giovedì 28 luglio 2016

Le parole di governanti ed economisti sono criminali, intervista a Domenico De Masi di Thomas Mackinson

Il professore di sociologia del lavoro commenta i dati Istat che fotografano un Paese in cui cresce la povertà assoluta: “Una ripresa dei Paesi ricchi è impossibile perché sono talmente ricchi che non possono aumentare ulteriormente la loro ricchezza. L’unica è redistribuire la ricchezza finché di ricchezza ce n’è. La povertà e la disperazione sono benzina per l’incendio”
“Non si è ancora scatenata la rabbia. E’ questa la fortuna dei politicanti che vediamo a Ballarò, degli economisti che suonano il violino della ripresa sul Titanic. Ma succederà, perché la crescita delle diseguaglianze a questo porta”. Domenico De Masi, sociologo, professore di Sociologia del lavoro alla Sapienza di Roma, lo ripete da anni: il refrain della ripresa è una gigantesca invenzione su cui tutti siamo seduti, che viene propinata dalle élite che ci governano e dicono “balle” al popolo anziché la verità: “Altro che ripresa, siamo destinati a decrescere e l’unica strada per governare questo ineluttabile processo è contenere le diseguaglianze redistribuendo la ricchezza che resta, assicurando a tutti il necessario e togliendo il superfluo dove c’è”.
De Masi legge i dati Istat sulla povertà assoluta, che in Italia tocca ormai 4,6 milioni di persone, il massimo dal 2005. “Certificano che le parole dei nostri governanti ed economisti – a questo punto – non sono solo false, sono criminali. Per quanto potranno ignorare ancora questa insoddisfazione globale per l’iniqua distribuzione della ricchezza che galoppa?”.
De Masi, se la ripresa è una balla perché andargli ancora dietro?Ti do due dati, uno a livello mondiale e uno tutto italiano. Dieci anni fa 85 persone al mondo secondo Forbes possedevano da sole la ricchezza di tre miliardi e mezzo di persone, la metà dell’umanità intera. Oggi, dieci anni dopo, i poveri hanno la ricchezza non più di 85 persone ricche ma di 65. La tendenza sembra dire che arriveremo al punto in cui una sola persona possederà praticamente tutto. Altro dato, per l’Italia: nel 2007, cioè alla vigilia della grande crisi, dieci famiglie avevano la ricchezza di tre milioni di italiani, dopo otto anni di crisi le stesse famiglie hanno la ricchezza di 6 milioni di italiani, cioè hanno raddoppiato la loro ricchezza mentre raddoppiava il numero dei poveri. Questi dati dimostrano quanto galoppa la disuguaglianza.
Cosa c’è al fondo di questa “caduta”?
Da quando un modello di vita ha prevalso diventando dominante su altri si è rotto qualcosa. Durante la Guerra Fredda tra Occidente e Oriente, un mondo orientale in nome del socialismo rinunciava alla ricchezza di pochi ma assicurava ai suoi cittadini la sopravvivenza, la scuola e la sanità. Magari imponendo altri prezzi su altri fronti, certo. E’ quello che succede ancora oggi a Cuba, per qualche tempo ancora. Poi c’era un mondo basato sul liberalismo che poneva in primo piano la capacità dei singoli per cui i più capaci hanno di più e i meno capaci hanno di meno. Con la caduta del Muro di Berlino, in effetti, il Comunismo non ha perso ma il Capitalismo non ha vinto. Perché il primo sapeva distribuire la ricchezza senza saperla produrre, il secondo la sa produrre e non sa distribuirla. E’ un paradosso ormai acclarato per tutti i Paesi capitalisti.
Ma il cittadino con chi si deve lamentare?
Con quegli economisti e quei politici che continuano a dire che c’è una ripresa. Una ripresa dei Paesi ricchi è impossibile perché sono talmente ricchi che non possono aumentare ulteriormente la loro ricchezza. Noi, Italia, su 196 Paesi siamo all’ottavo posto al mondo come Pil. Ogni italiano ha un Pil pro capite di 36mila dollari. I cinesi ne hanno 6000 dollari, gli indiani 1.500. Come facciamo noi ad aumentare ancora?
E quando vengono ancora spese promesse su questo rilancio dell’economia?
Non sono solo balle, sono al più esternazioni criminali. Sono dichiarazioni di economisti e politici che o non sanno come stanno le cose e allora hanno una colpevole ignoranza oppure sanno come vanno le cose e dicono bugie e sono dei criminali.
E la gente che affolla il Titanic suonando il violino della ripresa?
E’ la gente che vedi in tv la sera a Ballarò, da Vespa. E’ gente che parla per compiacere il Principe dice che le cose stanno andando meglio, quando sarebbe onesto verso il popolo dire “guardate, siamo cresciuti tanto e non possiamo crescere di più”. Non c’è niente da fare. Possiamo solo sperare di mantenere la posizione in cui siamo e decrescere lentamente con minori diseguaglianze possibili. Per non diminuire la nostra dose di “felicità”, dovendo però decrescere, dobbiamo togliere le cose superflue in modo che quelle necessarie rimangano a tutti.
Le famose spending review che si sono evitate a tutti i costi, arrivando a “tagliare” i commissari incaricati di farle?
Se pensa che abbiamo una situazione della sanità molto peggiore a quella di quattro anni fa, che oggi il cittadino paga molte più medicine per cui alcuni non potendo comprarle neppure si curano più… Per avere un’analisi clinica da parte di una Asl devi aspettare quattro o cinque mesi e nel frattempo muori… Beh, in un Paese ancora ricco come il nostro è una vergogna.
Allora, che fare?
L’unica è redistribuire la ricchezza finché di ricchezza ce n’è. Ognuno di noi getta la metà di quello che ha nel frigorifero. Educazione dei cittadini all’autorisparmio, forse. Ma se il voto viene dato ancora oggi a soggetti che portano avanti visioni liberali dell’economia non ne verremo mai a capo. Quelle idee ci porteranno a capo fitto in una terza rivoluzione perché prima o poi la gente si stufa. Vedi quanti episodi ci appaiono folli, le sparatorie, gli attacchi di gente apparentemente uscita di senno. La povertà e la disperazione sono benzina per l’incendio. Non è altro che la punta dell’iceberg di una insoddisfazione globale per l’iniqua distribuzione della ricchezza.
Qualcuno parlando di “decrescita felice” sembra intravvedere perfino del “bello” dietro alle nuove povertà, un po’ come i neorealisti nel cinema del Dopoguerra…
Macché, di felice c’è ben poco. Quello è sempre il bello visto dalla parte dei ricchi. E’ un racconto della povertà e della Chiesa sui poveri che sono “beati perché loro è il regno dei cieli”. E’ un fatto consolatorio: possiamo dire che nel 2016 queste forme di contenimento sono del tutto desuete e insufficienti? L’unica vera consolazione, se si può dire, è che i poveri trattengono ancora la rabbia. Perché quando esploderà i non poveri avranno da rimettere. Quando ci fu la Rivoluzione francese furono ghigliottinati 23mila nobili. E’ questo – anche nelle forme più civili che una rivolta assumerebbe oggi – che le élite, più di tutto, non vogliono”.

Pedemontana, per lo Stato una bomba da 20 miliardi di Giorgio Meletti e Davide Vecchi

E’ noto che il cosiddetto project financing è una delle tecniche più efficaci per rapinare le casse dello Stato. In genere la politica – quando non è mandante o complice – se ne accorge sempre dopo. Il caso della Pedemontana Veneta è dunque inedito. Il governo ha scoperto (forse) in tempo che la nuova arteria da 95 chilometri che dovrebbe collegare le province di Vicenza e Treviso “senza oneri per lo Stato” potrebbe costare ai contribuenti 20 miliardi. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Claudio De Vincenti ha attivato nei giorni scorsi una girandola di frenetiche riunioni per salvare il salvabile. Palazzo Chigi è dovuto intervenire a seguito del totale imbambolamento del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio e di quello dell’Economia Pier Carlo Padoan, per tacere del governatore del Veneto Luca Zaia.
La storia della Pedemontana Veneta sembra un copione per cabarettisti. L’operazione parte nel 2003 con i consueti ingredienti dell’epoca: Legge Obiettivo e project financing. La prima garantisce – secondo l’ideatore Ercole Incalza, il dottor Stranamore dell’appalto – l’esecuzione delle opere con tempi e costi certi. Il secondo è apparentemente geniale: il costruttore finanzia e costruisce l’autostrada e se la ripaga con i proventi del traffico, così lo Stato non ci mette una lira. Storie note.
Ma con la Pedemontana Veneta si batte ogni record. Nel 2009 Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso decidono che tra Treviso e Vicenza c’è una vera e propria emergenza traffico, tale da imporre un decreto che svincola la Pedemontana dalle già lasche procedure della Legge Obiettivo. Non solo: viene istituito un commissario onnipotente nella persona di Silvano Vernizzi – braccio destro dell’allora governatore Giancarlo Galan per i cantieri – che diventa nientemeno che “autorità concedente” (nota per i comuni mortali: normalmente l’autorità concedente è il ministero Infrastrutture o l’Anas, minimo una Regione). Vernizzi firma di tutto e di più con il consorzio Sis, vincitore della gara del 2003, formato dal costruttore piemontese Matterino Dogliani e dal gruppo spagnolo Sacyr. I governatori veneti – Galan prima, Luca Zaia poi – approvano tutto. Forse senza rendersi conto di alcuni dettagli. Il primo è quasi normale, cioè il costo dell’opera che dagli 895 milioni iniziali triplica a 2,7 miliardi. Il secondo è la bomba: Vernizzi impegna la Regione Veneto a risarcire il concessionario se per caso il traffico, e quindi i pedaggi, risultassero inferiori alle previsioni. Naturalmente, come tradizione del project financing, le previsioni di traffico alla base dell’operazione sono stellari, per dimostrare la bontà dell’affare: 44 mila veicoli al giorno nel 2023.
Due giorni fa, a Palazzo Chigi, De Vincenti è sbiancato quando due dirigenti di Bei (Banca Europea per gli investimenti) e Cdp (Cassa Depositi e Prestiti) gli hanno detto che, secondo un loro studio, le previsioni di traffico messe nel piano sono tre volte la realtà. Calcolatrice alla mano, la Regione Veneto dovrebbe rimborsare al consorzio Sis 366 milioni ogni anno per la durata della concessione, 39 anni: 14 miliardi in tutto che diventano 20 calcolando interessi e quisquilie varie.
Perché De Vincenti ha dovuto aprire questo teso tavolo di consultazione? Perché all’inizio di luglio il commissario Vernizzi, il concedente, ha scritto una perentoria lettera al premier Matteo Renzi per battere cassa. Il ragionamento di Vernizzi è semplice. Il consorzio Sis ha iniziato i lavori in un modo curioso, anziché costruire la strada un po’alla volta ha sbancato tutto il percorso, scavando una profonda trincea di 95 chilometri lungo la campagna veneta, ma non ha più soldi. Ha speso finora poco meno di 400 milioni di contributo statale senza metterci un euro di suo. Il contributo pubblico in conto capitale era all’inizio di 150 milioni, poi è diventato di 614 grazie a un miracoloso “atto aggiuntivo” firmato nel 2013 da Vernizzi e assentito da Zaia. Ora il commissario chiede a Renzi gli ultimi 200 e passa milioni per non chiudere i cantieri: pare che il concessionario che doveva fare “tutto con soldi privati” abbia titolo giuridico per pretendere di incassare tutto il contributo anche se non ha messo giù un euro suo.
E qui inizia il capitolo più grottesco. Ovviamente il privato per costruire l’opera deve finanziarsi sul mercato, in questo caso per circa 1,5 miliardi. Ma nessuna banca finora si è arrischiata a prestare soldi al costruttore Matterino Dogliani. La garanzia sottostante è, in sostanza, della regione Veneto che però, se dovesse fare fronte ai 366 milioni all’anno andrebbe in default. In pratica per una banca comprare le obbligazioni Sis sarebbe come investire in titoli di Stato italiani nel novembre del 2011.
Spunta a questo punto l’ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli, oggi capo dell’investment banking europeo di Jp Morgan. La banca americana ha pronto il piano per l’emissione delle obbligazioni con cedola dell’8 per cento, un lauto interesse che alla fine sarebbe pagato da Zaia. Grilli tiene molto all’affare che porterebbe nelle casse di Jp Morgan una cifra stimata tra i 40 e gli 80 milioni di euro per la prestazione di arranger. Siccome nessuna banca vuole comprare il Pedemontana Bond, Grilli sta facendo pressioni sulla Bei e sulla Cdp perché si mettano una mano sulla coscienza e partecipino all’operazione: sarebbe un segnale forte per il mercato e garantirebbe il successo dell’operazione.
Per questa ragione i tecnici di Bei e Cdp hanno messo a punto lo studio sulle previsioni di traffico che giovedì hanno illustrato a De Vincenti. E le conclusioni sono infauste: solo un pazzo investirebbe su un’operazione così strampalata, ed essendo Bei e Cdp banche pubbliche i loro manager non possono fare follie. A complicare il quadro c’è però un manifesto interesse del presidente di Cdp, Claudio Costamagna, per l’operazione. Da mesi Grilli sta premendo su di lui in modo insistente facendo leva sull’ottimo rapporto tra i due banchieri, cementato dalla mossa realizzata da Grilli nello scorso gennaio: ha assunto in Jp Morgan la moglie di Costamagna, Alberica Brivio Sforza, assegnandole il ruolo di “senior private banker per la clientela Ultra High Net Worth”. A occhio dev’essere un mestiere molto difficile.
Adesso tocca a De Vincenti trovare una soluzione. Non sarà facile. Il complesso sistema di clausole firmate da Vernizzi rende quasi impossibile risolvere il pasticcio senza pagare sontuose penali al consorzio Sis. Purtroppo il Codice Appalti appena riformato dal governo non contiene l’unica norma che avrebbe salvato il Paese da flagelli del genere: vietare per legge il project financing.