domenica 30 settembre 2012

Brecht: "Cinque difficoltà per chi scrive la verità" di Pierluigi Vuillermin, www.kainos.it





In questo saggio mi propongo di rileggere, e in un certo senso riattualizzare, un famoso testo brechtiano degli anni Trenta. Si tratta di uno scritto politico-letterario che Brecht pubblica nel 1935, dopo l'avvento di Hitler al potere, in cui il drammaturgo tedesco, ormai in esilio, rivolgendosi agli artisti e agli intellettuali, enuncia le regole programmatiche (quasi un manuale di strategia militare) per dire la verità ai deboli e combattere la menzogna dei potenti. Il 1935 è un anno importante nella storia d'Europa e anche nella vita di Brecht. Il Komintern inaugura la stagione dei fronti popolari, l'alleanza tra le forze democratiche e il comunismo, per contrastare l'avanzata del nazi-fascismo, in marcia verso la guerra. Nello stesso anno, lo scrittore viene ufficialmente privato della cittadinanza tedesca e costretto a peregrinare per diversi paesi europei, prima del definitivo approdo negli Stati Uniti. In questo contesto drammatico, mentre si dedica allo studio sistematico delle opere di Marx, Brecht si pone il problema dell'impegno e della responsabilità dell'intellettuale nella lotta contro il terrore del nazismo. Dopo aver criticato la cultura borghese per la sua assenza di valore pratico, egli si interroga su come l'intellettuale debba rivolgersi al popolo, alla luce soprattutto delle nuove forme dell'industria culturale e dei mass media, per smascherare l'inganno del potere e spingere le masse ad agire efficacemente per cambiare la realtà sociale. Questo argomento troverà poi formulazione completa, alcuni anni dopo, nel dramma Vita di Galileo, il capolavoro della maturità. Sempre nel 1935, Brecht partecipa a Parigi al Primo Congresso degli scrittori per la Difesa della Cultura. In una perorazione lucida e polemica, egli denuncia le carenze di ogni critica moralistica del potere (oggi parleremmo di indignazione), che non investiga i rapporti materiali che sono alla base della realtà storica e sociale. Il messaggio è esplicito: solo una verità concreta può diventare un'arma efficace, nelle mani del popolo, per contrastare la barbarie del nazismo (e del capitalismo). Come si vedrà, il testo brechtiano presenta, ancora oggi, grandi elementi di attualità. Molte sono le somiglianze tra la crisi economica e sociale degli anni Trenta e quella in corso in questi anni, come hanno messo in luce diversi studiosi. Siamo in guerra, è stato autorevolmente detto. Verissimo. Ma forse non siamo tutti sulla stessa barca. Ne sa qualcosa il popolo greco, a cui sono rivolte le seguenti riflessioni.

Per quel che concerne il metodo, nella stesura del presente scritto, faccio chiaro riferimento al noto saggio in cui Benjamin, commentando alcune liriche brechtiane, afferma che il commento si occupa esclusivamente della bellezza e del contenuto positivo del testo a cui si applica. Da questo punto di vista, ritengo che le Cinque difficoltà sia un testo fondamentale in cui Brecht, ben al di là dell'occasione, enuncia la dottrina marxista nella forma epica di un classico. D'ora in avanti i brani in corsivo sono estratti dal saggio di Brecht (in Scritti sulla letteratura e sull'arte, a cura di Cesare Cases, Einaudi, Torino 1973), facilmente reperibile anche su Internet e tradotto in diverse lingue.

 
Introduzione
 
 
 
Premessa

Chi ai nostri giorni voglia combattere la menzogna e l'ignoranza e scrivere la verità, deve superare almeno cinque difficoltà. Deve avere il coraggio di scrivere la verità, benché essa venga ovunque soffocata; l'accortezza di riconoscerla, benché venga ovunque travisata, l'arte di renderla maneggevole come un'arma; l'avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace; l'astuzia di divulgarla fra questi ultimi. Tali difficoltà sono grandi per coloro che scrivono sotto il fascismo, ma esistono anche per coloro che sono stati cacciati o sono fuggiti, anzi addirittura per coloro che scrivono nei paesi della libertà borghese.

Con questa introduzione, Brecht presenta la sua tesi in cinque punti, che verranno di seguito sviluppati. Chi vuole scrivere la verità (cioè l'intellettuale impegnato e organico al proletariato) deve superare la menzogna (dei potenti) e l'ignoranza (dei deboli). I requisiti necessari sono: coraggio, accortezza, arte, avvedutezza e astuzia. Le cinque difficoltà per scrivere la verità sono operanti non soltanto nei regimi totalitari (e per gli oppositori e dissidenti in esilio), ma anche nelle democrazie, dove regna la libertà borghese. Per questa ragione, l'intellettuale deve saper camuffare bene la verità (perciò occorrono pragmatismo e buona tattica, attenzione per i nuovi media messi a disposizione dall'industria, interesse per le forme inferiori dell'arte e della cultura, persino il nemico può essere un buon insegnante), in modo da sottrarre la verità alla censura e alla manipolazione del potere, e consegnarla al popolo, affinché possa utilizzarla come un'arma maneggevole, per abbattere i (pochi) potenti che dominano sui (molti) deboli.


1. Il coraggio di scrivere la verità
Sembra cosa ovvia che colui che scrive scriva la verità, vale a dire che non la soffochi o la taccia e non dica cose non vere. Che non si pieghi dinanzi ai potenti e non inganni i deboli. Certo, è assai difficile non piegarsi dinanzi ai potenti ed è assai vantaggioso ingannare i deboli. Dispiacere ai possidenti significa rinunciare al possesso. Rinunciare ad essere pagati per il lavoro prestato può voler dire rinunciare al lavoro e rifiutare la fama presso i potenti significa spesso rinunciare ad ogni fama. Per farlo, ci vuole coraggio.

Per prima cosa bisogna avere coraggio. Ma non è sempre facile. Da un punto di vista storico, gli intellettuali non sono che servi dei potenti, nelle figure del cortigiano e del consigliere, ovvero del consulente. Sono avidi e vanitosi, vogliono essere acclamati e riconosciuti, pertanto non devono dispiacere ai loro padroni, generosi committenti e finanziatori; altrimenti rischierebbero di perdere la fama e il lavoro. La maggioranza degli intellettuali (quell'intellettualità diffusa che oggi in troppi, superficialmente, celebrano come lavoratori autonomi, riflessivi e creativi di terza generazione) non ha coraggio. Sono degli intellettuali vili, docili servitori e disciplinati impiegati. Perennemente sotto ricatto, eppure compiacenti camerieri. Tali o per mancanza di carattere e senso della dignità (i più), o per bieco calcolo opportunistico, nell'avanguardia più cinica e culturalmente attrezzata.
Le epoche di massima oppressione sono quasi sempre epoche in cui si discorre molto di cose grandi ed elevate. In epoche simili ci vuole coraggio per parlare di cose basse e meschine come il vitto e l'alloggio dei lavoratori, mentre tutt'intorno si va strepitando che ciò che conta è lo spirito di sacrificio.

Nelle epoche di crisi e cambiamento, l'intellettuale vile, che non ha coraggio, spesso veste i panni dell'umanista che si interessa alle sorti (generalissime) del genere umano. Soprattutto quando l'oppressione è grandissima, egli ha il compito, ben remunerato dai potenti, di distrarre e intrattenere il popolo, attraverso la conduzione di infuocati dibattiti sui massimi sistemi (diritti, cultura, genere). L'importante è evitare di parlare di ciò che viene a mancare (lavoro, casa, scuola, salute); e indicare ai deboli i nomi dei responsabili del furto perpetrato ai loro danni. Quando il malumore delle masse non s'acquieta e diventa pericoloso, l'intellettuale vile, umanista e generalista, fa a appello a concetti nobili ed elevati (nazione, patria, civiltà), ostentando una commovente abilità retorica e mitologica, al fine di impedire che il popolo chieda il conto dell'ingiustizia subita. In un coro unanime di inviti e proclami, tutti quanti (i deboli) devono remare nella stessa direzione, decisa dai potenti e illustrata e spiegata al popolo dagli intellettuali vili, stipendiati e vezzeggiati dai potenti.
Così pure ci vuole coraggio per dire la verità sul conto di se stesso, di se stesso, il vinto. Molti di coloro che vengono perseguitati perdono la capacità di riconoscere i propri difetti. La persecuzione appare loro come la più grave delle ingiustizie. I persecutori, dato che perseguitano, sono i malvagi, mentre loro, i perseguitati, vengono perseguitati per la loro bontà. Ma questa bontà è stata battuta, vinta, inceppata e doveva quindi trattarsi di una bontà debole; di una bontà difettosa, inconsistente, su cui non si poteva fare affidamento; giacché non è lecito ammettere che alla bontà sia congenita la debolezza così come si ammette che la pioggia debba per definizione essere bagnata. Per dire che i buoni sono stati vinti non perché buoni, ma perché erano deboli, ci vuole coraggio.

Bisogna avere il coraggio di dire la verità non solo riguardo ai potenti, ma anche riguardo ai deboli. I perseguitati spesso perdono la facoltà del giudizio. Peccano poi di superbia, pensando che la bontà sia premio a se stessa. Si accontentano di essere i buoni, contro i malvagi persecutori, ma in realtà sono colpevolmente incapaci di vincere. La bontà sconfitta non serve a niente, non testimonia niente. Bisogna avere il coraggio di dire la verità ai vinti, perché non continuino a essere vinti. La bontà debole (dell'indignazione, per esempio) è innocua e inoffensiva, non minaccia i potenti, non fa male. Tenersi per mano in un girotondo è un gesto inutile, buono da raccontare alla sera, durante la cena in famiglia. La lotta per sconfiggere i persecutori è sempre lunga e dura, richiede disciplina e rinuncia (non è una passeggiata in centro), quindi non è adatta per gli uomini buoni ma deboli.
Naturalmente la verità bisogna scriverla in lotta contro la menzogna e non si può trattare di una verità generica, elevata, ambigua. Di tale specie, cioè generica, elevata, ambigua, è proprio la menzogna. Se a proposito di qualcuno si dice che ha detto la verità, vuol dire che prima di lui alcuni o parecchi o uno solo hanno detto qualcos'altro, una menzogna o cose generiche; lui invece ha detto la verità, cioè qualcosa di pratico, di concreto, di irrefutabile, proprio quella cosa di cui si trattava.

C'è chi dice la verità e chi dice la menzogna. Non esiste il conflitto delle interpretazioni. Il dibattito è soltanto un vacuo spettacolo, orchestrato dai potenti e diretto dagli intellettuali, al soldo dei potenti. La verità è semplice e concreta, la menzogna è complessa e generica. Chi ha il coraggio di scrivere la verità è in lotta dichiarata contro quelli che diffondono la menzogna. Non parla mai in generale, senza entrare nello specifico; facendo sempre nomi e cognomi, indicando i responsabili dell'ingiustizia e della violenza, senza ambiguità e reticenze. La verità dell'intellettuale non è mai un discorso teorico (l'esegesi e la ricerca bibliografica le lasciamo nelle aule polverose dell'accademia), bensì qualcosa di pratico, che deve servire per abbattere i potenti e cambiare la sorte dei deboli.
Poco coraggio invece ci vuole per lamentarsi della malvagità del mondo e del trionfo della brutalità in genere e per agitare la minaccia che lo spirito finirà col trionfare, quando chi scrive si trovi in una parte del mondo in cui ciò è ancora permesso. Molti assumono l'atteggiamento di uno che stia sotto il tiro dei cannoni, mentre sono semplicemente sotto il tiro dei binocoli da teatro.

Bisogna poi diffidare di quegli intellettuali che, con toni melodrammatici, si lamentano della malvagità del mondo, gridando generiche rivendicazioni. Non sanno fare altro che scrivere lettere ai giornali, firmare petizioni, redigere manifesti, organizzare raduni, aderire a manifestazioni, lanciare appelli alla popolazione, partecipare a convegni e dibattiti televisivi. Chiedono a gran voce giustizia e libertà, genericamente, con l'indice puntato e la voce imperiosa; però loro non muovono un dito. Sono sempre in prima fila, ma a teatro, comodamente seduti, tra buoni amici, quasi tutti provenienti dalle fila dei potenti. Considerano verità solo ciò che ha un bel suono. Sono ferocemente indignati e assai istruiti, sempre educati, di modi gentili e garbati. Quanta nobiltà e professorale fascino nei loro discorsi. Tuttavia non bisogna farsi ingannare dalle loro facili prediche. Questi intellettuali, di bell'aspetto e belle parole, così vuoti e inconcludenti, solo esteriormente hanno l'atteggiamento di chi dice la verità. Con loro il guaio è che non conoscono la verità.

 
2. L'accortezza di riconoscere la verità
Poiché è difficile scrivere la verità, dato che ovunque essa viene soffocata, i più pensano che scrivere o non scrivere la verità sia una questione di carattere. Credono che basti il coraggio. E dimenticano la seconda difficoltà, cioè quella di trovare la verità. Nessuno potrà mai dire che trovare la verità sia cosa facile.

Avere il coraggio di scrivere la verità non basta. Ci sono tante verità (grandi e piccole, belle e brutte, superficiali e profonde, accessorie e necessarie, deboli e forti) che si contrappongono alla menzogna. Soprattutto nelle epoche di crisi il mercato delle verità è variegato. A volte la menzogna si traveste da mezza verità; oppure, più subdolamente, prende la forma di una verità tautologica (per esempio: la pioggia cade dall'alto verso il basso) che non serve a niente. Dunque non è affatto facile rendersi conto di quale verità valga la pena di essere detta. Certi intellettuali scrivono verità di questo tipo (per esempio: le sedie servono per sedersi). Sostengono di osservare la realtà in modo oggettivo e imparziale. Sono i cosiddetti realisti: i depositari delle verità sulle sedie e sulla pioggia.
Molti poeti scrivono verità di questo tipo. Sono simili a pittori che ricoprono di nature morte le pareti di una nave che sta affondando. Per loro la nostra prima difficoltà non esiste, eppure si sentono la coscienza tranquilla. Senza lasciarsi turbare dai potenti, ma altrettanto imperturbabili alle grida delle vittime della violenza, essi continuano a ripassare il pennello sulle loro immagini. L'assurdità del loro modo di comportarsi genera in loro stessi un pessimismo che essi smerciano a buon prezzo e che, a dire il vero, sarebbe più giustificato negli altri di fronte a tali maestri e a tale smercio.

Nei periodi di incertezza e grande mutamento (quando la nave va alla deriva), molti artisti e scrittori si fanno prendere da profondo sconforto. Con coraggio denunciano i mali del presente, ma sempre in maniera generica. Provano un piacere perverso nel raffigurare e descrivere il dolore del mondo. Però essi se ne stanno al sicuro, a contemplare languidamente il naufragio della nave e del suo equipaggio. La loro verità sembra vera, senza sconti per nessuno. Che colori vivaci, quale forza incantatrice e paralizzante nella rappresentazione della malvagità. Proferiscono discorsi importanti, tali appaiono sul mercato della malinconia. Sono i pessimisti, abbonati alla rivista dell'apocalisse a teatro. Codesta gente non è capace di trovare una verità che valga la pena di scrivere.
Altri invece si occupano realmente dei compiti più urgenti, non temono i potenti né la povertà e nondimeno non sono in grado di trovare la verità. Mancano loro le nozioni necessarie... Per loro, il mondo è troppo complicato, non conoscono i dati di fatto e non vedono le connessioni. Oltre ai principi occorrono delle nozioni che si possono acquisire e dei metodi che si possono imparare. Tutti coloro che scrivono nella nostra epoca di rapporti complicati e di grandi mutamenti debbono conoscere il materialismo dialettico, l'economia e la storia...

Alcuni intellettuali, coraggiosi e in buona fede, non sono all'altezza di scrivere la verità. Non sanno nemmeno dove cercarla. Si agitano in modo scomposto, sopraffatti dall'emozione, senza una visione corretta della realtà. Accumulano disordinatamente molti dati e piccoli fatti, tuttavia sono incapaci di cogliere la trama sottostante. Non difettano di volontà, si impegnano con generosità, ma non usano gli strumenti teorici giusti (il materialismo storico e dialettico) per descrivere la società.
Quando si ha intenzione di cercare, è bene avere un metodo, ma si può trovare anche senza metodo e persino senza cercare. In questa maniera casuale è certo però assai difficile che si riesca a rappresentare la verità in modo tale che gli uomini, grazie a questa rappresentazione, sappiano come devono agire. La gente che annota solo i piccoli dati di fatto non è in grado di rendere maneggevoli le cose di questo mondo. Questo però e nessun altro è lo scopo della verità.

Gli intellettuali buoni e coraggiosi (ma senza metodo) a volte trovano la verità casualmente. In questo modo, però, la verità perde la sua capacità di operare con efficacia. Come una bella statua da contemplare, rimane ferma e immobile. Tante piccole verità, come tante statue in un museo. Una verità, che non agisce concretamente sulla realtà, in pratica non serve a niente.


3. L'arte di rendere la verità maneggevole come un'arma
La verità deve essere detta per trarne determinate conclusioni circa il proprio comportamento. Quale esempio di una verità da cui non si possono trarre conclusioni, o soltanto conclusioni sbagliate, ci può servire l'opinione largamente diffusa secondo la quale le condizioni deplorevoli in cui versano certi paesi derivano dalla barbarie. Tale opinione vede nel fascismo un'ondata di barbarie che si è abbattuta su certi paesi come una catastrofe naturale.

La maggioranza degli intellettuali si preoccupano di interpretare il mondo in modi diversi, ma quel che conta è cambiarlo. La verità, conquistata col metodo giusto, deve portare a determinate conclusioni pratiche, che modificano i comportamenti. Le masse popolari agiscono quando pensano che la realtà sociale sia qualcosa di transitorio e mutevole. Le classi dominanti, invece, dipingono il mondo dell'uomo come una seconda natura. Hanno interesse che tutto appaia immutabile agli occhi della gente. A questo punto, per i deboli, la barbarie si presenta come un destino (ineluttabile) e non più come la conseguenza della violenza (non irresistibile) dei potenti.
Un simile modo di raffigurare le cose mette in luce solo pochi anelli della catena causale e presenta certe forze motrici come forze incontrollabili. Un simile modo di raffigurare le cose contiene in sé molti lati oscuri i quali nascondono le forze che stanno preparando le catastrofi. Basta un po' di luce perché si veda che all'origine delle catastrofi ci sono degli uomini! Infatti noi viviamo in un'epoca in cui il destino dell'uomo è l'uomo.

L'intellettuale dotato di metodo sa mettere in fila i fatti e connetterli insieme, individua con precisione le forze che operano nella società, è in grado di indicare al popolo le cause della barbarie e i veri artefici della barbarie. Quando si vuole scrivere efficacemente la verità su certe condizioni deplorevoli, bisogna scriverla in modo che se ne possano riconoscere le case evitabili. Quando le cause evitabili vengono riconosciute, le condizioni deplorevoli si possono combattere.

 
4. L'avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani la verità diventa efficace
La verità su certe condizioni deplorevoli dobbiamo dirla a coloro che di queste condizioni più soffrono e da loro dobbiamo apprenderla. Non basta parlare a coloro che hanno una data opinione; bisogna parlare a coloro ai quali, data la loro situazione, tale opinione può convenire. E il vostro uditorio muta di continuo! Persino ai carnefici è possibile parlare, quando per impiccare non ricevono più il salario o quando la loro professione si fa troppo pericolosa.

Chi scrive la verità non si occupa del commercio degli scritti. Si limita a parlare, qualcuno ascolterà. Così pensa uno scrittore ingenuo. Eppure dovrebbe riflettere sul mercato delle opinioni e delle descrizioni. La conoscenza della verità è un processo comune a chi scrive e a chi legge. Gli scrittori non riflettono abbastanza sulle condizioni che rendono possibile la circolazione delle idee. La verità non si può semplicemente scriverla e basta, è indispensabile scriverla per qualcuno che possa servirsene. Non si deve parlare tanto per esprimere un'opinione. Prendere parte al dibattito pubblico, organizzato da intellettuali al servizio dei potenti, spesso è una perdita di tempo. A meno che non si riesca a camuffare bene la verità. Ma oggi gli spazi di manovra si sono ridotti e il mezzo tecnico (il formato stesso) ha svuotato di verità il messaggio. Non bisogna però disperare. Conviene continuare a studiare: trovare nuove modalità, più astute e aggiornate, per dire la verità al popolo.
Importante per quelli che scrivono è trovare il tono giusto per dire la verità. Quello che comunemente si ode è un tono molto mite e lamentoso, il tono di chi non sarebbe capace di far male a una mosca. Chi lo ode e si trova in miseria non può che diventare ancora più miserabile. Così parlano, uomini che forse non sono nemici ma certo non sono dei compagni di lotta. La verità è combattiva, non solo combatte la menzogna, ma anche quelle determinate persone che la divulgano.

Certi scrittori sbagliano il tono per dire la verità. Sono troppo buoni e deboli. Magari hanno paura. Gli intellettuali, si sa, quasi sempre sono dei vigliacchi. I loro discorsi sovente sono docili e accomodanti. Declamano lunghe prediche, piene di accorati moniti e piagnistei. Non prendono mai posizione, per non insospettire i potenti. Possono essere anche delle brave persone, ma non servono a niente. Preferiscono non sporcarsi le mani: la loro verità è rigorosamente equanime ed equilibrata. Sono degli equilibristi nati, non cadono mai. Abitano il vuoto pneumatico della bella conversazione. Chi dice la verità deve combattere, non sulle riviste accademiche o negli spettacoli televisivi, ma a fianco dei deboli e contro i potenti. Altrimenti è solo un utile idiota, quasi peggio del nemico.

 
5. L'astuzia di divulgare la verità fra molti
Vi sono molti che, fieri di avere il coraggio di dire la verità, felici di averla trovata, stanchi forse della fatica che costa il ridurla a una forma maneggevole, impazienti di vederne entrare in possesso coloro i cui interessi essi vanno difendendo, non ritengono più necessario usare una particolare astuzia per divulgarla. In tal modo tutto il frutto della loro fatica va spesso in fumo. In tutti i tempi, quando la verità veniva soffocata e travisata, si è fatto ricorso all'astuzia per divulgarla.

Nelle epoche di crisi e grande violenza, la verità viene costantemente censurata e manipolata dal potere dominante. Ci sono varie astuzie per eludere la sospettosa vigilanza dello stato. La storia ci ha fornito diversi esempi: Confucio, Tommaso Moro, Voltaire, Shakespeare, Jonathan Swift, un poeta egiziano, il romanzo poliziesco. L'intellettuale che vuole scrivere la verità deve essere attento all'uso delle parole. Occorre spogliarle del loro marcio (e anestetico) misticismo; e indirizzarle a chi può maneggiarle, come un'arma, per cambiare il corso della storia. Anche in uno stato democratico, nonostante l'apparente libertà di parola, è difficile scrivere la verità. Bisogna raddoppiare l'astuzia.
La propaganda perché la gente ragioni, in qualsiasi campo la si faccia, è sempre utile alla causa degli oppressi. Questa propaganda è altamente necessaria. Sotto i governi degli sfruttatori, il ragionare è considerato cosa bassa e volgare. Si giudica basso e volgare ciò che è utile a quelli che sono tenuti in basso.

Tutti i governi (non importa se democratici o dittatoriali) considerano il ragionare una cosa bassa e volgare. Gli sfruttatori prediligono i grandi ed elevati discorsi, che non mettono in pericolo il loro sistema. Chi scrive la verità, contro gli sfruttatori, deve insegnare agli sfruttati a ragionare. Ci sono infatti molti modi astuti per insegnare a pensare e divulgare la verità.

Perché in un'epoca come la nostra continui ad essere possibile l'oppressione che permette a una parte della popolazione (la meno numerosa) di sfruttare l'altra (la più numerosa), è indispensabile da parte della popolazione un ben preciso atteggiamento di fondo che investa tutti i campi... L'unica cosa che conta è che si insegni un modo giusto di ragionare, un modo di ragionare che in ogni cosa e in ogni avvenimento ricerchi il lato transitorio e mutevole.

La popolazione oppressa (sotto il tallone di ferro degli oppressori e per gli effetti negativi della propaganda degli intellettuali al servizio degli oppressori) tende a considerare la realtà come qualcosa di naturale e immutabile (come la pioggia: che cade sempre dall'alto verso il basso). Nella testa della gente si consolida così la predisposizione alla passività e alla rassegnazione. Chi scrive la verità, non importa in che campo lo faccia (dall'ingegneria meccanica alla filosofia), deve insegnare a ragionare correttamente: ovvero che, su questa terra, ogni cosa è transitoria e mutevole.
I potenti nutrono una forte ostilità nei riguardi dei grandi mutamenti. Vorrebbero che tutto restasse com'è, possibilmente per mille anni... Dopo che hanno sparato loro, il nemico non dovrebbe più avere il diritto di sparare, vorrebbero che il loro colpo fosse l'ultimo. Considerare le cose mettendo in particolare rilievo il loro lato transitorio è un buon sistema per rianimare gli oppressi.
Chi scrive la verità deve mostrare agli oppressi che in ogni cosa, in ogni condizione, sorge e si sviluppa una contraddizione. Deve insegnare loro la dialettica, la dottrina del flusso delle cose. I potenti cercano di occultare le contraddizioni, affermano che esiste solo una realtà, quella che a loro conviene. Tutto è già stato stabilito. Non esiste un'altra possibilità. Così la gente si addormenta. Chi scrive la verità ha il compito di risvegliare gli oppressi, insegnando loro che nulla è già stabilito.

I governi che conducono le masse umane alla miseria devono evitare che nella miseria si pensi ai governi. Parlano molto del destino. Il destino – non già i governi – è responsabile dell'indigenza. Chi tenta di scoprire le cause dell'indigenza viene arrestato prima che si imbatta nel governo. Tuttavia è possibile opporsi in termini generali ai discorsi sul destino; si può dimostrare che chi fa il destino dell'uomo sono gli uomini.

Per diffondere la verità ci vuole astuzia. I governi (che esprimono e difendono gli interessi degli sfruttatori) cercano, in tutti i modi, non sempre legittimi, di impedire che il popolo (oppresso e sfruttato) ragioni. Per i potenti, la miseria dei deboli è piovuta dal cielo, come la pioggia. Nessuno è responsabile. Bisogna maledire il cielo. Chi alza la testa e protesta viene arrestato e imprigionato. Chi scrive la verità, mettendo in conto i rischi e i pericoli della violenza dello stato, deve mostrare al popolo che sono uomini in carne e ossa (una minoranza) che fanno il destino di tutti gli altri uomini (la maggioranza). Più o meno l'uno per cento contro il novantanove per cento, come si dice oggi.


Riepilogo
La grande verità della nostra epoca è questa: il nostro continente sta sprofondando nella barbarie perché i rapporti di proprietà dei mezzi di produzione vengono mantenuti con la violenza. A che cosa servirebbe uno scritto coraggioso dal quale risulti la barbarie delle condizioni nelle quali stiamo per cadere (il che in sé è verissimo), se poi non risultasse chiara la ragione per cui veniamo a trovarci in queste condizioni? Dobbiamo dire che degli uomini vengono torturati perché i rapporti di proprietà rimangano immutati. Certo, se lo diciamo, perderemo molti amici che sono contrari alla tortura perché credono che i rapporti di proprietà si possano mantenere anche senza di essa (il che non è vero).

Il problema è il capitalismo. Allora c'era il nazismo, oggi c'è il neoliberalismo o il cosiddetto capital-parlamentarismo. Modi diversi di difendere gli interessi della classe dominante. Oggi come allora, l'Europa rischia di sprofondare nella barbarie. Ma questa barbarie non è piovuta dal cielo. La brutalità viene dagli affari, che senza di essa non si possono più fare. Chi scrive la verità, non può limitarsi a generiche accuse, a sermoni moraleggianti. A continue lamentazioni che portano a nulla. Bisogna indicare le ragioni (storiche e non naturali) e i veri responsabili della barbarie. Per tornare all'attualità, il popolo greco oggi viene torturato, perché i rapporti di proprietà rimangano immutati.

Dobbiamo dire la verità in merito alle barbare condizioni del nostro paese, dobbiamo dire che è possibile fare ciò che è sufficiente a farle sparire, e cioè qualcosa che modifichi i rapporti di proprietà.

Scrivere la verità significa parlare di capitalismo, ovvero dei rapporti di proprietà.

Dobbiamo dirla inoltre a coloro che di questi rapporti di proprietà soffrono più di tutti, che hanno il maggiore interesse a cambiarli, ai lavoratori e a coloro che possiamo trasformare in loro alleati...

Questa verità (dei modificabili rapporti di proprietà) deve essere detta ai lavoratori.

Tutto ciò viene richiesto allo scrittore, quando gli si chiede di scrivere la verità. Con queste parole termina il saggio di Brecht del 1935, pochi anni prima della catastrofe della guerra.


Sel, assemblea dei non allineati


Mancano poche ore ormai all’inizio della tanto chiacchierata assemblea autoconvocata da alcuni miltanti di Sinistra Ecologia e Libertà, a Roma, per discutere degli scenari politici futuri e del ruolo stesso di Sel nella vita pubblica italiana. Il documento da cui si partirà nella discussione s’intitola “Non affoghiamo nella vecchia politica” ed è un lucido affresco delle inquietudini, dei dubbi, delle domande di cambiamento che percorrono il corpo vivo del partito: militanti, iscritti, simpatizzanti, interi circoli territoriali.
L’iniziativa, partita inizialmente dai soli ambienti romani, si è diffusa velocemente su tutto il territorio nazionale, raccogliendo centinaia di adesioni; un successo che è il sintomo del clima di subbuglio che si vive all’interno del partito guidato da Nichi Vendola. Nonostante i promotori dell’assemblea abbiano sottolineato più volte lo spirito costruttivo del loro progetto qualche critica seppur velata al modo in cui è stata gestita la linea politica di Sel, sembra infatti esserci. Il documento di lancio mostra sì apprezzamento per la decisione dell’assemblea nazionale di chiudere ogni spiraglio di alleanza con l’Udc, ma lamenta anche in modo chiaro la perdita dello spirito originario e fondativo di Sel: la ricerca di un modo nuovo e realmente partecipato di fare politica. Nella critica che si fa al leaderismo, alla frattura tra politica e società e tra dirigenze e basi territoriali nelle formulazione delle scelte non si può non scorgere un’allusione alla stessa azione e strategia di Sel degli ultimi mesi. Strategia che, al momento, è avvolta nelle fumose dichiarazioni del suo leader che ancora non ha sciolto le riserve sulla sua candidatura alle primarie ( anche se secondo i rumors dei bene informati dovrebbe annunciare a breve la sua discesa in campo). Quella del 30 settembre non sarà la prima manifestazione di dissenso ( anche se gli autoconvocati rifiutano l’etichetta di dissidenti) nei confronti di una certa subalternità al Partito Democratico da parte di Sel.
Durante l’estate a scuotere le acque ci avevano già pensato gli estensori della Cosa Seria, tra cui il consigliere regionale Giulio Cavalli, reclamando un’unità delle sinistre su basi solidamente anti libersite. Anche a partire da quella proposta si sviluppò un ricco dibattito a cui Gli Altri diede molto spazio, e che segnò una demarcazione abbastanza netta tra chi ritiene l’andare al governo essenziale per un cambio di rotta dopo il montismo e chi, ritenendo il montismo l’unica forma di governo oggi immaginabile, chiede di accantonare per il momento il problema della presa del potere. Gli autoconvocati del 30 si prefiggono peròl’obiettivo di superare questa dicotomia tra governismo e minoritarismo per provare invece a rompere quelle barriere invisibili, come il fiscal compact, che la tecnocrazia europea ha frapposto tra noi e i nostri bisogni e desideri. La sfida è ardua, forse impossibile. Ma cogliere le immense sfide che la storia e la politica ci pongono davanti, avere la capacità di volare alto e discutere del futuro della propria organizzazione e del proprio Paese e continente in maniera orizzontale e democratica, senza aspettare decisioni prese dall’alto, è proprio quello che segna la differenza tra un comitato elettorale e un partito, o una partita come ama dire Nichi.

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Sullo stesso tema leggi anche l’intervista a Fulvia Bandoli, del direttivo nazionale di Sel: “Nessun accordo, meglio correre da soli”
L’intervento di Monica Pasquino: Il 30 settembre dei non allineati a Vendola
L’articolo di Stefano Ciccone: Non chiamateci dissidenti
La Cosa seria che agita Sel e l’intervista a Giulio Cavalli, uno dei principali firmatari del documento: “Altro che Casini, il problema è il Pd

Il popolo del Monti bis di Alessandro Robecchi, Il Manifesto

Riassumiamo. Sono favorevoli a un governo Monti-bis Angela Merkel, Barack Obama, i vescovi italiani, Veltroni, Casini, un po' di Pd, un po' di PdL, la federcaccia di Ostuni, l'associazione di micologia di Trento, il dopolavoro ferrovieri di Orte, Beppe Fioroni, la federcircensi, Raffaele Bonanni e la sua famiglia, il sindacato frontalieri dell'Istria, il patronato degli elettrauto, l'Assococomeri che riunisce i produttori di angurie dell'alto Lazio, e Sergio Marchionne.
Si tratta di un pezzo importante di società civile che punta coerentemente a un'applicazione innovativa e rivoluzionaria dell'istituto democratico delle elezioni. Cioè: votare in modo che si verifichi un pareggio, pur dopo sei mesi di risse televisive, e quindi implorare Mario Monti di concedere il bis a un paese stremato. Già si preparano le convocazioni per interessanti convegni come: «Una speranza per un nuovo centro-destra nella figura di Mario Monti». E anche: «Nuove prospettive del centro-sinistra nella continuità dell'agenda Monti».
Constatando che alcuni minuscoli pezzettini di welfare ancora resistono a dispetto di tutto, Confindustria sta pensando a una grande iniziativa nazionale che riunirà i piccoli e medi imprenditori in una grande fiaccolata a favore di un governo Monti-bis. Per risparmiare e dare un segnale di austerità le fiaccole saranno composte dalle bozze di rinnovo dei contratti nazionali di lavoro.
La spinta per un Monti-bis viene anche dalle fasce più disagiate della popolazione come banchieri, finanzieri e supermanager di aziende pubbliche che hanno lanciato un manifesto per la continuità dell'azione di governo che deplora «lo stanco rito delle elezioni» e auspica una democrazia diretta espressa dai consigli di amministrazione. Il sindacato primari ospedalieri ha fatto sapere di desiderare ardentemente che non si perda la proficua esperienza del governo Monti, e ha comunicato che in ogni caso si opporrà all'assistenza gratuita d'emergenza per i casi senza speranza, anche se nel comunicato consegnato alle agenzie non si fa il nome di Pier Luigi Bersani.

Profumo contro l’ora di religione, per il Pd è la resa dei conti di Pietro Raboni, Il Fatto Quotidiano

Da quando lavoro nella scuola, e sono ormai più di vent’anni, raramente, che io ricordi, mi è capitato di sentirmi così in sintonia con il ministro di riferimento come mi è successo qualche giorno fa ascoltando le ultime dichiarazioni del ministro di Profumo. Il ministro ha parlato dell’ora di religione nella scuola pubblica definendola ormai insensata e si è detto favorevole all’opportunità di modificarne i contenuti in un corso di storia delle religioni o di etica. Del tutto sensate mi sono parse anche le motivazioni, e cioè l’ aumento esponenziale nelle classi italiane degli alunni stranieri, che per l’80% non sono di fede cristiana, e la necessità di adeguare l’offerta formativa alla nuova realtà.
Devo confessarlo, ho sentito come un brivido, del tipo di quelli che mi attraversano quando l’Inter solleva una coppa o un atleta italiano vince l’oro olimpico. Un brivido di orgoglio, di appartenenza…In quell’istante mi sono sentito vicino alle istituzioni e avrei quasi abbracciato il ministro; improvvisamente il suo pallore lunare mi è parso segno di assidua applicazione ai problemi della scuola, la sua pacatezza mi è sembrata la naturale modestia che spesso accompagna gli uomini geniali.
Personalmente, ho sempre considerato la cosiddetta ora di religione una prova muscolare del Vaticano nei confronti dello Stato italiano, uno dei capitoli, quello contemporaneo, della millenaria lotta per le investiture che sembra ancora oggi la traccia privilegiata della politica “estera” vaticana.
Mi è sempre sembrato ingiusto, per principio, che la scuola pubblica di uno stato laico dovesse garantire una, ed una sola, confessione religiosa, ancorché maggioritaria.
Ma se fino a qualche anno fa la cosa si poteva classificare come un’innocua ingiustizia, un lacerto medievale quasi pittoresco, ora, da quando, negli ultimi anni, la scuola ha cominciato ad accogliere sempre più alunni stranieri (nella mia sono circa il 50%) questa ingiustizia appare ancora più grave: proprio mentre la scuola è chiamata con urgenza ad attivare percorsi di integrazione per costruire i futuri cittadini italiani multietnici il mantenimento dell’insegnamento del cattolicesimo risulta in controtendenza, un ostacolo, un fattore disaggregante.
Tra le reazioni, allora, all’inaspettata proposta del ministro, dal becero “ci toccherà insegnare la religione islamica” della Lega al massimalismo della sinistra (“ d’accordo, ma c’è tutto il resto”) alla melina interessata del centro cattolico (il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la cultura: “sì” alla proposta del ministro del ministro Francesco Profumo sull’ora di religione, ma con la certezza che essa deve restare cristiana come stabilito dagli accordi concordatari”), la risposta più deludente e pilatesca è stata quella venuta dal Pd che, per bocca del rappresentante scuola, ha liquidato la questione definendola una boutade.
Non so se la proposta di Profumo sia frutto di una bevuta di troppo, o di un calcolo politico, o di una mossa concordata col Vaticano per assicurare il futuro agli insegnanti di religione ormai assunti dallo stato; so che il problema è estremamente serio e non più eludibile, e gradirei che il partito che si candida a rappresentare il futuro governo del paese non si nascondesse dietro le parole ma esprimesse una posizione chiara e, se possibile, di respiro moderno. Altrimenti si rischia, come sta di fatto succedendo, che della cosa non si parli più, che venga come ogni battuta, come ogni boutade, presto relegata nel dimenticatoio. E tra qualche anno saranno più gli alunni che si aggireranno per i corridoi e coveranno una sensazione di esclusione (la cosiddetta “ora alternativa”, legata alla disponibilità di fondi, non è per nulla garantita) dei fortunati ospitati in classe. Un bell’esempio di integrazione, di modernità, di lungimiranza.

sabato 29 settembre 2012

NEL LAZIO NON SIAMO TUTTI UGUALI :


Come Federazione della sinistra
1) Abbiamo sempre votato contro il bilancio. 
2)Non siamo presenti nell'ufficio di presidenza e quindi non abbiamo mai votato la distribuzione dei fondi. 
3) Le risorse per il nostro gruppo di cui il bilancio è pubblicato sul sito sono le meno alte tra i gruppi da due consiglieri e non ne abbiamo mai fatto un uso improprio 
4) L'impegno di una parte rilevante delle risorse di quest'anno sono state spese per la campagna per il referendum per l'abolizione del vitalizio. E oggi deppositiamo le 50.000 firme di cittadini laziali che l'hanno sottoscritto.
5) Oltre la metà dei nostri stipendi complessivi sono stati versati nelle casse molto languide del partito. 
6) E' dall'inizio della consiliatura che chiediamo leggi sulla trasparenza.
7) Il capogruppo è stato querelato più di 6 mesi fa dalla Polverini perchè denunciava il malaffare in Regione.
8) Abbiamo depositato decine di proposte contro gli sprechi. Ma sui giornali d'allora solo una riga. 

Quello che avverrà sarà il giusto taglio degli sprechi e purtroppo non tutti, accanto però alla diminuzione dell'agibilità democratica con aumento di sbarramenti ed altro.
Ma siate certi accanto a questo continuerà l'attacco ai settori popolari colpiti dalla crisi. Il lavoro dei comunisti continuerà a testa alta anche nel Lazio dentro la crisi con i lavoratori. Noi comunisti non abbiamo mai avuto e non abbiamo nulla di cui vergognarci.

SUPERARE IL TRAUMA DEL 15 OTTOBRE. BASTA ALIBI, MOBILITIAMOCI CONTRO GOVERNO E BCE di Alfio Nicotra



Oggi a Lisbona scendono in piazza contro il governo di destra/Bce : sono previste un milione di persone. 
Domani 30 settembre a Parigi scenderanno in piazza decine di migliaia di persone per chiedere il referendum sul fiscal compact e il ritiro di alcuni provvedimenti antipopolari del governo socialista/Bce. 
Lo scorso fine settimana, e per tutta questa settimana , è toccata alla Spagna e alla Grecia tenere testa ai loro governi filo Bce e dire forte che  l’Europa dei popoli non ci stà. 
Rivolgo un appello alle forze che il 15 ottobre 2011 promossero la manifestazione degli indignados a Roma. Quella manifestazione fu oggetto di un assurdo scontro interno “a chi l’aveva più lungo”, con incredibili diatribe sul chi- audace e rivoluzionario-  voleva andare davanti ai palazzi del potere e chi –pecora e moderato – voleva “passeggiare” fino a piazza San Giovanni. 
Oggi sappiamo che l’esito di quella manifestazione – la più grande del mondo come partecipazione – è stata la totale impunità consentita al governo Monti di fare carne di porco dei diritti e della Costituzione e che davanti ai palazzi del potere non c’è più nessuno. Non si costruisce un movimento antiliberista senza pratiche inclusive, democraticamente discusse, senza il metodo del consenso e il rispetto tra le varie anime. Così come non si costruisce un movimento antiliberista facendo solo dei bei seminari che ci spiegano che dovremo mobilitarci ma non mettere in agenda nessuna mobilitazione. Il tempo delle parole è scaduto
Alla solitudine di chi è massacrato dalle politiche del governo Monti/Bce bisogna dare una risposta politica e di movimento : non è tollerabile rimanere, unico Paese in Europa, con le mani in mano. Per questo mi rivolgo agli organizzatori del 15 ottobre 2011 affinché abbiano il coraggio di riunirsi, di trovare insieme le capacità di mobilitare il Paese. Forse queste organizzazioni si sono dimenticate la piattaforma con la quale invitarono migliaia di persone a venire a Roma. In essa si leggeva:
Commissione Europea, governi europei, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale,  multinazionali e poteri forti ci presentano come dogmi intoccabili il pagamento del debito, il pareggio del bilancio pubblico, gli interessi dei mercati finanziari, le privatizzazioni, i tagli alla spesa, la precarizzazione del lavoro e della vita.
Sono ricette inique e sbagliate, utili a difendere rendite e privilegi, e renderci tutti schiavi. Distruggono il lavoro e i suoi diritti, i sindacati, il contratto nazionale, le pensioni, l’istruzione, la cultura, i beni comuni, il territorio, la società e le comunità, tutti i diritti garantiti dalla nostra Costituzione. Opprimono il presente di una popolazione sempre più impoverita, negano il futuro ai giovani.
Non è vero che siano scelte obbligate. Noi le rifiutiamo. Qualunque schieramento politico le voglia imporre, avrà come unico effetto un’ulteriore devastazione sociale, ambientale, democratica. Ci sono altre strade, e quelle vogliamo percorrere, riprendendoci pienamente il nostro potere di cittadinanza che è fondamento di qualunque democrazia reale.
Non vogliamo fare un passo di più verso il baratro in cui l’Europa e l’Italia si stanno dirigendo e che la manovra del Governo, così come le politiche economiche europee, continuano ad avvicinare. Vogliamo una vera alternativa di sistema. Si deve uscire dalla crisi con il cambiamento e l’innovazione. Le risorse ci sono.
Si deve investire sulla riconversione ecologica, la giustizia sociale, l’altra economia, sui saperi, la cultura, il territorio, la partecipazione. Si deve redistribuire radicalmente la ricchezza. Vogliamo ripartire dal risultato dei referendum del 12 e 13 giugno, per restituire alle comunità i beni comuni ed il loro diritto alla partecipazione. Si devono recuperare risorse dal taglio delle spese militari. Si deve smettere di fare le guerre e bisogna accogliere i migranti.
Le alternative vanno conquistate, insieme. In Europa, in Italia, nel Mediterraneo, nel mondo. In tanti e tante, diversi e diverse, uniti. E’ il solo modo per vincere.
Poche parole che alcuni, in omaggio all’assurdo posizionamento interno al movimento, definirono generiche ma che , rileggendole ad un anno di distanza, sono di tutt’altro segno.
Sottolineo volutamente inoltre  che questo impegno solenne che prendemmo allora era contro qualunque schieramento avesse voluto imporre quelle politiche. E’ un impegno che non abbiamo esaudito. Le pur generose iniziative del 27 ottobre prossimo a Roma del movimento No Debito, e la tre giorni del 10+10 di Firenze nel decimo anniversario del primo social forum europeo – iniziative entrambi alle quali parteciperò - non soddisfano da sole questa fondamentale esigenza di far si che anche dall’Italia arrivi una risposta ai diktat padronali ed europei. Superare la sindrome del post 15 ottobre è diventata una esigenza non più rinviabile. Ognuno di noi non si nasconda dietro le sue paure. Lavoriamo per ricostruire quello spirito perché solo dal basso sarà possibile far nascere una alternativa

Il proletariato europeo nel vortice dell’austerity di Clash City Workers

Le epoche di massima oppressione sono quasi sempre epoche in cui si discorre molto di cose grandi ed elevate. In epoche simili ci vuole coraggio per parlare di cose basse e meschine come il vitto e l'alloggio dei lavoratori, mentre tutt'intorno si va strepitando che ciò che conta è lo spirito di sacrificio.( Bertolt Brecht)

Che gli stati dell’Europa meridionale – simpaticamente chiamati PIGS, cioè “maiali”, dalle tecnocrazie dell’UE – siano in crisi, è cosa ormai nota. Come al solito, l’ottimismo dei governi ha avuto le gambe corte: in Italia si rivedono le cifre del PIL, che nel 2013 scenderà dello 0,6% (dopo che già quest'anno andrà giù del 2,4%); lo stesso si fa in Spagna, che vede il proprio PIL in calo del dell’1,4% invece che dello 0,6% finora pronosticato. Quanto alla Grecia, il suo baratro sembra senza fondo: il Ministro delle Finanze greco ha infatti appena annunciato che, dal 2008 al 2014, la contrazione del PIL è calcolabile intorno al 25%. Non meno preoccupante è la situazione in Portogallo, dove il PIL quest’anno è in calo del 3,3%. In queste condizioni lo spread con i titoli tedeschi ricomincia a salire, e non è più solo la Grecia a essere interessata dai piani di “aiuto”…
Ma queste cifre, che pure fotografano una situazione molto grave, non dicono tutto, anzi: vengono usate per nascondere qualcosa. I media infatti tendono a presentarci gli Stati – Italia, Spagna etc – come entità compatte, come unità nazionali che si siedono al tavolo delle trattative con unità nazionali altrettanto compatte – la Germania, la Francia etc –, come se fossimo ancora all’epoca degli Stati-nazione ottocenteschi e non in un’epoca di globalizzazione, di circolazione mondiale di capitali e di formazione di classi dominanti non più su base nazionale ma internazionale. Cerchiamo quindi di fare un po’ di chiarezza per provare a capire cosa sta succedendo per davvero.
È persino banale dire che gli Stati non sono ordinamenti super partes, ma costruzioni politiche mediante le quali la borghesia afferma il suo potere sulle classi lavoratrici facendolo passare per “volontà generale” e “interesse collettivo”.
Quello che sta succedendo negli ultimi mesi in Europa ce ne dà la conferma.
Nonostante i media parlino sempre di “Italia”, per cercare così di far sentire tutti partecipi di un progetto nazionale, addomesticando la popolazione agli imperativi della “responsabilità” e dei “sacrifici”, è evidente che non stiamo assistendo a uno scontro fra diversi paesi, ma a una lotta fra classi sociali a livello continentale. Da un lato c’è una borghesia europea che vuole andare verso la costituzione di un’unione imperialista più forte, più competitiva a livello globale, strutturata intorno all’asse franco-tedesco; dall’altro ci sono pezzi di borghesie ancora legate alla dimensione nazionale (magari marginali da un punto di vista economico, ma ancora rappresentative da un punto di vista politico) e soprattutto una massa sterminata di lavoratori, disoccupati, precari, proletari che non intendono – e comunque non possono – più pagare questa crisi.
In altre parole, all’interno del “normale” sviluppo ineguale fra i paesi capitalisti europei, alcune frazioni della borghesia decidono – per meglio servire i propri interessi, per rafforzare la propria posizione economica e politica all'interno di ciascun paese – di applicare le misure di “austerità” decretate dall’UE, che incarna gli interessi “universali” della borghesia contro i piccoli interessi di bottega delle frazioni borghesi nazionali.
Da questo punto di vista tutti i ritornelli della destra e dei populisti, tutti gli slogan contro la “casta”, dai politici “traditori” e “corrotti”, alle lamentele sulla perduta “sovranità nazionale”, non hanno alcun senso: non perché i politici non siano anche corrotti e traditori del mandato dei cittadini, ma perché in realtà essi eseguono al meglio – nell’Italia di Monti come nella Spagna di Rajoy – gli interessi di quella borghesia da cui dipendono, borghesia che ha bisogno dell’UE per partecipare da una migliore posizione alla “gara” contro i monopoli statunitensi, giapponesi, cinesi, russi etc. Per questo motivo una vera alternativa allo stato di cose esistenti non sta né nelle ridicole proposte di taglio ai “costi della politica”, né nel miracoloso ricorso a “figure nuove”, ma nell’opposizione alle pretese delle classi dominanti, nella rottura con i loro interessi. Perché la crisi non è mai per “tutti”, ma sempre per qualcuno: quelli che hanno bisogno di lavorare per poter sopravvivere.
Che la cosa stia proprio così, lo dimostrano alcune notizie degli ultimi giorni. Il 24 settembre Publico, il principale quotidiano portoghese, apriva con quest’articolo: I salari del lavoratori calano di più di quelli degli imprenditori. In sostanza, per la prima volta da sempre, i salari del lavoratori portoghesi (i salari nominali, cioè la cifra effettivamente ricevuta, non quella calcolata in relazione all'inflazione - rispetto a quella infatti i salari erano già indietro da tempo) calano in termini assoluti, a tutti i gradini della scala sociale, ma in particolar modo nei livelli più bassi – fra gli operai, gli addetti ai servizi, gli impiegati.
Per essere più chiari, se fino a qualche anno fa il contratto di un lavoratore prevedeva per ipotesi un salario di 1.000€ al mese, ora per lo stesso lavoro il dipendente percepisce 980€, con in più l’aggravio di dover pagare l’aumento dei prezzi delle merci dovuto all’inflazione e l’aumento delle tasse imposte dallo Stato, mentre vengono contemporaneamente tagliati le tredicesime e i servizi sociali. Il padronato – e non solo quello portoghese, anzi: le aziende più importanti del paese sono multinazionali – è riuscito a ottenere questo risultato, che gli permette anche in tempo di crisi di fare profitti considerevoli, usando i contratti a termine, le varie direttive europee in tema di lavoro, le ristrutturazioni volute dai neoliberisti del Fondo Monetario Internazionale. Il sistema è semplice: gli imprenditori sostituiscono in continuazione i “vecchi” lavoratori con “nuovi” lavoratori pagati di meno. Inutile dire che nello stesso periodo gli stipendi dei direttori generali e degli amministratori non sono stato affatto toccati.
Il caso portoghese non è ovviamente molto diverso da quello spagnolo, da quello greco, o da quello italiano – proprio l’altro ieri l’Istat ha annunciato che “se non si rinnovano i contratti, nel 2013 le retribuzioni rischiano di crollare”. In tale contesto non sorprende che i mutui accesi siano sempre di meno, così  come siano in calo le vendite al dettaglio e persino i consumi alimentari. Ma che quella di recuperare competitività internazionale spremendo il più possibile il lavoro sia una strategia che la borghesia sta applicando a livello internazionale, ce lo dimostrano persino gli USA. Secondo il Financial Times, per avviare una vera ripresa dell’economia statunitense bisogna agevolare una “rinascita della manifattura” attraverso una politica energetica e fiscale che incentivi gli investimenti, e soprattutto ammazzando i costi della forza lavoro. Secondo il Boston Consulting Group, gli USA in questo modo potrebbero creare entro il 2020 fra i 2 e i 5 milioni di lavoratori industriali (fra operai, tecnici e impiegati), che guadagneranno, rispetto ai loro colleghi cinesi, solo 7 centesimi in più all’ora…
Tornando all’Europa, e in particolare all’Italia, è evidente che mentre la condizione di vita dei lavoratori torna a quella di venti, se non trenta anni fa, ci sono fasce sociali che non sono affatto toccate dalla crisi, tanto che il settore che soffre di meno della contrazione dei consumi è quello delle gioiellerie e degli articoli di lusso in generale. Persino Napolitano si deve essere accorto di qualcosa se – proprio lui che ha fatto di tutto per avere come Capo del Governo un agente della grande borghesia europea – parla di “una politica di rigore che parta dai più abbienti”. Affermazione che fa ridere in un paese dove si è parlato di recuperare entrate anche attraverso una tassa sugli animali domestici, ma non è mai stata presa in considerazione una patrimoniale nemmeno blanda, né è stato avviato un serio recupero dell’evasione fiscale.
In ogni caso, le classi subalterne dell’Europa meridionale si stanno accorgendo del trucco, e stanno iniziando a porre i loro interessi, che sono quelli della maggioranza, contro quelli assolutamente particolari della minoranza borghese. La crisi sociale prende così anche una forma politica: è quello che accade da tempo in Grecia, in cui non si smette di manifestare contro le misure di austerity, ma è quello che sta accadendo anche in Spagna, dove negli ultimi giorni i manifestanti hanno assediato il Parlamento, costringendo la polizia a caricare duramente, mentre ieri i sindacati baschi hanno incrociato le braccia per 24 ore. Anche il Portogallo vede le più grandi manifestazioni dal 1974 (il 15 settembre erano in piazza in tutto il paese quasi un milione di persone, circa un portoghese ogni dieci), manifestazioni che hanno già prodotto parziali effetti politici, mettendo in crisi il governo di centrodestra e fermando gli attacchi già programmati ai salari, mentre per sabato 29 settembre è stata chiamata un’altra grande mobilitazione nazionale a Lisbona
Certo, la crisi politica può spostare anche il quadro politico verso destra: è il caso dell’ascesa del partito greco neonazista Alba Dorata, o di quello francese Front National. Ma i proletari europei, per quanto combattano ancora in larga parte le “seconde linee” come “i politici” o la “partitocrazia”, per quanto siano spesso manovrati da forze reazionarie, stanno a poco a poco prendendo consapevolezza del fatto che la sola via d’uscita dalla crisi è la loro unione a livello locale e la loro alleanza a livello internazionale.
Purtroppo, in questo scenario autunnale confuso ma dinamico, è l’Italia a mancare. Forse i lavoratori italiani sono ancora paralizzati dall’arrivo di Monti, annichiliti dai falsi problemi posti da Repubblica e da Ballarò, schifati dagli stili di vita dei propri politici, oscillanti fra un nichilismo disperato e una sudditanza al primo incantatore che passa. A questi bassi livelli di coscienza si aggiunge la struttura sindacale corporativa di CGIL-CISL-UIL che controlla ancora capillarmente i punti più significativi del conflitto di classe, impedendo la sua esplosione. Ciò non toglie che importanti segnali di inversione di tendenza ci siano: l’ondata di rabbia contro Marchionne che attraversa il corpo degli operai FIAT dal Nord al Sud, la determinazione dei lavoratori dell’ALCOA, la capacità di resistenza nel tempo di vertenze come quella dell’Irisbus, se convogliate e unite intorno a un progetto realmente alternativo, potrebbero produrre effetti dirompenti. Bisogna incominciare da subito, per costruire il corteo nazionale del 27 ottobre come una reazione di massa alle politiche della borghesia europea che oggi trovano in Monti l’interprete più astuto e spietato.

La "Sinistra Europea" si scaglia contro il "Fiscal Compact"


Il fiscal compact è incompatibile con il diritto comunitario. E’ quanto sostiene la presidentessa del gruppo parlamentare europeo GUE/NGL (Sinistra Unitaria Europea) Gabi Zimmer che, in seguito ad un incontro con Andreas Fischer-Lescano (professore ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Brema), ha ritenuto necessario rinviare la questione dei patti fiscali alla Corte di Giustizia dell’Ue: «Il fiscal compact viola il diritto comunitario sia dal punto di vista materiale che formale», ha affermato la Zimmer, che tuttavia non è intenzionata ad agire indipendentemente dal volere del Parlamento Europeo.
Questo nonostante i partiti d’ispirazione socialista, popolare e liberale abbiano votato nei rispettivi Paesi e anche all’interno dello stesso Parlamento Europeo, il suddetto patto di bilancio europeo (firmato lo scorso 2 marzo da 25 dei 27 Paesi membri dell’Ue). Oltre a prevedere il pareggio di bilancio, il fiscal compact impone la riduzione del debito pubblico al 60% in rapporto al Pil, con il ritmo di un ventesimo all’anno (essendo in Italia il rapporto debito/Pil al 120%, sono praticamente certe manovre da 40-50 miliardi annui), e l’obbligo di mantenere il deficit pubblico sempre al di sotto del 3% del Pil.
Al momento sono 11 i Paesi (quando verrà raggiunta la soglia di 12 il patto fiscale diventerà operativo a tutti gli effetti) ad aver ratificato il trattato con voti trasversali e solo la Gran Bretagna sembra intenzionata ad opporsi (il conservatore David Cameron ha affermato che con il fiscal compact si vuole «proibire Keynes per legge»). Nemmeno la Francia del socialista Hollande sembra più intenzionata a rigettare i vincoli europei ed è proprio qui che un pezzo importante della GUE, vale a dire il Front De Gauche di Jean-Luc Mélenchon, sta dando battaglia: verranno raccolte delle firme per indire un referendum contro il “Pacte budgétaire européen“ e domani, a Parigi, ci sarà una manifestazione indetta proprio dal Front De Gauche, che d’adesso in poi potrà contare sul sostegno dei Verdi europei e francesi.
E’ proprio sulle divisioni interne presenti tra socialisti e popolari, quindi, che la Sinistra Europea ha deciso di giocare la propria partita: «Il Fiscal Compact ha creato un malcontento trasversale in Aula perché ancora una volta il Parlamento europeo è stato messo da parte e privato delle sue competenze. E sono tanti ad essere stanchi di tutto questo», ha affermato la Zimmer.

Pasquale Vietta - Pubblico