martedì 30 giugno 2015

Grecia: la vergogna europea in tre immagini (e un numero) di Andrea Baranes

Prima immagine. Tanto per rinfrescare la memoria. I salvataggi delle banche, in miliardi di euro.
A fine 2011 i salvataggi pubblici delle banche erano arrivati a 1.1.48 miliardi per la Gran Bretagna; 144 l’Olanda; 196 il Belgio; 418 miliardi nella virtuosa Germania. Non è il totale dei soldi usati per puntellare una finanza sempre più instabile. Andrebbero aggiunti gli oltre 1.000 miliardi prestati all’1% con il TLRO della Banca Centrale, poi il TLTRO, poi i tassi portati quasi a zero, poi il quantitative easing, le cartolarizzazioni, e l’elenco potrebbe continuare.
Rimanendo ai soli piani di salvataggio veri e propri e non all’insieme delle misure, parliamo di un totale (unicamente in Europa) di circa 2.400 miliardi di euro. Una somma da mettere a confronto con i circa 15 miliardi di aiuti che sono in ballo in questo momento per sostenere la Grecia.
Sì ma… Si dirà che questi 15 non sono certo i primi. Anche la Grecia ha ricevuto parecchi aiuti dall’Europa. Ecco allora l’immagine n.2, da un articolo del Sole24Ore del febbraio scorso.
In alto l’esposizione verso la Grecia a dicembre 2009. L’esposizione italiana, francese o tedesca era esattamente pari a zero. Erano le banche private ad avere allegramente prestato decine di miliardi alle controparti greche, e a rivolerle indietro quando sono andate in crisi a seguito della bolla dei subprime, lasciando la Grecia in ginocchio. Qui intervengono le generose istituzioni europee e internazionali con i “piani di salvataggio”, che altro non sono stati se non una gigantesca partita di giro per mettere al sicuro le banche francesi, tedesche e di altri Paesi. Il debito passato dal privato al pubblico, secondo il noto principio di privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
Ad affermarlo è anche un delegato del FMI, che già a gennaio 2010 denunciava come il presunto salvataggio della Grecia fosse «concepito solo per salvare i creditori, nella gran parte banche del vecchio continente e non la Grecia». Uno studio indipendente ha mostrato come per lo meno il 77% di tutti gli aiuti forniti alla Grecia tra maggio 2010 e giugno 2013 siano finiti al settore finanziario e non alla popolazione o allo Stato ellenico.
Come dire che, oltre la montagna di denaro regalato o prestato a interesse nullo alle banche, persino i fondi destinati – nelle dichiarazioni ufficiali – ad aiutare i Paesi in difficoltà, sono finiti a salvare il sistema bancario.
Passiamo all’immagine n.3, che non riguarda né il vergognoso ammontare dei salvataggi, né l’altrettanto vergognosa destinazione dei fondi. Perché c’è di peggio. E sono le condizioni – e l’assenza di condizioni. Di seguito un estratto del documento “proposto” alla Grecia dai burocrati europei. Nello specifico riguarda le pensioni, ma non è necessario leggerlo, basta il colpo d’occhio delle modifiche richieste durante il “negoziato”.
Sarebbe stato opportuno pubblicare una quarta immagine, con le analoghe condizioni richieste alle banche per ottenere i salvataggi unicamente pochi anni fa, ma il problema è che non c’è una tale immagine perché non c’è stata nessuna condizione: migliaia di miliardi di euro di assegno in bianco. A dispetto del mostruoso impegno dei governi e della banca centrale, a dispetto anche delle roboanti dichiarazioni che hanno chiuso ogni vertice internazionale dal 2008 in poi, il nulla.
Non è stato chiesto alle Banche nessun piano di austerità, non è stato imposto un limite all’utilizzo di derivati, non sono state messe nemmeno un minimo di condizioni di buon senso per evitare per lo meno che con i soldi pubblici ricevuti le stesse banche potessero truffare i risparmiatori o evadere le tasse. Niente sul sistema bancario ombra, niente sulla presenza di filiali e controllate nei paradisi fiscali, nulla di nulla.
Il mese scorso alcuni dei più grandi gruppi bancari, molti dei quali hanno ricevuto somme enormi in salvataggi pubblici, hanno patteggiato una multa miliardaria per una gigantesca truffa sul mercato dei cambi. Una truffa che sarebbe andata avanti dal 2007 al 2013, proprio quando venivano inondate di soldi pubblici. In buona parte gli stessi gruppi bancari che, in soli tre anni, tra gennaio 2012 e dicembre 2014, hanno dovuto pagare 139 miliardi di dollari di sanzioni alle autorità statunitensi.
Il sistema bancario ombra, che opera al di fuori di qualsiasi regola o controllo, avrebbe raggiunto (il condizionale è d’obbligo visto che non si riesce nemmeno a darne una definizione univoca) circa 75.000 miliardi di dollari. Ma il problema che tiene l’Europa con il fiato sospeso è il debito pubblico greco, meno dello 0,5% di questa cifra.
L’assenza di condizioni per banche private che hanno come obiettivo il massimo profitto non è nemmeno ipotizzabile per uno Stato sovrano che dovrebbe tutelare l’interesse dei suoi cittadini. Qui non è possibile nessun cedimento, occorre essere inflessibili per dare l’esempio a tutti. Ancora prima, è necessario perché dobbiamo conquistare la fiducia dei mercati finanziari, evitare attacchi speculativi che potrebbero acuire le difficoltà.
I tempi e le richieste della finanza non sono quelle della democrazia, ed è la democrazia a doversi piegare. Nuovamente per rinfrescare la memoria, solo pochi mesi fa questi erano i titoli dei principali quotidiani italiani alla notizia di un’elezione democratica:
 
Un tema solo. Le elezioni spaventano i mercati. Un mondo in cui c’è chi guadagna miliardi speculando sui disastri altrui, il problema è accontentare e “restituire fiducia” ai mercati, non cambiare le regole.  
Lo scorso anno i primi 25 gestori di hedge fund – i fondi speculativi che tramite derivati e altri strumenti arrivano a scommettere anche sul fallimento di interi Paesi – si sono portati a casa poco meno di 14 miliardi di dollari. Il primo si è preso 1,3 miliardi di dollari, circa 100 milioni di euro al mese.
Il che non è evidentemente un problema, per istituzioni che si oppongono però a uno dei punti del programma del governo Tsipras, che vorrebbe riportare il salario minimo ai 751 euro del 2011, prima che la Troika obbligasse la Grecia a ridurlo a 580 euro. Il problema attuale sono 751 euro per chi lavora, non i 100 milioni al mese per chi specula.
Un numero per capire come va il mondo? 100.000.000/751 = 133.155.

Sinistra, chi vuole l’unità avvii il percorso costituente di Paolo Ferrero


Paolo Ferrero 

La rot­tura della trat­ta­tiva sulla Gre­cia ci mostra come l’Ue sia oggi un aggre­gato libe­ri­sta, cemen­tato dagli inte­ressi tede­schi attorno alle poli­ti­che di auste­rità. Il nostro auspi­cio è ovvia­mente che il governo greco possa vin­cere il refe­ren­dum e strap­pare un accordo più avan­zato, ma in ogni caso il tema della costru­zione di un’alternativa com­ples­siva a que­sta Europa è posto. Quest’Europa, così com’è, non può durare ed è desti­nata ad implo­dere a causa degli squi­li­bri eco­no­mici che le élite domi­nanti non sono dispo­ni­bili a cor­reg­gere. Inol­tre la trat­ta­tiva con la Gre­cia ha con­fer­mato la sostan­ziale incom­pa­ti­bi­lità tra l’assetto politico-istituzionale euro­peo e la demo­cra­zia. 
Da ultimo regi­striamo una volta di più come socia­li­sti, libe­rali e popo­lari siano solo diverse espres­sioni dello stesso blocco domi­nante e delle stesse poli­ti­che neo­li­be­ri­ste. Renzi, lungi dall’essere un corpo estra­neo, inter­preta fino in fondo quello che è il socia­li­smo euro­peo: Mar­tin Schulz e Gabriel Sig­mar docet.
La vicenda greca è quindi un potente acce­le­ra­tore della crisi euro­pea e chia­ri­sce fino in fondo la posta in gioco tra la bar­ba­rie neo­li­be­ri­sta che por­terà all’implosione dell’Europa e la pos­si­bi­lità di scri­vere un’alternativa anti­li­be­ri­sta e democratica.
Serve quindi un rapido salto di qua­lità nella costru­zione di un movi­mento di massa con­tro l’austerità e il raf­for­za­mento e l’allargamento della Sini­stra euro­pea e della sini­stra in ogni sin­golo paese. In Ita­lia serve una sini­stra, serve una pro­po­sta poli­tica di alter­na­tiva. Non pos­siamo più aspet­tare: la bat­ta­glia sul nostro futuro e su quello dei nostri figli si svolge ora.
Occorre una sini­stra ita­liana che sia con­nessa alle altre sini­stre euro­pee nella comune bat­ta­glia per costruire un’Europa dei popoli al posto dell’Europa del capi­tale. Una sini­stra che abbia una pro­po­sta poli­tica, cul­tu­rale e sociale anti­li­be­ri­sta, alter­na­tiva agli altri poli poli­tici oggi in campo. 
Una sini­stra che ponga la lotta allo sfrut­ta­mento di classe e il diritto al lavoro e al red­dito come fon­da­menti di un nuovo vivere civile. 
Una sini­stra che pro­ponga un’antropologia soli­dale al posto della com­pe­ti­zione esa­spe­rata del tutti con­tro tutti. Una sini­stra che non si limiti a par­lare al suo popolo — a cosa resta del suo popolo — ma che ascolti e inte­ra­gi­sca con il popolo, così come è stato attra­ver­sato e sfre­giato dalla crisi e dalle poli­ti­che di auste­rità.  
Una sini­stra che sia di governo, cioè che sap­pia pro­porre una alter­na­tiva anti­li­be­ri­sta con­creta — qui ed ora — alle poli­ti­che di auste­rità. Una sini­stra di governo, come quella di Syriza.
Di una sini­stra di tal fatta vi è neces­sità e desi­de­rio da tempo. Credo che oggi vi siano anche le con­di­zioni sog­get­tive di una sua costru­zione. Si tratta di capire come fare. A me pare che la via mae­stra sia il dare vita ad un pro­cesso costi­tuente basato sul più largo coin­vol­gi­mento e par­te­ci­pa­zione di tutte e tutti coloro che — indi­vi­dual­mente o col­let­ti­va­mente — vogliono costruire un’alternativa a que­ste poli­ti­che.  
Se la crisi non è solo eco­no­mica e sociale ma è svuo­ta­mento della poli­tica in quanto stru­mento di par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica, la costi­tuente della sini­stra deve essere innan­zi­tutto un per­corso di rifon­da­zione della poli­tica. Un pro­cesso demo­cra­tico — una testa un voto, refe­ren­dum, ecc. — di allar­ga­mento della sfera della par­te­ci­pa­zione. Occorre con­net­tere saperi sociali e con­flitti, valori e inte­ressi mate­riali, spe­ranza e impe­gno diretto in prima per­sona. La risorsa prin­ci­pale su cui far leva — come mostra il movi­mento sulla scuola — è la pre­senza di una sog­get­ti­vità sociale non paci­fi­cata. Que­sta “ecce­denza” sociale deve tro­vare uno spa­zio poli­tico in cui potersi rico­no­scere e costruirsi come forza di tra­sfor­ma­zione. Per que­sto serve uno spa­zio uni­ta­rio, non dieci o venti. Uno.
A tal fine serve a mio parere l’unità della sini­stra. Chi oggi a sini­stra auspica la costru­zione di un sog­getto uni­ta­rio — a par­tire da l’Altra Europa, Rifon­da­zione Comu­ni­sta, Sel, Pos­si­bile, Cof­fe­rati, Fas­sina — dovrebbe rico­no­scersi, nomi­narsi e farsi pro­mo­tore di quello spa­zio comune in cui far par­tire un pro­cesso costi­tuente rivolto in primo luogo a chi non fa parte di alcuna forza orga­niz­zata. L’unità della sini­stra, nella valo­riz­za­zione del suo plu­ra­li­smo, è neces­sa­ria: non è un fine in se ma il mezzo per dar vita al per­corso costi­tuente del sog­getto uni­ta­rio. Con­fido che que­sto sia pos­si­bile: non è mai troppo presto.

Referendum greco: pesa il silenzio assordante degli intellettuali europei di Alberto Burgio

C’è un aureo testo di Kant che torna alla mente in que­ste ore in cui si con­suma l’attacco finale alla Gre­cia demo­cra­tica da parte dei cani da guar­dia dell’Europa oli­gar­chica, della finanza inter­na­zio­nale e del Nuovo ordine colo­niale a cen­tra­lità franco-tedesca. Nel 1784, l’autore della Cri­tica della ragione pura, già cele­ber­rimo in tutto il con­ti­nente, rispon­deva alla domanda sull’essenza dell’illuminismo. La indi­vi­duava nella scelta dell’autonomia; nella deci­sione con­sa­pe­vole e non priva di rischi di «uscire da una mino­rità della quale si è responsabili».
Inten­deva dire che affi­darsi alla guida di un tutore che per noi sce­glie e deli­bera è umi­liante ben­ché comodo. Che la libertà è affa­sci­nante ma il più delle volte peri­co­losa. E che l’insegnamento fon­da­men­tale del movi­mento dei Lumi che di lì a poco avrebbe por­tato i fran­cesi a sol­le­varsi con­tro l’autocrazia dell’antico regime con­si­ste pro­prio in que­sto: nel con­si­de­rare l’esercizio dell’autonomia indi­vi­duale e col­let­tiva un inde­ro­ga­bile dovere morale e poli­tico. Un fatto di dignità. Essere uomini signi­fica in primo luogo deci­dere per sé e rispon­dere delle pro­prie scelte. Rifiu­tarsi di vivere sotto il giogo di qual­siasi potere impo­sto con la vio­lenza delle armi o della super­sti­zione, del denaro o del conformismo.
Sono tra­scorsi oltre due secoli densi di sto­ria. Il mondo è cam­biato. Ma nes­suno direbbe che quelle di Kant sono con­si­de­ra­zioni arcai­che, ina­datte al nostro tempo. Siamo tutti pronti a sot­to­scri­verle. Rifor­mu­late con parole meno alate, le ripe­tiamo ogni qual­volta ragio­niamo sui prin­cipi demo­cra­tici ai quali vor­remmo si ispi­ras­sero le nostre società. Eppure che suc­cede quando i nodi ven­gono al pet­tine e la dignità di tutto un popolo è messa dav­vero in discus­sione, quando un intero paese è posto di fronte al bivio tra mino­rità e autonomia?
Anche se tele­vi­sioni e gior­nali di tutto il mondo fanno a gara per nascon­dere la realtà descri­vendo i greci come un gregge di bugiardi paras­siti (e atten­zione: vale per i greci oggi quel che ci si pre­para a dire domani sul conto di spa­gnoli, por­to­ghesi e ita­liani, sudici d’Europa), è abba­stanza chiaro il motivo per cui Ue, Bce e Fmi hanno deciso di sca­te­nare la guerra con­tro la Gre­cia. I soldi (pochi) sono più che altro un pre­te­sto. La sostanza è il modello sociale che deve prevalere.
I cre­di­tori vogliono essere certi che a pagare il «risa­na­mento» e la per­ma­nenza nell’eurozona sia la grande massa pro­le­ta­riz­zata dei lavo­ra­tori dipen­denti, costretti a vivere sta­bil­mente in mise­ria e in schia­vitù. Se a pagare fos­sero i grandi capi­tali, i conti tor­ne­reb­bero ugual­mente. E solo così l’economia greca potrebbe per dav­vero risa­narsi. Ma il prezzo poli­tico sarebbe esor­bi­tante, tale da vani­fi­care quanto è stato sin qui fatto, per mezzo della crisi, al fine di «rifor­mare» i paesi euro­pei e con­for­marli final­mente al modello neo­li­be­rale di «società aperta».
La par­tita è quindi squi­si­ta­mente poli­tica. Se non c’è di mezzo tanto un pro­blema di ragio­ne­ria quanto una que­stione poli­tica di prima gran­dezza – il modello sociale, appunto: i cri­teri base dell’allocazione delle risorse – allora è sacro­santa la pre­tesa del governo greco che a deci­dere se obbe­dire o meno ai dik­tat della troika sia il popolo che dovrà pagare le con­se­guenze delle deci­sioni assunte in sede euro­pea. È un fatto ele­men­tare di demo­cra­zia. Che però spo­sta il con­flitto sul ter­reno, cru­ciale e deci­sivo, della legit­ti­ma­zione dell’Europa unita: uno spo­sta­mento del tutto inaccettabile.
Non c’è da sor­pren­dersi se pro­prio la deci­sione di Tsi­pras di andare al refe­ren­dum popo­lare abbia fatto sal­tare il banco. L’Europa – que­sta Europa dei tec­no­crati e degli spe­cu­la­tori – può accet­tare molte dero­ghe. Può tol­le­rare gravi infra­zioni alle regole finan­zia­rie, come ha dimo­strato pro­prio nei con­fronti di Fran­cia e Ger­ma­nia. Può anche fati­co­sa­mente chiu­dere un occhio su qual­che misura tesa a ridurre l’iniquità delle cosid­dette riforme strut­tu­rali che i paesi sono chia­mati a rea­liz­zare per con­for­marsi al modello sociale prescritto.
Ma sulla que­stione delle que­stioni – la sovra­nità – non si tran­sige. Nes­suno può rimet­tere in discus­sione il fatto che in Europa i pre­sunti «popoli sovrani» non hanno voce in capi­tolo sul pro­prio destino. Fin­ché si scherza, magari fin­gendo di avere un par­la­mento euro­peo, bene. Ma guai ad aprire una brec­cia sulla costi­tu­zione dispo­tica dell’Unione, che è il suo fon­da­mento ma anche, a guar­dar bene, il suo tal­lone d’Achille.
Se que­sto è vero, allora un silen­zio pesa assor­dante men­tre le cro­na­che docu­men­tano le bat­tute finali di quest’ultima guerra inte­stina del vec­chio con­ti­nente. Dove sono finiti i «grandi intel­let­tuali», quelli che lo spi­rito del tempo desi­gna a pro­pri por­ta­voce, coloro la cui sapienza e sag­gezza reca l’onore e l’onere di indi­care la retta via quando il cam­mino si ingar­bu­glia? Non se ne vede l’ombra. Tutto su que­sto fronte tace, come se si trat­tasse di baz­ze­cole. Eppure c’è ancora qual­che sedi­cente filo­sofo, qual­che sto­rico, qual­che giu­ri­sta o socio­logo in Europa. C’è chi si atteg­gia a inter­prete auten­tico della crisi e sforna a ripe­ti­zione libri che discu­tono di Europa e di demo­cra­zia. Forse che, per tor­nare al vec­chio Kant, ciò che vale in teo­ria non serve a nulla in pratica?
Ci si domanda che farebbe oggi un novello Zola (o un nuovo Sar­tre) di fronte alla pre­po­tenza e alla viltà di quest’Europa. Eppure non occor­rono gesti eroici per ricor­dare che esi­stono diritti invio­la­bili, per chia­rire che nes­suna ragione al mondo con­sente di sca­ra­ven­tare un popolo nell’indigenza e nella dispe­ra­zione, per ram­men­tare che in que­sta par­tita torti e ragioni sono, come sem­pre, ripar­titi fra tutte le parti in causa. Niente. Silen­zio. A sbrai­tare è solo chi può per­met­tersi di svol­gere due parti in com­me­dia, il ruolo dell’accusatore e quello del giu­dice. Quanto all’imputato, stiamo molto attenti. Nati a Palermo o a Sivi­glia, a Milano o a Lisbona, siamo tutti quanti greci anche noi.

Grecia-Unione Europea. La rottura è sul debito di Claudio Conti, Contropiano.org

Grecia-Unione Europea. La rottura è sul debito
Da quando è arrivata Syriza al governo, con l'intenzione di "ridiscutere" i termini dei programmi di "aiuti" concessi ad Atene, andiamo scrivendo che il vero problema è che il debito greco non può essere ripagato. Né ora, né mai.
Non siamo dei geni incompresi. Lo dicono tutti quelli che non siedono sulle poltrone della "Troika", altrimenti detti "le istituzioni" o anche "i creditori". Il vero mistero è come facciano, quei signori, a far finta che il debito sia ripagabile purché Atene accetti di fare le "riforme strutturali" che loro pretendono di imporle. Tanto più che i precedenti governi ellenici le avevano accettate e messe in pratica, ottenendo lo straordinario - e previsto - risultato di far aumentare il debito pubblico rispetto al Pil, anziché diminuirlo.
Anche in questo caso non ci riteniamo dei geni. Basta uno studente del primo anno per spiegare che imponendo misure recessive (tagli di spesa e aumenti di tasse) a un paese in crisi, il Pil è obbligato a diminuire; mentre il debito, se pure diminuisce di poco, ha una dinamica molto più lenta. E quindi la proporzione aritmetica debito/Pil non può che dare un risultato in crescita. Dal 125 al 180%, "grazie" ai diktat della Troika.
Soprattutto, la Troika si è trovata davanti una delegazione di economisti raziocinanti, guidata da Yanis Varoufakis, che fin dal primo giorno aveva messo sul tavolo l'obiettivo della ristrutturazione-riduzione del debito ellenico. Banalmente, un cosa è stilare un "piano di rientro" per un debito - poniamo - del 100%; cosa del tutto diversa è fare calcoli a partire da quasi 200... Ne vengono fuori "rate" fuori dalla grazia di dio, inconcepibili per un debitore che sta cercando gli spiccioli per mangiare oggi.
L'"offerta" ultimativa della Troika si riduce in sintesi a questo: noi ti prestiamo (una tantum) altri 15 miliardi, ma tu fai una lista di ""riforme strutturali" per metterti in condizione di rilanciare l'economia e ripagarci l'intero debito che di devi. In pratica, però, avverrebbe l'opposto: ti facciamo aumentare il debito (di altri 15 miliardi) e ti mettiamo in condizione di perdere altri pezzi importanti della tua struttura economica (spesa pubblica compresa). Wolfgang Munchau, analista del Financial Times, aveva qualche settimana fa calcolato nel 12,5% l'ulteriore calo del Pil ellenico in soli quattro anni, se Tsipras avesse accettato quelle condizioni.
Senza ristrutturazione-riduzione del debito, insomma, nessun governo riuscirebbe a riportare la Grecia a livelli tali da poter stare dignitosamente dentro il recinto definito dalla moneta unica. Ma proprio questo punto è tabù per i vari Schaeuble, Dijsselbloem, Markel, Tusk, Draghi, Juncker, ecc.
Se nè infine accorto anche IlSole24Ore, come poetete leggere qui di seguito. 
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Il realismo che manca sul nodo del debito

di Giuseppe Chiellino

Dalle dieci slides pubblicate domenica dalla Commissione europea per rendere pubbliche le richieste formulate al Governo greco ne manca una. La più importante, probabilmente avrebbe dovuto essere la prima. È la slide in cui la troika si sarebbe dovuta impegnare a cancellare una parte consistente di quei 350 miliardi di debito che stanno schiacciando l’economia del Paese e che rischiano di mettere a repentaglio l’intero progetto europeo.
Questo è il nodo vero su cui si è incagliato il negoziato: il debito. Lo aveva già riconosciuto dieci giorni fa il capo economista del Fondo monetario, Olivier Blanchard, definendolo un «trade off», uno scambio con le riforme. Lo ha ripetuto ieri il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, forse fuori tempo massimo e comunque rinviando la discussione all’autunno. È alla ricerca della “prova inconfutabile” che il governo greco è intenzionato davvero a fare le riforme. E non gli si può dar torto, visto l’atteggiamento negoziale tenuto da Alexis Tsipras e dai suoi ministri. Tsipras, invece, ha chiesto di invertire l’ordine temporale, per portare a casa il trofeo dell’haircut e poter chiedere agli elettori di sopportare i sacrifici imposti dalla troika. È il tentativo di mascherare una perdita di sovranità ineluttabile per un Paese così indebitato. Anche questo è comprensibile.
Ciò che invece non è comprensibile all’uomo comune europeo, cittadino ed elettore, è l’assoluta incapacità della politica di trovare - in mesi di negoziati - un punto di incontro, un compromesso, nella consapevolezza reciproca che i creditori e i loro contribuenti non possono continuare a versare risorse «in un secchio bucato» - come è stato definito il bilancio di Atene - ma che allo stesso tempo l’austerity imposta in questi anni ai greci non ha funzionato e il rapporto debito/Pil ha continuato a crescere in modo inesorabile.
Senza scomodare Bismarck (guarda il caso, un tedesco) si è dimenticato che la politica è l’arte del possibile, soprattutto in una Unione giovane, cresciuta troppo in fretta e perciò gracile. E inesperta. Il dubbio, fondato, è che sin dall’inizio ci sia stata da una parte e dall’altra la volontà di arrivare al punto di rottura, spinti anche da profonde divergenze ideologiche.
L’esposizione dei creditori nei confronti della Grecia è destinata ad aumentare e solo un bambino ingenuo può illudersi che l’ennesimo piano lacrime-e-sangue consenta di recuperare tutti i quattrini da un debitore nelle condizioni della Grecia. Tanto vale prenderne atto, prima possibile e con una buona dose di realismo, per cercare una via d’uscita che metta al primo posto l’interesse comune dell’Unione monetaria e, forse, dell’Europa. È ancora possibile evitare di infliggere umiliazioni troppo pesanti ai greci e ulteriori perdite ai creditori.

Grecia-Ue. Ieri sera una folla oceanica ha invaso piazza Syntagma. "Voi con il capitale noi con il popolo"





 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Non sarà niente uguale d‘ora in poi. Il grande NO lo dice il popolo”. Con questo slogan piazza Syntagma è stata riempita da centinaia di migliaia di ateniesi che ieri hanno continuato ad affluire fino a tarda notte per sostenere il governo del Paese e rifiutare i ricatti, gli ultimatum e le minacce.
Il popolo della piazza di Syntagma è ritornato protagonista per sottolineare a Merkel e ai suoi complici socialisti e socialdemocratici, i banchieri e gli speculatori che di fronte a loro non hanno un governo ma un popolo che lotta da cinque anni per cacciare dalla sua vita l’austerità e la barbarie neoliberista che ha provocato una crisi umanitaria in Grecia.

La grande folla radunata a Syntagma "ci dà la forza, con calma e compostezza affronteremo minacce e ricatti", ha detto il premier greco Alexis Tsipras nel corso di un'intervista in diretta alla tv pubblica.

Non a caso uno dei nuovi slogan che si sentono in questi giorni ad Atene e si è sentito in piazza Syntagma dice: “Voi con il capitale, noi con il popolo, i nostri NO vinceranno la povertà e il fascismo”.

La manifestazione di ieri è stata convocata attraverso un messaggio sulla rete dove si legge: “Si alla proposta dei creditori significa austerità e recessione, il nostro paese e la nostra società avrebbero il cappio al collo”.

Il premier greco ha accusato l'Ue di fare una ''scelta politica'': "Non credo che i creditori ci vogliano cacciare dall'Euro. I costi sarebbero enormi", dice. Ma subito aggiunge: ''vogliono cacciare un governo che ha il sostegno popolare''. Tsipras, che rivendica come ''in Grecia la democrazia è arrivata molto prima che in tutti gli altri Paesi europei'' ricostruisce anche le ultime fasi del negoziato, addossando all'Ue la volontà di non raggiungere un'intesa. ''Abbiamo mediato, fatto tutto il possibile per raggiungere un accordo, arrivando ai limiti del nostro mandato'', ha detto ai greci dallo schermo televisivo, assicurando che il governo seguirà le indicazioni dl voto"

GRECIA: UN MONDO DI BALLE FACT CHECKING


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Per chi come noi ama la verità figlia del tempo, proviamo ora a smontare pezzo per pezzo il castello di falsità, di luoghi comuni che da sempre circolano sulla Grecia, utilizzando le loro fonti, si, proprio quelle che nessuno legge.
Una premessa se non hai tempo, non leggerlo, c’è sempre qualcuno in televisione o sui giornali che  ti spiega meglio di noi, come i greci in questi anni hanno vissuto sopra le loro reali possibilità.
Partiamo dalla leggenda metropolitana che vede la Grecia, ma non solo pure l’Italia, dopo cinque anni ancora ferma ad un numero impressionante di dipendenti statali.
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La fonte è Istat e siccome qualcuno potrebbe storcere il naso allora utilizziamo il report dell’OCSE, con i dati dell’ILO (International Labour Office) così ci aggiorniamo sino al 2011…
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Bene ma non è finita qui perchè per tutti quelli che dicono che la Grecia è piena di dipendenti pubblici arriva la sorpresina…
Grazie all’economista Whelan via Vocidallestero andiamo direttamente a scoprire cosa ci racconta la relazione del 2014 della Commissione Europea sulla Grecia che contiene la seguente tabella sull’occupazione pubblica greca. Ripeto Commissione Europea e non un sito telebano qualunque…
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Vi sembra poco il 26 % in meno eliminare in cinque anni 1/4 della forza lavoro pubblica. Ma certo la Grecia non ha fatto nulla. Per quanto riguarda l’Italia leggetevi questo …

Eurispes-UIL-PA: in Italia falso mito su numero eccessivo dipendenti pubblici.

Ma proseguiamo perchè la Grecia come si sa non ha fatto le riformeeeeeeeeeeeeeeeeee!
Andiamo quindi su un altro sito telebano, ovvero la World Bank con il suo Doing Business | Data che prende in considerazione indicatori di competitività e possibili riforme fatte o da fare, stilando una classifica.
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Ebbene la Grecia dal 2009 al 2015 è passata dal 96 posto al 61 e quindi non ha fatto alcuna riforma immagino. Per quanto riguarda l’ Italia lasciamo perdere, tanto il ministro Padoan ha detto che non c’è alcun pericolo di contagio.
Ma certo le pensioni, ecco perchè non è stato trovato un accordo, si perchè i greci non hanno fatto alcuna riforma pensionistica.
Siamo tutti d’accordo che l’incidenza del sistema pensionistico sul PIL è il più alto d’Europa …
Ma la questione è un’altra!
Avete forse idea di quale è stato il crollo in questi anni del PIL pro capite greco?
 Greece GDP per capita
Thanks to Trading Economics
Se noi rapportiamo la spesa pensionistica in base al Pil potenziale tutto cambia e la sostanza è che la Grecia non è poi cosi lontana da altri paesi Europei o dalla Germania.

E dove andiamo andiamo a guardare questa volta, ma di nuovo sul recente lavoro della Commissioni Europea ovvero …

The 2015 Ageing Report – European Commission – Europa

http://vocidallestero.it/wp-content/uploads/1-3woy2nMrGXFlqvp7yz71uw.png
Come sottolinea sempre Whelan… i governi greci negli ultimi anni hanno introdotto una serie di riforme a lungo termine nel loro sistema pensionistico. Per una descrizione di tali riforme, si vedano le pagine 39-40 del Rapporto sull’Invecchiamento 2015 della Commissione Europea.
Il rapporto spiega anche l’impatto nel lungo periodo delle riforme pensionistiche che sono state emanate in tutta l’UE. Il grafico qui sotto è tratto dalla relazione. La linea blu indica l’età media di pensionamento nel 2060 se non ci fossero state le riforme delle pensioni e la linea rossa indica l’età media di pensionamento con i sistemi adesso in vigore. La Grecia (contrassegnata come EL) passa da una delle più basse età medie di pensionamento nello scenario senza riforma ad una delle più alte dopo la riforma. In questo senso, la Grecia ha intrapreso la più significativa riforma delle pensioni in Europa.
Ma chiaro hanno sbagliato a fare i conti Andrea, non vorrai mica confrontare queste ricerche con quelle dell’ufficio studi del Sole24Ore?
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Quindi fonte IFM o FMI come meglio credete.
Primo la pensione media in Grecia è per circa il 45 % dei pensionati inferiore a 665 euro se non sotto. Se poi fai uno sforzo e vai a vederti la spesa per pensioni oltre i 65 anni scopri che in fondo, in fondo

Greece’s Pension System Isn’t That Generous After All –

Il paradosso poi è che ti tocca andare a leggere lo Spiegel (Griechenland: Was Rentner im Vergleich zu Deutschland .. ) per smontare il mito dei pensionati greci di lusso,  per scoprire che l’età media di pensionamento greca più o meno simile a quella tedesca, 61,4 anni, che che i 56 anno sono riferiti al solo settore pubblico che se confrontato con i 55 anni degli impiegati postali tedeschi o i 58 anni dei lavoratori delle ferrovie tedesche fanno sorridere.
Stavo pensando se ho dimenticato qualcosa!
A si, ovviamente la Grecia ha messo in pratica poca austerità come si vede dal grafico di Paul Krugman, ovvero noi e i greci dobbiamo imparare dai finlandesi o dagli austriaci e i francesi, per non parlare degli ultimi arrivati gli spagnoli che viaggiano ancora con un deficit che sfiorava il 5 % nel 2014 e ora fanno la predica agli altri.
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Per concludere su twitter un lettore mi ha fatto notare che per quanto riguarda il lavoro è tutto un problema di produttività.
Ecco quindi come la Grecia non è affatto produttiva come la Germania e via dicendo…
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Loro non si arrenderanno mai, faranno di tutto per rovesciare il governo greco, manipolando l’informazione e possibilmente anche il referendum, in fondo non è poi così difficile!

lunedì 29 giugno 2015

Le tante (troppe) bugie sulla Grecia

La macchina mediatica delle tecnocrazie si è messa in moto per demistificare il referendum ellenico del 5 luglio e il significato della sfida in campo: c’è un’alternativa all’austerity e all’Europa a due velocità ad egemonia tedesca? Dalla Grecia ci giunge una lezione di democrazia e dignità, ma il governo Tsipras non va lasciato solo.

di Giacomo Russo Spena

Il Corriere della Sera, allarmato, si domanda in prima pagina: “Quanti Tsipras ci sono in Europa?”. Scrive Francesco Giavazzi: “Quest’anno grazie alla cura Tsipras (la Grecia, ndr) è tornata in recessione”.
I commenti, anche da parte di esponenti del centrosinistra, sono severi e senza appelli: “Tsipras ha promesso l’impossibile”, un “anticapitalista coi soldi degli altri”. E poi ancora: populista, sprovveduto. Un Ponzio Pilato. “Un gesto estremo di viltà politica”, l’aver indetto un referendum sulle politiche europee, il prossimo 5 luglio.

Si rispolverano i vecchi cavalli di battaglia – utilizzati per imporre i fallimentari memorandum alla Grecia negli anni scorsi – come l’aver truccato i conti. Secondo la vulgata, la crisi si sarebbe sviluppata per colpa dei greci stessi: un Paese arretrato, statalista, piagato dalle clientele e “fannullone”.
Con le istituzioni europee (e molti media) che hanno colpevolizzato, a volte sottilmente e altre volte meno, un intero popolo (“levantino”) per imporre misure di austerità che invece di curare il malato hanno finito per ucciderlo, o quasi.
Eppure, come raccontava Luciano Gallino su Repubblica, “pochi giorni fa il Parlamento greco ha diffuso un rapporto del Comitato per la Verità sul Debito pubblico. Le conclusioni sono che per il modo in cui la Troika ha influito sul suo andamento, e per i disastrosi effetti che le politiche economiche e sociali da essa imposte hanno avuto sulla popolazione, il debito pubblico della Grecia è illegale, illegittimo e odioso. Pertanto il Paese avrebbe il diritto di non pagarlo”.

Ci si dimentica di almeno due cose: che la Grecia avesse un problema strutturale era risaputo ben prima che il Paese entrasse nell’euro; e tutte le storture del sistema (dalla corruzione allo statalismo) sono state causate da quella classe politica che ha poi inflitto alla popolazione, su mandato di Bruxelles, misure durissime: socialisti e conservatori, in alternanza e poi in una grande coalizione.

Gli stessi partiti e la stessa classe politica che oggi inveisce contro Syriza, che ha all’attivo sei mesi di governo su 40 anni di ritorno alla democrazia. E che dal 2009 in poi la stessa Grecia è il paese europeo che ha fatto più “riforme” di tutti a livello continentale, con esiti disastrosi: un Pil ridotto del 25 per cento è un dato di guerra, unico in tempi di pace.

Syriza ha vinto le elezioni lo scorso gennaio, volendo incarnare una speranza di cambiamento e la discontinuità rispetto ai diktat dell’Unione Europea. Lo ha fatto con un programma di rinegoziazione con la Troika. Così è iniziato lo scontro tra due visioni, due “ideologie” contrastanti. Davide contro Golia. Una partita ad alta tensione dove la posta in gioco è diventata sempre più alta.

Come spiega Christos Mantas nell’intervista rilasciata a MicroMega, il governo greco ha cercato la via della mediazione aprendo a provvedimenti (privatizzazioni, innalzamento età pensionabile) estranei al programma originario di Syriza. La risposta della Troika è stato l’ultimatum: un piano ancor più stringente e sbilanciato che di fatto avrebbe favorito i ceti più ricchi del Paese. Un ennesimo memorandum. Lo scalpo di Tsipras per dimostrare a tutti come non sia possibile riformare e modificare la rotta dell’Europa.

La risposta di Atene è stata quella di far decidere i greci stessi. Di fronte a un vicolo cieco, senza margini di manovra, piuttosto che rompere un patto con i propri elettori, Tsipras ha preferito lanciare un messaggio ai propri connazionali: fin dove siete disposti a spingervi? Tra l’altro, sin dal programma elettorale del 2012, Syriza prometteva ai suoi elettori – testualmente – di “sottoporre a referendum vincolanti i trattati e altri accordi rilevanti europei”.

I sondaggi, ad oggi, dicono che il “sì” al pacchetto europeo vince sui “no”. La vittoria dei primi significherà, probabilmente, un cambio di governo, o comunque un rimpasto, escludendo i settori più radicali di Syriza. Ipotesi caldeggiata dai creditori, stufi di trattare con i “piantagrane”. Una vittoria dei “no” da un lato rafforzerebbe Tsipras, dall’altro rischierebbe di far saltare il banco in modo definitivo. “Syriza si è trovato sino ad oggi, politicamente parlando, in una posizione maldestra – ragiona Paul Krugman, su Repubblica – con gli elettori furiosi a causa delle crescenti richieste di austerità ma al tempo stesso riluttanti ad abbandonare l'euro. Conciliare queste due tendenze è sempre difficile, e lo è a maggior ragione oggi. Il referendum di fatto chiederà agli elettori di stabilire le proprie priorità, e di conferire a Tsipras il mandato per fare ciò che deve nel caso in cui la Troika lo porti a un gesto estremo”.

Se Angela Merkel e Jean Claude Junker, oggi, si dichiarano disponibili a nuovi negoziati con la Grecia dopo il 5 luglio è perché sanno che una Grexit non conviene a nessuno. Non la vuole Tsipras, non la vogliono i “mercati”, dato che potrebbe significare l’implosione, definitiva, dell’eurozona. E ovviamente della moneta unica, con conseguenze indecifrabili. Un salto nel buio per tutti.

In tutto questo, l’Italia dove sta? Il premier Matteo Renzi, dopo il famoso regalo della cravatta a Tsipras e i molti vibranti richiami contro l’austerità, si è espresso con un tweet: “Non è un derby tra Commissione europea e Tsipras, ma una scelta tra euro e dracma. Una semplificazione che non corrisponde alla realtà e che, appunto, aggiunge confusione ad una situazione già di per sé ingarbugliata.

E si scoprono gli altarini di Renzi, le sue storielle sulla fine dell’austerity e l’inizio della crescita sotto il semestre a direzione italiana. Menzogne. Quel premier – che aveva spacciato il quantitative easing di Mario Draghi come l’inizio del cambiamento – ora sembra schierato con Merkel e la Troika. Senza capire che in caso di Grexit, potremmo essere noi le prossime vittime dell’austerity.

Sterile anche l’accusa di chi dice che dietro Tsipras ci sono logiche nazionaliste come dimostrerebbero gli attestati di stima di Marine Le Pen e Matteo Salvini. Demistificazioni. Il blocco degli euroscettici non è altro che l’altra faccia della medaglia della Troika e delle sue politiche di austerity.
Alla lotta del “basso vs alto” (quella contro i mercati, gli speculatori e i poteri forti) risponde con quella tra “basso vs basso”: la guerra tra poveri e il ritorno dei feroci patriottismi. In Grecia, Syriza ha arginato l’ascesa dei nazisti di Alba Dorata. Quindi due strade ben alternative. E in campo non c’è il nazionalismo ellenico perché la battaglia di Tsipras, da sempre, è europeista. Nello stesso momento, si rivendica però sovranità popolare e di decidere il come restituire i soldi del debito. Quel debito così alto a causa di speculazioni e interessi privati. E sempre quel debito che la Germania dopo la Seconda Guerra mondiale non ha pagato grazie alla Conferenza di Londra del 1953.

Syriza finora ha rappresentato un’anomalia nell’intero panorama politico europeo. Il governo Tsipras è stato il primo che, apertamente, ha messo in discussione i dogmi dell’austerità neoliberista condivisi da centrodestra e centrosinistra degli ultimi venti anni. Per questo fa così paura a molti: rappresenta un precedente pericoloso per l’establishment.

In gioco, infatti, non c’è una moneta né un aiuto a una nazione che ha un peso economico pari a quello della provincia di Vicenza. Di mezzo c’è l’idea stessa di Europa che si ha in mente per il presente e per il futuro. Il braccio di ferro è tutto politico e gli indici economici diventano un pretesto per non parlare di ciò che conta davvero: cioè la vita, i diritti dei cittadini europei. E la democrazia, se davvero ha ancora un senso.

Per questo sarebbe un errore lasciare solo Tsipras. E l’ora di una nuova fase di mobilitazione europea con l’augurio che a novembre, in Spagna, vinca Podemos e a marzo lo Sinn Fein in Irlanda. Un contagio. Con la mobilitazione di movimenti, sindacati e parti sociali, non c’è altra speranza per la sopravvivenza dell’Europa. Il 5 luglio OXI significa democrazia.

Piketty: “Europa in agonia sono i conservatori ad averla devastata”



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L’economista francese: serve una conferenza per ristrutturare i debiti più insostenibili.

di Roberto Brunelli, da Repubblica, 29 giugno 2015

L’Europa sta per essere distrutta. Ma non dai greci e dall’ostinazione di Tsipras e Varoufakis, ma dai “conservatori” del Vecchio Continente, in particolare quelli tedeschi. E’ un Thomas Piketty furente a dire la sua, in un’intervista alla Zeit che il settimanale tedesco pubblica non a caso con grandissimo rilievo. Perché è un j’accuse — quello dell’economista divenuto una star internazionale con il suo “Il capitale del XXI secolo” — che cade come un meteorite in fiamme sulla cronaca greca di questi giorni.

“I conservatori stanno ad un passo dal devastare definitivamente l’idea europea, e lo fanno per colpa di uno spaventoso deficit di memoria storica. In particolare per quello che riguarda i debiti. Proprio la Germania di oggi dovrebbe capire il significato di quello che sta accadendo: dopo la guerra Gran Bretagna, Germania e Francia soffrirono di una situazione debitoria peggiore di quella della Grecia di oggi. La prima lezione che dovremmo trarne è che ci sono molti modi per saldare dei debiti: e non uno solo, come Berlino vorrebbe far intendere ai greci”.

Sul banco degli imputati, non è difficile immaginarlo, soprattutto Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble.Quando sento i tedeschi dire che sono mossi solo dall’etica e che sono fermamente convinti che i debiti debbano essere pagati, penso: ma questa è una barzelletta! La Germania è esattamente il paese che non ha mai onorato i suoi debiti, né dopo la prima né dopo la seconda guerra mondiale”. Niente a che vedere con “l’accezione comune di ordine e giustizia: perché se la Germania nel secondo dopoguerra realizzò il boom, fu proprio grazie del fatto che i suoi debiti furono abbattuti, cosa che oggi neghiamo con ferocia ai greci.

Quello che propone Piketty è chiaro: una grande conferenza europea sul tema dei debiti. Qualcosa di paragonabile, come dimensione strategica, al Piano Marshall. Ma niente del genere è all’orizzonte, anzi. “La verità è che una ristrutturazione dei debiti è inevitabile in molti paesi europei, non soltanto in Grecia. E invece abbiamo appena perso inutilmente sei mesi di tempo a causa di trattative tutt’altro che trasparenti con Atene”.

Non solo. A Schaeuble, che sostiene che una eventuale Grexit addirittura favorirebbe una rinnovata compattazione europea, Piketty risponde con uno scenario opposto: se non cambia passo, l’Unione europea affronterà una crisi di fiducia ancora più grave. “Sarà l’inizio di una lenta agonia, nella quale sacrificheremo all’altare di una politica debitoria irrazionale il modello sociale europeo, persino in termini di democrazia e civilizzazione”. L’ultimo pensiero, e non poteva essere altrimenti, è per la cancellera tedesca Angela Merkel: “Se vuole assicurarsi un posto nella storia, come Kohl con la riunificazione tedesca, deve avere il coraggio di un nuovo inizio. Chi invece oggi insiste nel voler cacciare la Grecia dall’eurozona finirà nella pattumiera della storia”.

Regioni, da Chiamparino a Crocetta passando per De Luca: tutte le spine nel fianco del Partito Democratico

REGIONI PD
Quattro Regioni, quattro Governatori, quattro rogne. E un'unica radice: la lotta interna al Partito Democratico. Non si è ancora sbiadito il ricordo delle sconfitte cocenti in Veneto e Liguria, e il Pd deve riaprire il capitolo Regioni. Da Nord a Sud passando per il centro, sono quattro le Regioni in bilico per motivi politici, amministrativi, giudiziari. In Piemonte, Lazio, Campania e Sicilia il segretario Matteo Renzi rischia di andare a sbattere contro un muro alzato dal suo stesso partito.
In Piemonte Chiamparino è alle prese con l'inchiesta della magistratura sulle firme false, in Sicilia il Pd ha presentato una mozione di sfiducia nei confronti di Crocetta, in Campania Vincenzo De Luca è un presidente sospeso e lotta contro il tempo per nominare la sua giunta, in Lazio l'amministrazione Zingaretti è finita di striscio nel pentolone di Mafia Capitale. Si tratta di casi in cui a giocare un ruolo predominante è il Partito democratico a livello regionale.
Emblematico è il caso siciliano. I renziani, che hanno nel sottosegretario Davide Faraone il loro colonnello in Sicilia, non hanno mai nascosto i loro mal di pancia nei confronti dell'outsider Rosario Crocetta. La mozione di sfiducia presentata dal deputato Pd all'Ars Fabrizio Ferrandelli nei confronti del presidente della Regione è solo l'ultimo atto di una lotta intestina iniziata il giorno successivo all'ingresso di Crocetta a Palazzo d'Orleans. Lotta che si ripercuote sul governo regionale: l'assessore all'Economia Baccei mandato in Sicilia per volontà di Renzi è stato duramente criticato dal Presidente della Regione per le sue idee in campo economico. Soprattutto per la decisione di Baccei, di concerto con Palazzo Chigi, di rimettere mano alla legge finanziaria approvata dal governo Crocetta.
crocetta

Dissidi legati ai tagli di spesa, ma non solo. A Palermo il clima è rovente: i renziani hanno coniato l'hashtag "#SaroStaiSereno" che è tutti gli effetti una dichiarazione di guerra, visti i precedenti usi dell'invito alla calma. Da parte sua Crocetta non evita la sfida, digrigna i denti e replica: "Io penso a Governare". "Sono molto preoccupato sulla situazione politica regionale in Sicilia. La classe politica sembra la casa del Grande fratello. Liti, beghe, riti tribali da Prima repubblica, mentre tutto crolla", ha attaccato il sottosegretario Faraone. Nello scontro aperto, però, Crocetta si trova in una posizione di debolezza, perché il suo Governo ha bisogno dell'aiuto di Roma: "Dobbiamo trovare 3 miliardi di euro", ha detto il sottosegretario. Il messaggio che arriva a Crocetta è che "se non si allinea non avrà alcun aiuto da Roma. Questo ragionamento lo facevano in passato i Lima e i Ciancimino. Se il messaggio di Faraone è un messaggio ufficiale del Governo io sono costretto ad andare in Procura".
In Campania il caso (e il caos) ormai è noto. Renzi ha firmato la sospensione del neo governatore De Luca per effetto della Legge Severino. Il consiglio regionale, previsto per oggi, è stato rinviato a data da destinarsi. E l'ex sindaco di Salerno corre contro il tempo: ha depositato, come previsto, il ricorso presso il Tribunale di Napoli per l'annullamento del decreto di sospensione. Il risultato? Giornalisti in attesa per ore prima di poter partecipare a una conferenza stampa già convocata, neo consiglieri costretti a "trattare" con le guardie giurate per poter accedere al palazzo del consiglio regionale, polizia e carabinieri in assetto antisommossa, un'ambulanza e centinaia di manifestanti con striscioni, cartelli, fischietti e bandiere. Questa, in sintesi, la "prima" giornata della X legislatura del Consiglio regionale campano.
"De Luca comincerà il suo iter per il ricorso ma le due cose non coincidono", ha detto il presidente del Consiglio regionale D'Amelio. "Io convocherò il Consiglio prima della scadenza del 12 luglio, non so quando il tribunale si pronuncerà sul ricorso di De Luca, le due cose non coincidono. Si tratta di capir se posso convocare il Consiglio senza discutere come prevede lo statuto, del programma del Presidente. Perché statuto e regolamento del Consiglio regionale dicono che ci deve essere questo punto all'ordine del giorno del primo Consiglio".
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C'è poi la rogna piemontese. Il governatore Sergio Chiamparino è pronto a dimettersi dalla sua carica per l'inchiesta sulle firme false raccolte per la presentazione delle liste alle elezioni regionali. Tutto resta sospeso in attesa della pronuncia del Tar il prossimo 9 luglio. Di certo il "Chiampa", come lo chiamano i suoi fedeli, non resterà a guardare, né seguirà le orme del suo predecessore leghista Roberto Cota, la cui poltrona è stata in bilico in attesa delle decisioni dei giudici per un caso simile. Si inizia a parlare di elezioni anticipate, non subito ma gennaio-febbraio.
Nel partito l'aria è pesante: le accuse si rimbalzano tra Pd regionale e provinciale, investendo uomini di assoluta fede renziana come il segretario regionale Davide Gariglio al quale viene rivolta, in maniera velata, l'accusa di superficialità per aver creato il caos nelle liste. "Via le ombre o si va a votare", ha detto Chiamparino. L'attesa durerà almeno fino al 9 luglio, se non oltre.
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Nel Lazio, la situazione è meno drammatica che altrove, ma solo perché le attenzioni sono ora tutte rivolte non al Governatore Zingaretti quanto al sindaco di Roma Ignazio Marino. Sempre uomo Pd non renziano. Eppure Zingaretti poche settimane fa ha dovuto fare i conti, senza troppi problemi in verità, con una mozione di sfiducia nei suoi confronti, bocciata dal Consiglio regionale. Da Roma viene confermata assoluta fiducia nel sindaco e nel Presidente. "Marino e Zingaretti non si toccano", ripetono al Nazareno.
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Ma tra le dichiarazioni ufficiali e i sentimenti che agitano il Pd romano c'è di mezzo un baratro. Perché le dimissioni del capo di gabinetto della Regione Lazio Maurizio Venafro, rassegnate tre mesi fa in seguito all'indagine a suo carico in un'inchiesta su alcuni appalti legati a loro volta a Mafia Capitale, hanno gettato qualche ombra sull'amministrazione regionale. Tutto è legato alla piega che prenderà nelle prossime settimane l'inchiesta sulla corruzione a Roma.
Quello che va in scena a livello regionale è un logorio lento, e inesorabile, che rischia di minare la fiducia già in calo nel partito, come testimoniano i risultati delle ultime elezioni amministrative. Ma soprattutto che ripropone la questione irrisolta dello scollamento tra il Nazareno e le segreterie locali del Pd.

Firme false, il "clima terribile" nel Pd Piemontese. Chiamparino attacca il partito, il segretario renziano sotto accusa. E da Roma...

CHIAMPARINO
Non si farà rosolare a fuoco lento, non rimarrà incollato alla poltrona. Come sta facendo Ignazio Marino, sussurra qualche maligno. Ma soprattutto come ha fatto Roberto Cota, rimasto appeso per quattro anni alla sentenza definitiva sulle firme false che alla fine decretò l'annullamento delle elezioni. Sergio Chiamparino non ci sta. Non vuole che ci sia nemmeno un'ombra che macchi una carriera specchiata. Per cui, se il 9 luglio il Tar si pronuncerà a favore del ricorso presentato dalla Lega, trarrà le sue conclusioni e si dimetterà.
Sono ore drammatiche per il partito in Piemonte. "Quando entri nella sede del partito c'è un clima terribile, tutti che strisciano lungo i muri, che si guardano di sottecchi", racconta con la voce grave un parlamentare sabaudo. Perché è la filiera Democratica regionale che viene pesantemente messa sotto accusa dal presidente. Un modo di dire "io non c'entro nulla con voi, non pago con la mia reputazione vostri errori".
I sostenitori del "Chiampa", come viene affettuosamente chiamato dai suoi attaccano a testa bassa: "Se devi raccogliere le firme devi farlo bene, non puoi farlo in maniera approssimativa". E ancora: "Si deve ribadire la differenza e l'estraneità di Sergio da un sistema politico che dimostra una così incredibile superficialità".
A Torino e dintorni è iniziata da settimane quella che viene definita "Rimbalzopoli". Viene messa sotto accusa la segreteria regionale, che scarica il barile su quella provinciale, che mette sotto accusa i certificatori, che attaccano i responsabili della raccolta firme. Una girandola di veleni e maldicenze che è arrivata a colpire perfino i semplici dipendenti del partito.
Tecnicamente la faccenda è complicata. Ma è riassumibile così: chi doveva autenticare le firme delle liste non era presente al momento di farlo. Tanto che alcuni sottoscrittori hanno detto di non riconoscere i pubblici ufficiali che dovevano essere presenti al momento dell'autografo, e alcuni dei pubblici ufficiali stessi hanno spiegato candidamente che le firme apposte sotto alcuni moduli non erano le loro.
Il Tar può seguire quattro strade: respingere il ricorso; rinviare tutto all'autunno per ulteriori approfondimenti; accogliere le osservazioni ma attendere l'evolversi del procedimento penale prima di esprimersi; accogliere il ricorso. In questi ultimi due casi Chiamparino ha annunciato con chiarezza che mollerà. Nonostante il pressing che arriva da Roma. Il vicesegretario Lorenzo Guerini da giorni ripete che tutto il partito è con lui e che sulla faccenda delle dimissioni deve ripensarci. E, dietro di lui, anche Matteo Renzi è in costante pressing. Spiega un deputato a lui vicino: "Piuttosto che perdere il Piemonte, fossi in lui, mi taglierei una mano. Se rivinci hai fatto il tuo, se perdi, o se vinci con meno dell'ultima volta con percentuali superiori al 60%, ti si apre un problema enorme".
Eppure da quell'orecchio l'ex sindaco di Torino non ci sente. L'ultima risposta "all'amico Guerini" è arrivata oggi. Ed è perentoria: "Non credo che i nostri elettori, e nemmeno in generale tutti i piemontesi, siano d'accordo nel vedermi ripetere quanto ha fatto Roberto Cota, che ha anteposto l’attaccamento alla poltrona alla legalità e alla certezza dell’azione di governo".
Il partito è sotto shock, "dominato dalle correnti e dai capibastone". Due anni fa sarebbe bastato che il gruppo consiliare uscente certificasse le liste, e il pasticcio si sarebbe evitato. Ma, spiegano, il timore era quello che, essendo stato il Consiglio di Cota annullato, si potesse prestare il fianco a ricorsi. E quando si paventò l'ipotesi di far certificare il faldone ai gruppi nazionali, subentrò l'orgoglio del campanile.
Un orgoglio che oggi rischia di costare carissimo. Da Torino spiegano che il pressing di Renzi è forte anche in considerazione che il vertice apicale del partito, il segretario regionale Davide Gariglio, è un renziano di ferro della prima ora, considerato vicino al potente senatore Stefano Lepri. E quell'accusa di "superficialità" che arriva direttamente dalle stanze della presidenza rischia di terremotare uno dei pochi sistemi regionali che si avviavano a marcare la discontinuità nei confronti della Ditta di bersaniana memoria.
Ma il segretario è finito nell'occhio del ciclone. I suoi detrattori lo accusano di essere stato indirettamente la causa del pasticcio, avendo fatto pressioni per infilare nel listino del presidente un suo uomo, il tesoriere regionale Domenico Mangone, nonostante le contrarietà dell'allora candidato Chiamparino, e convincendosi solo all'ultimo di virare su una donna, Valentina Caputo. Portando avanti il tira e molla fino a tre giorni prima della presentazione delle liste, provocando così quella corsa forsennata le cui conseguenze oggi sono sotto gli occhi di tutti. Il segretario provinciale Fabrizio Morri ha candidamente spiegato che i tempi così esigui furono dovuti a "un problema politico, non roganizzativo"
Lo stesso Mangone è stato uno dei quattro membri di una commissione interna al partito, incaricata di fare luce su quel che era successo. Una relazione, spiega uno degli interessati, che conteneva "la consapevolezza che quella documentazione era raffazzonata, e che lo era per una precisa responsabilità politica".
Così, mentre Renzi lavora per scongiurare un'altro patatrac dopo l'imbarazzante vicenda di Vincenzo De Luca e il clima da fine impero che si respira a Roma, e i renziani tentano in tutti i modi di arginare una slavina che li travolgerebbe, sono i Giovani Turchi a schierarsi compattamente attorno al presidente, difendendo quella che ritengono "una scelta di grande integrità morale e politica". "La penso come Chiamparino", ha fatto sapere il senatore Stefano Esposito.
Chi, fino a un mese fa, giurava che il rischio elezioni era un'ipotesi irreale, oggi si è spostato su una posizione di 50 e 50. Non subito, però. Perché, dal momento dell'addio, la legge prescrive che la Regione debba tornare al voto entro tre mesi. Uno scenario troppo esasperato anche per i difensori di Chiamparino. Così la strategia dovrebbe essere quella, in caso di cattive notizie dal Tar, di annunciare le dimissioni per il prossimo gennaio-febbraio, in modo da consentire un'unica tornata amministrativa insieme al capoluogo.
Anche perché un abbandono immediato pregiudicherebbe lo sblocco della prima trance dei fondi europei, il cui piano regionale è in drittura d'arrivo. Che significherebbe il blocco, tra le altre cose, della formazione professionale e il rinvio sine die di una lunga serie di incentivi alle imprese.
I piani del presidente sembrano comunque chiari: ricandidarsi, chiedendo di fatto di svolgere, anche se informalmente, il ruolo di commissario del partito. Il che equivale a niente condizionamenti su candidature, listino e giunta, niente influenza dei capibastone e, ovviamente, niente pasticci sulla compilazione delle liste. Una piattaforma che, unita alla messa in sicurezza dei conti della Regione e all'avvio della razionalizzazione del piano sanitario, gli consentirebbero di ripresentarsi ai piemontesi con un accresciuto patrimonio di credibilità personale e ottime chance di vincere di nuovo.
Il contrario di quel che pensano i renziani: "Se lo fa, e rimane a bagnomaria fin dopo Natale, la sua amministrazione è delegittimata, e lui è politicamente finito, e dovrà assumersene le sue responsabilità". "Rimbalzopoli" e il "clima terribile" continuano a imperversare. E lo faranno per lo meno fino al 9 luglio.