sabato 22 settembre 2012

La lotta di classe fa bene all'Italia: lo dice anche il Cnel di Dino Greco



C'è qualcosa di inedito e di clamoroso nel rapporto del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro presentato martedì e subito nascosto da quasi tutto il mainstream. Si tratta della inoppugnabile documentazione – dati alla mano – che negli anni Settanta la produttività del settore manifatturiero crebbe in Italia al ritmo del 6,5% medio l'anno. Ben più del Giappone, degli Stati Uniti, della Germania, del Regno Unito, della Francia, dell'Olanda. Insomma, più di tutti i paesi sviluppati. Dunque, ecco il miracolo: questa stupefacente performance si ebbe nel decennio della riscossa operaia, della forza sindacale giunta al suo apice, della conflittualità spinta, dell'egemonia della cultura egualitaria, della scala mobile a cadenza trimestrale (ricordate l'indennità di contingenza a 2.389 lire al punto uguale per tutti i lavoratori?), dei due livelli di contrattazione – nazionale e articolata – liberi da vincoli restrittivi, della più forte dinamica retributiva d'Europa, del superamento delle gabbie salariali con la conseguente conquista del carattere unitario e inderogabile del contratto nazionale, dell'entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori con al centro l'articolo 18, dell'affermazione di diritti individuali, collettivi e sindacali che concretizzavano il diritto alla salute e allo studio (le 150 ore), di un mercato delle braccia rigidamente normato, imperniato sul rapporto di lavoro a tempo indeterminato, di un collocamento affidato ad uffici pubblici che somministravano il lavoro sulla base della chiamata numerica. E tutto ciò in costanza di un regime previdenziale che assicurava una rendita pensionistica pari all'80% dell'ultima retribuzione dopo 35 anni di attività. Ebbene, in quel decennio, additato oggi da lor signori e dagli ineffabili tecnocrati che sgovernano il paese come l'origine di tutti gli italici mali, il valore aggiunto delle produzioni al netto del costo dei fattori, gli investimenti, i profitti incamerati dal sistema delle imprese hanno toccato punte straordinarie, mai più raggiunte inseguito. Viceversa, negli anni Ottanta, prima ancora che l'entrata nell'Euro precludesse il ricorso alla svalutazione competitiva, ma dopo la sconfitta del sindacato, dopo i successi della repressione antioperaia, dopo la compulsiva compressione dei salari e la progressiva riduzione – fino alla definitiva soppressione – della scala mobile – il trend positivo si rovescia, gli investimenti produttivi crollano, mentre comincia ad affermarsi la tendenza alla finanziarizzazione dell'economia da parte di un capitale a inclinazione usuraria che rinuncia al rischio industriale, patrimonializza i profitti, non fa più impresa. Poi, negli anni Novanta, e in modo travolgente nel primo decennio del duemila, con l'euro, con l'introduzione dei cambi fissi, col monetarismo spinto, con la distruzione del sindacato, della contrattazione collettiva e del sistema di protezione sociale, con la svalorizzazione del lavoro e l'annichilimento dei salari, con la riduzione alla condizione servile di gran parte del lavoro dipendente, si assiste all'implosione dell'economia italiana, alla perdita di competitività della sua industria, depauperata nei suoi asset fondamentali, con imprese sottocapitalizzate, orientate alla delocalizzazione o alla compressione – la più brutale – delle condizioni dei prestatori d'opera. Eppure, la vulgata propagandistica di cui Mario Monti è protagonista assoluto racconta un'altra storia, gabellata per scienza adamantina, in base alla quale sarebbe proprio alle “generose” tutele, ai diritti (ribattezzati come privilegi) di cui godrebbero i lavoratori, ad un mercato del lavoro ingessato da mille rigidità (di cui non c'è da almeno vent'anni la più labile traccia) che va imputata la responsabilità della scarsa propensione padronale ad assumere e dei player internazionali ad allocare in Italia i propri investimenti. Fino all'ultima cialtronesca esibizione di quel Giuliano Cazzola (ex sindacalista passato, armi e bagagli, all'altra sponda) che è riuscito a spiegare l'origine del nanismo che “tarpa le ali” alle nostre imprese col terrore procurato dall'obbligo di osservare le norme previste dall'articolo 18, ove l'azienda superi la soglia dei 15 dipendenti (!). Bene, dunque, che il Cnel, come nella famosa novella di Hans Cristian Andersen, abbia svelato che il re è nudo, e che il poderoso volume di chiacchiere e di metaforico piombo che si abbatte sul lavoro è – semplicemente – un episodio della lotta di classe che i ricchi – per dirla alla maniera di Warren Buffett – hanno scatenato contro i poveri, riuscendo sino ad ora nel gioco di prestigio di carpirne un autolesionistico consenso. Talvolta capita – come causticamente osservava Jean Jacque Rousseau oltre due secoli fa – che «gli schiavi perdano tutto nelle loro catene, persino il desiderio di liberarsene». Il fatto è che le sciagure sociali provocate dai lestofanti che reggono il paese per nome e per conto dei proprietari universali non bastano, di per se stesse, a produrre la consapevolezza dello sfruttamento e dell'oppressione di classe. Ecco perché demistificare la fraudolenta narrazione del potere è il primo passo da compiere verso la verità, verso un più alto livello di comprensione dei processi in atto, delle cause che li determinano e degli effetti che ne conseguono. Senza la qual cosa anche le rivolte e i sussulti sociali apparentemente più radicali, ma privi di autonomia culturale e visione strategica, finiscono per essere fatalmente riassorbiti nella logica del potere costituito.

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