C'è qualcosa di inedito e di clamoroso nel rapporto del
Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro presentato martedì e
subito nascosto da quasi tutto il mainstream. Si tratta della
inoppugnabile documentazione – dati alla mano – che negli anni Settanta
la produttività del settore manifatturiero crebbe in Italia al ritmo del
6,5% medio l'anno. Ben più del Giappone, degli Stati Uniti, della
Germania, del Regno Unito, della Francia, dell'Olanda. Insomma, più di
tutti i paesi sviluppati. Dunque, ecco il miracolo: questa stupefacente
performance si ebbe nel decennio della riscossa operaia, della forza
sindacale giunta al suo apice, della conflittualità spinta,
dell'egemonia della cultura egualitaria, della scala mobile a cadenza
trimestrale (ricordate l'indennità di contingenza a 2.389 lire al punto
uguale per tutti i lavoratori?), dei due livelli di contrattazione –
nazionale e articolata – liberi da vincoli restrittivi, della più forte
dinamica retributiva d'Europa, del superamento delle gabbie salariali
con la conseguente conquista del carattere unitario e inderogabile del
contratto nazionale, dell'entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori
con al centro l'articolo 18, dell'affermazione di diritti individuali,
collettivi e sindacali che concretizzavano il diritto alla salute e allo
studio (le 150 ore), di un mercato delle braccia rigidamente normato,
imperniato sul rapporto di lavoro a tempo indeterminato, di un
collocamento affidato ad uffici pubblici che somministravano il lavoro
sulla base della chiamata numerica. E tutto ciò in costanza di un regime
previdenziale che assicurava una rendita pensionistica pari all'80%
dell'ultima retribuzione dopo 35 anni di attività. Ebbene, in quel
decennio, additato oggi da lor signori e dagli ineffabili tecnocrati che
sgovernano il paese come l'origine di tutti gli italici mali, il valore
aggiunto delle produzioni al netto del costo dei fattori, gli
investimenti, i profitti incamerati dal sistema delle imprese hanno
toccato punte straordinarie, mai più raggiunte inseguito. Viceversa,
negli anni Ottanta, prima ancora che l'entrata nell'Euro precludesse il
ricorso alla svalutazione competitiva, ma dopo la sconfitta del
sindacato, dopo i successi della repressione antioperaia, dopo la
compulsiva compressione dei salari e la progressiva riduzione – fino
alla definitiva soppressione – della scala mobile – il trend positivo si
rovescia, gli investimenti produttivi crollano, mentre comincia ad
affermarsi la tendenza alla finanziarizzazione dell'economia da parte di
un capitale a inclinazione usuraria che rinuncia al rischio
industriale, patrimonializza i profitti, non fa più impresa. Poi, negli
anni Novanta, e in modo travolgente nel primo decennio del duemila, con
l'euro, con l'introduzione dei cambi fissi, col monetarismo spinto, con
la distruzione del sindacato, della contrattazione collettiva e del
sistema di protezione sociale, con la svalorizzazione del lavoro e
l'annichilimento dei salari, con la riduzione alla condizione servile di
gran parte del lavoro dipendente, si assiste all'implosione
dell'economia italiana, alla perdita di competitività della sua
industria, depauperata nei suoi asset fondamentali, con imprese
sottocapitalizzate, orientate alla delocalizzazione o alla compressione –
la più brutale – delle condizioni dei prestatori d'opera. Eppure, la
vulgata propagandistica di cui Mario Monti è protagonista assoluto
racconta un'altra storia, gabellata per scienza adamantina, in base alla
quale sarebbe proprio alle “generose” tutele, ai diritti (ribattezzati
come privilegi) di cui godrebbero i lavoratori, ad un mercato del lavoro
ingessato da mille rigidità (di cui non c'è da almeno vent'anni la più
labile traccia) che va imputata la responsabilità della scarsa
propensione padronale ad assumere e dei player internazionali ad
allocare in Italia i propri investimenti. Fino all'ultima cialtronesca
esibizione di quel Giuliano Cazzola (ex sindacalista passato, armi e
bagagli, all'altra sponda) che è riuscito a spiegare l'origine del
nanismo che “tarpa le ali” alle nostre imprese col terrore procurato
dall'obbligo di osservare le norme previste dall'articolo 18, ove
l'azienda superi la soglia dei 15 dipendenti (!). Bene, dunque, che il
Cnel, come nella famosa novella di Hans Cristian Andersen, abbia svelato
che il re è nudo, e che il poderoso volume di chiacchiere e di
metaforico piombo che si abbatte sul lavoro è – semplicemente – un
episodio della lotta di classe che i ricchi – per dirla alla maniera di
Warren Buffett – hanno scatenato contro i poveri, riuscendo sino ad ora
nel gioco di prestigio di carpirne un autolesionistico consenso.
Talvolta capita – come causticamente osservava Jean Jacque Rousseau
oltre due secoli fa – che «gli schiavi perdano tutto nelle loro catene,
persino il desiderio di liberarsene». Il fatto è che le sciagure sociali
provocate dai lestofanti che reggono il paese per nome e per conto dei
proprietari universali non bastano, di per se stesse, a produrre la
consapevolezza dello sfruttamento e dell'oppressione di classe. Ecco
perché demistificare la fraudolenta narrazione del potere è il primo
passo da compiere verso la verità, verso un più alto livello di
comprensione dei processi in atto, delle cause che li determinano e
degli effetti che ne conseguono. Senza la qual cosa anche le rivolte e i
sussulti sociali apparentemente più radicali, ma privi di autonomia
culturale e visione strategica, finiscono per essere fatalmente
riassorbiti nella logica del potere costituito.
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