Il governo Monti non sa che fare sul piano
industriale, ma punta a trasformare il 'caso' Fiat in 'apripista' del
complesso negoziato aperto fra imprese e sindacati sul nodo della
«competitività».
Non molti sembrano aver compreso cosa è accaduto ieri tra il
governo e il vertice Fiat. In apparenza tutto era ridotto alla
questione: Fiat resta in Italia o no? Con il corollario dell'ultimo
momento: chiede incentivi, cassa integrazione in deroga, insomma aiuti
pubblici o no?
La nota congiunta finale tra governo e Fiat – l'unica vera novità dell'incontro – è più vago delle promesse elettorali dei partiti (sottolineatura spietata dell'ottimo Massimo Mucchetti). Ma qualcosa che doveva restare sullo sfondo si comprende egualmente.
Il più soddisfatto, alla fine, era Mario Monti. Buona parte della soddisfazione deriva dalla possibilità di trasformare il 'caso' Fiat in 'apripista' del complesso negoziato aperto fra imprese e sindacati sul nodo della «competitività». In pratica, così come è avvenuto per il “modello Pomigliano”, la Fiat si presta a fare da ariete per lo sfondamento di una serie di paletti tuttora (stranamente) sussistenti per la difesa del lavoro. Dai contratti nazionali da rinnovare (e di cui Confindustria vorrebbe chiedere il congelamento) agli ammortizzatori sociali (recenetemente “riformati” da Fornero & co. Con un taglio drastico). Bisognerà seguire soprattutto questo versante del “tavolo di lavoro” istituito tra governo e Fiat, e verificare quanta “resistenza”opporranno i sindacati “complici”. Se il contratto dei chimici è il segnale, si può dire fin da subito: nessuna”.
Sugli altri temi dell'incontro, ci sembra più utile riportare i due articoli che oggi meglio rendono i nodo problematici, individuando con chiarezza il molto di “propaganda” e la miseria della “strategia industriale” messa in campo da Marchionne. Ma anche l'atteggiamento crimonogeno del governo in carica, che teorizza apertamente che non ci deve essere nessuna politica industriale pubblica.
La nota congiunta finale tra governo e Fiat – l'unica vera novità dell'incontro – è più vago delle promesse elettorali dei partiti (sottolineatura spietata dell'ottimo Massimo Mucchetti). Ma qualcosa che doveva restare sullo sfondo si comprende egualmente.
Il più soddisfatto, alla fine, era Mario Monti. Buona parte della soddisfazione deriva dalla possibilità di trasformare il 'caso' Fiat in 'apripista' del complesso negoziato aperto fra imprese e sindacati sul nodo della «competitività». In pratica, così come è avvenuto per il “modello Pomigliano”, la Fiat si presta a fare da ariete per lo sfondamento di una serie di paletti tuttora (stranamente) sussistenti per la difesa del lavoro. Dai contratti nazionali da rinnovare (e di cui Confindustria vorrebbe chiedere il congelamento) agli ammortizzatori sociali (recenetemente “riformati” da Fornero & co. Con un taglio drastico). Bisognerà seguire soprattutto questo versante del “tavolo di lavoro” istituito tra governo e Fiat, e verificare quanta “resistenza”opporranno i sindacati “complici”. Se il contratto dei chimici è il segnale, si può dire fin da subito: nessuna”.
Sugli altri temi dell'incontro, ci sembra più utile riportare i due articoli che oggi meglio rendono i nodo problematici, individuando con chiarezza il molto di “propaganda” e la miseria della “strategia industriale” messa in campo da Marchionne. Ma anche l'atteggiamento crimonogeno del governo in carica, che teorizza apertamente che non ci deve essere nessuna politica industriale pubblica.
Molte promesse e qualche dubbioMassimo Mucchetti - da Il Corriere della Sera
Ciascuno ha detto e spiegato la sua posizione con molte promesse e qualche dubbio. La nota positiva uscita dall’incontro di ieri tra la Fiat e il governo è l’impegno a costituire un gruppo di lavoro misto presso il ministero per lo Sviluppo economico con l’obiettivo di rafforzare le strategie di esportazione nel settore dell’automotive. Il mercato di sbocco dovrebbe essere l’America dove la capacità produttiva della Chrysler sarebbe quasi saturata.
L’incontro di ieri tra la Fiat e il governo ha avuto un pregio: è durato a lungo. Vuol dire che ciascuno ha detto e spiegato la sua. La seconda nota positiva è l’impegno a costituire un gruppo di lavoro misto presso il ministero per lo Sviluppo economico per rafforzare le strategie di esportazione nel settore dell’automotive. Le indiscrezioni dicono che il mercato di sbocco salvifico dovrebbe essere l’America dove la capacità produttiva della Chrysler sarebbe quasi saturata.
Ma qui si fermano le note positive. Che all’orecchio degli oltre ventimila dipendenti della Fiat Auto in Italia e degli 80 mila dell’indotto suonano ancor più generiche e vaghe dei discorsi dei partiti politici sulle riforma elettorale. Il comunicato congiunto governo-Fiat, che in questi casi è ciò che vale perché impegna i firmatari, non prende alcun impegno. Il progetto Fabbrica Italia non viene più menzionato. Nemmeno per celebrarne le esequie, visto che era stato annunciato in pompa magna nell’aprile del 2010 proprio a palazzo Chigi, con Silvio Berlusconi in sella.
Ma nell’era di Facebook, dove ogni informazione si consuma in una chiacchiera in diretta, la memoria è un lusso per pochi o un approccio troppo pedante al reale. La nota non spiega se ci sarà una deroga alle norme sulla cassa integrazione così da poter offrire copertura ai dipendenti se il lavoro continuerà a mancare come ormai appare, purtroppo, molto probabile. Ma se ci fosse, bisognerebbe poi spiegare all’Italia come si giustifichi la dero ga rispetto alla riforma del mercato del lavoro firmata dal ministro Fornero. Certo, l’idea di due Italie, una protetta da eventuali accordi Fiat e un’altra allo sbaraglio, non andrebbe bene. Ma sarebbe un problema della gente Fiat o farebbe emergere un limite della riforma?
In ogni caso, la nota congiunta prende atto dell’orientamento dell’azienda a investire in Italia al momento idoneo. Il che può essere un’ovvietà (quando mai si investe nel momento sbagliato) oppure un avvertimento (adesso non si investe altrimenti sarebbero tutti felici di dire che il momento idoneo è questo).
L’azienda dichiara anche una cifra, 5 miliardi, per quantificare gli investimenti fatti nel nostro Paese negli ultimi tre anni. Certi numeri ricordano i 20 miliardi di Fabbrica Italia che non si sono mai visti. Ora, le Fiat sono due: la Fiat Industrial, che fa camion e trattori, e la Fiat Spa, che fa le automobili. Quei 5 miliardi come si suddividono tra le due? Quanto è investimento vero, quanti sono costi capitalizzati e quanto è spesa per ricerca e sviluppo? Ma se anche fosse, 5 miliardi in tre anni equivalgono a 8 e mezzo in cinque anni. Non avevamo detto che erano 20 nel quinquennio?
Non facciamo questi conteggi per spirito polemico. Ma perché dobbiamo tutti essere credibili in momenti come questi. I numeroni possono essere spacciati nei talk show televisivi, ma troppo spesso la realtà è un’altra. Ed è dolorosa. Con il governo di che cosa si parla? La Fiat ha escluso che esista un’offerta Volkswagen per l’Alfa Romeo e uno stabilimento. Questo filtra. Ma è la Fiat, parte in causa, che deve dirlo o è il governo che, con i suoi strumenti, deve accertare alla fonte come stanno le cose? Non bisogna essere dei germanisti per capire che a Wolfsburg si attendono un approccio che tenga conto di che cosa sono oggi la Volkswagen, la Fiat e l’Alfa. In altre parole, per Marchionne non è come quando trattava, con coraggio e intelligenza, la Chrysler con Obama.
Il caso Fiat sta mettendo a dura prova la premiership di Monti. Il contrasto sullo spread va bene, i licenziamenti a macchia di leopardo fanno soffrire, ma si vedono poco. La Fiat, invece, fa rumore. Sia perché la Fiat era stata presentata come l’alfiere della modernità quando invece è un gruppo in crisi e gli alfieri della modernità sono le multinazionali tascabili del Quarto Capitalismo, sia perché a rischio è ormai un intero, storico settore industriale come quello dell’auto.
La risposta dell’amministratore delegato, Sergio Marchionne, al ministro Corrado Passera deve far pensare. Se la Fiat va bene in Brasile perché là riceve cospicui aiuti di Stato e non può andar bene in Italia e in Europa perché questi aiuti sono proibiti dalle regole antitrust, dovremmo tutti aprire una riflessione.
Marchionne è un realista. Probabilmente lo è troppo. E, come tutti quelli che peccano di eccesso di realismo, rischia di risparmiare qualcosa oggi e di perdere molto domani. O forse sta duramente trattando, da quel grande scommettitore che è, una nuova tornata di sussidi da parte del governo. Certo è che si fatica a capire come possa essere possibile esportare 3-400 mila auto negli Usa per salvare le nostre fabbriche quando l’Italia è già oggi importatrice netta di marchi Fiat.
Marchionne mette sotto il governo
Dopo quasi 6 ore di incontro, un comunicato congiunto che ribadisce in pieno la linea del Lingotto: «Fiat ha confermato la strategia dell'azienda di investire in Italia, nel momento idoneo, nello sviluppo di nuovi prodotti per approfittare pienamente della ripresa del mercato europeo»
Francesco Paternò - Da “il manifesto”
La Fiat esce indenne dall'incontro con il governo durato oltre cinque ore e mezza. Nel comunicato congiunto delle 21,40, del piano Fabbrica Italia e degli investimenti per 20 miliardi entro il 2014 non si parla più, come aveva già annunciato Sergio Marchionne; si ricordano piuttosto 5 miliardi di investimento «realizzato negli ultimi tre anni».
Fiat e governo faranno un gruppo di lavoro comune, mentre il futuro degli stabilimenti italiani e dei suoi lavoratori è affidato (come sempre Marchionne aveva anticipato) alla capacità di esportare all'estero di alcuni prodotti e agli utili provenienti dalla Chrysler e dai mercati americani. In cambio, la Fiat non «ha chiesto soldi al governo» per la cassa in deroga, fanno sapere ufficiosamente dal governo. Anche perché se così fosse stato, per Monti sarebbe stata più che una Caporetto.
«Fiat ha confermato - si legge nel comunicato - la strategia dell'azienda a investire in Italia, nel momento idoneo, nello sviluppo di nuovi prodotti per approfittare pienamente della ripresa del mercato europeo». Addio Fabbrica Italia, Fiat investirà forse e soltanto in quel «momento idoneo» che per Marchionne non verrà prima del 2014, quando prevede che i mercati europei risaliranno e sempre che poi accada davvero. Fino ad allora, nelle fabbriche italiane ci sarà più cassa integrazione che nuovi modelli. Ma nessuna verrà chiusa, par di capire, così come aveva anticipato nell'intervista a Repubblica.
Ma cosa hanno discusso per quasi sei ore a Palazzo Chigi, se questo è il risultato? Per il governo erano presenti il presidente del Consiglio Mario Monti, i ministri Corrado Passera, Elsa Fornero, Fabrizio Barca e il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio Antonio Catricalà. Per il gruppo Fiat erano presenti il presidente John Elkann e l'amministratore delegato Sergio Marchionne. Nel comunicato, si legge ancora che Fiat e governo costituiranno «un apposito gruppo di lavoro presso il ministero dello Sviluppo Economico per individuare gli strumenti per rafforzare ulteriormente le strategie di export del settore automotive». E ancora: «Fiat è intenzionata a riorientare il modello di business in Italia in una logica che privilegi l'export», manifestando «piena disponibilità a valorizzare le competenze e le professionalità peculiari delle strutture italiane, quali ad esempio l'attività di ricerca e innovazione».
Parole, considerando che molto di questo è stato già trasferito alla Chrysler e il governo finge di non saperlo. Perché ancora nel comunicato si legge che «il governo ha apprezzato l'impegno assunto nel corso della riunione a essere parte attiva dello sforzo che il Paese sta portando avanti per superare questa difficile fase economica e finanziaria». La Fiat ringrazia ed esprime «apprezzamento per l'azione del governo che ha giovato alla credibilità dell'Italia e ha posto le premesse, attraverso le riforme strutturali, per il miglioramento della competitività, oltre che per un cambiamento di mentalità idoneo a favorire la crescita».
Insomma Monti, dopo aver dato una prima volta carta bianca a Marchionne sostenendo che un'azienda privata fa come vuole, lascia nuovamente la porta spalancata a Marchionne. Che può azzerare gli investimenti per 20 miliardi di euro perché i mercati non tirano, senza dare nulla in cambio se non altre promesse di fare qualcosa «nel momento idoneo» per l'azienda e di mettere in piedi un gruppo di lavoro comune al ministero dello Sviluppo.
Ben poca cosa anche per Passera, che alla vigilia aveva fatto scintille con il manager e che certo non ha bisogno di un gruppo di lavoro per sapere come vanno le cose alla Fiat. Da banchiere, Passera nel 2002 insieme ad altre sette banche aveva concesso un mega prestito alla Fiat, salvandola dal default. Nel 2005 evitò di convertire il prestito in scadenza di 3 miliardi di euro permettendo agli Agnelli-Elkann di tenersi, in modo non trasparente, la quota di controllo del 30% della Fiat. E sempre Passera, ancora banchiere nell'estate dell'anno scorso, la mandò a dire a Marchionne: «Tra i problemi che bloccano la nostra crescita non metterei tra i primi quelli dei rapporti con il sindacato». Altri tempi.
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