martedì 29 giugno 2010

LE CHIACCHERE E I ......FATTI

Tasse, durante il governo Berlusconi siamo passati dal settimo al quinto posto in Europa
Secondo i dati Istat, durante gli ultimi due anni di governo Berlusconi, la pressione fiscale è aumentata.


La pressione fiscale in Italia è salita negli ultimi due anni. Questi i dati sui conti pubblici nel 2009 diffusi oggi dall’Istat. Nel 2009 il peso del fisco sul prodotto interno lordo è stato del 43,2%, in aumento rispetto al 2008. L’Italia scala la classifica europea per la pressione fiscale: saliamo dall’ottavo al quinto posto, insieme alla Francia. Solo nel 1997 l’Italia aveva raggiunto una pressione fiscale più alta, pari al 43,1% con l’Eurotassa.Nel 2009 la spesa pubblica ha sfiorato gli 800 miliardi di euro tornando ai livelli del 1996. Il totale delle uscite ha raggiunto il 52,5 % in rapporto al Pil. Dal 1997 il rapporto spesa/Pil non superava il 50%.“Scaliamo la classifica europea per il peso delle tasse e insieme abbiamo un debito pubblico che, sfiorando il 116% rispetto al Prodotto interno lordo, resta sempre il più alto della Ue. Questi sono i record del governo Berlusconi così come li fotografa l’Istat”. Lo dice Michele Ventura, vicepresidente vicario dei deputati del PD. In Italia gli effetti della crisi sui conti pubblici, che ci sono anche altrove, si manifestano con più forza perché insieme ai necessari interventi sugli ammortizzatori sociali, non sono state previste iniziative utili a favorire la crescita. “Anche l’impegno appena preso dai grandi del G20 per il dimezzamento dei deficit dal 2013 non porterà risultati se non verranno messe in campo azioni per la ripresa”, continua Ventura. “Questo governo è incapace di fare qualsiasi cosa, sia di tenere i conti in ordine, che di vigilare sulla pressione fiscale. Altro che meno tasse!”

REDDITO SOCIALE

Bene la decisione dell’Ue sul reddito minimo garantito. Anche in Italia reddito sociale per combattere crisi e povertà.




La commissione affari sociali del parlamento europeo ha approvato la relazione dell’eurodeputata comunista portoghese Ilda Figuereido che chiede una misura incisiva delle istituzioni europee di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale da adottare nel corso del 2010, l’anno europeo della lotta alla povertà.
Si tratta del reddito minimo garantito, che, nelle intenzioni della commissione, si dovrebbe articolare diversamente da realtà a realtà raggiungendo almeno il 60% dello stipendio medio di ogni Paese e che sarebbe un efficace provvedimento di contenimento del rischio di povertà che minaccia moltissimi lavoratori europei, a causa della diffusione del lavoro precario e dei bassi salari.
Nella relazione Figuereido si sottolinea, infatti, come in Europa il tasso medio di popolazione che pur avendo un impiego è sottoposta a rischio povertà è dell’8% (nel 2008) nell’Ue-27, con indici più elevati in Romania (17%), Grecia (14%), Polonia e Portogallo (12%), Spagna e Lettonia (11%).
Ma la situazione nel corso degli ultimi due anni si è ulteriormente aggravata a causa del rallentamento della crescita nei Paesi dell’Ue e degli effetti negativi della crisi economica e finanziaria che in Grecia, ad esempio, sono stati socialmente devastanti. E proprio la Grecia, insieme all’Italia, è stata inadempiente rispetto alle indicazioni della risoluzione europea sulla “Garanzie delle risorse” che già nel lontano 1992 sollecitava i Paesi membri ad introdurre il reddito minimo garantito.
Ora ci aspettiamo che il governo italiano si adoperi per reperire risorse – per esempio tagliando le spese militari, gli sprechi, le grandi opere inutili e conducendo una seria lotta all’evasione fiscale – per istituire nel nostro Paese una misura di sostegno al reddito simile a quella chiesta dal parlamento europeo, quella che Rifondazione individua come il reddito sociale, un provvedimento concreto contro la povertà e l’esclusione, in grado inoltre di rilanciare i consumi e il ciclo economico.
In Umbria, Rifondazione comunista si impegna a rilanciare la proposta di istituzione del reddito sociale, anche come stimolo a che il governo Berlusconi batta finalmente un segnale a favore dei ceti sociali più deboli, dopo aver premiato gli evasori, gli speculatori, l’imprenditoria assistita e i detentori delle rendite e dei grandi patrimoni, e trasferisca i fondi alle Regioni che intendono sostenere i redditi dei soggetti sociali in difficoltà e stritolati dalla crisi.




Stefano Vinti, segretario regionale PRC Umbria

sabato 26 giugno 2010

Trasformiamo il disagio in lotta

La proposta di Ferrero (PRC): "Ora una grande manifestazione della sinistra.

''Proponiamo alle forze di sinistra - a partire da Sinistra, Ecologia e Libertà - di costruire insieme una manifestazione nazionale contro le politiche di governo e Confindustria''. Questo l'invito rivolto dal segretario nazionale del Prc, Paolo Ferrero, nel corso della manifestazione sfilata per le vie di Napoli in occasione dello sciopero generale della Cgil.
''La giornata di sciopero generale e le manifestazione odierne sono state un successo; i risultati del referendum di Pomigliano e la lezione di dignità impartita dai lavoratori hanno ricostruito una speranza - osserva Ferrero - Vi sono milioni di persone arrabbiate che affermano la loro disponibilità a lottare fino in fondo contro le politiche del governo e del padronato. Questa rabbia e questa domanda di cambiamento trovano però una difficoltà a esprimersi compiutamente''.
''Per questo chiediamo alla Cgil di proseguire la lotta di oggi con la costruzione di una vera, grande mobilitazione territorio per territorio - propone il segretario del Prc - Parimenti proponiamo alle altre forze di sinistra - a partire da Sinistra, Ecologia e Libertà - di costruire insieme una manifestazione nazionale contro governo e Confindustria. Perché solo un messaggio unitario delle forze di sinistra può dare oggi il segnale necessario per coagulare il disagio sociale in un grande movimento di lotta. Diamolo insieme''.

venerdì 25 giugno 2010

Berlusconi: Re Mida all’incontrario


Se non fosse che ha sette vite come i gatti, il ducetto farebbe quasi pena. Il Re Mida che trasformava in oro qualunque cosa toccasse è diventato un Re Merda.
Ha due ministri pregiudicati e cinque inquisiti o imputati (l’ultimo, Brancher, l’ha aggiunto lui per fare cifra tonda). Il coordinatore dei Servizi segreti De Gennaro l’hanno appena condannato in appello per il G8. I suoi ex capi dei servizi, Pollari e Mori, sono imputati rispettivamente per peculato e favoreggiamento alla mafia. Il suo cappellano don Gelmini va a processo per molestie sessuali. E il suo pappone di fiducia Giampi Tarantini per spaccio di coca. Il suo commissario Agcom, Innocenzi, è sotto inchiesta per i traffici anti-Annozero. Suo fratello Paolo, già pregiudicato, è di nuovo indagato per il nastro Fassino-Consorte. Sulla faccenda dovrà testimoniare obtorto collo il suo on. avv. Ghedini. Il coordinatore del suo partito, Verdini, è indagato un po’ dappertutto con la Cricca, mentre l’ex coordinatore Scajola è ancora lì che cerca chi gli ha pagato la casa.

I fuoriclasse del Partito del Fare se la passano peggio di quelli del Milan. Gianni Letta, già “uomo della Provvidenza”, sbuca da un bel po’ di inchieste imbarazzanti. San Guido Bertolaso, l’uomo che insegnava la protezione civile agli americani e fermava le catastrofi con le nude mani, è indagato per corruzione; appena apre bocca si fanno tutti il segno della croce; e ha ormai l’immagine di uno scroccone che non paga non solo i massaggi e l’affitto, ma nemmeno le bollette. Come quell’altro genio dell’ingegner Lunardi: Berlusconi lo presentò a Porta a Porta come l’homo novus della politica del fare, il fulmine di guerra che avrebbe sbloccato le grandi opere, una gallina dalle uova d’oro. Ora scopriamo che anche lui faceva e riceveva favori dalla Cricca, ma – beninteso – “come persona, non come ministro, perché sono una persona corretta” (infatti è indagato).E Stanca? Ricordate Lucio Stanca? Il Cavaliere tenne il nome segreto per giorni e giorni, annunciò soltanto che aveva trovato un gigante del pensiero, un tecnico da paura, un cervello fuori misura che, con la sola forza del pensiero, avrebbe cablato e informatizzato l’Italia tutta, isole comprese, come ministro dell’Innovazione tecnologica (una delle tre “i”, quella dedicata a Internet, era tutta sua). Quando poi si seppe che era Stanca, e soprattutto se ne vide la faccia lievemente più inespressiva di un termosifone spento, qualcuno timidamente domandò: “E chi cazz’è?”. La risposta fu: “L’ex presidente dell’Ibm, che diamine, mica un pirla qualsiasi!”. Roba forte. Dal 2001 al 2006 passò talmente inosservato che a volte dimenticavano di invitarlo alle riunioni, senza peraltro accorgersi della sua assenza. Nel 2008, tornato al governo, B.erlusconi si scordò sia di lui sia del suo ministero: dispersi. Fu recuperato come ad di Expo 2015, anche se è già deputato, ma ora pare che dovrà sloggiare pure di lì: dopo che Tremonti gli ha tagliato i fondi, commissariato le deleghe e asportato lo stipendio (deve accontentarsi di quello di parlamentare), la presidente Bracco gli ha inviato un’ingiunzione di sfratto per scarso rendimento. Un altro monumento che crolla miseramente, mentre i miracoli evaporano l’uno dopo l’altro. Quello della ricostruzione de L’Aquila, grazie ai pm, a Draquila e al popolo della carriole, è una tragica barzelletta: si sbriciolano anche le casette della leggendaria New Town a prova di bombardamenti, inaugurate in pompa magna sotto lo sguardo lubrico di Vespa.Il miracolo dei rifiuti scomparsi in Campania funziona a tal punto che ora la monnezza rispunta pure a Palermo, altra capitale del buongoverno grazie al sindaco Cammarata (ora è in Sudafrica: a casa c’era troppo tanfo). Persino Minzolini fatica a nasconderla. E la legge bavaglio è talmente sfigurata che non la riconoscono più nemmeno i mafiosi. Ma Berlusconi insiste: “Approviamola comunque”. Come viene viene.

Ormai è un pugile suonato che mena fendenti all’aria. Se non fosse che l’altro pugile ha abbandonato il ring, rischierebbe persino di perdere la partita.


Da il Fatto Quotidiano del 20 giugno

giovedì 24 giugno 2010

Una risata vi seppellira

Domani scioperiamo contro il governo, ma anche per sostenere la lotta di Pomigliano

L’esito del referendum di Pomigliano, con un'affluenza al voto del 95%, ha visto prevalere i “sì” sui “no” che hanno ottenuto il 36%. Il fronte del “sì”, dunque, ha vinto, ma non ha sfondato. Con buona pace di Sacconi e Marchionne, questo è l’unico dato inequivocabile che pesa oggi e nell’immediato futuro. Anche rispetto alla paura della perdita del posto di lavoro, anche rispetto a un vergognoso ricatto, i voti andati al “no” superano la stessa presenza di iscritti nello stabilimento alla Fiom Cgil, l’unico sindacato confederale che si è schierato contro l’accordo, ed indicano così la possibilità che la lotta per arrestare la macelleria sociale in atto continui e si generalizzi in tutto il Paese. È bene ricordare che la consultazione si è svolta in un clima caratterizzato da pesantissime interferenze e pressioni, tre giorni prima dello sciopero generale del 25 contro la manovra di Tremonti per inaugurare da subito il nuovo clima da caserma e per sancire l’asse di ferro tra Confindustria e governo. Ecco, Rifondazione comunista dell’Umbria venerdì 25 giugno sarà presente a Perugia e a Terni a sostegno dello sciopero generale della Cgil non solo contro la manovra del governo che scarica sui soliti noti i costi della crisi, ma anche per sostenere quanti hanno votato “no” all’accordo di Pomigliano. Contro il governo, contro Confindustria, contro l’arroganza e la prepotenza, pensiamo che occorra costruire una risposta collettiva che individui nello sciopero generale soltanto l’inizio delle mobilitazioni.


Luciano Della Vecchia, responsabile Lavoro PRC Umbria

Lavoratori, non servi

Il ricatto della Fiat non ha prodotto il plebiscito. Anzi. Nonostante il clima di intimidazione mafiosa scatenato dall’azienda, dal centro destra e dai sindacati gialli, gli operai di Pomigliano hanno dato a tutti una lezione di dignità. Una vera espressione di autonomia operaia dal padrone, dal governo, dagli organi di informazione e dall’ideologia dominante, secondo cui alla globalizzazione neoliberista non esistono alternative e l’unica soluzione è ingoiare.
Questo risultato è tanto più importante perché mai come in questa vicenda governo, padroni e Banca d’Italia avevano così palesemente parlato come un sol uomo. L’avversario degli operai di Pomigliano non era solo il proprio padrone ma il complesso dei poteri forti di questo Paese. Ai quali si è accodato, con riflesso codino, un Pd allo sbando, che non riesce a schierarsi dalla parte del lavoro neppure quando sono in gioco diritti fondamentali ed elementi costitutivi della democrazia. Mai come in questa vicenda il confine della linea di classe è stato così netto: dopo i fannulloni di Brunetta sono arrivati i fannulloni di Marchionne.
Il tentativo della borghesia non è solo quello di scaricare i costi della crisi sulle spalle dei lavoratori; è quello di cambiare radicalmente le condizioni di lavoro e il quadro normativo e costituzionale della Repubblica. La destra usa la crisi come una “crisi costituente” e l’offensiva della Fiat rappresentava il tentativo di costruire plasticamente non solo uno sfondamento del Contratto nazionale e della Costituzione ma di avere il consenso dei lavoratori su questo sfondamento. Come la marcia dei 40.000 rappresentò la fine del ciclo di lotte degli anni ’70, il plebiscito di Pomigliano doveva diventare la parola fine sulla tutela del lavoro garantita dalla Costituzione repubblicana, ottenuta attraverso il consenso dei lavoratori. Doveva rappresentare un rito sacrificale che sanciva l’emarginazione della Fiom, la sua riduzione a fenomeno politico esterno alla classe, sancito dal voto dei lavoratori. Il plebiscito doveva sancire un passaggio di fase in cui i lavoratori stanno con l’azienda, sono rappresentati dall’azienda. Non è andata così.
Questo risultato non sarebbe stato possibile senza il decisivo impegno della Fiom e il contributo nostro e del sindacalismo di base. Questo risultato parla però di una condizione della classe operaia che a mio parere va oltre Pomigliano. Parla di una situazione in cui i lavoratori anche quando tacciono non consentono. Si tratta di un punto rilevantissimo perché costituisce l’elemento politico da cui partire.
Lo sciopero generale del 25 è un primo appuntamento e le otto ore indette dalla Fiom un importante passo avanti. Ripartiamo di lì per costruire un vero movimento di lotta contro l’uso padronale della crisi. Occorre mettere in discussione la globalizzazione, non i diritti dei lavoratori.



Paolo Ferrero, Segretario nazionale PRC





Pomigliano - I risultati del referendum nel dettaglio

Collegio operai:
votanti 4.231;
voti validi 4.151;
sì 2.494; 58,16%
no 1.657; 39,92%
bianche 23; 0,55%
nulle 57; 1,37%


Collegio impiegati:
votanti 413;
voti validi 410;
sì 394; 95,38%
no 16; 3,90%
bianche 1; 0,24%
nulle 2; 0,48%

mercoledì 23 giugno 2010

25 GIUGNO: SCIOPERO CONTRO LA MANOVRA DEL GOVERNO

Ha ragione la Cgil, in Umbria ci vuole un piano per il lavoro. Sostegno allo sciopero contro la manovra

Rifondazione comunista dell’Umbria condivide l’allarme lanciato dal segretario regionale della Cgil Mario Bravi sulla questione del lavoro nella nostra Regione. Si tratta di un tasto dolente – dal momento che è cresciuta l’area della disoccupazione, della sottoccupazione e della precarietà e non si arresta il ricorso alla cassa integrazione - che necessita un intervento urgente della politica regionale, con un piano regionale del lavoro all’altezza delle criticità della congiuntura economica.
La manovra economica del governo non facilita la ripresa per la nostra regione, anzi ci penalizza con i forti tagli ai trasferimenti, tanto che come sottolinea la Cgil se per ogni italiano il costo della manovra è di 87 euro, per gli umbri sale a 130 euro. L’intervento dell’esecutivo Berlusconi in realtà comprimerà gli spazi per lo sviluppo, rallentando la ripresa e le possibilità per l’occupazione, scaricando i costi della manovra sui lavoratori, i pensionati e i precari. Basti veder quanto graverà la manovra sui dipendenti pubblici e i lavoratori della scuola.
Il problema è che mentre il Governo Berlusconi negava la crisi economica e non faceva nulla, nel 2008-2009 il livello del reddito in Italia diminuiva del 6,3 per cento e la pressione fiscale aumentava per i lavoratori e i pensionati. Inoltre, nel 2009, per la prima volta negli ultimi 60 anni, le famiglie italiane hanno ridotto dell'1,8 per cento la spesa per consumi, e a conferma della diminuita capacità di spesa c’è il poco confortante dato che nell’ultimo decennio ogni cittadino italiano (neonati compresi) ha perso 360 euro l’anno.
La crisi finanziaria ed economica, che è grave e pesante, è stata presa a pretesto per tagliare salari, pensioni, sanità, assistenza sociale, istruzione e ricerca. E per mettere sotto attacco i diritti del lavoratori, frutto di decenni di lotte, sacrificati sull’altare della centralità dell’impresa come elemento di regolazione dell’intero sistema sociale.
Rifondazione comunista, al contrario, crede che al centro della politica e dell’intervento in economia ci debba essere il lavoro e l’occupazione. Per questo occorre ridurre le tasse ai lavoratori, difendere ed estendere i diritti del lavoro, contrastare la precarietà e creare buona occupazione, tassare rendite e grandi patrimoni, colpire con forza l'evasione fiscale, sottoporre a controllo le attività delle banche e del credito. E ovviamente opporsi alla “macelleria sociale della manovra economica del governo Berlusconi. Per questo saremo in piazza venerdì a Perugia e a terni, insieme alla Cgil e ai lavoratori in sciopero, per ridare forza e valore al lavoro.

Stefano Vinti, Segretario regionale Prc-Umbria

Pomigliano: la lotta continua

Nel referendum truffa indetto dalla Fiat e dai sindacati concertativi a Pomigliano non c'è stato il plebiscito auspicato da Marchionne.

È finito alle 4 lo scrutinio del referendum sull'accordo tra i sindacati dei metalmeccanici (ad esclusione della Fiom) e la Fiat per lo stabilimento di Pomigliano d'Arco. I sì sono stati 2.888, i no 1.673, le schede bianche 22 e quelle nulle 59. I sì corrispondono al 62,2% dei voti, il no al 36 per cento. Un verdetto molto al di sotto del 70%, la soglia sotto la quale la Fiat è pronta a rimettere in discussione l'investimento di 700 milioni per produrre la nuova Panda. Un dato che potrebbe cambiare faccia all'economia di una città di 47mila persone e all'intera Campania. Un risultato, quello dei «no», molto al di sopra dei consensi che in teoria sommerebbero la Fiom e lo Slai Cobas, il fronte contrario all'intesa.
Dunque come titolano tutti i giornali on line questa mattina, vince ma non sfonda il si' . I sindacati si dicono soddisfatti del 63% dei consensi circa conquistato dal si' mentre il ministro Sacconi afferma che adesso il paese e' piu' moderno.Ma nella fabbrica campana della Fiat sono tutti consapevoli che a pesare nel prossimo futuro sara' anche il 36% raggiunto dal fronte del no. Ora e' tutto nelle mani della Fiat e qualcuno, come la Fiom, teme che questo risultato possa non bastare al Lingotto e che l'azienda possa giocare sulla percentuale negativa registrata nella consultazione per tirarsi indietro e negare gli investimenti, ovvero i 700 milioni per il progetto nuova Panda a Pomigliano.Poco dopo i primi scrutini, che in verita' sembravano profilare una vittoria del si' con oltre il 76%, il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi aveva esortato la Fiat a riconoscere che ''vi sono tutte le condizioni per realizzare il promesso investimento in un contesto di pace sociale''. C'e' poi l'altro fronte dei sindacati con la Fim e la Uilm in primo luogo, che se da un lato si dicono soddisfatte del successo ottenuto, dall'altro chiedono alla Fiat di ratificare presto l'accordo e, quindi, di tener fede agli impegni. Saranno quindi giorni altrettanto decisivi quelli che seguiranno al referendum di ieri.Il sindacato piu' critico all'accordo, la Fiom, anche stanotte ha ribadito il suo no all'intesa, ma secondo quanto sottolineato dal segretario della federazione napoletana, Massimo Brancato, ''se laFiat apre una trattativa e si predispone ad una mediazione che rispetti la costituzione, le leggi dello stato e il contratto, ci sediamo a un tavolo e siamo disponibili a fare un negoziato''. E a chiedere di riaprire le trattative, quando il risultato gia' sembrava offrire ai contrari all'accordo un risultato per cosi' dire affatto deludente, arriva anche la vice segretaria nazionale della Cgil, Susanna Camusso: ''la partecipazione al voto era prevedibile come la prevalenza del si' - spiega la sindacalista - Chiediamo a Fiat di avviare l'investimento e la produzione della nuova Panda a Pomigliano e di riaprire la trattativa per una trattativa condivisa da tutti''.E se il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, subito dopo l'esito del voto sottolinea che in questo referendum ''ha vinto il lavoro e il buon senso'', il segretario della Uil Campania, Giovanni Sgambati mette in evidenza come ''una percentuale cosi' elevata di partecipazione non si era mai registrata in un referendum sulla flessiblita' nel settore metalmeccanico''. Un buon risultato, avvertono, anche se stasera, all'uscita della fabbrica alcuni lavoratori dello stabilimento, con in mano solo le primissime proiezioni hanno comunque gia' avvertito: ''anche se vince il si' la lotta per i nostri diritti continua''
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La favola fiscale di Berlusconi

Tasse, adesso spunta l'Imu. L'imposta casa torna ai Comuni La misura dovrebbe riguardare l'accorpamento delle imposte legate ai servizi. Pronto il decreto sul federalismo fiscale. Tremonti: "Ma non è l'Ici"

NEL 2001 fu il leggendario "meno tasse per tutti". In questo 2010 siamo passati al celebre "non metteremo le mani nelle tasche degli italiani".
La favola fiscale di Silvio Berlusconi vive di slogan di sicuro effetto mediatico, ma di oscuro impatto politico. Fu così nella seconda legislatura: a dispetto degli annunci, le tasse non calarono affatto. Rischia di essere così anche in questa terza legislatura: non solo aumenta la pressione fiscale, ma presto i comuni potranno reintrodurre anche l'Ici sulla casa.
Al di là delle precisazioni e delle smentite di rito, l'annuncio del ministro dell'Economia non si presta ad equivoci. Giulio Tremonti dichiara che nella bozza del decreto base sul federalismo sarà previsto "il ritorno ai Comuni del potere fiscale, nel loro comparto naturale di competenza: immobiliare e territoriale". La formula sembra un po' criptica, ma non lo è affatto. Dietro alla cortina fumogena delle parole, il ministro sta lanciando due messaggi precisi.
Il primo è un messaggio esplicito agli amministratori locali, soprattutto quelli della Lega, che protestano contro la stangata prevista dalla manovra. Tremonti dà ai sindaci mano libera per coprire i buchi di bilancio causati dal taglio dei trasferimenti con la solita "toppa" delle imposte. Detto altrimenti: quello che il governo centrale vi toglie con una mano, voi ve lo potete riprendere con l'altra.
Il secondo è un messaggio implicito agli italiani, già provati da una crisi recessiva durissima. Tremonti spiega ai contribuenti che, dopo il varo del decreto attuativo del federalismo, i comuni potranno reintrodurre l'imposta comunale sugli immobili. Non la chiameranno più Ici. Inventeranno l'acronimo più originale. Ma la sostanza per i cittadini non cambia: le tasse che non vi saranno prelevate dalla mano del governo centrale ve le sfileranno dal portafoglio le mani dei comuni.
Così, oltre al danno, siamo alla solita beffa. Nel 2006 Prodi eliminò l'Ici sulla prima casa per i redditi più bassi, fino a 50 mila euro. Nel 2008 Berlusconi vinse le elezioni promettendo la completa eliminazione dell'Ici anche per i redditi più alti, superiori ai 50 mila euro. Ora, per rispettare la falsa promessa di "non mettere le mani nelle tasche degli italiani", il governo ci ripensa. Ma, come sempre, lascia che a fare il "lavoro sporco" siano i sindaci, con la scusa dell'attuazione del federalismo (di cui si occuperà l'apposito Brancher). Del resto: perché assumersi una responsabilità, quando si può più utilmente assumere un ministro?

Berlusconi: solo chiacchiere e ...condoni

Manovra/ Al Senato spunta l'ipotesi di un nuovo condono edilizio. Vinti: "E' un'idea vergognosa"

Tra gli emendamenti in discussione al Senato è comparsa l’ipotesi dell’ennesimo ricorso, per fare cassa, a meccanismi premianti per coloro che non rispettano le regole e la legalità.
È vergognosa l’idea di ricorrere ancora una volta al condono fiscale e a quello edilizio. In particolare, l’emendamento proposto da alcuni senatori del Pdl propone di riaprire i termini per aderire al condono edilizio del 2003 e realizzare una maxisanatoria per tutti gli immobili e gli interventi realizzati fino al 31 marzo 2010.
L’apoteosi dell’abusivismo e dell’illegalità si raggiunge col prevedere la possibilità di sanare situazioni di abuso che erano state precedentemente bocciate e con l’allargare il campo del condono alle aree protette.
Il governo Berlusconi, dunque, premia chi aggira la legge e penalizza chi invece programma la riqualificazione urbana, migliora le nostre città e risponde alla grande domanda abitativa dei ceti sociali in difficoltà. L’edilizia residenziale pubblica, infatti, subisce dalla manovra economica tagli talmente estesi da metterne in serio pericolo la progettualità. Il governo farebbe bene a trovare fondi per chi rispetta la legge, soddisfa un bisogno sociale, contribuisce al miglioramento del paesaggio urbano e costruisce secondo i moderni criteri di risparmio energetico e di sicurezza, e quindi a finanziare la realizzazione di case dell’edilizia pubblica, piuttosto che sanare abusi e interventi che troppo spesso si sono rivelati elemento di degrado urbano e fonte di pericolo per l’incolumità dei cittadini e la sicurezza dei territori.


Stefano Vinti, Assessore regionale alle Opere Pubbliche

martedì 22 giugno 2010

I cancelli costituzionali

Chissà se questa notte festeggerà la vittoria, Sergio Marchionne. Chissà se gli basterà il 70, o l'80 o se pretenderà il 90 per cento di sì per dire che la Panda si può fare a Pomigliano. Chissà se è vero che la Fiat vuole costruire automobili in quest'angolo reietto d'Italia, patria di ogni male, o se è solo alla ricerca di un capro espiatorio per dire: non possumus, noi avremmo voluto fare questo regalo al paese che da oltre un secolo ci dà da mangiare, ci sostiene e ci finanzia, ma ci sono quei residui novecenteschi della Fiom che si aggrappano al contratto, alla Costituzione e persino alla Carta di Nizza per mettere i bastoni tra le ruote del progresso. Dunque siamo costretti a far lavorare i polacchi, o i serbi, o chissachì perché tutti, tranne gli operai di Pomigliano, sono pronti a concedere più di quel che chiediamo. Se neanche Bersani, Scalfari e Epifani riescono a far firmare la Fiom in calce al fantastico testo che abbiamo scritto tra Torino e Detroit, vuol dire che non c'è niente da fare.La Fiat ha scritto a tutti gli operai per convocarli al suo referendum. Prima li aveva chiamati con famiglie e fiaccole per far sfilare un popolo umiliato e senza alternative a Pomigliano. Come altri, chi servo chi umiliato, sfilarono trent'anni fa a Torino. A Romiti l'operazione riuscì meglio. I capi annotavano presenti e assenti, ma a Pomigliano erano di più i secondi. Hanno persino convocato in piazza novanta giovani già licenziati con la promessa di un futuro prospero. Hanno consegnato a casa di tutti i dipendenti un cd con la voce e la spiegazione del padrone, tutto per ottenere un plebiscito, sotto ricatto, o come si dice in una terra difficile come la Campania, sotto estorsione: se vuoi lavorare consegnami testa, braccia e diritti e io ti faccio il miracolo. San Gennaro scioglie il sangue, Marchionne scioglie diritti e democrazia.Vuole l'umiliazione dell'«avversario», e con lui la vogliono il governo, la destra, un padronato come sempre pronto a saltare sul carro di chi sfonda la trincea nemica, per garantirsi gli stessi privilegi di Marchionne. Chi, dall'opposizione e dal fronte sindacale, dice che oggi bisogna scolare l'amaro calice ma sarà un'eccezione, o è una ruota di scorta Fiat o è meglio che cambi mestiere: nelle catene della Pomigliano di domani, in un futuro in cui il mercato dell'auto tornerà a implodere ci sarà tanto posto per i politici (disoccupati). Ieri a Pomigliano gli operai della Fiom dicevano che chi difende la Costituzione, ma solo fuori dai cancelli della fabbrica farà una brutta fine (anche meritata). Marchionne pensa di poter vincere comunque. Con un plebiscito, una vittoria del terrore che sostituisce consenso e confronto. Con il licenziamento di tutti i dipendenti e la costituzione di una nuova società postdemocratica in cui assumere solo plebe. O addirittura annunciando che la Fiom ha deciso la chiusura di Pomigliano. Chi non capisce che l'attacco agli operai emette lo stesso fetore dell'attacco ai giudici e ai giornalisti ha già perso.


Loris Campetti, Il Manifesto

L’inglese della Gelmini

Sostiene la ministra Gelmini che la legge già lo prevede e dunque da settembre nelle scuole superiori italiane alcune materie saranno insegnate direttamente in inglese. Sarebbe bello fosse l''inglese, mi dico, ma leggo che lei intende altro. Fisica? Matematica? Ciò avverrà nel corso dell'ultimo anno e non sarà obbligatorio ma scelto dai singoli istituti in base all'autonomia scolastica. Bene. Nelle intenzioni della ministra, tutta intenta a creare correnti politiche a maggior gloria di Silvio, ciò dovrebbe contribuire a risollevarci nella classifica Ocse dove siamo messi maluccio e ad aprire, parole sue, “ancora di più il nostro sistema scolastico allo scenario internazionale”.
Peccato che questa trovata arrivi subito dopo la soppressione di quattromila insegnanti di inglese alle elementari, insegnanti sostituiti da maestre che hanno solo frequentato un corso d'inglese di centocinquanta ore. Mentre si toglie a tutti la possibilità di accedere a un buon insegnamento dell'inglese nella scuola dell'obbligo, ci si fa belli con questa supposta “internazionalizzazione” da conseguire all'ultimo anno di superiori (per chi ci arriva). In pratica tra qualche anno avremo corsi che prevedono ottima conoscenza dell'inglese per studenti a cui l'inglese è stato tolto da piccoli, con buona pace dei linguisti che caldeggiano un apprendimento delle lingue in tenera età. Ma non pretendiamo tanto dalla signora Gelmini. Il suo roboante annuncio va letto forse come un episodio di “brunettismo”, cioè un proclama programmatico a cui tutti sanno non seguirà nulla. Del resto, lo dice anche lei: “Bisogna intraprendere strade nuove anche se si dovessero rivelare sbagliate”. Insomma, l'importante è dire qualcosa, e il fare è un dettaglio che si vedrà, forse, un giorno, chissà, può darsi.

Pd. "Compagni" verboten. Una polemica fuori dal mondo

Mentre Berlusconi e Mrchionne modificano la Costituzione reale del paese, mentre Tremonti prepara una manovra tutta tagli e sacrifici per le masse popolari, il principale partito di opposizione è intento ad un "grande dibattito" politico sul termine "compagno".
Ma può un partito che si definisce democratico bandire la parola compagni? Se siamo arrivati ad uno scontro politico all'interno del Pd per questo futile motivo significa che siamo alla frutta, che non esistono più temi per alimentare un dibattito che colga l'essenza politica della situazione e dei problemi che dobbiamo affrontare, che tanto per indicarne alcuni si chiamano Pomigliano, manovra economica e legge bavaglio.
E non le sue sfaccettature superficiali, anche se quest'ultime rispecchiano un percorso storico degno di rispetto. I giovanissimi del Pd, molti dei quali rampanti e a caccia di poltrone, hanno scritto a Pierluigi Bersani dopo la manifestazione che si è tenuta sabato scorso, ribadendo con estrema criticità che non si riconoscono nella parola "compagni", ma anche nelle feste dell'Unità, forse ormai passate fuori moda. Ma non solo. Minacciano addirittura di andarsene. Incredibile ma vero quanto peso possano avere le parole al di fuori dei concetti che esprimevano in passato. Insomma la parola "compagni" infastidisce, intimorisce e imbarazza. Eppure nessuno è obbligato ad usarla, magari solo a riconoscerla per quello che ha rappresentato nel movimento storico della sinistra, dal quale volente o nolente nasce anche il Partito Democratico. D'altra parte a cosa serve bandire le parole, visto che queste si annullano o si rafforzano oppure se ne creano improvvisamente delle nuove nella stessa misura in cui si evolve la società. Perché sindacare sulle parole invece che sui concetti politici?
Non fu lo stesso Walter Veltroni a dichiarare che "Si poteva stare nel Pci senza essere comunisti". Ci provarono anche all'interno dei Ds a criticare questo modo di chiamarsi tra militanti, ma alla fine vinse il buon senso. Ognuno per sentirsi a casa propria deve essere libero di esprimersi, altrimenti perché chiamarsi Partito Democratico. La parola compagni, termine diffuso durante la rivoluzione francese, oggi significa, amico, collega, o anche alleato. E se un militante lo usa ancora perché vietarlo, perché distruggere una parola che racchiude una storia che ancora oggi esprime un significato. La usano anche i radicali, nella quale molti si riconoscono. E' indubbio che sotto a questa critica c'è ben altro, non è solo l'espressione di un dissenso formale, bensì l'attacco preciso ad una linea che sta spostando il Partito Democratico un po' più a sinistra. Quel che basta per far scatenare la paura di ammettere quanto ci sia ancora bisogno di sinistra.

lunedì 21 giugno 2010

PROPAGANDA FIDE: la "multinazionale" esentasse

Gli stabili di proprietà vaticana a Roma sono in via della Vite, via del Gambero, via Boncompagni, via Bocca di Leone, via del Corso, via Margutta, via del Babuino, via Sistina, piazza Mignanelli (il palazzo di Valentino è suo, l’affitto è di 160mila euro). Poi si snodano nel cuore della vecchia Roma, sino a via dell’Orso, via dei Coronari, via del Governo Vecchio, oltre a palazzi interi in via della Conciliazione, via Cavour, via Quattro Fontane, via dell’Olmata, via XX Settembre, vicolo della Campana, via dei Corridori, vicolo del Leonetto, via Zanardelli, e poi a via Nomentana, all’Esquilino e ai Parioli, per non parlare del Gianicolo.


Oramai è considerata come una multinazionale del mattone, per di più esentasse. Con un patrimonio immobiliare di tutto rilievo: oltre duemila immobili solo nella Capitale e in particolare nelle zone di pregio, valutato oltre nove miliardi di euro. Con abitazioni anche di lusso, ville, palazzi storici. Tutti gestiti dal palazzetto a due passi da Piazza di Spagna dove ha sede la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, meglio nota con l’antico nome di De Propaganda Fide ora guidato dal cardinale Ivan Dias, ma prima di lui dall’intraprendente cardinale Crescenzio Sepe.Oggi questa ricchezza è sotto i riflettori. Si cercano gli inquilini eccellenti degli stabili di proprietà vaticana che da via della Vite a via del Gambero, da via Boncompagni a via Bocca di Leone, da via del Corso a via Margutta, da via del Babuino a via Sistina, da piazza Mignanelli (il palazzo di Valentino è suo, l’affitto è di 160mila euro) si snodano nel cuore della vecchia Roma, sino a via dell’Orso, via dei Coronari, via del Governo Vecchio, oltre a palazzi interi in via della Conciliazione, via Cavour, via Quattro Fontane, via dell’Olmata, via XX Settembre, vicolo della Campana, via dei Corridori, vicolo del Leonetto, via Zanardelli, e poi a via Nomentana, all’Esquilino e ai Parioli, per non parlare del Gianicolo. Sono frutto di lasciti. Donazioni accumulatisi nei secoli per l’attività di missione della Chiesa. Come pure quei terreni che costeggiano la Pontina, verso Pomezia, e poi verso Vicovaro, l’area di Trigoria, Castel Gandolfo. Alcune aree godono dell’extraterritorialità. E’la forza economica della Chiesa messa sotto accusa dallo scandalo degli affari consumatisi all’ombra del G8.Case in certi casi usate per corrompere e fare altri affari. Secondo i magistrati di Perugia con la benedizione del cardinale Sepe. Alla fine si vedrà quali responsabilità emergeranno. E’ un fatto però che anche in Vaticano qualcosa si è mosso: si ritiene indispensabile un’operazione trasparenza, che limiti l’autonomia assoluta di cui ha goduto la Congregazione. Questa larghezza di mezzi e risorse ed anche questa autonomia era giustificata dall’esigenza di fronteggiare le esigenze legate al compito di “promuovere, sostenere e coordinare l’azione missionaria della Chiesa cattolica in tutto il mondo”. Compito dell’Ex Propaganda Fide è quello di assicurare un’adeguata ed equa distribuzione dei missionari nel mondo; curare la formazione del clero secolare e degli operatori pastorali; affidare a Istituti, Società religiose o Chiese particolari, l'evangelizzazione dei territori di missione. A servizio della Missione ad gentes nel 2003 lavoravano circa 85.000 sacerdoti.Al loro fianco ci sono circa 28.000 religiosi non sacerdoti, 45.000 suore e 1.650.000 catechisti. La Congregazione segue inoltre il cammino di formazione spirituale ed accademica del clero, che si svolge nella pontificia Università Urbaniana, in 280 Seminari Maggiori interdiocesani e 110 Seminari Minori, assicurando loro anche un sostegno economico. Compito del dicastero è anche la costruzione di chiese, seminari, case religiose, locali per la formazione religiosa e umana. Che vuole dire la gestione di circa 42.000 scuole, 1.600 ospedali, oltre 6.000 dispensari, 780 lebbrosari. Tutto questo ha un costo. E’ sorretto dalle donazioni per le missioni dei fedeli, dalla gestione del patrimonio della Congregazione. Ma gli “affari” e le “cricche” sono un’altra cosa.

domenica 20 giugno 2010

Il sogno sbagliato degli imprenditori

Dietro l'impossibile alternativa proposta a Pomigliano c'e il disegno di un sindacato ridotto all'irrilevanza. Ma la storia dell'ultimo secolo mostra che l'economia cresce con i diritti dei lavoratori e la diffusione del benessere. Altrimenti si fa magari bene all’impresa nel breve periodo, ma male all’economia nel lungo termine.

“Ho fatto un sogno”. Nessun imprenditore italiano ha ripetuto la frase dello storico discorso di Martin Luther King sulla fine della discriminazione razziale, ma si può star certi che la maggior parte l’ha pensata. Ed è un sogno molto diverso da quello: il sogno di avere mano libera in fabbrica, sull’organizzazione del lavoro come sulle retribuzioni, senza avere il problema di subire scioperi come reazione. Il sogno di ottenere tutto questo non più con l’aiuto della polizia o dell’esercito, come si faceva nell’800, ma con la firma delle organizzazioni dei lavoratori. Formalmente non con una imposizione, dunque, ma offrendo una possibilità di scelta.
Certo, nel caso di Pomigliano l’alternativa è un po’ asimmetrica: o si accettano le condizioni poste dall’azienda o la fabbrica chiude. Chiedersi se si proponga veramente una scelta sarebbe una domanda retorica. Ed è altamente probabile che anche il referendum tra i lavoratori, se si farà, scelga di mangiare quella minestra piuttosto che buttarsi dalla finestra.
Quella minestra, però, contiene ingredienti indigeribili. Non si tratta della fine della concezione del sindacato come “antagonista”, come chiosa il candido segretario della Uil Luigi Angeletti. Tra quegli ingredienti c’è di fatto l’addio al contratto nazionale (già derogabile in base all’accordo sulle nuove relazioni sindacali, che la Cgil non ha firmato) e una rinuncia al diritto di sciopero, che la Costituzione garantisce addirittura come diritto individuale. C’è, in altre parole, tutto ciò che serve a far diventare irrilevante il sindacato, a guidarlo verso un sicuro declino, ancora una volta sul modello degli Stati Uniti, dove ormai meno del 10% dei lavoratori è iscritto a un sindacato.
Sono in molti a ritenere che questo non sia un problema, ma un obiettivo desiderabile. Ma a dire che sbagliano non è qualche sorpassata ideologia, ma la stessa storia dello sviluppo. Se si allunga lo sguardo a tutta la prospettiva dello sviluppo economico non si può non ammettere che è cresciuto di pari passo con il miglioramento delle condizioni dei lavoratori. E piuttosto che avanzare il dilemma dell’uovo e della gallina bisognerebbe chiedersi se l’allargamento del benessere sociale non sia un qualcosa che è appunto necessario al buon funzionamento dell’economia, se un maggiore equilibrio nella distribuzione del reddito non sia una condizione che permette una crescita equilibrata, magari con meno accelerazioni, ma anche senza crisi drammatiche come quella degli anni ’30 e come quella tuttora in atto.
Fino agli anni ’70 del secolo scorso il “mega-trend” è stato di una maggiore diffusione del benessere, dagli anni ’80 è invece iniziata una tendenza alla polarizzazione che con la globalizzazione si è accentuata, perché non è la prima volta, e non sarà l’ultima, che viene posta l’alternativa su cui si deve decidere a Pomigliano. Ma dagli anni ’80 le crisi – non solo finanziarie – si sono succedute a ritmo sempre più accelerato, fino a questa che ha coinvolto tutto il mondo. Per ognuna di queste crisi, presa singolarmente, si possono trovare spiegazioni specifiche, ma, se appunto si allunga lo sguardo, non è insensato chiedersi se non ci sia alla base uno stesso problema di fondo.
Secondo la “teoria del caos” un qualsiasi avvenimento, per quanto apparentemente insignificante, può provocare una serie di reazioni concatenate che possono sfociare in eventi di livello planetario. Non c’è bisogno che per il caso Pomigliano si paventi qualcosa del genere. Ma di certo può essere un altro passo che magari fa bene all’impresa nel breve periodo, ma male all’economia nel lungo termine.


Carlo Clericetti, La Repubblica

DE GENNARO HA LA FIDUCIA DEI SUOI MANDANTI

Come già è accaduto ai suoi colleghi e correi, anche Gianni de Gennaro, condannato dalla Corte d'Appello per istigazione dei suoi sottoposti a commettere falsa testimonianza, ha ricevuto piena solidarietà dai suoi mandanti. Tutto si tiene, decine di agenti e i vertici della polizia sono stati condannati in secondo grado per i gravi fatti in occasione del G8 di Genova, quando una fallimentare gestione dell'ordine pubblico fu coronata da rappresaglie e torture su centinaia di manifestanti presi a caso e i loro mandanti oggi giurano che si tratti di un errore e che chi, in tutta evidenza, ha - promosso, organizzato e diretto- una mattanza illegale e vergognosa, sia vittima dei giudici cattivi.
Una pagina orrenda della storia della nostra repubblica, che negli altri paesi europei è stata letta come uno scandalo, ma che da noi non ha sollevato grandi preoccupazioni nella politica, complice di quegli stessi vertici impegnati nel massacro.
Non stupisce la solidarietà del PD ai condannati, visto che era stato proprio il governo del centrosinistra a "coprire" i vertici della polizia in occasione di un'operazione simile in quel di Napoli. Se i condannati sono colpevoli, chi li comandava e poi li ha difesi è politicamente molto più colpevole di loro e li dovrebbe seguire nella disgrazia, i loro destini sono strettamente legati e in molti altri paesi sarebbero tutti lontani da ruoli pubblici da tempo.
Certo, De Gennaro ha avuto quello scatto di dignità mancato all'attuale capo della polizia Manganelli e ai suoi coimputati e ha presentato le sue dimissioni, ma lo ha fatto fidando su quella precedente fiducia e quindi il suo gesto lascia il tempo che trova.
Tutti innocenti anche se le Corti d'Appello hanno riconosciuto la loro colpevolezza nel merito, tutti in attesa che gli avvocati trovino qualche cavillo procedurale per indurre la Cassazione a ripetere i processi, nessuna assunzione di responsabilità da parte della politica, il solito gioco delle oligarchie che si sostengono a vicenda quando il tempo volge al brutto e loro malefatte vengono messe nere su bianco dalla giustizia. Capaci di snobbare le pesanti condanne e le ancora più pesanti motivazioni che le hanno accompagnate e d'insultare e ridere in faccia alle loro vittime. Capaci d'ignorare una verità accertata giudizialmente che ormai nessuna sentenza potrà cambiare e che passerà alla storia insieme alla vergogna loro e nostra.

Sergio O'Guappo

Pomigliano d’Arco. La proposta delle più note famiglie camorristiche di un ridisegno delle condizioni di lavoro di picciotti, affiliati, collaboratori, compari, fiancheggiatori e indotto, segnano una nuova fase nella dialettica tra maestranze e datori di lavoro.
La bozza di accordo prevede turni continui – straordinari, notti, sabati e domeniche – per tutti gli affiliati, revoca del diritto di sciopero e dell’indennità di malattia. Se un picciotto si rifiuterà di bruciare un negozio o di sparare a un rivale anche fuori dall’orario stabilito, sarà immediatamente eliminato. Se gli affiliati delle famiglie non accetteranno queste condizioni, la camorra si vedrà costretta ad andare a chiedere il pizzo in Polonia. In questo caso, la ricaduta sul territorio sarà spaventosa: migliaia di uomini saranno costretti, per mancanza di alternative, ad andare a lavorare alla Fiat.
Cisl e Uil hanno già firmato. Veltroni consiglia di firmare. Marcegaglia dice che è pazzesco non firmare. Colaninno Junior caldeggia la firma. Gino o’Zoppo detto Malacarne sostiene che è meglio firmare, scemi, cornuti, è per il vostro bene. Anche Carmine Sparaspara, detto Ditamozze è intervenuto nel dibattito sostenendo serenamente nel corso di una tavola rotonda che chi non firma sarà sciolto nell’acido.
In poche settimane l’opinione pubblica, indirizzata dai grandi giornali, dalle televisioni, dai commentatori di tendenza liberale, dalla sinistra istituzionale e da alcuni strani episodi di autocombustione di case e negozi, si è fatta l’idea che bisogna firmare l’accordo. “Parlare di ricatto è semplicemente offensivo – ha detto in un comunicato Gaspare Chittemmuorto, detto o’ Scannatore -. Ma quale ricatto e ricatto, semplicemente ci spariamo int’a capa!”.
In questo clima di concordia e serenità, i guaglioni andranno a votare sì al referendum indetto per ratificare l’accordo: basterà qualche goccia di sangue sulla scheda.

Alessandro Robecchi, Il Manifesto 20.06.2010

Ferrero: «Marchionne fa ricatti in stile mafioso»

«Marchionne mente sapendo di mentire, perché in realtà lui vuole obbligare i lavoratori italiani a lavorare come quelli cinesi, allo stesso costo e alla stessa produttivita'. E per questo fa i ricatti di stile mafioso come ha fatto a Pomigliano». Così il segretario nazionale del Prc, Paolo Ferrero, ha commentato le parole dell'amministratore delegato della Fiat che ha attribuito alla conflittualita' sindacale il potere di ''ammazzare l'industria'' manifatturiera in Italia. «L'alternativa - ha aggiunto Ferrero, che ha partecipato a Bologna a un convegno sulla manovra economica organizzato dalla Rete dei Comunisti - non e' tra chiudere le fabbriche o lavorare come bestie come vuole Marchionne. Ma che le aziende facciano un po' meno profitti e che si facciano delle politiche economiche che non favoriscano la speculazione finanziaria ma il mondo del lavoro. Questa e' la vera alternativa che Marchionne, come tutti i padroni, non vuole vedere. E lui usa il ricatto della delocalizzazione per obbligare la gente a lavorare in modi peggiori anche rispetto agli anni '50». «Il Pd è un non partito, ha dentro 500 cose diverse ma, al di la' di questo, continua a pensare che le politiche neoliberiste siano quelle giuste: ha lo stesso impianto di politica economica di Marchionne e di Tremonti», ha poi aggiunto parlando del partito guidato da Bersani. «Questo è il problema del Pd, che e' incapace di vedere che questa politica economica e' quella che produce la crisi. Se si peggiorano le condizioni dei lavoratori italiani non si esce prima dalla crisi ma questa si aggrava, perche' vuol dire ridurre la domanda nel paese». «La lettera degli operai polacchi svela il gioco di Marchionne che, per fare i suoi interessi, mette i lavoratori gli uni contro gli altri e produce una guerra tra poveri» ha detto riferendosi alla lettera di un gruppo di operai polacchi della fabbrica Fiat di Tychy inviata ai colleghi di Pomigliano e pubblicata in prima pagina da Liberazione. '«Gli operai polacchi - spiega - dicono invece che dobbiamo allearci. Perche' la soluzione al dilemma che pone la Fiat (o schiavizzati o licenziati) ha una terza possibilita' ed e' costruire una Europa sociale in cui ci siano anche la riduzione dell'orario di lavoro, un salario europeo e in cui possano lavorare civilmente gli operai polacchi come quelli italiani».



Paolo Ferrero, Segretario nazionale PRC

La relazione tra l'articolo 41 e Pomigliano

Ma che cavolo ha l'articolo 41 della Costituzione che non va? Insomma, è rimasto lì per 60 anni, non lo toccavano nemmeno ai tempi di Scelba, quando la polizia sparava sugli operai in sciopero, e ora, all'improvviso, è diventato un insopportabile ostacolo alla libertà d'impresa, un freno alla libera concorrenza e un rimasuglio di quel socialismo reale che in Italia non c'è mai stato


L'articolo 41 va riscritto. L'hanno detto Berlusconi e Tremonti e l'ha confermato un "tecnico" d'eccellenza, come il presidente dell'antitrust. I capi di Confindustria, da papà e mamma fino ai figli, si sono messi a sbraitare come ossessi: ci vuole la "deforestazione normativa".E allora, siccome la memoria potrebbe anche ingannarmi, sono andato a rileggermi l'articolo dello scandalo. Chissà, magari mi era sfuggito qualcosa in tutti questi anni.Inizio a leggere. Il primo capoverso recita così: "L'iniziativa economica privata è libera." Non mi pare roba da Carlo Marx, anzi, potrebbe averlo scritto Adam Smith in persona.Passo quindi al secondo capoverso: "Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana." E questo mi pare persino ovvio. Mica può essere considerato lecito ridurre un cittadino in schiavitù o mutilarlo pur di ricavarne un guadagno. Insomma, ci vuole pure un confine tra l'imprenditoria e il crimine organizzato.E poi, a pensarci bene, cose del genere si sentono dire e ridire anche da banchieri, imprenditori e manager, almeno nei convegni e nei seminari dedicati alla responsabilità sociale dell'impresa, o Corporate Social Responsibility, se preferite.Mi leggo allora il terzo e ultimo capoverso: "La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali." Nulla di strano neanche qui, mi pare. In fondo dice soltanto che le cose affermate al punto secondo non sono semplici auspici, bensì prescrizioni obbligatorie da tradurre in pratica con apposite leggi. Certo, questo rappresenta sicuramente una differenza con la storia della responsabilità sociale dell'impresa, che è un atto soggettivo e volontario, ma dall'altra parte è anche vero che lo stato di diritto è cosa diversa da un convegno di Bill Gates.
A questo punto, però, continuo a non capire dove stanno tutti questi impedimenti alla libertà d'impresa che frenano la ripresa economica. E così, per cercare di capire meglio, mi armo delle sagge parole del mio prof di Istituzioni di Diritto Pubblico di tanti anni fa -"quando c'è contrasto tra realtà materiale e realtà normativa, allora la prima tende a prevalere sulla seconda"- e volgo lo sguardo verso Sud, a Pomigliano d'Arco per la precisione.Lì c'è uno stabilimento Fiat, ex-Alfa, con oltre 5.000 dipendenti, ai quali andrebbero aggiunti quelli generati dall'indotto. A dire la verità, in quella fabbrica c'è stato ultimamente un tasso di assenteismo un po' altino, visto che i lavoratori hanno passato più tempo in cassa integrazione che al lavoro.Comunque sia, gli operai di Pomigliano sono fortunati, perché la Fiat gli offre l'opportunità di non fare la fine dei loro colleghi siciliani dello stabilimento di Termini Imerese, destinato alla chiusura per fine 2011. No, per loro c'è sul tavolo l'offerta di 700 milioni di euro di investimenti e la produzione della nuova Panda a partire dal 2012.Come si fa a non esultare, a non ringraziare la Fiat per la sua generosità? Invece di spostare anche la produzione della nuova Panda all'estero, dove ormai viene prodotta la grande maggioranza delle automobili Fiat, alla faccia del tanto decantato Made in Italy e, soprattutto, del mare di miliardi girati dalle tasche del contribuente italiano a quelle della multinazionale, il signor Marchionne ha deciso di fare un patriottico sacrificio.Tuttavia, c'è una condizione. I sacrifici devono farli anche gli operai. Insomma, c'è la crisi e la competizione internazionale e quindi bisogna rinunciare a qualche piccolo privilegio italiano, per avvicinarsi maggiormente alle situazioni di avanguardia in termini di condizioni di lavoro, tipo la Polonia. Quindi, riduzione delle pause da 40 a 30 minuti giornalieri, aumento degli straordinari comandati da 40 a 120 ore a testa per anno, da fare anche durante la pausa mensa - peraltro spostata a fine turno-, deroga all'obbligo di riposo di almeno 11 ore tra un turno e l'altro, possibilità per l'azienda di non pagare la malattia al singolo lavoratore se l'assenteismo medio in fabbrica supera una certa soglia eccetera eccetera.
Ovviamente, questo accordo deve essere roba seria e, quindi, entrerà a far parte del contratto di lavoro individuale di ogni lavoratore. In altre parole, se a un operaio dovesse saltare in mente di partecipare a uno sciopero degli straordinari, per esempio, questo rappresenterebbe una violazione del contratto di lavoro, punibile con le sanzioni disciplinari, fino al licenziamento.Gli estremisti-ideologici-irresponsabili-conservatori della Fiom hanno presentato delle proposte alternative, in grado di garantire l'obiettivo produttivo della Fiat di 280mila vetture all'anno, ma senza violare le regole del contratto nazionale, le leggi e il diritto di sciopero, peraltro costituzionalmente tutelato e pertanto indisponibile.
Ma Marchionne ha detto niet e ha ribadito: mangiare la minestra o saltare la finestra, accettare il diktat o finire disoccupati, portare la Polonia a Pomigliano oppure portare il lavoro in Polonia. I sindacalisti responsabili di Fim, Uilm e Fismic hanno responsabilmente detto di sì, ma questo a Marchionne non basta. Ci vuole anche il plauso degli operai e quindi va fatto il referendum, cioè quella cosa che venne negata ai lavoratori ai tempi del contratto separato dei metalmeccanici. Comunque, la Fiat ci tiene alla democrazia e quindi i suoi rappresentanti hanno già iniziato a contattare i singoli dipendenti, per informarsi se hanno intenzione di andare democraticamente al voto, per esprimere liberamente il loro sì alla generosità della Fiat.
Insomma, Marchionne non chiede un accordo sindacale che garantisca gli obiettivi produttivi, ma chiede molto di più. Chiede agli operai di nobilitare un volgare ricatto, di chinare la testa, di arrendersi. Non lo fa per cattiveria o ottusità, beninteso, perché Marchionne non è né un pazzo, né un estremista, ma lo fa perché la vicenda di Pomigliano è una vicenda che va oltre Pomigliano.Dall'altra parte, che la produzione della Panda venga avviata effettivamente nel 2012 e nella dimensione annunciata è ancora tutto da vedere. A differenza degli impegni chiesti ai lavoratori, infatti, quelli assunti dalla Fiat sono corredati da diversi se e ma.No, il punto è un altro. Pomigliano deve fare scuola, deve sfondare gli argini. Dopo Pomigliano arriveranno gli altri stabilimenti Fiat e non Fiat. E deroga dopo deroga toccherà all'istituto del contratto nazionale e alla legislazione, Statuto dei Lavoratori compreso.Vi ricordate della Thatcher e della sua guerra contro i minatori? Ebbene, è la stessa cosa. Non si aggredisce più l'anello debole della catena, ma si tenta lo sfondamento centrale. Insomma, si cerca di spezzare le reni ai metalmeccanici e alle loro organizzazioni ancora indipendenti, per avere campo libero dappertutto.
Si combatte a Pomigliano, ma la posta in gioca è nazionale e generale. Ecco perché in partita entra anche l'articolo 41 della Costituzione. Non perché impedisca la semplificazione burocratica o la velocizzazione delle pratiche per aprire una nuova impresa -ma quando mai!-, ma perché è necessario riscrivere il codice genetico della nazione, stabilendo anche simbolicamente che la libertà d'impresa, cioè la libertà dell'imprenditore, è un valore assoluto, mentre la libertà del lavoratore e della lavoratrice è soltanto una sua variabile dipendente.E, last but not least, ecco perché oggi è giusto e necessario stare apertamente dalla parte di quelli come la Fiom. Perché i silenzi, le ambiguità e i balbettii equivalgono alla complicità.

Il grande Embè

Della motivazione con cui il tribunale di Firenze ha negato la libertà provvisoria a due comandanti delle ferocissime Truppe d’Appalto (Balducci & De Santis) mi ha colpito l’ultima riga: «Gli indagati mostrano una evidente carenza di percezione della antigiuridicità del proprio comportamento». Insomma, dopo mesi di cella, i signori della Cricca continuano a non capire cos’hanno fatto di male. Anche il caso Scajola e le recenti dichiarazioni dell’ex ministro Lunardi rivelano uno stile di vita allucinante percepito come assolutamente normale. La famosa filosofia dell’Embè. Ho ristrutturato casa a un amico, embè? L’amico ha dato un lavoro a mio figlio, embè? Mio figlio ha messo su una società con la moglie dell’amico, embè? Un embè tira l’altro e alla fine tutti confluiscono nel Grande Embè che rischia di sommergerci. Perché Balducci e De Santis non sono schegge impazzite, ma espressioni estreme di un atteggiamento diffuso: il primato delle relazioni sulle capacità, delle conoscenze sulla conoscenza. Chi entra in contatto con un ente pubblico non si chiede neanche più quali siano le procedure. La sua unica preoccupazione è: conosco qualcuno lì dentro? Il morbo ha invaso persino i recinti sacri della giustizia, dove l’avvocato più ricercato non è quello che conosce la legge, ma quello che conosce il giudice. «L’Italia è tutta un frou frou di do ut des» scriveva lo scrittore Enzo Siciliano, assiduo frequentatore delle terrazze romane, altamente specializzate in materia. Non immaginava di avere coniato l’epigrafe delle mille cricche d’Italia.

Massimo Gramellini, La Stampa

Saramago, l'uomo che chiamava le ingiustizie per nome.

Il Nobel portoghese appena scomparso considerava Berlusconi un pericolo per la democrazia e la Chiesa di Ratzinger una nuova nube di oscurantismo.

José Saramago era il più grande scrittore vivente. Uno di quei rarissimi scrittori che quando incontri un suo libro – per te il primo – poi li leggi tutti, uno dopo l’altro, perché entri in un intero mondo che senza di lui non sarebbe mai esistito. Per questo era un classico già in vita. Prima di Saramago, mi era capitato solo con un altro scrittore, Bohumil Hrabal, e quando seppi della sua morte fu come fosse morta una persona che conoscevo, una persona cara. José Saramago ho invece avuto la fortuna di conoscerlo davvero, anche se troppo tardi, di vivere – mia moglie Anna ed io – con lui e con la sua Pilar una nuova amicizia, cosa che quando si va avanti con gli anni diventa cosa rarissima. L’amicizia di un uomo straordinario per semplicità e profondità, che continuava ad avere una carica di passione civile anche nel declinare brutale delle forze.Lo avevo incontrato l’ultima volta qualche mese fa a Roma – quando era venuto a presentare il suo libro “Quaderno”, rifiutato da una casa editrice Einaudi ormai prona per non scontentare il ducetto, che nel libro veniva trattato come meritava, e pubblicato da Bollati Boringhieri – e nei pochi anni passati dal precedente incontro mi era sembrato cambiato moltissimo, dal punto di vista fisico, della sofferenza fisica, della stanchezza. Ma era assolutamente lo stesso per la generosità che lo animava, la voglia di continuare a combattere su ogni fronte che gli si offrisse.Questo era il suo amore per la vita, che in lui faceva tutt’uno con tutte le altre gioie della vita, e con il suo amore per Pilar che traspariva in ogni gesto. Saramago poteva “vivere di rendita” anche civilmente, anche politicamente, essere un “monumento vivente”, che piace a tutti perché dice “grandi” cose (e magari giuste) sulla pace, sulla eguaglianza, sull’ecologia...Essere insomma politicamente innocuo e superfluo, come tanti personaggi famosi sulla scena mondiale, che non sono mai scomodi per i potenti con nome e cognome. Saramago invece era l’opposto, sapeva che ogni ingiustizia ha un nome, di persona o di istituzione, perché i peccati, da che mondo è mondo, sono sempre gli stessi, e non ha senso denunciarli se non si denuncia anche il peccatore.Considerava Berlusconi un pericolo per la democrazia in Europa, un virus contro le libertà, capace di contagiare altri Paesi, per questo non si stancava di denunciarlo e di stigmatizzare la superficialità e la disattenzione con cui il suo regime sempre meno distante dal fascismo veniva trattato dai media europei. Quasi si trattasse di una pochade, anziché di una tragedia.E considerava la Chiesa gerarchica di Ratzinger una nuova nube di oscurantismo. Proprio su questo giornale, aveva scritto che forse era venuto il momento di un “ateismo militante”, a cui come ateo “tranquillo” (l’ateismo come condizione ovvia di ogni spirito critico) non aveva in precedenza mai pensato. Lui, ateo, dalla parte degli ultimi, sempre, e perciò sempre più contro una Chiesa dedita a Mammona e a reprimere le libertà umane dalla nascita alla morte. José mi mancherà moltissimo.


Da il Fatto Quotidiano del 19 giugno

venerdì 18 giugno 2010

Pomigliano, verrà il tempo del riscatto

In prossimità del 22 giugno - quando gli operai della Fiat di Pomigliano saranno chiamati a sottoscrivere il proprio solenne atto di sottomissione e di rinuncia a tutto ciò che distingue un lavoratore da una bestia da soma e, per sovraprezzo, a ringraziare l’azienda che in cambio di lavoro servile continuerà a elargire loro un pezzo di pane - abbiamo ascoltato due pronunciamenti che meritano qualche considerazione.
Il primo è di Walter Veltroni il quale ieri, ha spiegato, in una lunga intervista al Corriere della Sera, che la Fiat non ha compiuto alcun ricatto. L’ultimatum che essa ha rivolto ai suoi dipendenti e alle loro organizzazioni sindacali non sarebbe infatti che «il frutto di una condizione obiettiva, figlia della globalizzazione diseguale». Come dire: se la competitività planetaria fra imprese (elevata a universale criterio regolatore delle relazioni civili) colloca salario e diritti al livello più basso imposto dal mercato, non resta che inchinarvisi. Ma in Veltroni vi è qualcosa di più e di altro che una mesta rassegnazione. C’è l’intima convinzione che quella soluzione vada proprio bene, che la filosofia del Lingotto parli il linguaggio della modernità e che ciò di cui sono privi la sinistra-sinistra e il pezzo di sindacato che rimane pervicacemente classista, è lo «spirito di innovazione». Inutile scavare dentro questa formula così oscura. Non vi si troverebbe niente, se non la convinzione che la borghesia industriale, illuminata e lungimirante, incarna la quintessenza del progresso, mentre gli operai, attardati nelle fumisterie ideologiche del tempo che fu, dovrebbero abbandonare la pretesa di esprimere un punto di vista collettivo, una soggettività sindacale e politica, perchè figli di quella pratica del conflitto sociale che già Berlusconi aveva rottamato nel discorso ai padroncini della Confartigianato. Come si vede, un pensiero squisitamente moderno che torna a trattare il proletariato, <+Cors>mutatis mutandis<+Tondo>, come plebe succube e questuante. Poi, Veltroni, forse sfiorato dal dubbio che l’annichilimento del contratto nazionale e la confisca del diritto di sciopero non rappresentino esattamente un fatto di civiltà, si affretta a raccomandarci di non considerare la soluzione di Pomigliano «un modello», destinato a diffondersi e a cambiare in radice i rapporti sociali in Italia. Per l’uomo di tutte le abiure, siamo soltanto di fronte ad una “contingente necessità”...
Il secondo pronunciamento, una breve dichiarazione, per la verità, è di Guglielmo Epifani, che ha sentito il bisogno di preconizzare la vittoria del “sì” nell’imminente referendum.
Vale a dire la “previsione” che il ricatto sui lavoratori avrà un’efficacia dirompente e che il baratto nefasto, lavoro contro diritti, un’elemosina contro la rinuncia alla libertà, avranno libero corso.
Ora, ci sono scommesse che la drammaticità della situazione consiglierebbe di evitare, soprattutto al segretario della Cgil, soprattutto mentre Marchionne percuote sulla bilancia la sua “spada di Brenno” e lavora per ricacciare fuori dai cancelli della fabbrica quella Costituzione che imponenti stagioni di lotta e lo Statuto dei lavoratori avevano fatto entrare.
Per fortuna c’è, in questo catastrofico scenario, un’altra notizia che parla, questa sì, di modernità, di futuro. E soprattutto di dignità. A Melfi, l’altro grande complesso Fiat del Sud, nella rielezione delle Rsu, la Fiom è divenuta il primo sindacato, da terzo che era. Potrà anche essere che a Pomigliano i lavoratori, stretti nella tenaglia, finiscano momentaneamente per soccombere. Ma ognuno di loro conosce bene, in cuor proprio, chi li potrà difendere e aiutare a guadagnarsi il riscatto, quando sarà il momento. E quel tempo, potete esserne certi, prima o poi verrà.




Dino Greco, direttore di Liberazione

Il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua scrive agli 8mila sindaci italiani

Mentre centinaia di migliaia di italiani stanno firmando per i 3 referendum per la ripubblicizzazione dell’acqua, il ministro per le Politiche Comunitarie, Andrea Ronchi dà il via a una “operazione verità” intitolata “Acqua le ragioni dell’intervento”: una sorta di decalogo di "veri” e “falso” sulla cosiddetta “riforma dei servizi pubblici locali” che il Ministro si pregia di aver avviato e che sarebbe mistificata da noi referendari, dai movimenti dell’acqua bene comune e da tutti i difensori del servizio pubblico.
In realtà non c’è nessuna riforma, ma un articolo di legge all’interno di un decreto “salva infrazioni europee” (Decreto Legge 135/09) che tra lampadine a basso consumo, difesa del Made in Italy e rinnovo delle convenzioni con Tirrenia ha pensato bene di obbligare l’apertura ai privati dei servizi pubblici locali. Una privatizzazione.
Il ministro sostiene che l’acqua rimarrà pubblica, che le tariffe non aumenteranno, che ci saranno più investimenti, più concorrenza, più efficienza e che tutto questo lo vuole l’Europa. Il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua risponde alle “verità ministeriali” confutandole punto per punto e mette in guardia tutti i Comuni italiani dal farsi scippare per decreto competenze e servizi in cambio di promesse di investimenti ed efficienza che non si sono mai visti (chiedere ad Arezzo, Latina, Agrigento per referenze…).Piuttosto a chi ha già seguito la strada di Ronchi, vecchia di vent’anni e fallita un po’ ovunque, son rimasti dei bei debiti da coprire e le proteste dei cittadini che si ritrovano un servizio più caro e qualitativamente peggiore (o al massimo identico).Il Forum invita tutti i Comuni a non farsi abbindolare da questa ennesima deregulation a spese dei cittadini e li invita a raggiungere le centinaia di sindaci che sono già uniti nel “Coordinamento nazionale enti locali per l’acqua pubblica”.
E chiede al ministero la pubblicazione del proprio documento con pari dignità sul sito internet
http://www.politichecomunitarie.it. Se operazione verità deve essere il punto di vista di chi propone l’abrogazione della “norma Ronchi” con un referendum crediamo sia imprescindibile.
Potete leggere il documento “Ministro Ronchi, l’accusatio è manifesta” su
www.acquabenecomune.org.
Disponibili a qualsiasi chiarimento e confronto.

Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua

giovedì 17 giugno 2010

Così si abroga l’articolo 1 della Costituzione

Pare il sogno di Silvio Berlusconi. Un referendum che in una volta sola cancelli tutte quelle parti della Costituzione, tutti quei pesi e contrappesi nelle istituzioni, che danno fastidio alla libertà dell’impresa e soprattutto a quella di alcuni imprenditori. Un referendum ove sia possibile solo il sì perché il no comporterebbe la minaccia di mettere in crisi tutto il bilancio dello Stato. Per ora in Italia questo incubo non è realizzabile. Nonostante tutto alcune regole e garanzie di fondo lo impediscono. Senza particolare scandalo, però è su questo che si vuole far votare i lavoratori di Pomigliano. Oramai è chiaro a tutti, anche a chi continua a far finta di non aver capito. Nello stabilimento Fiat campano non si discute più di produttività o di flessibilità. L’azienda vuole imporre un altro contratto nazionale, un’altra legge dello Stato, un’altra Costituzione. Nel nome del più antico dei ricatti: o rinunci ai tuoi diritti o non lavori.Che una cosa di questo genere piaccia a chi pensa che la Costituzione repubblicana è un inutile orpello, è comprensibile. E’ comprensibile anche che con essa siano d’accordo quei sindacati complici, quella Confindustria che con la legge sull’arbitrato vogliono imporre ai lavoratori di rinunciare al diritto di andare dal giudice sin dal momento dell’assunzione. Così come ai lavoratori di Pomigliano si dice che rientreranno al lavoro solo se si spoglieranno di tutti i loro diritti. Tutto questo è comprensibile in chi ha fatto del potere dell’impresa il totem assoluto a cui sacrificare tutto.Invece che il Partito democratico, la stampa che lotta contro i bavagli, l’opinione pubblica scandalizzata giustamente dall’attacco all’autonomia della Magistratura, che da questa parte non ci si accorga che a Pomigliano si sta aprendo un buco nero che può inghiottire parti rilevanti della nostra democrazia, tutto questo è francamente incomprensibile. Siamo davvero già così oltre i nostri principi fondamentali? Si è già davvero totalmente restaurata l’ideologia ottocentesca secondo cui le libertà si fermano alle soglie dell’economia? Questo è proprio ciò che la nostra Costituzione nega alla radice: che si possa avere una democrazia dei cittadini che non sia anche una democrazia dei lavoratori e nell’economia.La Fiom ha detto no. E’ un atto di coscienza e coraggio che dovrebbe far felici tutti coloro che pensano che bisogna difendere la nostra democrazia dal degrado berlusconiano e tremontiano. E invece si vedono balbettamenti, parole in libertà, appelli alle parti sociali. Quale vergognosa fiera dell’ipocrisia. E’ chiaro o no che la Fiat considera le leggi italiane una fastidiosa variabile nei suoi bilanci di multinazionale? E’ chiaro o no che se a Pomigliano passa la deroga a tutto, nel giro di sei mesi tutto il sistema industriale italiano farà la stessa cosa? E’ proprio di questo, del resto, che parlano i commentatori quando dicono che la Fiom si oppone a nuove regole. Siamo in una drammatica crisi mondiale, che nasce dalla speculazione selvaggia e da vent’anni di liberismo senza regole. Eppure improvvisamente pare che tutte le analisi sulla crisi, tutti i proponimenti di superare il mercato selvaggio, di dire basta alla speculazione e sì a un economia più responsabile, vengano cancellati. Chi si preoccupa della salute fisica e psichica dei lavoratori di Pomigliano, costretti a ritmi e a condizioni di lavoro tra le peggiori d’Europa, senza la possibilità di discuterle e criticarle? Chi si preoccupa del taglio dei salari, dei diritti, di un trattamento di malattia che è frutto del contratto del 1969? Orpelli, antistoriche resistenze sindacali di fronte al dispiegarsi della libertà d’impresa?Se non reagiamo ora con il massimo dell’indignazione, forse un giorno potremmo ricordarle davvero queste settimane. Come quelle dove in un solo stabilimento Fiat, con un referendum imposto a lavoratori che avevano puntata alla tempia la pistola del licenziamento, fu abolito l’articolo 1 della Costituzione repubblicana.

Giorgio Cremaschi

Fiat, su un ricatto incostituzionale non si vota

La vicenda di Pomigliano non è questione sindacale, ma politica e rappresenta la principale battaglia oggi in corso nel Paese. Il diktat della Fiat che pretende di derogare dal contratto nazionale e dalle leggi della Repubblica costituisce il principale attacco politico alla Costituzione repubblicana. Berlusconi propone la manomissione dell'articolo 41 e Marchionne la pratica. Di fronte a questo scontro tutta la destra appoggia ovviamente la Fiat in nome della fine del conflitto di classe. Vergognosamente il Pd dice che la Fiat esagera, ma che il ricatto va accettato.
In questo breve riassunto è contenuta la fotografia dello scontro politico nel Paese. Dov'è quel centro sinistra che giustamente si indigna per le nefandezze di Berlusconi? Dove sono i direttori dei quotidiani che giustamente protestano contro le leggi bavaglio? Dove sono i liberali che gridano al golpe quotidianamente? In silenzio.
Perché noi oggi in Italia abbiamo un'opposizione liberale che si schiera a difesa della Costituzione formale senza preoccuparsi della Costituzione reale, senza difendere le basi materiali su cui si regge il compromesso costituzionale. Abbiamo cioè un'opposizione per la quale la democrazia si ferma davanti ai cancelli delle fabbriche, degli uffici, dei supermercati. Essa si contrappone a Berlusconi ma è subalterna ai poteri forti: a Confindustria come alle banche.
Noi riteniamo che questo ricatto di tipo mafioso non sia accettabile. Se passa a Pomigliano è evidente che troverà la strada aperta anche negli altri stabilimenti Fiat e poi in tutti i luoghi di lavoro. Se il rispetto della legge e del diritto di sciopero possono essere aggirati attraverso un violento atto di forza vuol dire che non esistono più. Per questo l'accordo di Pomigliano va rifiutato e non può essere sottoposto a referendum. Nessun cittadino può essere chiamato a votare sul rispetto della Costituzione, tanto più con una pistola puntata alla tempia.
Siamo contro l'arrogante imposizione della Fiat perché difendiamo i diritti dei lavoratori dentro questa globalizzazione neoliberista, progettata proprio per mettere i lavoratori gli uni contro gli altri. Lo facciamo perchè difendiamo la democrazia in Italia.
E' del tutto evidente che se non ci si oppone a questa proditoria aggressione diventerà assai difficile spiegare ai lavoratori italiani perchè è importante difendere la Costituzione. Noi diciamo forte e chiaro che la difesa della democrazia deve essere tutt'uno con la difesa dei diritti dei lavoratori e sosteniamo la Fiom nella sua battaglia che è anche e sino in fondo la nostra. Rompiamo il muro di silenzio costruito attorno a questa vicenda e denunciamo le responsabilità della Fiat e del governo.
Paolo Ferrero, segretario nazionale Prc

Sorpresa: è tornato Carlo Marx

Riparte la lotta operaia lungo la catena di montaggio che ormai unisce l’est all’ovest. I metalmeccanici cinesi strappano alla Foxconn e all’Honda concessioni importanti verso la creazione di uno statuto dei lavoratori che i nostri operai invece stanno per perdere. Le stesse forze che applaudono alla vittoria cinese in occidente, incitano gli italiani a rinunciare ai privilegi conquistati in decenni di lotte. Ecco l’ultimo atto canaglia dell’economia globalizzata, e per conciliare questi atteggiamenti incompatibili non si esita a suggerire di cambiare la Costituzione.Peccato che questa contraddizione sia irrisolvibile con i tagli alla Costituzione o ai costi di produzione. Non si illudano politici e alcuni industriali: la crisi è sistemica, e se non viene risolta da entrambi i fattori dell’equazione produttiva: capitale e lavoro, tra dieci anni il nostro capitalismo potrebbe non esistere più. I destini degli industriali e degli operai occidentali sono tornati a incrociarsi.Per vent’anni la formula della globalizzazione è stata: taglio dei tassi d’interesse e delocalizzazione, un’equazione che ha evitato al capitalismo, quello vero, non il suo avatar finanziario, di confrontarsi con il suo nemico numero uno: la caduta tendenziale del saggio di profitto. Marx ne parla a lungo, ma anche Smith e Ricardo accennano a questo virus che si rafforza con il dilagare della produzione meccanizzata. Meno lavoro umano si utilizza nella produzione, meno grasso sarà il profitto; l’uomo e la sua intelligenza hanno un valore aggiunto superiore alla macchina.Gli asiatici lo sanno bene, noi ce ne siamo dimenticati. La Honda e la Foxconn si piegano ai voleri degli operai cinesi invece che rimpiazzarli con nuove tecnologie o delocalizzare la produzione in Vietnam perché il valore aggiunto della manodopera cinese è ancora imbattibile. Per produrre autovetture ed ipod di prima qualità ci vuole, per dirla alla Adam Smith, lamano“magica” dell’operaio specializzato.La disputa tra capitale e lavoro alla Fiat è solo l’anteprima di ciò che ci aspetta nei prossimi anni se non ci decidiamo a risolvere il problema della caduta tendenziale del saggio di profitto. Con i tassi d’interesse ormai a zero l’unicomodo per contrastarla è tagliare il costo del lavoro, già ridotto all’osso. Delocalizzare in Cina o in Asia non è più così conveniente, ce lo confermano gli scioperi a Shenzhen, si rischia di ritrovarsi con le stesse dispute dall’altra parte del mondo. È vero, ci sono sempre i Paesi dell’ex est europeo: Polonia, Serbia, Slovacchia dove un operaio guadagna ancora 350 euro al mese e dove la vita è quasi tanto cara quanto a casa nostra. Questa la minaccia della dirigenza Fiat: chiudiamo Pomigliano e ce ne andiamo tutti in Polonia, la Panda invece che nel mediterraneo la facciamo a due passi dal Baltico.Il discorso non fa una piega, peccato che non si sia preso minimamente in considerazione il mercato di sbocco. Ecco l’altro grande ostacolo del capitalismo: il mercato di sbocco, un volano industriale che bisogna conquistarsi con crescente difficoltà. Quello cinese si chiama mercato interno: un miliardo e 300 milioni di operai. Anche in Italia un tempo si chiamava nello stesso modo. Negli anni del miracolo economico la Fiat produceva utilitarie che poi vendeva a quella classe media ed operaia che l’aiutava a produrle.Il capitalismo, ricordiamolo, prende il nome dal capitale,ma altro non è che il prodotto del rapporto tra questo e il lavoro: l’uno senza l’altro non possono esistere. Se togliamo la fabbrica agli operai italiani e paghiamo 350 euro a quelli slovacchi, la moderna utilitaria chi la comprerà? È una domanda che tutti gli industriali dovrebbero porsi. E prima di guardare oltralpe, facciamo due conti con la concorrenza. La Fiat non è la Toyota che da vent’anni produce macchine ibride, non è neppure la cinese Grenley che si è comprata la Volvo. Non ha né il prodotto, né i muscoli per competere a livello internazionale con i vecchi e nuovi giganti dell’auto. E, ahimé, questo discorso vale un po’ per tutta la nostra industria che negli ultimi anni ha perso lustro e fatica a sostenere la concorrenza agguerrita degli asiatici.La grande sfida della seconda fase della globalizzazione si chiama mercato nazionale, come difendere capitale e lavoro in un’economiamondiale tendenzialmente canaglia? L’Italia non è la Germania, terzo esportatore al mondo, ma è un Paese dove c’è ancora voglia di lavorare, dove la classe media e quella operaia sono più povere che vent’anni fa, dove un insegnante di liceo guadagna 1200 euro al mese. C’è spazio quindi per la crescita economica, ma per averla bisogna che la torta venga divisa più equamente, le briciole non bastano più. Se non lo facciamo, nessuno mangerà più: l’ha predetto due secoli fa Carlo Marx.


di Loretta Napoleoni su l'Unità del 16/06/2010