 marzo 2016

Cosa vuol dire sinistra oggi? Emancipazione sociale in tempi di crisi di Norbert Trenkle

114214437 98e6ee7b 5ee6 4bb0 8b77 f5e2f6996f7bI. Quando più di 25 anni fa il cosiddetto socialismo reale colò a picco, il pubblico liberal-democratico si convinse che il «sistema sociale» basato sull’economia di mercato e sulla democrazia si fosse aggiudicato una storica vittoria nel «conflitto tra i sistemi». Francis Fukuyama decretò la sua celebre sentenza circa la «fine della storia», che fece rapidamente il giro del mondo, mentre alla sinistra tradizionale venne a mancare il terreno sotto i piedi.
In questo clima euforico furono ben poche le voci dissenzienti. Qualcuno suggerì spiritosamente che in realtà l’Occidente non aveva vinto, che sarebbe stato solo l’ultimo degli sconfitti. Lungi dal promuovere il benessere generale il capitalismo scatenato, senza più neppure l’opposizione di un sistema antagonista, dispiegò la sua forza distruttiva con una dinamica ancor più incontenibile. Dalla prospettiva della critica del valore, come era stata formulata nell’ambito del gruppo Krisis, la questione si poneva in termini assai differenti. Secondo la nostra analisi il crollo del socialismo di Stato non segnava affatto la fine di un sistema sociale antagonista, ma solo quella di un regime statalista dispotico della modernizzazione di recupero, ormai giunto ai suoi limiti storici, che a causa della sua struttura sclerotizzata e inerte non era più in grado di saltare sul treno della terza rivoluzione industriale, con i suoi nuovi standard produttivi. Allo stesso tempo interpretammo il collasso di quel regime come l’inizio di una crisi fondamentale del modo di produzione capitalistico complessivo, che avrebbe soffocato, in ultima analisi, l’iperproduttività da esso stesso scatenata (vedi Stahlmann 1990; Kurz 1991). Questa diagnosi fu criticata sotto molti punti di vista e, per un certo periodo, apparentemente contraddetta, e in termini eclatanti, dallo sviluppo reale della società. Ma adesso, finalmente, anche se con un ritardo temporale di un quarto di secolo, il sistema mondiale capitalistico ha iniziato a sfasciarsi con impressionante rapidità. Ma per comprendere le cause e il carattere di questa dinamica sfrenata è necessario, prima di tutto, gettare uno sguardo retrospettivo sugli sviluppi degli ultimi 25 anni.
2. Poco dopo la cesura storica del 1989 l’ottimismo euforico iniziò già a raffreddarsi. L’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein fece traballare l’architettura geopolitica del Vicino e Medio Oriente e così la questione di un «nuovo ordine mondiale», dopo la fine del confronto tra i blocchi, tornò di nuovo all’ordine del giorno; la risposta fu l’intervento dell’Occidente, sotto la direzione degli USA, che ebbe come unico effetto una stabilizzazione quanto mai precaria e temporanea. Più tardi, con la sanguinosa disintegrazione della Jugoslavia, la guerra bussò direttamente alle porte dell’Unione Europea, mentre nazionalismi e separatismi iniziarono a prosperare anche in altri paesi dell’Europa e del mondo. Anche sul piano economico la prima metà degli anni Novanta non fu affatto un periodo promettente. L’ex-blocco orientale versava in condizioni disastrose, i paesi del Terzo Mondo gemevano sotto il fardello di un indebitamento spaventoso e sotto le politiche di aggiustamento neoliberali imposte dal FMI e dalla Banca Mondiale mentre nei centri capitalistici la disoccupazione strutturale di massa aumentava incessantemente. Allo stesso tempo i nuovi focolai di conflitto e di guerra civile, associati allo sfacelo economico dei paesi dell’ex-blocco orientale, causarono imponenti flussi migratori, cui l’Europa reagì con un atteggiamento istericamente difensivo, e che prepararono la strada a una brutale politica di isolamento sotto la regia tedesca. Più di un politico liberale, dopo avere smaltito la sbornia per il trionfo dell’Occidente, si ritrovò improvvisamente ad auspicare la ricostruzione del muro (vedi Trenkle 1993).
3. Se nei tardi anni Novanta e nel primo decennio del Duemila la situazione economica potè essere nuovamente stabilizzata fu soprattutto grazie a un gigantesco boom dell’economia mondiale, che fu determinato dall’ipertrofia dei mercati finanziari, cioè dall’accumulazione massiccia di capitale fittizio. Questo boom sembrò smentire nel modo più assoluto tutti i pronostici di un «collasso della modernizzazione» come crisi fondamentale del sistema mondiale capitalistico. Anche perché questa crescita economica non rimase circoscritta alle tradizionali metropoli capitalistiche ma favorì anche molti dei cosiddetti paesi emergenti. Soprattutto la Cina, il Brasile e l’India, come anche alcuni paesi del Sud-Est asiatico, che avevano già incassato il naufragio dei loro programmi di sviluppo, varati negli anni Sessanta e Settanta, sperimentarono un boom senza precedenti, sotto l’insegna nuova di zecca dell’«accumulazione trainata dalla finanza», trasformandosi in colossi economici. Perfino un certo numero di Stati africani e latino-americani, che alla fine degli anni Novanta venivano considerati i grandi perdenti della globalizzazione, riuscirono a saltare, dopo la svolta del secolo, sul carro di questa congiuntura economica, grazie alla vendita delle loro materie prime e dei loro prodotti agricoli, la cui domanda sul mercato mondiale era aumentata vertiginosamente. In virtù delll’esportazione delle sue materie prime, anche la Russia poté rialzare la testa, sia sul piano economico che su quello politico, e, sotto il regime dittatoriale di Putin, riprese di nuovo a influenzare con decisione gli eventi geopolitici.
4. Questa ripresa dell’economia mondiale riposava però su di una base completamente diversa da quella del boom fordista del dopoguerra. Se il fordismo si fondava su una valorizzazione del capitale mediata dallo sfruttamento su vasta scala della forza-lavoro nella produzione industriale di massa, cioè sull’appropriazione di valore frutto di lavoro passato, la nuova dinamica economica viene alimentata dal ricorso massiccio a valore futuro, cioè dal dispendio futuro di forza-lavoro. Per questo cambiamento di base esistevano ragioni strutturali. Quando il modello di accumulazione fordista, negli anni Settanta e Ottanta, entrò in crisi, perché l’applicazione della scienza alla produzione, sulla scia della Terza rivoluzione industriale, divenne la forza produttiva principale, anche il meccanismo classico della valorizzazione del capitale si scontrò con i suoi limiti storici. Di fronte all’espulsione massiccia e assoluta di forza-lavoro dalla produzione immediata, il valore creato nella produzione era di gran lunga insufficiente a tenere in vita il processo autotelico dell’accrescimento permanente del denaro. Ma in questo modo il meccanismo funzionale di base del modo di produzione capitalistico era ormai compromesso (vedi Lohoff/Trenkle 2012).
5. Una via di uscita provvisoria da questa crisi venne trovata solo grazie all’accumulazione su grande scala di capitale fittizio. Si verifica sempre una produzione di capitale fittizio quando titoli di proprietà, come obbligazioni o azioni, vengono messi in circolazione o quando salgono i prezzi dei titoli già in circolazione. Questi titoli sono promesse di pagamento negoziabili e costituiscono un genere particolare di merci, sono cioè merci del secondo ordine (vedi Lohoff/Trenkle 2012), dalle caratteristiche del tutto peculiari. Mediante la loro vendita è possibile incrementare il capitale investito senza ricorrere all’impiego di forza-lavoro e senza «deviare» attraverso la produzione di merci sul mercato dei beni.
Come è possibile? Con l’acquisto di promesse di pagamento negoziabili il denaro non passa semplicemente dalle mani dell’acquirente in quelle del venditore. Questo passaggio di denaro da chi concede il credito a chi si assume il debito, da chi acquista le azioni a chi le ha emesse etc. si accompagna a un temporaneo raddoppiamento della somma di denaro in questione. Accanto al capitale iniziale, giunto nelle mani del beneficiario del credito o dell’emittente delle azioni, entra in scena, nella forma del titolo di proprietà, una sua immagine speculare autonomizzata, che rappresenta valore futuro. Fino a quando il titolo di proprietà è valido, cioè per tutta la sua durata, si verifica così una accumulazione di capitale senza valorizzazione di capitale (vedi Lohoff 2014).
Lungi dall’essere una novità assoluta questo singolare meccanismo di raddoppiamento è sempre stato un elemento della logica di funzionamento basale del capitalismo, che però nella crisi fondamentale della valorizzazione, determinata dall’espulsione, in termini assoluti, di forza-lavoro in seguito alla terza rivoluzione industriale, ha assunto una funzione del tutto nuova, che funge da base per tutto il sistema: si è trasformato nel motore della dinamica dell’economia globale. Sono ormai molti anni che l’opinione pubblica si straccia le vesti al cospetto della spaventosa crescita del capitale finanziario, che viene giudicato come uno «sviluppo erroneo», responsabile di tutti i fenomeni della crisi. Ma senza l’accumulazione di capitale autonomizzata sui mercati finanziari, il sistema mondiale della merce starebbe agonizzando già da almeno trent’anni. Se non ci fosse stata questa «produzione» di capitale fittizio, in Cina, India, Brasile etc. non ci sarebbe stato nessun boom industriale, gli ex-Stati del socialismo reale non si sarebbero mai ripresi dal tracollo e la terza rivoluzione industriale sarebbe stata strangolata dalla sua stessa produttività, che rendendo superflua su grande scala la forza-lavoro, distrugge i fondamenti della valorizzazione del capitale.
6. Per giunta questa dinamica fondata sul capitale fittizio presenta alcune differenze sostanziali rispetto al boom fordista del dopoguerra. La più importante consiste nel fatto che l’accumulazione di capitale non dipende più, in primo luogo, dallo sfruttamento di forza-lavoro, perché l’accrescimento del denaro si verifica in gran parte direttamente sui mercati finanziari. Per questa ragione, i venditori della merce forza-lavoro hanno perso gran parte del loro potere contrattuale, che si basava finora sulla dipendenza del capitale dalla forza-lavoro per la sua accumulazione. Su un piano strutturale la posizione dei lavoratori era sempre stata più debole rispetto a quella del capitale, perché i salariati sono costretti a vendere senza sosta la loro forza-lavoro, per garantirsi la sopravvivenza. Tuttavia questa situazione poteva essere alleviata, soprattutto nei periodi in cui la domanda di forza-lavoro era considerevole, grazie all’organizzazione sindacale e politica. Ma nell’era del capitale fittizio, in cui l’accumulazione del capitale si fonda soprattutto sulla vendita di promesse di pagamento negoziabili, cioè di merci del secondo ordine, il sistema dei rapporti di forza nella società si è modificato a tutto vantaggio del capitale. La ragione sta nel fatto che adesso il capitale si trova nell’invidiabile posizione di chi può «produrre» autonomamente le merci di base per l’accumulazione sui mercati finanziari, mentre la merce forza-lavoro, misurata sul suo contributo all’incremento del capitale, ha solo un’importanza subordinata (vedi Trenkle 2015b).
Inoltre la drastica razionalizzazione applicata nei settori-chiave della produzione per il mercato mondiale e la globalizzazione hanno indebolito in maniera decisiva il potere contrattuale dei lavoratori salariati, che adesso possono essere rimpiazzati in qualsiasi momento da sistemi automatici o da lavoratori a bassi salari da qualche parte nel mondo. Precarizzazione, pressione sui salari e una sempre più ossessiva pretesa efficientistica ne furono le logiche conseguenze.
Allo stesso tempo la produzione di beni per il mercato, che durante il fordismo era la principale forza motrice per il processo autotelico di accrescimento del denaro, ha mutato la sua funzione all’interno del sistema. Un tempo, il fattore decisivo per la valorizzazione del capitale era il dispendio di forza-lavoro nella produzione di automobili, frigoriferi, macchine utensili etc., mentre la creazione di capitale fittizio restava sostanzialmente vincolata alla dinamica della valorizzazione. Di conseguenza, poterono essere finanziati in via preliminare mediante prestiti o azioni, ad esempio, grandi investimenti in fabbriche e infrastrutture, dove il ricorso a valore futuro veniva coperto grazie allo sfruttamento di forza-lavoro nella produzione di beni per il mercato. Nell’era del capitale fittizio questo rapporto si è capovolto. Adesso la cosiddetta economia reale non è più il motore della moltiplicazione del denaro perché anch’essa dipende al massimo grado dal proseguimento dell’accumulazione di titoli di proprietà sui mercati finanziari. Se questa si inceppa come nel 2008, si inaridiscono immediatamente anche i flussi di denaro destinati agli investimenti o all’acquisto di beni di consumo e l’economia reale precipita in una crisi da cui è possibile uscire solo se la «produzione» di capitale fittizio viene rimessa ancora una volta in funzione. La produzione di beni di mercato è funzionale per il sistema solo in quanto offre punti di riferimento per le aspettative di utile, verso cui si orientano i compratori di titoli di proprietà; essa offre cioè in un certo senso la materia per la «fantasia sui mercati», senza cui il ricorso al valore futuro non si verifica (vedi Lohoff/Trenkle 2012).
7. In questo modo l’indifferenza nei confronti del contenuto della produzione, che è uno dei contrassegni fondamentali del modo di produzione capitalistico, raggiunge il suo stadio estremo. Se ne ebbe la più limpida dimostrazione durante la grande crisi dei mercati finanziari, quando i governi e le banche centrali misero a disposizione migliaia di miliardi per salvare il settore finanziario e creditizio, ritenuto (in un certo senso per nulla a torto) di «importanza sistemica, per poi tagliare allo stremo le risorse del settore sociale e sanitario. Ma anche gli incredibili aumenti di prezzo degli immobili, che in molte zone hanno reso le abitazioni un bene di lusso, vanno ricondotte alla dinamica del capitale fittizio, che ha capitalizzato fin da ora le aspettative di valore futuro; lo stesso vale per la valorizzazione di materie prime, risorse naturali e terreni agricoli (Lohoff 2015). Non è un caso quindi che, negli ultimi anni, molte lotte sociali siano state innescate dall’espulsione degli uomini dai loro quartieri, dall’economicizzazione dello spazio pubblico, dallo sgombero di abitazioni e case in seguito alla crisi immobiliare e dall’appropriazione di terreni e di risorse naturali da parte delle compagnie che operano sul mercato mondiale.
L’era del capitale fittizio ha plasmato la società, non solo sul piano economico, ma anche su quello sociale e politico. Essa fu inaugurata dallo smantellamento delle strutture dello Stato sociale e della regolazione dell’era fordista, dal rimodellamento neoliberale della società a misura delle coercizioni sempre più energiche sul mondo del lavoro flessibilizzato e dalla totale economicizzazione di tutte le relazioni sociali. La conseguenza facilmente prevedibile fu l’inasprimento della concorrenza generale e una progressiva atomizzazione del contesto sociale. Non a caso tutto questo andò di pari passo con una rivitalizzazione generale del nazionalismo, che sembrava in grado di soddisfare il desiderio regressivo di appartenenza a una collettività apparentemente in grado di fornire protezione, che si associava a ideologie razziste e socialdarwiniste basate sull’esclusione o imperversava come ottuso separatismo regionalistico sia in una forma bellicosa e sanguinaria, che sul piano dell’azione politica. Per ragioni del tutto analoghe il fondamentalismo religioso prosperò un po’ dappertutto nel mondo nelle forme più disparate – non solo in quella dell’islamismo, anche se quest’ultima, a causa della specificità del fallimento della modernizzazione di recupero nel Vicino e Medio Oriente ha sviluppato un potenziale particolarmente aggressivo e brutale (vedi Trenkle 2015a).
8. Contemporaneamente, nacque una nuova forza di sinistra, nella forma del movimento anti-globalizzazione, che si differenziava dalla sinistra tradizionale soprattutto sotto due riguardi. Da un lato le sue strutture reticolari transnazionali, non-gerarchiche, che rispecchiavano la forma mutata del mondo, rappresentavano indubbiamente un progresso nei confronti del defunto «internazionalismo», che era pur sempre legato al mondo delle nazioni. Dall’altro però, la critica e gli obiettivi del movimento anti-globalizzazione, o quantomeno della sua corrente principale, restarono pur sempre imprigionati nel sistema di riferimento della logica capitalistica. La critica venne diretta, in prima linea, contro il neoliberalismo e il dominio del capitale finanziario, che vennero incolpati per le crisi e gli sconquassi socio-economici; di conseguenza l’alternativa venne identificata nel ritorno immaginifico ad un capitalismo regolato dallo Stato sociale, in cui l’«economia reale» tornava ad occupare la posizione centrale.
Nonostante questa critica riduttiva il movimento anti-globalizzazione contribuì al cambiamento del clima sociale: l’egemonia del discorso neoliberale venne messa sempre più in discussione e fu addirittura possibile interrompere, almeno in parte, lo smantellamento dello Stato sociale e le privatizzazioni o ottenere la revoca di alcune misure. In molti paesi dell’America Latina, nella prima decade del Duemila, i partiti della sinistra riuscirono perfino ad arrivare al governo e grazie allo spazio di manovra aperto dal boom del capitale fittizio, misero a punto politiche redistributive, imponendo tutta una serie di riforme sociali, giuridiche e politiche volte a migliorare la condizione di interi settori della popolazione fino a quel momento marginalizzati e privati di ogni diritto.
9. Ma con la crisi finanziaria del 2008 fu possibile toccare con mano i limiti dell’era del capitale fittizio. Il mega-crollo del sistema finanziario internazionale (e quindi dell’economia mondiale di cui rappresenta è la sola base) fu scongiurato solo grazie a una pletora di programmi statali di salvataggio in favore del settore bancario e finanziario e al gigantesco foraggiamento dei mercati mediante crediti concessi dalle banche centrali a un tasso di interesse praticamente nullo. Fu in questa circostanza che la sinistra anti-globalizzazione palesò tutta la sua impotenza. Indubbiamente, in seguito alla crisi, le richieste di maggiori controlli sui mercati finanziari e di un rafforzamento dell’economia reale trovarono improvvisamente ascolto nel mainstream dell’ufficialità mediatica e vennero recepite dai governi; parallelamente si registrò un cambiamento del clima sociale: il neoliberalismo si mise sulla difensiva e perse la sua posizione egemonica a vantaggio di un keynesismo di tipo nuovo. Di fatto però si trattò solo della musica di accompagnamento ideologica per i programmi di salvataggio statali in tutto il mondo, che avevano per obiettivo, innanzitutto, il risanamento delle banche e la ripresa dell’accumulazione di capitale fittizio ad ogni costo.
E così le idee politiche della sinistra anti-globalizzazione si dimostrarono completamente illusorie. Nessun argine venne posto al capitale finanziario né vi fu alcun fantasmagorico «ritorno all’economia reale», anche se, nel frattempo, questo ritorno veniva invocato come un mantra in maniera trasversale da tutto lo spettro politico. La ragione non era certo la mancanza di volontà politica: semplicemente per questo ritorno non c’erano più le basi economiche. A causa del livello esorbitante della produttività, che a sua volta è un risultato della dinamica contraddittoria del capitalismo, il processo autotelico del capitale non può più continuare mediante lo sfruttamento di forza-lavoro nella produzione, ma dipende nella buona e nella cattiva sorte dall’accumulazione di capitale fittizio.
10. Di conseguenza anche i partiti di sinistra furono costretti a fare buon viso a cattivo gioco di fronte ai programmi di salvataggio a favore del settore creditizio e finanziario o perfino a collaborare attivamente alla loro esecuzione, così da evitare il collasso dell’economia mondiale. In seguito non si poté che constatare come lo sviluppo congiunturale fosse sempre più dipendente dagli interventi delle banche centrali, che a loro volta non avevano alternativa se non inondare i mercati finanziari con una marea gigantesca di denaro quasi senza interesse. Questo perché, dopo il 2008, non fu più possibile rimettere in moto, come sarebbe stato necessario, l’accumulazione di capitale fittizio nel settore privato, che da allora deve essere, in pratica, sovvenzionata permanentemente attraverso politiche monetarie (vedi Lohoff/Trenkle 2012). Le possibilità di controllo da parte della politica economica dei governi si ridussero quindi ai minimi termini.
Come se non bastasse, di fronte al rapido aumento dell’indebitamento statale, che raggiunse livelli stratosferici, soprattutto nei paesi colpiti con più violenza dalla crisi, a causa del fatto che le perdite del settore bancario e finanziario erano state socializzate in misura consistente, i falchi neoliberali si videro ancora una volta confermati nelle loro folli politiche di austerità. Il caso peggiore fu l’Europa, dove i pochi paesi che erano usciti vincitori dalla crisi, Germania in testa, hanno inflitto soprattutto ai paesi dell’Europa Meridionale un diktat brutale e spietato volto a imporre politiche di risparmio. A subire un trattamento particolarmente duro fu la Grecia, dove alla fine persino il governo di Syriza, che era stato eletto proprio in reazione a questo stato di cose, di fronte al ricatto dei sadici tedeschi dell’austerità non poté fare altro che trasformarsi nell’esecutore della stessa politica contro la quale si era battuto con tenacia.
11. I dissidenti di sinistra hanno criticato questo voltafaccia, traendo però delle conseguenze che, sul piano ideologico, sono quasi peggiori. La soluzione allucinatoria che essi vagheggiano consiste in un ritorno alla «sovranità nazionale» mediante l’uscita dall’Eurozona, dall’Unione Europea e dalle altre organizzazioni sovranazionali. Si tratta ovviamente di un’idea del tutto illusoria, da una parte perchè una separazione dalla rete delle connessioni globali è semplicemente impossibile e dall’altra perché, in ogni caso, per i paesi che si proponessero di attuarla, le ripercussioni sarebbero catastrofiche. In ogni caso essa rispecchia la pericolosa tendenza verso un isolamento nazionalistico sempre più marcato, che in seguito alla crisi dell’euro – o adesso anche a causa delle politiche del tutto unilaterali sul problema dei rifugiati –, minaccia di disintegrare l’Unione Europea. Il risultato di una politica di questo genere, da «sinistra radicale» (sostenuta dagli scissionisti di Syriza, dalla frazione Lafontaine-Wagenknecht in Germania e da altri esponenti della sinistra europea), sarebbe qualcosa di molto diverso dal ripristino della sovranità dei singoli Stati nella sfera economica e della politica sociale, e cioè un isolamento aggressivo con la presenza simultanea di un processo di impoverimento interno che preparerebbe il terreno per l’instaurazione di regimi autoritari di crisi, analoghi a quelli che già si vedono in Russia e in Ungheria; anche la Polonia sembra avere imboccato la stessa strada.
Per giunta questo nazionalismo regressivo si mescola regolarmente con le peggiori ideologie della cospirazione, secondo cui c’è sempre qualche misteriosa potenza internazionale o qualche forza che agisce nell’ombra, che sabota sistematicamente ogni politica a favore del «lavoro onesto» e ostile alla speculazione. È il rovescio di un’illusione politicista completamente infondata, incapace di decifrare il proprio fallimento se non facendo ricorso a cupe personificazioni proiettive. Non a caso su questo punto tutti gli strateghi dei fronti trasversali possono trovare un appiglio e quindi gettare un ponte verso l’aperto antisemitismo e l’estremismo di destra.
12. Questa oscillazione tra la sottomissione al dettato dell’austerità e la regressione nazionalistica, alimentata dalle teorie della cospirazione, è il risultato della fissazione sulla logica di base della società della merce. Una sinistra che accetta senza battere ciglio che la ricchezza venga prodotta sotto forma di merci, che a loro volta sono solo un mezzo per il fine dell’accumulazione capitalistica, può avere come unico programma quello di influenzare e controllare politicamente la dinamica capitalistica, in modo che la ricchezza prodotta in forma capitalistica possa essere redistribuita in modo socialmente più equo. Durante l’apogeo del fordismo, questa politica potè contare su di una legittimazione relativa e, in sostanza, contribuì a migliorare considerevolmente, almeno sotto certi aspetti, le condizioni di vita e di lavoro di buona parte della popolazione nei centri capitalistici. Ma nell’era del capitale fittizio essa è ormai solo la perfida caricatura di se stessa. Questo perché, come si è già detto in precedenza, è necessario un dispendio sempre maggiore di risorse per mantenere in moto l’accumulazione di capitale, mentre diminuisce sempre più la quantità di ricchezza sotto forma di merci che può essere redistribuita tra i membri della società. In parole povere: “ciò che ce ne viene in tasca”, in fin dei conti, è irrisorio rispetto alle risorse e ai mezzi finanziari che devono essere sprecati per il funzionamento e la conservazione della macchina capitalistica.
Tuttavia, fino a quando risulta possibile tenere in moto l’accumulazione del capitale fittizio, in virtù di essa viene indotta una crescita più o meno energica dell’economia reale (Lohoff/Trenkle 2012), che, a sua volta, provoca l’afflusso di una maggiore quantità di tasse e di imposte, che infine aprono allo Stato nuovi spazi di manovra per le sue politiche finanziarie; di conseguenza non è affatto trascurabile come essi vengano utilizzati. Su questo punto, nel dibattito politico, la risposta della sinistra si rivela oggi estremamente angusta. Si ispira ai tradizionali modelli keynesiani: stimolazione della congiuntura mediante l’aumento del potere di acquisto delle masse, programmi di investimento statali e, simultaneamente, distribuzione più equa della ricchezza. Se paragonata al fanatismo dell’austerità neoliberale questa alternativa è indubbiamente migliore perché il suo obiettivo è il miglioramento, o quantomeno la stabilizzazione, della condizione sociale di gran parte della popolazione. Tuttavia essa mostra la corda, perlomeno sotto due punti di vista.
Anzitutto questi programmi congiunturali devono ottenere buoni risultati abbastanza in fretta da conquistarsi la famosa (o meglio famigerata) fiducia dei mercati finanziari, cosicchè questi non decidano di ritirare il denaro dal paese che li attua. Non c’è dubbio che gli attori di mercato siano, in generale, più pragmatici degli ideologi neoliberali nella sfera politica, visto che l’unica cosa che sta loro a cuore è che il denaro torni a zampillare, non importa grazie a quale provvedimento politico; malgrado ciò la dipendenza immediata dal capitale fittizio restringe fortemente lo spazio di manovra della politica. In sostanza possono essere applicate solo quelle misure che promettono successi economici a breve termine e nel minor tempo possibile o che, quantomeno, non li ostacolano. Ad esempio, le misure di politica sociale o a sostegno del sistema sanitario, che mirano «solo» a soddisfare i bisogni della popolazione, diminuiscono rapidamente la credibilità del paese pregiudicando così tutto il programma di politica economica. Accade così che perfino i governi di «sinistra» gettino alle ortiche tutte le loro belle idee sociali ed ecologiche, se solo intravedono una qualche possibilità di dischiudere nuovi settori per gli investimenti di capitale.
Secondariamente, anche questi progetti neo-keynesiani si scontreranno duramente con i propri limiti, al più tardi con la prossima grande avanzata della crisi sui mercati finanziari. Quando essa accadrà nessuno può dirlo con precisione ma è facile prevedere che essa sarà inevitabile e addirittura molto più grave della crisi finanziaria ed economica del 2008. Questo perché è assai probabile che il denaro senza tasso di interesse proveniente dalle banche centrali, che alimenta i mercati finanziari e che rinfocola l’attuale congiuntura, vada incontro a una massiccia svalutazione, causando un’iperinflazione globale. Ma anche se questo scenario non dovesse verificarsi subito, per le banche centrali, che riposano su gigantesche montagne di crediti inesigibili nei confronti delle altre banche e degli Stati, sarebbe davvero arduo arrestare l’avanzata della crisi con gli strumenti adottati fino a questo momento. E gli stessi governi non saranno più in grado di varare programmi di salvataggio così imponenti come l’ultima volta, visto che sono indebitati fino al collo, non da ultimo proprio per questa ragione. Inoltre, in una situazione ancor più critica, sarebbe difficile concordare un intervento globale concertato contro la crisi da parte dei grandi Stati; finirebbero invece con l’imporsi forze nazionalistiche e si innesterebbe così una dinamica centrifuga basata sulla competizione per l’esclusione e sull’aggressività reciproca, che potrebbe disintegrare non solo alleanze internazionali ma anche organizzazioni sovranazionali come l’Unione Europea. Con una tale concorrenza politica negativa all’insegna del si-salvi-chi-può, che già si profila sin da ora al cospetto del flusso di profughi e del processo di disintegrazione armata nel Vicino e Medio Oriente, verrebbe raggiunto uno stadio qualitativamente nuovo del processo di crisi, dalle dimensioni estremamente pericolose.
13. La situazione appare troppo drammatica per il tran-tran di una sinistra che spaccia i suoi progetti keynesiani come l’ultimo grido dell’emancipazione sociale e che non riesce a capire che in questo modo si autocondanna all’impotenza. Nuove possibilità per l’azione si apriranno solo nella prospettiva di un superamento del modo capitalistico di produzione e di vita, che ovviamente non può avere nulla in comune con il «socialismo reale» giustamente defunto. Il suo contenuto può essere solo la produzione, l’appropriazione e la distribuzione della ricchezza materiale, sensibile, e la riorganizzazione delle condizioni di vita sociali al di là della produzione di merce, della valorizzazione del capitale e dell’amministrazione statale. Ma per questo scopo occorrono anche nuove forme, procedure e istituzioni per la discussione e la pianificazione sociale, in cui individui liberamente associati possano decidere circa le loro incombenze, senza che il loro orizzonte operativo venga predeterminato dalle costrizioni oggettivate e sempre più distruttive della logica della merce e della «finanziabilità». Naturalmente tali forme di libera associazione tra individui sociali non possono sorgere dall’oggi al domani, ma devono essere sviluppate e collaudate in un processo di trasformazione sociale più lungo. Sorge quindi la questione circa l’individuazione dei possibili punti di partenza su cui un tale processo potrebbe travare appiglio.
Per quel che concerne lo sviluppo delle forze produttive e del sapere sociale, sono ormai presenti da tempo tutte le possibilità per realizzare un modo di produzione decentrato ma globalmente interconnesso e tecnicamente efficiente, organizzato secondo i criteri di una ragione sensibile e conciliabile con la conservazione dei fondamenti naturali. In parte si trovano già oggi simili esempi, per esempio nella forma del rifornimento di energia decentrato a partire da fonti rinnovabili; nelle attuali condizioni sociali, tuttavia, questi potenziali non potranno mai dispiegarsi perché la logica capitalistica tende sempre alla centralizzazione e alla costruzione di grandi unità di valorizzazione e inoltre tutti i progetti per il risparmio di risorse e per una produzione rispettosa dell’ambiente vengono subito controbilanciati dall’incremento degli out-put produttivi al servizio dell’accumulazione di capitale (effetto rimbalzo). Qualcosa di analogo vale anche per le moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che in virtù della loro capacità di risparmiare lavoro sono il motore del processo di crisi fondamentale del capitalismo, che rende sempre più uomini «superflui» e distrugge le strutture della convivenza sociale. Se però fossero impiegati programmaticamente nel senso della produzione di ricchezza materiale e della soddisfazione dei bisogni concreti, sensibili, potrebbero contribuire a realizzare il vecchio sogno dell’umanità: il sogno di una società in cui tutti hanno a sufficienza per condurre una vita buona e disporre di tempo in abbondanza.
Il compito davvero difficile consisterà però nello sviluppo di nuove forme non-gerarchiche di discussione e di deliberazione sociale, che sono necessarie per potere dispiegare effettivamente queste possibilità (per la discussione vedi anche Meretz 2005). Questo compito può essere praticamente assolto solo nel contesto di un settore esteso e auto-organizzato alternativo che rompa coscientemente con la logica della produzione di merce. Tentativi in questa direzione si registrano certamente anche adesso e si ricostituiscono regolarmente nel quadro delle lotte sociali, specialmente nelle situazioni di crisi. Esempi di questo genere si trovano in gran quantità in Grecia dove in reazione alla crisi e alla brutale politica di impoverimento è sorto un gran numero di iniziative e di reti auto-organizzate in tutti gli ambiti della vita sociale (sanità, abitazioni, cultura, produzione etc.).
Malgrado tutto questi tentativi (in Grecia così come in Spagna, Argentina e altrove) patiscono sempre la loro impossibilità di accedere alle risorse sociali; per giunta vedono enormemente ristretto il loro raggio di azione a causa delle prescrizioni giuridiche e burocratiche e sono esposti alla repressione da parte dello Stato. Di conseguenza non riescono a crescere fino a diventare una vigorosa alternativa sociale, ma si riducono a un aiuto di emergenza o come «impresa di sgombero» per le conseguenze della politica di austerità. Proprio qui si aprono nuove possibilità di intervento per una sinistra che pensa di essere una forza emancipatrice all’altezza dei tempi. Essa dovrebbe fare tutto il possibile per migliorare le condizioni-quadro materiali, giuridiche e sociali per nuove forme di auto-organizzazione solidale e emancipatoria e in questo modo gettare le basi per un’alternativa per il modo capitalistico di produzione e di vita e in prospettiva per il suo superamento.
14. In quest’ottica alleanze elettorali come Syriza e Podemos, che provengono dal contesto dei movimenti sociali di protesta, potrebbero svolgere senz’altro una funzione importante e affermarsi come un’alternativa reale alla tradizionale politica di partito della sinistra. Il preesupposto è però un mutamento radicale di prospettiva e una nuova auto-comprensione. Sia Syriza che Podemos sono ormai in procinto di trasformarsi in partiti normalissimi, che si candidano a raccogliere l’eredità della vecchia socialdemocrazia. Ma anche per molti attivisti dei movimenti sociali sembra già sufficiente il fatto di poter contare su di un rappresentante in Parlamento o magari tra le fila del governo, che porti avanti le loro rivendicazioni. Nel giro di pochissimo tempo si è quindi riprodotta la classica divisione del lavoro tra movimenti sociali e partiti politici, che ha caratterizzato gli ultimi 150 anni e che consiste sostanzialmente nel fatto che i primi accettano di ridursi in uno stato di inferiorità e di impotenza nei confronti dei secondi.Il piano politico viene così delegato alla rappresentanza parlamentare, che entra in carica con la promessa di tradurre le richieste dei movimenti sociali in progetti politici di riforma, provvedimenti statali e regolamentazioni giuridiche. L’esito terminale è che la produzione di ricchezza capitalistica viene riconosciuta come forma generale sociale, i partiti, come «governo in spe», prendono le redini e si conformano sempre più alle presunte costrizioni oggettive, mentre i movimenti sociali si dissolvono o si ritirano dalla scena.
Durante la fase ascendente della storia capitalistica l’auto-interdizione dei movimenti sociali e la revoca degli esperimenti di auto-organizzazione andarono pur sempre di pari passo con riforme sociali o giuridiche, che migliorarono in una certa misura le condizioni di vita o che perlomeno promisero di farlo in maniera convincente. Oggi tuttavia, se il riformismo nella vecchia accezione del termine non ha più prospettive, è necessario modificare radicalmente la prospettiva. I movimenti di liberazione sociale non possono più identificarsi con uno stadio di transizione verso la costituzione di partiti propriamente detti o con le organizzazioni di retroguardia delle loro rappresentanze parlamentari e rassegnarsi al fatto che queste prendano in loro vece decisioni socialmente rilevanti sul piano politico. Essi devono invece considerarsi come attori sociali davvero importanti, che lottano con ogni mezzo per creare le strutture di un’auto-organizzazione sociale solidale, per ridurre sempre più la loro condizione di inferiorità, che era ed è legata alla delega di tutti i compiti pubblici essenziali allo Stato da una parte e all’economicizzazione di quasi tutti i rapporti sociali dall’altra.
15. Proprio nelle condizioni del processo capitalistico di crisi, un movimento emancipatore non può limitarsi ad abbandonare e a ignorare il piano della politica e dello Stato. Tuttavia l’orientamento delle lotte su questo terreno deve avere un contenuto totalmente diverso da quello che ha avuto finora. Da una parte è necessario convogliare la maggior quantità possibile di risorse materiali (fabbricati, mezzi di produzione etc.) e finanziarie nel settore auto-organizzato e migliorare le condizioni strutturali), affinchè questo possa consolidarsi ed essere ulteriormente sviluppato. Ma allo stesso tempo, è indispensabile difendere gli standard vigenti nella sfera giuridica e in quella dello Stato sociale contro tutti coloro che tentano di liquidarli. Questo perché anche se il settore dell’auto-organizzazione sociale cresce e si rafforza, lo Stato resterà un attore centrale ancora per un certo periodo di tempo, in grado di stabilire e garantire le condizioni generali della vita nel capitalismo di crisi. Quindi la lotta contro la privatizzazione dei servizi pubblici, la riduzione delle prestazioni sociali o le misure di controllo statale sarà naturalmente della massima importanza.
Del resto i presupposti di questa lotta cambiano fondamentalmente se essa si ricollega a una nuova prospettiva emancipatoria di superamento della società capitalistica. Anzitutto perché in questo modo essa perderebbe il carattere puramente difensivo, che la caratterizzerà fino a quando sui suoi vessilli ci sarà solo il rinnovamento del venerando Stato sociale e regolativo, senza peraltro crederci davvero. Pur restando di per sé una lotta difensiva, può essere condotta in maniera più energica se non si legittima mediante riflessioni economico-politiche prese a prestito dai fondi di magazzino del keynesismo, ma pone al centro coerentemente la soddisfazione dei bisogni sensibili, concreti. In questo modo guadagnerà in forza e capacità di propagazione e sarà più facile superare la divisione particolaristica tra lotte diverse basate su interessi perlopiù in concorrenza reciproca e, al contrario, tessere alleanze tra differenti forze. Secondariamente un settore di auto-organizzazione sociale capace di consolidarsi rappresenta anche una base pratica per combattere con decisione i conflitti sociali; perché offre non solo una certa garanzia materiale ma anche una specifica infrastruttura per il sostegno solidale così come luoghi di rifugio dalla repressione. Così le lotte per il reddito e per il lavoro, che restano comunque importanti, finchè la maggioranza della popolazione continuerà a dipendere, in un modo o nell’altro, dalla vendita della sua forza-lavoro, potranno essere condotte in una maniera più solidale e fruttuosa che adesso.
16. Questo orientamento dell’emancipazione sociale implica però un rapporto con lo Stato e con la politica del tutto diverso, rispetto a quello che ha dominato nella sinistra tradizionale. Soprattutto il leninismo riteneva che ogni forma di auto-organizzazione dovesse assoggettarsi all’obiettivo della conquista del potere statale e successivamente dissolversi o essere liquidata con la forza. Al contrario la realizzazione e lo sviluppo del settore auto-organizzato, come base per il superamento del modo capitalistico di produzione e di vita, deve costituire oggi il fulcro dell’azione politica. È in questa prospettiva che vanno condotte le lotte sul livello politico-statale. Per Lenin e per il marxismo tradizionale la soppressione dello Stato era solo una musica dell’avvenire. Invece oggi l’emancipazione sociale deve porsi come contenuto, fin dal principio, la revoca graduale dello Stato nella società.
Questo orientamento trae le sue radici direttamente dalla situazione storica in cui viviamo. All’inizio del XX secolo lo Stato si trovava all’inizio della sua carriera storica, nel corso della quale si sarebbe imposto nel suo ruolo di universalità astratta su buona parte della superficie del globo, con la sua ambizione di regolare quasi tutti gli ambiti e gli interessi della vita sociale. Poteva quindi sembrare decisivo conquistare la leva del potere statale – con la rivoluzione o mediante le elezioni – per trasformare da lì la società.
Oggi sappiamo che questa strategia rafforza la tirannia capitalistica – non di rado con conseguenze spaventose –, ma questo non è ancora tutto. Lo Stato, nella crisi fondamentale del capitalismo, si spoglia sotto ai nostri occhi del suo carattere di universalità astratta. In qualche caso va incontro alla disgregazione, lasciando campo libero al dominio delle organizzazioni criminali e delle bande, con le quali almeno una parte dell’apparato statale stringe alleanze generalmente vantaggiose. Oppure abdica da tutti quei compiti che sono necessari per la garanzia delle condizioni generali di vita, finchè a sopravvivere sono solo le funzioni repressive, che vengono impiegate per organizzare l’esclusione sociale. Tendenzialmente queste due forme di decorso si mescolano e confluiscono, nel peggiore dei casi, in una dinamica centrifuga tra poteri regressivi in competizione, che sfocia a sua volta in una guerra civile latente o aperta. Quindi la lotta per l’emancipazione sociale è essenzialmente una lotta per un’alternativa alla distruzione progressiva dei fondamenti materiali della vita e alla disintegrazione regressiva della società nel processo di crisi capitalistico. Sinistra significa oggi combattere per la dismissione emancipatoria dello Stato e della produzione di ricchezza capitalistica.
Tesi per il congresso Cosa vuol dire sinistra oggi?
Tradotto dal tedesco da Samuele Cerea.
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