lunedì 31 luglio 2017

È davvero il fallimento del referendum “2 sì per l’acqua bene comune” quello descritto da Sergio Rizzo su Repubblica? Una lettura della complessità


È davvero il fallimento del referendum “2 sì per l’acqua bene comune” quello descritto da Sergio Rizzo su Repubblica? Una lettura della complessità
            
di Luca Martinelli -
“La beffa dell’acqua pubblica” sarebbe che “dopo il sì al referendum [le] tariffe [sono] quasi raddoppiate”. Così Sergio Rizzo su Repubblica, in un articolo che segnala un aumento medio complessivo delle bollette dell’89% dal 2011. Il vice-direttore del quotidiano, quindi, invita il lettore a pensare che il fallimento del referendum sui servizi pubblici locali sia misurabile e quantificabile nell’effetto sulle bollette a carico delle famiglie.
Si dimentica, però, di evidenziare un paio di aspetti: il referendum, con il secondo quesito promosso dal Comitato “2 sì per l’acqua bene comune” (e promosso con il 95,8% dei voti, non con il 54%, come erronamente scrive Rizzo… che fa riferimento alla percentuale di votanti), invitava la politica a mettere in discussione il modello tariffario basato sul full cost recovery, che prevede la “copertura integrale dei costi” di gestione (investimenti compresi) mediante la tariffa. Ci si chiedeva, in pratica, per quale motivo lo Stato continui ad accordare ingenti finanziamenti pubblici a fondo perduro per “grandi opere” come le linee ferroviarie ad Alta velocità mentre la realizzazione di una “grande opera” come l’ammodernamento della rete acquedottistica (che comprende anche i sistemi di fognatura e depurazione) del Paese è lasciato completamente in carico ai cittadini. Si tratta ovviamente anche di un problema di redistribuzione: ogni cittadino italiano deve necessariamente usare l’acqua potabile, mentre solo una piccola parte fruisce -ma è solo un esempio- dell’Alta velocità ferroviaria.
Se lo Stato non ha messo in discussione il modello tariffario del servizio idrico basato sul full cost recovery, è perché non ha voluto riconoscere il messaggio venuto dal voto di oltre 26 milioni di cittadini italiani, di quell’ultimo movimento popolare e di massa che aveva fatto sperare nel cambiamento anche un maestro come Stefano Rodotà. Il fallimento, quindi, non è del referendum, ma della politica incapace di coglierne i segnali. Ecco perché l’articolo di Sergio Rizzo, che tralascia questo passaggio fondamentale, non aiuta a comprendere fino in fondo le dinamiche che portano oggi a “un’emorragia idrica preziosa”.
Vale però la pena ricordare che l’acqua sprecata non sparisce per sempre. Che normalmente “cercherà” la sua strada per tornare in falda. Ed anche se evaporasse, alla fine del suo ciclo tornerebbe naturalmente sulla Terra sotto forma di pioggia. Lo si studia alle elementari, il ciclo dell’acqua. Se c’è un problema, e c’è, riguarda il fatto che quest’acqua è stata potabilizzata: la comunità ha sostenuto un costo per renderla fruibile a tutti in sicurezza, e altri, energetici, per immetterla in rete.
È il “costo del servizio”, ciò che paghiamo, perché l’acqua non ha prezzo. E non perché essa debba essere gratis (non è mai stato, questo, uno slogan del Comitato “2 sì per l’acqua bene comune”), ma perché è giuridicamente scorretto affermare che gli utenti comprano l’acqua. Sei anni dopo il referendum del giugno 2011, mentre viviamo gli effetti di una crisi idrica provocati dagli “eventi estremi” che stanno mettendo a nudo un sistema di gestione affidato ad imprese la cui prima preoccupazione è remunerare i propri azionisti, garantendo loro cospicui dividendi (secondo acquabenecomune.org, le quattro “sorelle dell’acqua”, e cioè la quattro multiutility quotate in Borsa, IREN, A2A, ACEA, HERA, tra il 2010 e il 2014 hanno distribuito oltre 2 miliardi di euro di dividendi, intaccando le riserve perché superano di 150 milioni di euro gli utili prodotti nello stesso periodo). Di questo dobbiamo parlare mentre la Capitale del Paese rischia di restare senz’acqua.

domenica 30 luglio 2017

L’unità della sinistra per fare una politica di destra? di Tomaso Montanari


L’unità della sinistra per fare una politica di destra?


Ci sono due modi radicalmente diversi, anzi opposti, per lavorare alla famosa lista unica a sinistra del Pd.
Uno è quello di chi pensa che quella lista sia necessaria contro qualcosa: contro il rischio che governi la destra, nella fattispecie.
L’altro è quello di chi pensa che quella lista sia necessaria per fare qualcosa: per cambiare rotta alla direzione del Paese, indirizzandola verso l’eguaglianza, l’inclusione e la giustizia, nella fattispecie.
La domanda che si fanno milioni di italiani di sinistra che non sanno per chi votare, e che sono molto tentati dall’astensione, è: ma perché le due cose non possono stare insieme? Non si potrebbe fermare la destra facendo cose di sinistra?
Questa intervista di Andrea Orlando, ministro della Giustizia dei governi Renzi e Gentiloni, al «Manifesto» spiega perché questo uovo di Colombo sembra, al momento, introvabile.
Orlando dichiara che «chi si sottrae a una prospettiva unitaria dentro o fuori dal Pd si assume la responsabilità di portare la destra al governo».
Ma, nella stessa intervista, difende il decreto, da lui firmato insieme a Minniti, che consegna i migranti a una giustizia di serie b, violando platealmente la Costituzione. Afferma che non bisogna «smentire il Jobs Act», e che non si deve ripristinare l’articolo 18 (semmai «un 17 e mezzo»). E ancora che bisogna difendere un sistema elettorale maggioritario.
Ora, se per fermare le destre bisogna continuare a fare una politica di destra (quella appena descritta e difesa da Orlando) chi può pensare che quei milioni di cittadini vadano a votare? Io non lo farei.
Infine, Orlando racconta che Campo Progressista ha proposto al Pd di istituire un doppio tesseramento, a sancire evidentemente una totale condivisione di punti di vista. È stato il Pd a dire no: «La domanda che abbiamo fatto è cos’è Campo progressista, perché se è un soggetto alternativo al Pd non si può, noi siamo iscritti al Pd» «Vi hanno risposto? Chiede l’intervistatrice. Non ancora, risponde Orlando»
E, anche qua, un povero, potenziale elettore di sinistra si chiede: ma se Giuliano Pisapia è convinto dell’opportunità di fare la doppia tessera con il Pd, perché mai semplicemente non si iscrive a quel partito, magari contendendone la guida a Renzi, come ha provato a fare lo stesso Orlando?
Misteri di una politica in cui si scrive ‘unità della sinistra’, ma si legge ‘eterna battaglia intorno all’ombelico del Pd’. Una politica autoreferenziale, ossessivamente incapace di pensare alle cose reali.
Intanto il processo politico partito dal Brancaccio il 18 giugno va avanti: e riunisce migliaia di persone, in tutta Italia, che pensano che il decreto Minniti, il Jobs’act e il maggioritario siano proprio quelle politiche di destra che l’unità della sinistra deve servire a sconfiggere. Sarà una bella estate.
www.tomasomontanari.it

sabato 29 luglio 2017

QUANTITATIVE EASING: IL SUCCESSO DI UN DISASTRO di Dan Glazebrook

Se il Quantitative Easing [QE] doveva servire a risanare un'economia malata, è stato un completo disastro.
Ma è stato un completo successo dal punto di vista dello spostamento di ricchezza da chi sta sotto a chi sta sopra.
Un editoriale di RT esamina le conseguenze redistributive degli ultimi cicli di QE nel Regno Unito, in Giappone e nei paesi del Sud del mondo, ed i possibili scenari che si presenteranno dopo l’abbandono di tali politiche.

Sembra che l’enorme trasferimento di ricchezza verso i ricchi, durato circa un decennio e noto come ‘quantitative easing’, stia per volgere al termine. Delle quattro principali banche centrali del mondo – la Federal Reserve americana, la Bank of England, la Banca centrale europea e la Banca del Giappone – due hanno già abbandonato la politica di acquisto di attività finanziarie (la Fed e la BoE), e la BCE intende smettere gli acquisti da dicembre. La Fed dovrebbe infatti iniziare a vendere nei prossimi due mesi i 3500 miliardi di dollari di titoli acquistati in tre cicli di QE.

Dal momento che —valutato alla luce degli obiettivi ufficiali —il QE è stato un completo disastro, ciò appare perfettamente sensato. Grazie ad un’”iniezione” di denaro nell’economia, il QE avrebbe dovuto portare le banche a prestare nuovamente, rilanciando gli investimenti e la crescita economica. In realtà, dopo l’introduzione del QE il credito bancario totale nel Regno unito è invece diminuito, e il credito a piccole e medie imprese – responsabili per il 60% dell’occupazione – è in caduta verticale.

Come notato da Laith Khalaf, senior analyst presso Hargreaves Lansdown:
«Dopo la crisi finanziaria, le banche centrali hanno inondato l’economia globale con denaro a buon mercato, ma la crescita globale è tuttora in una situazione di stallo, in particolare in Europa ed in Giappone, dove sono state prese imponenti misure di stimolo per fronteggiare il problema».
Persino Forbes ammette che il QE ha “in gran parte fallito nel rivitalizzare la crescita economica”.

Ciò non sorprende, o quanto meno non dovrebbe. Il QE era destinato fin dall’inizio a mancare i suoi obiettivi dichiarati, perché il motivo per cui le banche non finanziavano
Dan Glazebrook
investimenti produttivi non era la carenza di denaro – al contrario, già nel 2013, molto prima degli ultimi cicli di QE, le imprese inglesi disponevano di quasi 500 miliardi di riserve liquide —ma piuttosto perché l’economia globale si trovava (e si trova tuttora) in una profonda crisi di sovrapproduzione. In poche parole, i mercati erano (e sono) saturi, e non ha senso investire in un mercato saturo.

Per questo motivo, tutto il nuovo denaro creato dal QE ed “iniettato” nelle istituzioni finanziarie – come fondi pensione e compagnie d’assicurazione – non è stato poi investito nelle attività produttive, ma si è invece riversato nei mercati azionari ed immobiliari, gonfiando i prezzi delle azioni e degli immobili, senza generare nulla in termini di ricchezza reale o occupazione.

I titolari di beni come azioni e immobili hanno tratto molti vantaggi dal QE, che in UK si stima abbia accresciuto la ricchezza del 5 percento più ricco mediamente di £128,000 a testa.

Com’è stato possibile? Da dove è venuta tutta questa nuova ricchezza? Dopo tutto, anche se il denaro – a dispetto degli slogan dei Tory – può essere effettivamente creato “dal nulla”, precisamente come è stato fatto col QE, non è così per la ricchezza reale. Ed il QE non ha prodotto ricchezza reale. Eppure, il 5% più ricco oggi dispone di £128,000 extra da spendere in yacht, ville principesche, diamanti, caviale e così via. Ma da dove viene questo denaro?

Semplice. La ricchezza che il QE ha trasferito ai titolari di asset proviene, in primo luogo, direttamente dai salari dei lavoratori. Poiché ha praticamente svalutato la moneta, il QE ha ridotto la capacità d’acquisto del denaro, il che ha causato nei fatti una svalutazione dei salari reali, che in UK sono tuttora del 6% al di sotto dei loro livelli pre-QE. Il denaro sottratto ai salari forma dunque parte di quel dividendo di £128,000. Ma viene anche dagli ultimi arrivati nei mercati gonfiati dal QE – principalmente gli acquirenti di una prima casa e chi è recentemente andato in pensione.

Chi oggi acquista una casa (che il QE ha reso molto più cara), ad esempio, dovrà lavorare migliaia di ore in più per pagare un mutuo a prezzi più alti. Sono queste ore in più a creare la ricchezza che sovvenziona le stravaganti spese del 5% più ricco. Ovviamente, questi prezzi immobiliari più alti sono pagati da chiunque acquisti una casa, non solo da chi lo fa per la prima volta – ma per chi è già proprietario il costo aggiuntivo è compensato dall’aumento di prezzo della casa già di proprietà (o delle azioni, per chi è abbastanza ricco da possederne).

Un’altra conseguenza del QE è che chi va in pensione adesso è costretto a sovvenzionare il 5% più ricco. I nuovi pensionati usano il loro fondo pensione per acquistare una ‘rendita’ — un pacchetto di titoli azionari fruttiferi che produce reddito. Ma poiché il QE ha causato un’inflazione del prezzo dei titoli, ciò ha ridotto il numero di titoli acquistabili con questo fondo. E dato che all’aumento di prezzo dei titoli non corrisponde un aumento dei dividendi, ciò si traduce in una pensione ridotta.

In realtà, la teoria che il QE servisse ad incoraggiare gli investimenti e stimolare l’occupazione e la crescita è sempre stata un artificio fantasioso creato per dissimulare quello che stava realmente accadendo —un colossale trasferimento di ricchezza verso i più ricchi.

L’economista Dhaval Joshi faceva notare nel 2011: 
«La cosa più sconvolgente è che, dopo due anni di apparente ripresa, i lavoratori [inglesi] in realtà guadagnano meno che nel momento più drammatico della recessione. Salari e stipendi reali sono calati di £4 miliardi. I profitti sono aumentati di £11 miliardi. I benefici della ripresa sono stati distribuiti nel modo più iniquo possibile».
Nel marzo di quest’anno il Financial Times riportava che, nonostante il PIL della Gran Bretagna sia ritornato ai livelli pre-crisi già dal 2014, i salari reali sono ancora più bassi del 10% rispetto al 2008. “La contrazione dei salari reali in UK si è arrestata nel 2015“ aggiungeva, “ma ciò non è destinato a durare”.

Così è stato. Nello stesso mese di pubblicazione di quell’articolo, i salari reali hanno iniziato nuovamente a scendere, e sono da allora in costante diminuzione.

Lo stesso è successo in Giappone, dove, secondo Forbes, “il reddito delle famiglie si è effettivamente ridotto dopo l’introduzione del QE”.

Il QE ha sortito un effetto simile nei paesi del sud del mondo: aumentare la ricchezza dei detentori di asset a spese di chi non ne ha. Così come l’afflusso di nuovo denaro crea
bolle nei mercati immobiliari e finanziari, allo stesso modo crea una bolla nei prezzi delle materie prime, dovuta ad esempio alla corsa degli speculatori all’acquisto di quote di petrolio e di materie prime alimentari. Per alcuni paesi produttori di petrolio ciò ha comportato effetti positivi, con la messa a disposizione di denaro inatteso da investire in programmi sociali, come inizialmente è accaduto nel caso di Venezuela, Libia ed Iran. In tutti e tre i casi, le forze imperialiste sono state costrette a ricorrere a vari livelli di intervento militare per contrastare queste conseguenze indesiderate. Ma l’aumento del prezzo del petrolio è certamente deleterio per paesi che non ne producono – e qualsiasi aumento dei prezzi alimentari è sempre devastante.

Nel 2011 il Daily Telegraph sottolineava
«la correlazione tra i prezzi alimentari e gli acquisti da parte della Fed di titoli di stato americani (ossia, programmi di quantitative easing)…Si può notare come l’indice dei prezzi alimentari si è pressoché stabilizzato tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, ed è poi nuovamente salito a partire dalla metà del 2010 dopo il nuovo avvio del quantitative easing…con un aumento dei prezzi di circa il 40% durante un periodo di tempo di otto mesi».
L’aumento dei prezzi ha spinto 44 milioni di persone in povertà nel solo 2010 —il Telegraph riteneva che ciò stesse alla base del malcontento manifestato nelle cosiddette Primavere Arabe. Robert Zoellick, ex-presidente della Banca Mondiale, all’epoca commentava:
«L’inflazione dei prezzi alimentari è oggi la più grave minaccia incombente sui poveri del mondo…basta un episodio di maltempo estremo per finire nel baratro».
Sono questi i costi del quantitative easing.

I paesi BRICS erano anche critici nei confronti del QE per un altro motivo: lo consideravano un metodo subdolo di svalutazione competitiva. Riducendo artificialmente il valore delle loro monete, la “triade imperiale” USA, EU e Giappone causavano a tutti gli effetti un apprezzamento delle valute di tutti gli altri paesi, danneggiando così le loro esportazioni. Nel 2015 Forbes scriveva:
«Gli effetti si iniziano già a sentire anche nei paesi esportatori più dinamici al mondo, nell’est asiatico. Le loro esportazioni in dollari americani hanno subito una drammatica variazione, da una crescita annua del 10% ad una contrazione del 12% nella prima metà di quest’anno, e questi risultati non cambiano, che si tenga conto o no della Cina».
Il vantaggio principale del QE per i paesi in via di sviluppo avrebbe dovuto essere l’enorme afflusso di capitali da esso innescato. Si stima che circa il 40% del denaro generato dalla prima espansione di credito QE della Fed (‘QE1’) si è spostato all’estero —in particolare nei cosiddetti ‘mercati emergenti’ del sud del mondo— e circa un terzo durante il QE2.
Tuttavia, contrariamente alle apparenze questo non è necessariamente un vantaggio. Gran parte del denaro, come si è visto, è stato utilizzato per acquistare scorte di materie prime (rendendo così beni essenziali come il cibo esorbitanti per i poveri) invece di essere investito in attività di produzione, ed un’altra buona parte è servita per acquistare scorte valutarie, causando ancora una volta un apprezzamento nocivo alle esportazioni. Per di più, un afflusso di ‘hot money’ (capitali speculativi erranti, in contrapposizione al capitale per gli investimenti di lungo termine) accentua la volatilità e vulnerabilità delle valute in caso, ad esempio, di aumenti dei tassi esteri.


Se, ad esempio, i tassi d’interesse dovessero nuovamente salire in USA ed in Europa, ciò rischierebbe di scatenare una fuga di capitali dai mercati emergenti, che potrebbe innescare un tracollo valutario. Fu infatti proprio un afflusso di ‘hot money’ nei mercati valutari asiatici, molto simile a quello visto durante il QE, a precedere la crisi valutaria asiatica del 1997.

La prossima fine del QE, con il conseguente innalzamento dei tassi d’interesse, rischia di riproporre proprio questa vulnerabilità come una possibilità —se non addirittura come un’opportunità speculativa.

* Dan Glazebrook è un giornalista politico freelance che collabora, fra gli altri, con RT, Counterpunch, Z magazine, il Morning Star, il Guardian, il New Statesman, l’Independent e Middle East Eye. Il suo primo libro “Divide and Ruin: The West’s Imperial Strategy in an Age of Crisis” è edito da Liberation Media nell’ottobre 2013. Include una collezione di articoli a partire dal 2009, che esaminano i legami tra la crisi economica, l’ascesa dei BRICS, la guerra in Libia e Siria e l’”austerità”. Attualmente conduce ricerche per un libro sull’impiego di squadroni della morte contro stati sovrani e movimenti politici, dall’Irlanda del Nord e dall’America Centrale negli anni ‘70 e ‘80 fino al Medio Oriente e all’Africa di oggi.

** Fonte: Voci dall'Estero

Il cavallo di Troia dei vitalizi Di ilsimplicissimus


pensione 
Sono assolutamente certo che la maggioranza degli italiani è strafelice per l’approvazione della legge che abolisce i vitalizi pregressi dei parlamentari e dei consiglieri regionali: finalmente anche per i privilegiati della politica è arrivato il momento di assaggiare almeno in parte le delizie della Fornero e di farsi una pensione con i criteri a cui sono inchiodati i poveracci. Ora non c’è dubbio che questo risultato  porti a una forma di elementare giustizia perequativa, allo sfoltimento di situazioni di privilegio, ma nel complesso si tratta di una sconfitta della quale pochissimi si accorgono perché ci si compiace di un’adeguamento al peggio e non si fa assolutamente nulla per cercare di migliorare quel peggio, di intervenire quanto meno su alcuni aspetti della mannaia neo liberista che si è abbatuta sulle pensioni.
Le cosiddette opposizioni che cercano visibilità sul piano della consolatoria quanto impotente schadenfreude degli italiani, dovrebbero cercare di tirare su i cittadini invece di ricacciare in giù i parlamentari e avrebbero anche buon gioco perché tutte le chiacchiere che vengono fatte sulle presunte voragini del sistema pensionistico sono in gran parte antica propaganda delle elites e di fatto delle bugie talmente riupetute che ormai vengono prese per verità anche dagli stessi spacciattori di balle: grazie a una lettura strumentale e bruta dei dati si indica la spesa pensionistica Italiana attorno al 18,8 % del Pil contro il 16,5 della Francia e il 13,5 della Germania o il 15,1 della media Ue.  Tuttavia si tratta di calcoli del tutto disomogenei perché nella spesa pensionistica italiana figura anche la liquidazione che non è affatto una prestazione pensionistica, ma un prestito forzoso dei lavoratori e questo incide per l’ 1,7% del pil. C’è poi il fatto che la spesa pensionistica italiana viene considerata al lordo delle ritenute fiscali che in altri Paesi come la Germania nemmeno esistono e in altri sono molto basse,  mentre da noi le aliquote fiscali sono le stesse di quelle applicate ai redditi da lavoro. Questo “aggiunge” un altro 2,5% sul pil. Allora vediamo un po’: 18,8 meno 4,2 (ossia la somma delle due sovrastime principali) fa 14,6 ovvero un incidenza della spesa pensionistica  inferiore alla media europea. 
Oltretutto fin dal 1998 il saldo fra le entrate dei contributi e le uscite delle prestazioni previdenziali al netto delle imposte è sempre stato attivo e l’ultimo dato certo che risale 2011 parla di 24 miliardi  di attivo. Che poi l’Inps sia in difficoltà perché si deve accollare spese assistenziali che niente hanno a che vedere con le pensioni da lavoro è un altro discorso.
E tuttavia tutto questo sembra ben lontano da ogni accenno di discussione mentre ci si limita alla soddisfazione di una piccola vendetta e alla raccolta di spiccioli che corrispondono allo 0,0002% della spesa pubblica. Probabilmente i parlamentari ed ex parlamentari su cui cade questa ghigliottina verrano “compensati”dal sistema di casta con qualche concessione di posti, consulenze e quant’altro, ma intanto l’operazione vitalizi è stata portata aventi creando un pericoloso precedente per il ricalcolo di tutte le pensioni con il metodo contributivo, anche prima del fatidico 1° gennaio del 2012 da quando cioè è scattata la riforma Fornero. Guarda caso è proprio ciò che è stato auspicato dal presidente dell’Inps Boeri e dal report Fmi dello scorso giugno. Allora, al netto delle baruffe tra Pd e Ms5 per la paternità del provvedimento, si capisce forse meglio per quale motivo si sia trovato un accordo  che in molti avrebbero giurato impossibile: del resto che questo possa essere lo scopo occulto della stangata ai vecchi parlamentari è già stato messo in rilevo esplicitamente dal relatore della Commissione Bilancio della Camera dei Deputati, Maino Marchi (Pd) che ha detto testualmente: “laddove provvedimento fosse il grimaldello per procedere in futuro al ricalcolo delle pensioni con il metodo contributivo per tutte le categorie di lavoratori, come peraltro vorrebbe una proposta di legge costituzionale presentata, tra l’altro, dal presidente della prima  Commissione della Camera, verrebbe a determinarsi una vera e propria macelleria sociale, poiché ciò comporterebbe praticamente il dimezzamento dei trattamenti pensionistici calcolati con il metodo retributivo.” 
Ora è pur vero che è stato votato un emendamento con il quale si dice che il ricalcolo pregresso non possa essere “in nessun caso applicato alle pensioni in essere e future dei lavoratori dipendenti ed autonomi” ma bisogna essere ingenui fino alle lacrime per pensare che una volta sancita la validità costituzionale degli interventi economici retroattivi e la nullità dei diritti acquisiti, l’emendamento di un provvedimento ad hoc possa fare da argine al dilagare di provvedimenti simili, specie se essi sono negli obiettivi della finanza internazionale e dell’elite locale. La cosa poteva essere evitata se si fosse intervenuti come pure sarebbe stato possibile con una semplice decisione degli uffici di presidenza di Camera e Senato che avrebbero potuto mettere un tetto ai cosidetti vitalizi, senza bisogno di una legge che oggi costituisce un precedente.
Una cosa è certa se l’attenzione si concentra su temi del tutto marginali, in vista di consenso immediato e senza nemmeno tenere in conto le conseguenze future o magari anche l’ipotesi di cadere in una trappola, si va poco avanti, anzi si va proprio indietro. E’ certamente giusto sfoltire i privilegi, specie quelli più assurdi, ma quando lo si fa reclamando l’eguaglianza nella perdita di tutele e diritti e non nella crescita di questi ultimi, si è già degli sconfitti.

Una sinistra oltre il PD di Nicola Melloni

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Non c’è pace a sinistra. Per l’ennesima volta l’area grigia che sta alla sinistra del PD fatica a trovare una linea politica e continua a dividersi su formule politiciste come il centrosinistra e sulla figura di Renzi. Definirsi in base a cosa non si è o alle alleanze che si vogliono o non vogliono fare è una scorciatoia comprensibile, ma culturalmente subalterna. E parte dalla mancanza di una analisi seria sulle tendenze del capitalismo di questo inizio Millennio. Senza una comprensione di processi complessi che vanno ben oltre le piccolezze di Renzi e del PD, la linea politica ed il tema delle alleanze diventano un inutile esercizio da salotto.
Partiamo da alcuni dati strutturali. La socialdemocrazia post-89 – ed in generale le formule di centrosinistra – sono in rotta un po’ ovunque. Hanno avuto un senso politico in quegli anni in cui la crescita economica – drogata e insostenibile – portava ad una illusoria espansione della classe media, quando dunque si doveva lottare per conquistare il consenso al centro. In Italia questa formula era già allora poco ancorata ad una realtà di declino economico cominciato ad inizio anni ’90 e si è, in realtà, trasformata in un sistema di alleanze anti-berlusconiane piuttosto che in un progetto politico coerente. In ogni caso in quella direzione andava il PD ben prima di Renzi e già, in effetti, dal primo governo Prodi.
Non è stata una formula di successo, ma poco importa: era almeno figlia di quegli anni. Oggi non ha più senso.
La crisi economica – che, ricordiamolo, è solo l’effetto e non la causa dei vasti cambiamenti in atto dall’inizio degli anni ’80 – ha modificato drammaticamente la struttura sociale e, di conseguenza, quella politica del mondo Occidentale, e sono i partiti socialisti tradizionali a pagare il prezzo più alto. Non è però soltanto un problema di legittimità politica, persa a forza di sostenere il mercato prima e l’austerity dopo. E’, soprattutto, una questione di struttura sociale: il mercato che hanno sostenuto e l’austerity che hanno praticato ha divaricato le diseguaglianze, frantumato la classe media, aumentato la disoccupazione giovanile. Lo sfondamento al centro non è ormai più praticabile per mancanza di elettori centristi.
Non a caso il bipolarismo è entrato in crisi: il disagio sociale, la povertà, la disoccupazione hanno riportato al centro della politica milioni di elettori che erano precedentemente considerati marginali. Masse di nuovi diseredati che hanno spesso rinforzato le fila di movimenti politici di vario genere, spesso consolidatisi intorno a istanze mono-tematiche: dalla rivolta anti-casta, a quella anti-europa, fino a movimenti razzisti e anti-migranti.
E’ su quel terreno che si gioca una sfida politica decisiva. Anche in sistemi bipolari come USA e UK, e a maggior ragione in altri paesi con sistemi politici in sfacelo, non si lotta più per conquistare il voto dell’elettore mediano, quanto piuttosto quello della massa di giovani precari, di classe media decaduta, di disoccupati di mezza età.
La sinistra si trova davanti ad un bivio. La frantumazione sociale ha disgregato le classi tradizionali il che, unito ad una diversa organizzazione del lavoro e alla completa assenza di una proposta politica di sinistra per oltre 30 anni, ha cancellato quel sentimento di appartenenza politica e quell’identificazione sociale che è stata la base delle social-democrazie pre- e post-89. Avendo dunque perso il proprio elettorato di riferimento, la sinistra può essere inglobata in un progetto politico neo-centrista, come quello incarnato da Renzi e Macron, che va verso il superamento completo di formule obsolete come centrodestra e centrosinistra, verso partiti, composti sempre più di quel che rimane della borghesia e da anziani, e che si pongono in difesa dello status quo. O può puntare su una svolta radicale a sinistra, rigettando non solo formule centriste ma contendendo alla destra la rappresentanza di queste nuove figure. Lo hanno fatto Corbyn che è andato a prendersi molti voti dello UKIP, Sanders che parla alla white working class che ha fatto vincere Trump, e Melenchon che è andato a cercarsi i voti nelle banlieu e tra la classe lavoratrice disoccupata che spingeva la LePen.
Se questo è lo scenario politico cui ci troviamo davanti, i temi dell’alleanza col PD, di Renzi, del centrosinistra, sono francamente inattuali. Il problema non è una alleanza neo-moderata per sbarrare il passo alle destre, è contendere alle destre milioni di voti in libera uscita e senza fissa dimora. E lo si può fare solo con una proposta politica radicale, che dia un taglio netto non solo con Renzi, non solo col PD ma anche col centrosinistra del passato – delle privatizzazioni, del pareggio di bilancio, del pacchetto Treu, dell’agenda Monti. Parlo di una forza politica che non sia autonoma dal PD, quanto piuttosto che vada oltre la stessa idea che è alla base della nascita di quel partito. Solo formando una massa critica autonoma si potrà, nel caso, provare a interagire con il centrismo moderato, un po’ come ha fatto Podemos che, pur non vincendo le elezioni, è riuscito a forzare un cambiamento di rotta del PSOE e riportarlo su posizioni quantomeno progressiste. Ripartendo magari dai giovani, che in Gran Bretagna, in Francia, in Spagna, e financo negli Stati Uniti sono l’asse trainante della nuova sinistra e che chiedono una vera svolta. E questa voglia di cambiamento non può essere tradotta in formule politiciste ormai vuote e senza senso.

Abbracciamoci. Ma anche no di Luca Billi




 
Ovviamente non ho alcun titolo per dire a Pisapia chi dovrebbe o non dovrebbe abbracciare. Personalmente faccio fatica a salutare, figurarsi abbracciare, ma sono io che ho un cattivo carattere; se Giuliano è per natura espansivo, non posso fargliene una colpa.
La questione però non è l’abbraccio in sé: si tratta con tutta evidenza di una polemica idiota. Il problema non è quello specifico abbraccio, ma il fatto che non si riesca a uscire da un dibattito in cui le persone – e i rapporti tra le persone – contano più delle idee. Aveva cominciato qualche giorno fa un noto – e mi dicono anche bravo – psicanalista, spiegando che noi di sinistra odiamo Renzi. Non so voi, io sono di sinistra e non odio Renzi, semmai lo disprezzo umanamente, come si può disprezzare uno scarafaggio, ma anche questa non è una categoria della politica, è ancora una volta sintomo del mio brutto carattere. In linea teorica potrebbe perfino esserci qualcuno del pd che mi sta simpatico, ma non è su questo che si può misurare la politica.
Io sono contro il pd perché quel partito rappresenta quelle idee contro cui ho sempre combattuto e contro cui combatterò sempre, perché le idee di quel partito sono radicalmente diverse dalle mie. E quindi combatto quel partito perché credo sia un danno per questo paese. Pisapia la pensa in maniera diversa? Ne sono convinto da sempre, e per questo credo che la sua proposta politica sia destinata a naufragare, anzi farò di tutto affinché naufraghi. E amici come prima.
Se un danno possiamo imputare alla troppo lunga stagione berlusconiana, in cui in qualche modo siamo ancora immersi, è proprio quello di aver trasformato la politica da uno scontro di idee a uno scontro tra persone. E infatti in questo inverno della politica abbiamo considerato di sinistra tutte le persone umanamente ostili a Berlusconi, così come ora rischiamo di commettere lo stesso errore con quelli umanamente ostili a Renzi. E anche il grillismo purtroppo non sembra uscire da questo schema pericoloso: il legame simpatetico con Grillo prevale su ogni altra cosa, anche perché quel partito programmaticamente non ha idee.
Io mi considero di sinistra indipendentemente dal fatto che disprezzi Renzi, ma perché leggo secondo certi valori e certe idee la storia umana e da qui ne ricavo un’interpretazione e di conseguenza una scelta di campo. Se vi considerate di sinistra solo perché Renzi vi sta sulle palle alla fine siete un po’ renziani anche voi, perché non riuscite a uscire da questa asfissiante personalizzazione della politica. In questi vent’anni quante volte avete sentito ripetere la balla che in politica le persone sono più importanti dei programmi? Talmente tante volte che avete finito per crederci. E infatti ci fanno votare le persone, indipendentemente da quello che quelle persone pensano e fanno.
Con buona pace degli psicanalisti, il nostro paese non si divide in renziani e antirenziani, così come non si divideva in berlusconiani e antiberlusconiani, ma si divideva allora e si divide oggi tra sfruttati e sfruttatori, tra padroni e lavoratori, e così ci si regola di conseguenza. E’ più comodo stare dalla parte degli sfruttatori, se ne ricavano più vantaggi, ma è la parte sbagliata, poi contenti voi. Qui non è in gioco la simpatia, ma un’idea. E il simpatico Pisapia ha scelto di stare dall’altra parte, con quelli del pd, dalla parte sbagliata. Amen. 
E piantiamola anche con questa stupidata che bisogna stare uniti: no, abbiamo bisogno di dividerci, abbiamo bisogno di conflitto, perché abbiamo bisogno di idee.
Dobbiamo tutti fare uno sforzo per non personalizzare la politica, per non farne sempre e comunque una questione di questa o quella persona – e quindi anche fregarcene degli abbracci dati o non dati – quando abbiamo cominciato a fare così abbiamo reso un pessimo servizio alla politica.

venerdì 28 luglio 2017

Lost in Pisapia di Francesco Marchiano' 


 
Non c'è nulla di clamoroso nelle ultime sortite dell'avvocato Pisapia. Quel che stupisce non sono le sue idee e le sue frequentazioni, semmai stupisce, si perdoni il gioco di parole, lo stupore di quanti si erano già lanciati al suo seguito, convinti di aver trovato l'ennesimo salvatore.
 
Con Pisapia la sinistra italiana stava compiendo il classico errore masochistico, ossia continuava a farsi del male nella convinzione di farsi del bene. L'ex sindaco di Milano non poteva in nessun modo offrire una proposta alternativa a Renzi e al renzismo, per una serie di ragioni che è bene ricordare.
    
In primo luogo, Pisapia aveva, com'è noto, sostenuto il referendum costituzionale targato Renzi-Boschi. Niente di male, sia chiaro. Ma se uno sostiene quel referendum, sostiene un'idea della democrazia e delle istituzioni ben diversa da quella della sinistra. Un'idea impregnata dalla governabilità teorizzata dai cantori politici del neoliberismo nel rapporto della Commissione Trilaterale. Sostiene, perciò, un'idea verticale di Stato, uno sbilanciamento dei poteri, un impoverimento del vivere associato. Tutte cose diverse dalla partecipazione dal basso e dalla più ampia inclusione.
    
Non solo. Sostenendo il referendum, Pisapia avrebbe dovuto aspettarsi che a una vittoria del Sì sarebbe corrisposta una vittoria colossale di Renzi. Pertanto, il futuro che lui immaginava e sosteneva era un futuro con Renzi, non alternativo a lui. È perciò politicamente inconsistente l'idea che egli avrebbe potuto federare forze politiche che da Renzi e dal renzismo si sono scisse e che a lui si sono opposte. Era un nonsenso. E il fatto che questa operazione non sia stata subito compresa da molti, la dice lunga sull'inadeguatezza dei gruppi dirigenti della sinistra, di qualunque formazione.
    
Peraltro, Pisapia era già stato utile a Renzi nelle amministrative del 2016, rinunciando a candidarsi, escludendo liste alternative a Sala e sostenendo quest'ultimo. In quelle elezioni, disastrose per il Pd, Renzi si aggrappò proprio al salvagente meneghino. Senza, sarebbe naufragato prima del referendum.
A livello più generale, Pisapia resta poco adatto a rappresentare un'alternativa di sinistra credibile per quello che incarna. Egli, infatti, viene rappresentato e si offre come il sindaco efficiente, lontano dai partiti, che da primo cittadino, vicino alla società civile, può offrire il comando vincente. Nulla di più vecchio, nulla di più errato. In tutta la vicenda della Seconda Repubblica si possono riempire le fosse di interi cimiteri con le carcasse di sindaci che ce l'avrebbero dovuta fare, da Rutelli a Veltroni, da Bassolino a Fassino, a Renzi. È il classico schema che mescola leaderismo, antipartitismo, direttismo. Tutto celebrato da media compiacenti. Tutto presentato come un roseo avvenire, mentre è uno schema scaduto da tempo, che è diventato tossico.
Pisapia già nel 2010 godette dello squillo trionfale delle trombe di quanti lo celebrano anche ora. Quando vinse le primarie per essere candidato sindaco a Milano la sinistra radical, e non solo, si commosse, convinta di essere a un passo dal Palazzo d'Inverso. Solo in pochi analizzarono con occhi più critici. Tra questi, solo Michele Prospero che, in un articolo intitolato "L'iperdemocrazia delle primarie", apparso sull'edizione cartacea del Manifesto (19 dicembre del 2010), a proposito dei soldi investiti dai candidati in quella competizione, scriveva:
I primi due candidati meglio piazzati hanno speso 200 mila euro ciascuno. Il terzo classificato 67 mila euro e il quarto, poverino, poco più di mille euro (e forse così si capisce meglio il risultato misero ottenuto). Strano che il peso del denaro corrisponda al numero delle schede.
Media, denaro, leaderismo. È il copione di un brutto film visto e rivisto che non ha alcun collegamento con valori collettivi, solidali, egualitari. Ma, soprattutto, mette in evidenza, ancora una volta, l'assenza di autonomia politica della sinistra, incapace di elaborare al suo interno culture organizzative, teorie della partecipazione, idee e selezionare le élite, restando perennemente intrappolata in scelte operate non nelle direzioni di partito ma in quelle dei giornali.
Il problema della sinistra, in ogni caso, non è Pisapia. Il problema della sinistra è stato non aver capito Pisapia. Ed è difficile sperare che abbia grande visione chi in campo aperto va a sbattere sull'unico palo.

Non chiamatela crisi: è una guerra di Thomas Fazi.

Le post-democrazie odierne: risultato d'un processo quarantennale di ridimensionamento della sovranità popolare e del movimento operaio. In Europa la sua applicazione più radicale.
guerra di classe

 

La crisi – economica, politica, sociale e istituzionale – che stanno vivendo le democrazie occidentali, in particolar modo quelle europee, non inizia nel 2008, e neppure nei primi anni duemila, con l’introduzione dell’euro, come recita la vulgata. È una crisi che ha origini molto più lontane, che risalgono almeno alla metà degli anni Settanta. È a quel punto che il cosiddetto modello keynesiano, che aveva dominato le economie occidentali fin dal dopoguerra, entra in crisi. Come sappiamo, si trattava di un modello basato su una forte presenza dello Stato nell’economia (per mezzo di politiche industriali, sostegno agli investimenti e alla domanda eccetera), un welfare molto sviluppato, politiche del lavoro tese verso la piena occupazione e la crescita dei salari (più o meno in linea con la crescita della produttività) e l’istituzionalizzazione dei sindacati e della concertazione come strumento di mediazione tra gli interessi dei lavoratori e quelli delle imprese.
 
A livello internazionale si basava su un regime di cambi fissi (il cosiddetto “regime di Bretton Woods”) – sistema che ruotava sostanzialmente intorno al dollaro come valuta di riserva internazionale, convertibile in oro a un tasso di cambio fisso – e su un ferreo controllo dei movimenti di capitale. In base alla maggior parte dei criteri economici e sociali, il periodo keynesiano – che non a caso è noto come il “trentennio glorioso” – può essere definito un successo, avendo garantito per diversi decenni crescita economica sostenuta, piena occupazione (o quasi), salari e profitti crescenti, estensioni di diritti sociali ed economici a un numero di cittadini senza precedenti nella storia, e stabilità economico-finanziaria a livello internazionale. Allo stesso tempo, però, come rilevò Joan Robinson, fu anche un periodo caratterizzato dal mito del produttivismo e della crescita sfrenata, da uno sfruttamento del lavoro senza precedenti, dall’inizio della crisi ambientale (di cui oggi subiamo le conseguenze) e da un keynesismo “realmente esistente” che – con poche eccezioni – si guardò bene dal passare dal livello della produzione (quanto viene prodotto) al contenuto della stessa (cosa viene prodotto e con quali finalità). Scriveva Robinson nel 1972: «Ora che siamo tutti d’accordo che la spesa pubblica può mantenere l’occupazione… ci siamo dimenticati di cambiare quesito, e discutere a che serve l’occupazione».[1]
 
A tal proposito, quando parliamo delle magnifiche sorti e progressive del keynesismo, val sempre la pena ricordare che esse riguardarono unicamente i paesi del “centro” dell’economia capitalistica; l’esperienza dei paesi “periferici” fu assai diversa, caratterizzata da guerre, povertà estrema, colpi di Stato e nefandezze di ogni sorta, spesso ad opera proprio dei paesi del centro, Stati Uniti in primis (basti pensare al Sud-Est asiatico o al Medio Oriente).[2]
 
Perché, dunque, il modello keynesiano entra in crisi negli anni Settanta? Le ragioni sono molteplici: economiche, politiche, strutturali.
Dal punto di vista economico, l’alta inflazione che caratterizzò quegli anni ma soprattutto le lotte sindacali per il salario e per il miglioramento delle condizioni di lavoro avevano cominciato ad esercitare una crescente pressione sulle rendite e sui profitti. L’Italia è un caso esemplare: il ciclo di lotte che si aprì nell’autunno del 1969 e che proseguì, più o meno ininterrottamente, sino al 1973, fu senza eguali per intensità e durata dell’opposizione. Questo determinò, in tutti i paesi avanzati, una riduzione senza precedenti nella storia dei redditi e dei patrimoni dell’1 per cento più ricco della società (ossia di quella che potremmo chiamare la classe dominante).
Questo causò una crescente insofferenza da parte delle classi elevate nei confronti del modello keynesiano: diversi documenti, riservati e non, cominciarono a parlare apertamente della necessità di una reazione da parte dell’establishment capitalistico, onde evitare di vedere annichilito il proprio potere economico e politico (si pensi per esempio al “memorandum” di Lewis Powell del 1971, in cui l’allora giudice della Corte Suprema statunitense invitava i capitalisti americani ad assumere un atteggiamento «molto più aggressivo» in difesa del sistema della libera impresa). Reazione che, come vedremo, si manifesterà poi in quella che i due economisti francesi Gérard Duménil e Dominique Lévy hanno definito la «controrivoluzione neoliberista».[3]
 
Sarebbe riduttivo, però, vedere la crisi del modello keynesiano semplicemente nei termini di un processo politico di “restaurazione” – per così dire “soggettivamente determinato” – da parte delle classi dominanti; né si può ridurre tale crisi a una semplice conseguenza dell’offensiva ideologica sferrata, a partire dalla fine degli anni Sessanta, dall’«intellettuale collettivo» neoliberista, come sosteneva Luciano Gallino. [4]
 
È importante comprendere, anche ai fini dell’analisi delle possibili vie d’uscita dalla crisi attuale, che il sistema keynesiano/socialdemocratico in quegli anni cominciò a mostrare dei limiti strutturali oggettivi: esso si basava, infatti, su un “compromesso di classe” imperniato intorno all’idea che una crescita stabile dei salari poteva coniugarsi con una crescita stabile dei profitti, e anzi ne era il presupposto necessario (secondo l’assioma keynesiano secondo cui i profitti dipendono in primo luogo dalla domanda aggregata). [5]
 
E per qualche decennio così è stato. Negli anni Settanta, però, le basi di questo compromesso cominciarono a venire meno, a causa di diversi fattori: l’aumento del prezzo delle materie prime, la crescente concorrenza tra potenze capitalistiche (in seguito alla re-industrializzazione di Europa e Giappone), il rallentamento della produttività eccetera, ma soprattutto, come detto, il diffondersi di richieste sindacali sempre più radicali.
 
Come ricorda Riccardo Bellofiore, economista all’Università di Bergamo: «Le lotte nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro non si limitavano alla richiesta di maggiore salario, orari più corti, minore pressione sul lavoro. Ad essere messi in questione erano l’insieme del comando padronale sulla  produzione, le forme dell’organizzazione del lavoro e della struttura tecnica della produzione, la stessa “disciplina di fabbrica”». [6]
 
Tutto ciò minava alle fondamenta il processo di accumulazione capitalistica. In tal senso, la reazione dei capitalisti fu comprensibile: la loro partecipazione al compromesso di classe keynesiano si basava una serie di condizioni (in primis, ovviamente, la possibilità dell’accumulazione capitalistica); nel momento in cui tali condizioni vennero meno, venne meno anche il loro sostegno al compromesso keynesiano.
 
Una soluzione consensuale al conflitto distributivo capitale-lavoro che si venne a determinare in quegli anni era semplicemente impossibile; per dirla in parole povere, esso non poteva che risolversi a favore dell’una o dell’altra parte: a favore del capitale (per mezzo di una riduzione dei salari e più in generale del potere dei sindacati) o a favore dei lavoratori, per mezzo di quella graduale “socializzazione degli investimenti” – finalizzata a sottrarre una parte cospicua dell’investimento alla logica del profitto, all’interno di una regolamentazione complessiva dell’investimento privato – che lo stesso Keynes indicava come unica soluzione alla naturale tendenza al ristagno del capitalismo sviluppato e come “via lenta” alla società ideale (postcapitalistica?) immaginata dall’economista britannico nel suo celebre saggio “Prospettive economiche per i nostri nipoti”, idea poi ripresa in chiave più radicale da Hyman Minsky negli anni Settanta.
 
Il problema è che buona parte della sinistra socialdemocratica e comunista o non capì ciò che stava avvenendo – diversi intellettuali della sinistra europea del dopoguerra videro nel keynesismo una forma embrionale di socialismo [7] piuttosto che un particolare regime di accumulazione capitalistica, quale effettivamente fu, e si ritrovarono dunque privi degli strumenti teorici necessari per capire la crisi capitalistica che investì il keynesismo, illudendosi di poter risolvere il conflitto distributivo nei limiti angusti del quadro socialdemocratico – o non ebbe il coraggio di mettere seriamente in discussione i “fondamentali” del sistema.
 
Il caso del Partito Comunista Italiano (PCI) è emblematico. Come scrive Sergio Cesaratto nel suo recente libro Sei lezioni di economia, il PCI era «costantemente ossessionato dall’esistenza di “interessi generali” (inter-classisti per così dire) che avrebbero reso ogni avanzamento operaio sovversivo per il sistema, e dunque a rischio di una reazione violenta del capitale… L’ala dominante del PCI riteneva le lotte operaie fondamentalmente incompatibili con la democrazia occidentale». [8]
 
Una paura a ben vedere non del tutto infondata, se pensiamo alle enormi pressioni esercitate sull’Italia (come su altri paesi) affinché non uscisse dai binari del patto atlantico.
 
Il risultato – drammatico – fu che la sinistra europea, avendo accettato l’impossibilità di una svolta nella direzione di un “riformismo radicale”, nell’accezione minskyana del termine, finì di fatto per avallare ideologicamente e politicamente il neoliberismo come unica soluzione alla sopravvivenza del capitalismo. Non a caso in numerosi paesi la sinistra anticipò la destra nello smantellamento del modello keynesiano. Un esempio su tutti: il primo governo a dichiarare “morto” il keynesismo fu quello laburista inglese di James Callaghan, che nel 1976 – ben tre anni prima dell’elezione di Margaret Thatcher – giustificò nella seguente maniera la scelta di accettare un prestito molto oneroso da parte del Fondo monetario internazionale in cambio del quale il governo si impegnava ad implementare un rigido programma di austerità: «Il mondo confortevole che ci avevano detto sarebbe durato per sempre, dove la piena occupazione sarebbe stata garantita da un tratto di penna del Cancelliere, attraverso la riduzione delle tasse o la spesa in disavanzo, ecco: quel mondo accogliente se n’è andato per sempre…  Io vi dico in tutta franchezza che tale opzione non esiste più, e che nella misura in cui è mai esistita, ha avuto solo l’effetto di iniettare una dose maggiore di inflazione nell’economia». [9]
 
Un altro esempio clamoroso è ovviamente quello di François Mitterrand, che nel 1983 – due anni dopo essere stato eletto su una piattaforma esplicitamente socialista ed anticapitalista – fece inversione a U e adottò un drastico programma neoliberista di tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni e compressione salariale. È interessante notare che sia Callaghan sia Mitterrand giustificarono la loro “svolta neoliberista” a grandi linee allo stesso modo: facendo appello alla logica del vincolo esterno. Ossia, affermando che la “logica inesorabile” della mondializzazione (in particolare la natura sempre più globale dei flussi finanziari) rendeva pressoché impossibile qualunque strategia economica nazionale (in particolare di carattere progressista/redistributivo), poiché in tal caso il governo in questione sarebbe immediatamente diventato oggetto di fughe di capitale, squilibri della bilancia dei pagamenti, attacchi speculativi da parte del capitale finanziario, e via dicendo.
 
In sostanza, buona parte della sinistra europea, tra la metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, giunse a considerare quel processo che oggi noi chiamiamo globalizzazione, e il contestuale svuotamento delle sovranità nazionali in campo economico, come un aspetto ineluttabile della modernità. Come dichiarò Mitterrand all’epoca: «La sovranità nazionale non significa più granché e non ha più molto spazio nell’economia mondiale moderna». [10]
 
Come notano Albo Barba e Massimo Pivetti, però, sarebbe un errore pensare che la sinistra abbia semplicemente subìto l’accelerazione del processo di mondializzazione, e il cambiamento delle condizioni di potere e distributive, avvenuti in tutta Europa nel corso dell’ultimo trentennio; al contrario, la sinistra «ha in larga misura consapevolmente deciso e gestito» questa transizione, e il conseguente passaggio a una visione post-statuale e post-sovrana del mondo, spesso anticipando la destra su questi temi. [11]
 
Ma la crisi del modello keynesiano non riguardò solo la sfera economica e distributiva; essa investì appieno anche la sfera politico-istituzionale. La piena occupazione e il rafforzamento senza precedenti delle masse lavoratrici avevano infatti determinato una progressiva fusione del movimento operaio con blocchi sociali di altro tipo (studenti, femministe, minoranze eccetera), e una radicalizzazione delle rivendicazioni non solo in ambito lavorativo ma anche in ambito politico: gruppi sempre più numerosi di persone iniziarono a rivendicare non solo un ampliamento della democrazia ma addirittura un superamento dell’ordine capitalistico costituito. In un certo senso, si stava realizzando quello che il noto economista polacco Michal Kalecki aveva preconizzato negli anni Quaranta nel suo famoso saggio intitolato “Aspetti politici del pieno impiego”:
 
Il mantenimento del pieno impiego porterebbe a trasformazioni politiche e sociali che darebbero nuova forza all’opposizione dei “capitani d’industria”. Infatti, in un regime di continuo pieno impiego il licenziamento cesserebbe di agire come misura disciplinare. La posizione sociale del “principale” sarebbe scossa, si accrescerebbe la sicurezza di sé e la coscienza di classe dei lavoratori. Gli scioperi per un salario più alto e il miglioramento delle condizioni di lavoro sarebbero fonti di tensione politica. È vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego [e qui Kalecki si sbagliava]…  Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti. [12]
 
In sostanza, le classi politiche dell’epoca, vista la situazione, si trovarono di fronte ad un bivio: rischiare di alimentare il disordine attraverso una maggiore concessione di questi diritti, o restringere la concessione di tali diritti attraverso «una graduale riduzione del  ruolo biopolitico dei governi», e una conseguente trasformazione degli apparati pubblici da mediatori del conflitto di classe a “disciplinatori” delle classi subalterne. [13]
 
Tutto questo fu ulteriormente complicato dalla fine del sistema di cambi fissi di Bretton Woods, nel 1971. A quel punto, dopo una serie di tentativi fallimentari di resuscitare il vecchio regime di cambi fissi, si passò ad un sistema di “fluttuazione sporca”: sarebbe a dire, un sistema in cui i governi continuarono ad intervenire sul mercato dei cambi per sostenere le loro valute. La fine del regime di Bretton Woods fu di grande importanza anche perché inaugurò il passaggio da un regime monetario in cui la quantità di moneta che poteva essere emessa da uno Stato era limitata dalla quantità di riserve auree possedute dallo Stato in questione a un regime monetario cosiddetto “fiat” (dal latino «così sia») – tuttora in vigore – in cui le valute non sono più coperte da riserve di altri materiali (come l’oro) e dunque non hanno più un limite teorico di emissione. Se da un lato la fine dell’aggancio con l’oro e con il dollaro offriva teoricamente ai governi maggiore libertà nel gestire le politiche monetarie e fiscali, dall’altro, anche a causa della contestuale liberalizzazione dei movimenti di capitale, generò una notevole instabilità sul mercato dei cambi.
 
Tale instabilità fu ulteriormente esacerbata dalla crisi petrolifera del 1973, che fece schizzare alle stelle l’inflazione in tutti i paesi occidentali. Per le élite si rivelò una manna dal cielo: gli alti livelli di inflazione di quegli anni, infatti, e la concomitante stagnazione dell’attività produttiva – da cui il termine stagflazione – fornirono loro il pretesto ideale per sferrare il primo attacco decisivo al modello macroeconomico keynesiano, a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Fu un attacco che si dipanò su più fronti: sul fronte economico-distributivo si caratterizzò per una progressiva riduzione dei salari e più in generale del potere di contrattazione dei sindacati, operazione che politicamente fu “legittimata” da un lato addossando interamente ai sindacati (e all’“eccesiva” spesa pubblica) la responsabilità della spirale prezzi-salari (e minimizzando il contributo del rincaro dei prezzi delle materie prime e del petrolio alla spirale inflazionistica); dall’altro evocando ossessivamente il cosiddetto “vincolo esterno”, ossia l’idea che i salari eccessivi impedissero il necessario aggiustamento delle partite correnti dei paesi in deficit (come era per esempio l’Italia in quegli anni) e che tale aggiustamento passasse necessariamente per una riduzione del salario reale; solo così si sarebbe sconfitta l’inflazione e si sarebbe ottenuta nuovamente la piena occupazione.
 
Inutile dire che si trattava di un’interpretazione dei fatti estremamente ideologica e piuttosto infondata sul piano teorico ma che tuttavia ebbe una forte presa sulla società e sulle classi politiche e intellettuali dell’epoca, ivi incluse quelle di sinistra, che – ree anche la crisi della teoria economica neokeynesiana (che poco o nulla aveva a che vedere con le teorie originarie di Keynes) e l’emergere dell’ideologia monetarista, la quale affermava che l’unica maniera per rompere la spirale inflazionistica consisteva per lo Stato nel rinunciare all’obiettivo della piena occupazione e all’uso di politiche monetarie, fiscali e salariali finalizzate a tale scopo, lasciando che il mercato si adagiasse verso il “tasso naturale di disoccupazione” – marginalizzarono qualunque strategia di gestione eterodossa del vincolo esterno, come quella avanzata da Tony Benn nel Regno Unito, dalla sinistra del Partito Socialista in Francia e da economisti quali Federico Caffè in Italia.
 
A tal proposito, uno dei dibattiti più influenti ebbe luogo verso la fine degli anni Settanta proprio in Italia, e vide confrontarsi il futuro premio Nobel per l’economia Franco Modigliani – che proponeva la cancellazione del meccanismo di indicizzazione dei salari all’inflazione (conosciuto come “scala mobile”) e una riduzione generalizzata dei salari – e diversi economisti eterodossi vicini al PCI. [14]
 
In quell’occasione il PCI, per mezzo del suo Centro Studi di Politica Economica (CESPE), finì per sposare in toto le tesi monetariste/neoliberiste di Modigliani. Come scrive lo storico Guido Liguori, a iniziare dagli anni Settanta parti importanti del partito «erano andate mutando molecolarmente la propria cultura politica e abbracciavano ormai punti di vista e culture politiche diverse. Erano divenuti parte (subalterna) di un diverso sistema egemonico». [15]
 
Il risultato – scrive Francesco Cattabrini, autore di un ottimo studio sul tema – «fu di attribuire al costo del lavoro la principale responsabilità in termini di crescita dell’inflazione e compressione dei profitti, permettendo politiche di compressione del salario e di miglioramento della profittabilità». [16]
 
Non sorprende che molti abbiano visto in questa svolta “economica” il primo passo verso la svolta “politica” che quindici anni dopo avrebbe portato alla morte del partito. [17]
 
Ovviamente questo processo di compressione salariale si intensificò poi – in Italia e altrove – negli anni Ottanta e Novanta con la globalizzazione dei processi di produzione (corso che, è bene ricordarlo, non fu “subìto” dagli Stati ma al contrario fu attivamente sostenuto da questi ultimi, proprio al fine di indebolire ulteriormente il potere contrattuale dei lavoratori). È sempre in questo periodo che si posero le basi per la crisi finanziaria del 2007-2009: la crescente erosione dei salari e del potere d’acquisto dei lavoratori in diversi paesi occidentali, infatti, fu “compensata” dall’aumento esponenziale dell’indebitamento privato, ossia da quello che alcuni hanno definito una paradossale forma di «keynesismo privatizzato». [18]
 
In sostanza le banche hanno permesso ai lavoratori, tramite il credito/debito, di mantenere inalterati i loro livelli di consumo, nonostante la stagnazione salariale verificatasi dagli anni Settanta in poi. Questo è avvenuto in maniera particolarmente evidente negli USA ma anche in diversi paesi europei.
 
L’altro fronte della guerra al “contratto sociale” keynesiano fu quello politico-istituzionale: sostanzialmente fu attuato quello che un ormai celebre rapporto del 1973 intitolato The Crisis of Democracy, redatto dalla Trilateral Commission – uno dei think tank allora più influenti in ambito euro-atlantico – aveva indicato come soluzione alla “crisi della rappresentanza”. Soluzione che passava non solo attraverso la riduzione del potere sindacale, come già detto, ma anche attraverso una riduzione della partecipazione popolare alla vita politica. I due livelli – quello economico e quello politico – sono ovviamente strettamente collegati. Come scrive Alessandro Somma, professore di diritto all’Università degli Studi di Ferrara, infatti, è chiaro «come la restrizione del perimetro affidato alla democrazia sia una funzione dell’estensione di quello rivendicato, o meglio invaso, dal mercato… La politica, oltre alla democrazia, deve evaporare per lasciare spazio alla tecnocrazia, alla mera amministrazione di un esistente indiscutibile e immobile, come è l’orizzonte del mercato concorrenziale». [19]
 
Questo obiettivo fu raggiunto attraverso una progressiva “depoliticizzazione” del processo decisionale: ossia attraverso una separazione tra i meccanismi di rappresentanza popolare e le scelte di carattere macroeconomico, e una contestuale riduzione degli strumenti di intervento di carattere monetario e fiscale dei singoli Stati nazionali. In particolare, questo fu ottenuto:
(a) riducendo sensibilmente il potere dei parlamenti rispetto a quello degli esecutivi (per esempio attraverso il passaggio da sistemi proporzionali a sistemi maggioritari) in nome di una non meglio definita governabilità;
(b) recidendo il legame tra autorità monetarie e autorità politiche, attraverso l’istituzionalizzazione del principio dell’indipendenza della banca centrale, al fine (neanche troppo nascosto) di asservire gli Stati alla cosiddetta “disciplina dei mercati” (giacché, per dirla brevemente, uno Stato che non controlla la propria banca centrale non è in grado di controllare i tassi di interesse); nel caso dell’Italia, come è noto, questo avvenne col famoso “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro del 1981; [20]
(c) formalizzando il vincolo esterno attraverso la ri-adozione di cambi fissi (in Europa);
(d) infine, onde evitare ulteriori contrapposizioni fra Stati portatori di istanze politiche differenti, trasferendo sempre più prerogative a istituzioni e organismi sovranazionali (come per esempio l’Organizzazione mondiale del commercio a livello internazionale).
Tra le diverse finalità di questo processo di depoliticizzazione possiamo annoverare anche – e forse soprattutto – quella di offrire alle autorità politiche nazionali organismi o presunti “fattori oggettivi” – o vincoli esterni, appunto – su cui scaricare la responsabilità di scelte politiche impopolari, in primis la compressione salariale e lo smantellamento delle tutele del lavoro.
 
Di conseguenza i regimi di democrazia partecipativa nati dalle ceneri della seconda guerra mondiale hanno progressivamente lasciato il posto a regimi di democrazia deliberativa. La differenza tra i due è ben spiegata da Alessandro Somma: «La democrazia partecipativa, tipicamente intrecciata con la sovranità statuale, indica la possibilità degli individui di incidere sulle decisioni collettive: possibilità effettiva, assicurata dal funzionamento del principio di parità in senso sostanziale, che la Costituzione italiana reputa non a caso un presupposto fondamentale per “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese” (art. 3). Diverso è il caso della democrazia deliberativa, che coinvolge tutti i potenziali interessati dalla decisione da assumere, i cosiddetti stakeholders, offrendo però loro solo la mera possibilità formale di prendere parte alle decisioni: senza considerazione per l’effettiva possibilità di incidere sul loro contenuto». [21]
 
L’Europa è ovviamente il continente in cui questo processo si è esplicitato in maniera più radicale. Come afferma Peter Mair in Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti, [22] il ridimensionamento della democrazia popolare, condizione necessaria per il ridimensionamento del movimento operaio, può essere considerata la raison d’être di tutto l’esperimento europeo, il cui ultimo stadio inizia con la creazione del sistema di “cambi convergenti” del Sistema monetario europeo (SME), nel 1979, fino ad arrivare all’introduzione dell’euro nei primi anni 2000. L’Italia è la perfetta cartina di tornasole di questo processo. Come ha ricordato di recente Joseph Halevi, l’Italia fu il paese più danneggiato dall’adesione allo SME, che comportò una rivalutazione del tasso di cambio reale molto significativa, che ebbe tutta una serie di conseguenze estremamente deleterie per il paese: in primis, l’apparizione di un deficit estero strutturale. [23]
 
Alla luce di ciò, verrebbe da chiedersi perché i nostri dirigenti insistettero tanto per entrare nello SME. Una possibile spiegazione ce la fornisce nientedimeno che Giorgio Napolitano, che al tempo, in veste di deputato del PCI, capì bene che «la disciplina del nuovo meccanismo di cambio europeo» significava non accomodare più il conflitto distributivo e addossare alle richieste salariali la responsabilità della perdita di competitività del paese. [24]
 
La creazione di un potente vincolo esterno, nella forma del cambio semi-fisso, avrebbe insomma facilitato una maggiore flessibilità verso il basso dei salari. E così è stato.
 
Questa chiave interpretativa è applicabile a tutte le successive fasi costituenti dell’Eurosistema: dall’Atto unico del 1986 – in cui furono formalizzate le fondamenta neoliberiste della costituzione economica europea, dalla libera circolazione dei capitali al divieto (de facto) delle politiche industriali, attraverso la normativa sugli aiuti di Stato – fino al Trattato di Maastricht del 1992, che fissò i termini cui subordinare la fase finale dell’unione monetaria, dall’indipendenza assoluta della Banca centrale europea dagli Stati nazionali, alla flessibilizzazione del lavoro, ai limiti al deficit e al debito pubblico. Limiti che sono stati successivamente inaspriti, prima col patto di stabilità e crescita del 1997 e poi col fiscal compact del 2012, che prevedeva addirittura l’integrazione di una norma sull’obbligo del pareggio/surplus di bilancio negli ordinamenti nazionali (o ancor meglio nelle Costituzioni) degli Stati membri.
 
È proprio sul fronte dell’integrazione economica e valutaria europea che la subalternità della sinistra al neoliberismo si è manifestata nella maniera più dirompente. Come è noto, il principale fautore dell’euro fu proprio un socialista francese, ex ministro del governo Mitterrand: Jacques Delors. E non poteva essere altrimenti: avendo rinunciato a combattere il capitale sul terreno nazionale, la sinistra – anche per continuare a giustificare la propria esistenza – introiettò l’idea che il cambiamento era possibile solo a livello continentale, europeo. Cambiamento che però non poteva che essere di facciata, avendo la sinistra accettato le prescrizioni neoliberiste come unica soluzione alla crisi del keynesismo.
 
La stessa chiave interpretativa permette infine di capire anche ciò che è successo in seguito al 2010, quando ad una crisi di domanda di portata enorme si è scelto di rispondere – in barba ai più elementari princìpi macroeconomici – con una “cura letale” a base di austerità fiscale, deflazione salariale e riforme strutturali, i cui devastanti effetti economici e sociali erano facilmente prevedibili (ed erano infatti stati ampiamente previsti e preannunciati). Secondo la chiave di lettura qui suggerita possiamo dunque ipotizzare che l’obiettivo principale di tali politiche non fosse (e non sia) realmente il “consolidamento fiscale” o una maggiore “competitività”, ma piuttosto il definitivo rovesciamento del compromesso keynesiano, portando così a compimento quel processo iniziato all’incirca quarant’anni fa.
 
Versione redatta di un articolo apparso sull’Almanacco di economia di Micromega del giugno 2017. 
 
NOTE
 
[1]           L’articolo di J. Robinson, “The Second Crisis of Economic Theory” (1972), è citato in R. Bellofiore, “La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes”, Alternative per il socialismo, marzo-aprile 2014; consultabile al seguente indirizzo: goo.gl/5wx46J.
 
[2]           Per una rassegna delle varie operazioni degli Stati Uniti all’estero dal dopoguerra in poi consiglio la lettura di W. Blum, Il libro nero degli Stati Uniti, Fazi Editore, Roma 2003.
 
[3]           G. Duménil e D. Lévy, “The Neoliberal (Counter-)Revolution”, in A. Saad-Filho e D. Johnston (a cura di), Neoliberalism: A Critical Reader, Pluto Press, Londra 2004, p. 12.
 
[4]           L. Gallino, “La lunga marcia dei neoliberali per governare il mondo”, la Repubblica, 27/7/2015.
 
[5]           Su questo punto si veda A. Przeworski e M. Wallerstein, “Democratic Capitalism at the Crossroads”, in A. Przeworski, Capitalism and Social Democracy, Cambridge University Press, Cambridge 1985; consultabile al seguente indirizzo: goo.gl/icoH68.
 
[6]           R. Bellofiore, “I lunghi anni Settanta. Crisi sociale e integrazione economica internazionale”, in L. Baldissara, Le radici della crisi. L’Italia tra gli anni Sessanta e Settanta, Carocci, Roma 2001.
 
[7]           Si pensi per esempio ad Anthony Crosland, membro del Partito Laburista britannico e autore nel 1956 del libro The Future of Socialism, in cui sosteneva che le economie avanzate erano di fatto entrate in una fase post-capitalista.
 
[8]           S. Cesaratto, Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Imprimatur, Reggio Emilia 2016, p. 212.
 
[9]           Discorso tenuto alla conferenza nazionale del Partito Laburista del 28 settembre 1976 a Blackpool.
 
[10]          J. Ardagh, France in the New Century, Penguin, Londra 2000, pp. 687-688.
 
[11]          A. Barba e M. Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Imprimatur, Reggio Emilia 2016.
 
[12]          M. Kalecki, “Aspetti politici del pieno impiego”, Sulla dinamica dell’economia capitalistica. Saggi scelti 1933-1970, Einaudi, Torino 1975.
 
[13]          G. Bracci, “Un ‘no’ contro la post-democrazia”, Eunews, 10/12/2016, goo.gl/wAlrnn.
 
[14]          Si veda il paper di F. Cattabrini, “Franco Modigliani and the Italian Left-Wing: The Debate over Labor Cost (1975-1978)”, History of Economic Thought and Policy, n. 1/2012.
 
[15]          G. Liguori, La morte del PCI, manifestolibri, Roma 2009, p. 10.
 
[16]          F. Cattabrini, op. cit.
 
[17]          Tra questi Augusto Graziani, la cui critica alla posizione della corrente maggioritaria del PCI è ben ricostruita nel paper di E. Brancaccio e R. Realfonzo, “Conflittualismo versus compatibilismo”, Il pensiero economico italiano, n. 2/2008.
 
[18]          R. Bellofiore e J. Halevi, “La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica”, relazione al convegno “La crisi globale. Contributi alla critica della teoria e della politica economica”, svoltosi a Siena il 26-27 gennaio 2010; consultabile al seguente indirizzo: goo.gl/6PFQJm.
 
[19]          A. Somma, “Governare il vuoto? Neoliberismo e direzione tecnocratica della società”, MicroMega, 29/7/2016.
 
[20]          Il cosiddetto “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia si consumò nel 1981, quando l’allora ministro Beniamino Andreatta, con una lettera indirizzata al Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, pose fine all’obbligo da parte della Banca d’Italia di garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal Tesoro.
 
[21]          A. Somma, op. cit.
 
[22]          P. Mair, Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2016.
 
[23]          J. Halevi, “Europa e ‘mezzogiorni’”», PalermoGrad, 21/4/2016, consultabile al seguente indirizzo: goo.gl/TfHmJa.
 
[24]          Il discorso di G. Napolitano è consultabile al seguente indirizzo: goo.gl/ioaMJy.  Nella stessa occasione, anche Luigi Spaventa, deputato indipendente eletto nelle liste del Pci, individuò con sorprendente lucidità i rischi derivanti dalla creazione del nuovo meccanismo di cambio: «Quest’area monetaria rischia oggi di configurarsi come un’area di bassa pressione e di deflazione, nella quale la stabilità del cambio viene perseguita a spese dello sviluppo dell’occupazione e del reddito. Infatti non sembra mutato l’obiettivo di fondo della politica economica tedesca: evitare il danno che potrebbe derivare alle esportazioni tedesche da ripetute rivalutazioni del solo marco, ma non accettare di promuovere uno sviluppo più rapido della domanda interna». L’intervento di L. Spaventa è consultabile al seguente indirizzo: goo.gl/CLHFL6.