giovedì 20 settembre 2012

La Chrysler è un affare. Per la finanza


Nel giugno del 2009, quando la Chrysler è uscita dalla amministrazione controllata, il suo valore di borsa non raggiungeva il miliardo. Alla fine dello scorso anno la Sec certificava un valore di 7.5 miliardi. In poco più di due anni il valore dell’azienda era salito del 700%. La stessa progressione non è avvenuta per i profitti.Dopo perdite superiori ai 600 milioni nel 2010, l’anno scorso ha chiuso con un utile di 183 milioni. Il primo utile dopo 13 anni. Ma 183 milioni su un fatturato di 43 miliardi non sono gran cosa.
Nel contempo la Fiat annunciava la restituzione del prestito ottenuto dal governo americano, salendo in fasi successive sino a possedere il 56% della azioni della Chrysler. La Fiat non ha acquistato il 56% ma solo il 21%. Il restante 35% era stato regalato dal governo Obama per prendersi in carico l’azienda di Detroit. E neppure l’intera tranche del prestito è stata restituita. Il Tesoro americano ha infatti cancellato 1,3 miliardi mettendole tra le perdite.
Dati gli scarsi utili per pagare il prestito e non solo, la Fiat è ricorsa al mercato finanziario. Lo scorso anno ha emesso un bond a scadenza otto anni per un totale di 3,5 miliardi. Gli interessi partono dal 7,5%. In totale i prestiti ottenuti per pagare il Tesoro americano sono 9 miliardi. Ogni anno la Chrysler deve pagare piu di 600 milioni di interessi. A un debito con il governo è stato sostituito un debito con il mercato finanziario. Questi bond sono stati valutati dalle solite agenzie di rating. Si tratta di un giudizio impietoso, B2, praticamente titoli spazzatura. O se si preferisce ad alto rischio. Eppure sono stati sottoscritti senza clamore. Amici interessati a raccogliere laute provvigioni di un collocamento di quelle dimensioni si trovano sempre a Wall Street.
La Chrysler è così un doppio affare per il mondo finanziario. Un titolo partito da zero lo si puo «crescere» con ampi margini di guadagno, che diventano doppi se si presta alla stessa azienda il denaro ad alti tassi per operazioni di lifting finanziario. Non è sfuggito agli analisti più acuti che il tasso pagato è ben superiore a quelli di Ford e Gm per analoghe operazioni. La Fiat possiede anche una opzione per acquistare il 40% oggi nelle mani del sindacato dell’auto e Marchionne intende esercitarla entro la scadenza, cioè il 2016. Magari ricorrendo al compiacente mercato finanziario che poi farà correre il valore del titolo per la felicità degli azionisti di riferimento. Nessuna demonizzazione della finanza e della crescita del valore dei titoli azionari. Ma proprio la rottura tra il valore reale e quello azionario ha provocato il primo movimento tellurico che ha aperto la via alla attuale crisi.
Se poi osserviamo la conduzione industriale della Chrysler, scopriamo che la 500 in America è stata un insuccesso e che la Dodge Dart, la vettura compatta lanciata in questi mesi, è un vero e proprio flop. Nei primi due mesi ne sono state vendute meno di mille. Di Honda Civic, concorrente nello stesso segmento, se ne vendono lo stesso numero in un week end. Marchionne più che un risanatore è stato un valorizzatore del titolo aziendale. Questo ha fatto e facendolo ha fatto gli interessi degli azionisti. Per lo meno nel breve periodo. Perché i debiti vanno sempre pagati e prima o poi il conto si presenta, ma magari a quel punto qualcuno ha già lascato la barca.
Due sono i fatti produttivi che hanno aiutato Marchionne. Da un lato la leggera ma significativa ripresa del mercato dell’auto negli Usa, dall’altro il taglio salariale. Oltre ad un riduzione degli stipendi, quasi tutti i nuovi assunti hanno paghe pari al 50% dei lavoratori già occupati.
Marchionne e la famiglia Elkann-Agnelli hanno ben tracciato la strategia del gruppo. In America si finanziarizza, nei mercati emergenti ci si sta alla grande anche perché qui il prodotto richiesto non è di alta qualità. Quindi si va avanti in Brasile, Polonia, Turchia e adesso Serbia mentre in Europa,sul mercato più difficile, si lascia che «il mercato» spinga alla marginalità la Fiat. Troppo aggressivi i concorrenti, troppo esigente la clientela. Qui, se si vuole fare buisness, ci si deve concentrare sul prodotto, un fatto che anche culturalmente è oggi estraneo al gruppo dirigente della azienda di Torino.
Non sono i soli ad avere questa difficoltà. La cultura industriale nel mondo degli affari è stata sostituita da tempo da quella finanziaria, nel migliore dei casi, da quella affaristico truffaldina negli altri. In Italia c’è una eclisse della classe imprenditoriale in atto da tempo che l’annuncio di Marchionne rivela anche ai piu ciechi. Se si vuole tenere in piedi una economia per produrre beni e servizi bisogna pensare anche a nuovi soggetti. Come dimostra il caso Volkswagen, la crisi di mercato può valere più per alcuni che per altri, dipende dalle scelte che si fanno. E poi ci vogliono i soldi per gli investimenti. I 20 miliardi per gli stabilimenti italiani erano una cifra francamente poco realistica. Oggi la Fiat nel suo complesso ha 27 miliardi di debiti,trovarne altri 20 nei prossimi anni da investire in Italia era proprio improbabile. Lungo questa strada abbiamo sicuramente la chiusura di altri stabilimenti, la perdita di altri posti di lavoro, la marginalizzazione dell’Italia nel mercato dell’auto e la vittoria della politica del debito.

Claudio Mezzanzanica - il manifesto

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