Il 3 giugno si svolse la finale della Champions League tra Juventus e Real Madrid. A Torino nella centralissima Piazza San Carlo, la visione collettiva della partita si risolse in una tragedia: 1525 feriti e una morta, Erika Pioletti. Moltissime persone calpestate dalla folla, riportarono ferite di varia entità, e molte altre colpite da stress post-traumatico. Quasi tutte annunciano denunce e richieste di risarcimento danni all’indirizzo delle autorità, a cominciare dal sindaco, Chiara Appendino, la quale, stando a notizie giornalistiche dell’ultim’ora, risulta iscritta nel registro degli indagati per lesioni. Premetto che ho votato l’Appendino sia al I turno, sia al ballottaggio, dunque non ho alcuna preclusione verso di lei e la sua Giunta, anche se i risultati attesi e annunciati in campagna elettorale finora non ci sono stati. Ma la sera del 3 giugno rappresenta un turning point che azzera tutto. Su quei fatti e gli avvenimenti che ne sono seguiti, sembra opportuno fare una riflessione, che vada anche al di là della contingenza. Ecco le mie dieci tesi, per aprire una discussione.
1. Il tifo calcistico, parte integrante e attiva del mercato del pallone, anche nelle cosiddette “frange violente”, è una malattia endemica da curare seriamente. Naturalmente tra i tifosi v’è un po’ di tutto; ma nello stare insieme, nel sostenere la “propria squadra”, nel “tifare”, appunto, emergono gli elementi di irrazionalità di ogni folla, che è il prerequisito per arrivare alla distruzione, alla devastazione, alla violenza contro cose e persone, fino all’omicidio. Il tifo è una malattia, non dimentichiamolo; la parola stessa dovrebbe indirizzarci verso la comprensione del fenomeno, che, tuttavia nel corso del tempo, In specie negli ultimi 20/25 anni, è diventato un business mostruoso, contaminato da loschi affarismi, da connivenze di media e subalternità della politica. Del resto ogni buon politico ha la sua squadra del cuore, e non lo dimentica: spesso essa è radicata sul territorio del suo collegio elettorale, e comunque serve ad acchiappare voti, anche in fondo da chi non condivida l’amore per quel team: serve a far percepire il politico come “più vicino” al popolo. Uno di noi, insomma. I calciatori sono pagati più di chiunque altri nel mondo capitalistico, e le quotazioni hanno raggiunto livelli incredibili. La squadra della Juventus, la più blasonata in Italia, segue la politica sistematica di “strappare” a suon di milioni i migliori giocatori alle concorrenti, ed è una politica che alla fine paga, anche in termini economici.
2. La signora sindaco di Torino, Chiara Appendino, legittimamente, come tanti suoi colleghi pubblici amministratori (la stragrande maggioranza) è una “tifosa”, nel caso della Juventus, società per la quale ha anche lavorato. Legittimamente, ma molto discutibilmente, la notte fatale del 3 giugno se ne volò a Cardiff per assistere al match che avrebbe dovuto consacrare regina d’Europa la squadra zebrata (sappiamo come è andata a finire). Tanti altri suoi sodali della gigantesca tifoseria bianconera del resto fecero lo stesso, quella sera. Ma sulle loro spalle non gravava alcuna responsabilità, a differenza delle spalle della sindaca, che, su pressioni – pare – del Juventus Football Club aveva concesso per trasmissione in diretta della partita la piazza che rappresenta il cuore di Torino, un gioiellino, in una città che di pezzi pregiati non ne ha molti, ma che è bella per l’armonia dell’insieme. Piazza San Carlo è chiamata, non per caso, “il salotto di Torino”: una piazza piccola, che taglia in due l’asse della centralissima via Roma, separando i due tratti, quello in stile “barocchetto” negli anni Venti, e quello modernistico degli anni Trenta (entrambi i tratti ricostruiti dopo lo sventramento del centro, voluto da Mussolini nella sua politica di modernizzazione forzata, con la distruzione della città medievale). Una piazza preziosa, da preservare con cura, anche se era già stata messa a dura prova dalla Giunta Chiamparino con la realizzazione di un posteggio sotterraneo, provocando lunghe e aspre polemiche. Ma la Juventus a Torino comanda. E Appendino ha accettato, forse non peccando di scarsa consapevolezza delle controindicazioni e dei rischi di quella decisione. E ora tocca a lei, non al presidente della squadra di calcio torinese, rendere conto alla cittadinanza.
3. Un luogo, dunque, che a tutto poteva prestarsi tranne che ad essere usato come campo di calcio virtuale, con decine di migliaia di persone, molte delle quali ubriache prima del calcio d’inizio. È vero che quella piazza vede, tradizionalmente, la conclusione, con i comizi di rito, del corteo del Primo Maggio. Ma intanto nei cortei v’è un servizio d’ordine e soprattutto i manifestanti politici non sono paragonabili ai tifosi che, quando sono una massa, sono poco adatti “ai salotti buoni”. Altrove, quella sera, come a Madrid, si vide la partita, ma in uno stadio, con grandi schermi. In Piazza San Carlo, ripeto, piccola piazza, v’era un solo schermo, e precisiamo, uno schermo piccolo. E gli accessi al posteggio sotterraneo erano rimasti aperti: ma non v’era la “massima allerta” per prevenire eventuali gesti terroristici? E non era quello un invito perfetto per eventuali malintenzionati? Aggiungasi che erano state disposte nella piazza delle barriere mobili, le solite grate, che finivano per ridurre gli spazi e ostacolare la fuoruscita, o peggio che peggio, lo sgombero rapido in caso di emergenza.
4. Ogni manifestazione calcistica è ormai preceduta, accompagnata e seguita da un circo mercantile spaventoso. Una o persino due settimane prima dell’evento – che intanto giornalisti compiaciuti o solo stolti o peggio, prezzolati pompano a dovere – decine di bancarelle si materializzano, vendendo gadget di ogni sorta. Con l’avvicinarsi del dì fatidico le bancarelle si moltiplicano, e palloni, sciarpe, magliette, et similia, in una fiera dell’orrido, vengono smerciate da venditori abusivi, esentasse. E infine, la sera “magica”, le bancarelle, anche sotto specie di singoli venditori muniti di apposita strumentazione atta a trasportare bottiglie e lattine, diventano spacciatrici di bevande, alcoliche, semialcoliche, analcoliche. E giacché ci siamo popcorn, noccioline, e quant’altro possa dare conforto alla fame nervosa di adulti e ragazzetti che aspettano e sperano gol e intanto si ingozzano di arachidi. Le bancarelle sono state una componente importante della tragedia di Piazza San Carlo. La prova estrema che ciò che prevale è il mercato e che parlare di “sport” oggi è un inganno o un autoinganno. Tutto è mercato, nel mondo del calcio in specie, comprese le anime dei giocatori.
5. Transenne e bancarelle sono la spiegazione della difficoltà all’evacuazione della piazza quando, per una ragione non chiarita, ma irrilevante, la folla ha iniziato a ondeggiare paurosamente, come un grosso serpentone che provava a uscire dal catino della piazza senza riuscirvi, e ben presto il serpente ha travolto transenne e bancarelle, e ha travolto se stesso, in una sorta di esplosione che ricordava la pentola a pressione quando la valvola di sfogo non funziona. Le bancarelle e transenne sono state la valvola bloccata che ha costretto il serpente a tornare più volte su se stesso, rigirandosi, dimenandosi, vibrando colpi di coda sempre più irrazionali.
6. La spiegazione dell’Appendino che in una lettera al quotidiano La Stampa ha addirittura evocato le Torri Gemelle, elencando di seguito tutti i principali attentati terroristici nel mondo, è risibile. Quella piazza, difficile da gestire per la sua configurazione e per la massa enorme di gente, è stata abbandonata a se stessa. La “psicosi attentato” c’entra poco; è un dato, certo presente, ma assolutamente di contorno. Il pericolo va evitato alla radice e andava evitato. La piazza era pericolosa: bastava dare un’occhiata alla situazione, ben prima che la partita avesse inizio, un pericolo aggravato dall’eccitazione parossistica dei malati di tifo, nei quali, come accennato, si era creata la persuasione che la loro squadra avrebbe vinto: una campagna volta a conformare l’opinione pubblica, il cui ultimo atto era il “dobbiamo esserci”. Chi poteva si è speso qualche centinaio di euro per volare allo stadio gallese di Cardiff; gli altri avevano Piazza San Carlo, o, quelli senza alcuna possibilità di muoversi da casa, infine, si dovevano accontentare della tv: mentre il messaggio avrebbe dovuto essere proprio all’inverso: restate nel salotto di casa vostra, e godetevi (si fa per dire) la partita in famiglia e con gli amici. No: il messaggio era: “si va in piazza”, a “festeggiare”. La febbre della partita era cresciuta ben oltre il livello di guardia.
7. In quella piazza nessuna ordinanza vietava la vendita di bottiglie di vetro, la cui frantumazione è stata la causa principale dei 1526 ricoveri ospedalieri di altrettanti presenti quella maledetta sera. Le birre (et non solum!) venivano vendute non soltanto dagli “abusivi”, ma dai paludati caffè, i più costosi della città, che affacciano su piazza San Carlo. Il mercato trionfava. La cura della salute pubblica era affidata al buon senso delle persone: ma quando 40 mila individui, perlopiù giovani, si accalcano in uno spazio ristretto, eccitatissimi per la loro “Juve”, e sono pure mediamente alticci per l’alcol, come si fa a puntare sul loro buonsenso? Assente il sindaco, il vicesindaco, l’intera Giunta municipale, i vertici delle forze di polizia, compresa la polizia urbana. La piazza era affidata a se stessa, e la scarsa polizia presente ha avuto, come sempre in caso di manifestazioni sportive, un occhio distratto per quanto accadeva.
8. Del resto l’organizzazione dell’evento, nella solita politica della delega-spezzatino, era stata affidata a un’agenzia (Turismo Torino). Sul sito ecco come si presenta l’agenzia: “è il Convention & Visitors Bureau della città di Torino e del suo territorio provinciale. (…) è l'organismo preposto alla promozione della provincia di Torino, quale destinazione di turismo leisure, sportivo, naturalistico, culturale, viaggi individuali e di gruppo, congressi, convention, viaggi incentive e turismo d'affari”. Raccapricciante: Ettore Petrolini non avrebbe saputo fare di meglio. A costoro era affidata la sorte di alcune decine di migliaia di persone e di una intera piazza, la più bella e “delicata” sul piano architettonico della città.
9. Accaduto il fattaccio, le cui proporzioni andavano crescendo minuto dopo minuto, v’era una cosa che le autorità avrebbero dovuto fare, una sola: chiedere scusa alla città, e, anche solo come atto simbolico, rassegnare le dimissioni. Tutte le autorità, a partire da quella che rappresenta la comunità, il sindaco. E con il sindaco questore, prefetto, comandante dei vigili. Invece abbiamo solo avuto silenzio o balbettio e un corale “andiamo avanti”. Avanti verso dove? Il 3 giugno ha rappresentato un vero punto di non ritorno; errori su errori, e, nei giorni seguenti, una affannosa rincorsa al ricupero del consenso, più che a una corretta e sensata gestione della situazione che intanto diventava esplosiva. In effetti, gli atti successivi, con ordinanze proibizionistiche nello spirito del ministro Minniti, che oltre ad essere inapplicabili e inutilmente repressive, hanno avuto lo sgradevole sapore del rimedio peggio del danno, suscitando un’ondata di ridicolo (i social media sono impietosi al riguardo, ma efficacissimi), che ha trasformato di colpo la signora Appendino nel bersaglio di uno sfottò generalizzato. Il punto culminante, è stata l’incursione di un reparto della polizia di Stato in uno dei luoghi chiave della movida cittadina, la piazza Santa Giulia, dove poliziotti in assetto antisommossa hanno aggredito pacifici cittadini di ogni età che stavano cenando o bevendo ai tavolini dei caffè. Una incredibile azione punitiva che manco la Celere di Scelba avrebbe osato mettere in atto. Solo Genova 2001 può essere richiamato come termine di paragone, certo senza la dimensione e le conseguenze di quella “mattanza”; ma si è trattato di un evento di inaudita gravità, rispetto al quale ancora non abbiamo avuto notizie di accertate responsabilità.
10. Si è detto del calcio e del tifo. Una parola va dedicata anche al rito della movida: possiamo dire che è diventato insopportabile? E possiamo aggiungere che quella di tracannare un paio di Moretti in piedi su un marciapiede, mentre da qualche fonte arrivano le sonorità dei Coldplay o di J Ax (tanto per dire), è una falsa libertà? Cionondimeno, proibire di bere al di fuori dei bar è ridicolo, oltre ad essere un invito a spendere: perché spesso le bevande per i “movidari” vengono da loro stessi acquistate nei market di zona e portati nei luoghi di assembramento. Accade a Siviglia come a Torino, a Salerno come a Marsiglia, ad Alassio come a Ibiza (dove si arriva all’estremo dell’horror). Si tratta di un fenomeno del nostro tempo, ormai da anni. Pensare di vietarlo è assurdo. Forse però si può pensare una politica diversa per gli spazi urbani, con stimoli culturali che oggi latitano, ma dove ci sono funzionano. Insomma, care autorità, offrite a questi giovani (o diversamente giovani…) occasioni diverse, luoghi “protetti” di aggregazione, sottratti magari alla logica mercantile, e forse si sentiranno altrettanto liberi senza recare disagio al resto della popolazione urbana, bloccare il traffico automobilistico, e suscitare non di rado ben di più che innocui alterchi con il resto della gente che attacca striscioni ai balconi con il fatidico “Vogliamo dormire”. La movida è la parodia e l’esasperazione dello “stare insieme”, quando non c’è cultura, quando non c’è speranza: quando non c’è in realtà neppure autentica gioia di vivere, ma solo un disperato bisogno di “sentirsi” vivi, sapendo che si sta come d’autunno sugli alberi le foglie.
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