sabato 31 gennaio 2015

Marco Revelli su Mattarella- Non ci uniamo al ‘Te deum’


Non ci uniamo al 'Te deum' prevalente in queste ore che seguono la quarta votazione in Parlamento. Non perché la persona di chi è stato eletto non abbia una propria dignità. Ma per almeno due ragioni politiche per noi dirimenti.
In primo luogo perché dal punto di vista della subalternità o dell'autonomia rispetto all'Europa della Troika - che è la vera partita importante in questo delicatissimo momento - Mattarella non garantisce nulla. Non è certo una scelta di rottura rispetto alla pessima deriva precedente in cui i massimi vertici del nostro Paese sono stati fedeli esecutori delle direttive provenienti da Francoforte e da Berlino, con i guasti sociali e con il deficit di democrazia che sono sotto gli occhi di tutti.
In secondo luogo perché per quanto riguarda la questione decisiva per il nostro assetto istituzionale, e cioè la restaurazione dell'ordine costituzionale o la sua manomissione, il metodo con cui si è giunti a questo esito conferma la tendenza alla sottomissione del Parlamento da parte del Capo del Governo, secondo una logica di personalizzazione e di verticalizzazione della vita istituzionale nelle mani di Renzi che abbiamo da tempo denunciato: in questi giorni abbiamo assistito al fatto inaudito - in una democrazia parlamentare - di un Presidente del Consiglio che ha prima gestito le consultazione sull'elezione del Capo dello Stato, poi formulato la propria candidatura (da prendere o lasciare) al proprio partito e agli alleati di governo, usurpando una prerogativa che appartiene al Parlamento, nelle singole persone dei suoi membri.
La scelta del Presidente spetta infatti, in solido, ai parlamentari come singoli - neppure come appartenenti a un partito, altrimenti non si spiegherebbe il voto rigorosamente segreto per dettato costituzionale. Ha fatto lui il mazzo e dato le carte, a conferma della mutazione regressiva del nostro assetto costituzionale (e a prescindere dalla presentabilità della figura risultata eletta).
Nel coro diffuso di violinisti del principe, noi queste cose dovremmo dirle con chiarezza, contrapponendo i giochi da corte rinascimentale di Roma-Bisanzio, alla linearità democratica di Atene, dove a meno di una settimana dal voto un ministro arrivato all'incontro in motocicletta le "canta chiare" al messaggero della Troika in nome del proprio popolo e del mandato ricevuto
L’Altra Europa con Tsipras

La dittatura del debito in Europa e le possibili vie di fuga di Luigi Pandolfi

grecia h partbE’ ormai un dato storico, oltre che economico, il fatto che la crisi finanziaria scoppiata a cavallo tra il 2007 ed il 2008 abbia avuto un effetto deflagrante sulla finanza pubblica dei paesi europei. Il mix di salvataggi bancari, austerity e recessione, che ha segnato la storia europea degli ultimi anni, ha letteralmente fatto esplodere il debito nella gran parte dei paesi dell’Unione, mettendone a rischio, in alcuni casi, la stessa sostenibilità. Se guardiamo all’Eurozona nel suo complesso, è impressionante constatare come nel periodo 2007 – 2013 il debito aggregato sia passato dal 66,2% al 92,6% del Pil (In valore assoluto 8.842 miliardi di Euro)[1]. Certo, in questo dato ci sono situazioni molto diverse tra di loro, sia per l’entità dell’indebitamento che per la sua composizione, ma il fenomeno della crescita del debito ha riguardato tutti i paesi dell’area, ed anche quelli che al momento ne sono fuori.
Prendiamo due paesi considerati agli antipodi dal punto di vista economico: la Germania e la Grecia. Nel periodo in esame, il primo fa registrare un balzo del proprio debito dal 65,2% al 78,4% (con una punta dell’81% nel 2012) della ricchezza nazionale, il secondo dal 107,4% al 175,1%.[2] Per quanto può valere sul piano economico, è impressionante però il divario tra i due paesi relativamente alla grandezza assoluta del proprio debito: 2.127 miliardi Euro la Germania (valore più alto dell’intera Unione), 317 miliardi la Grecia[3].
L’Italia, all’inizio della crisi, nel 2007, faceva registrare un debito pubblico pari a 1.600 miliardi di Euro, corrispondente al 104% del Pil. Al quarto trimestre del 2013 era arrivato a 2.069 miliardi di Euro (133% del Pil), un balzo di oltre 400 miliardi in poco più di cinque anni. Oggi siamo sopra i 2.160 miliardi di Euro, 132% del Pil.
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Da paese a paese, ovviamente, conta molto la storia nazionale nella formazione del debito. C’è un dato unificante, nondimeno, comune a tutti i paesi europei: la crescita del debito negli ultimi anni non è imputabile ad un’espansione della spesa sociale (“Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità”). Dal 2002 al 2008 essa è rimasta stabile al 25%, poi un aumento al 27,6% nel 2009, fino al 26,9% del 2011[4]. Anche in Italia la spesa per sanità, istruzione, previdenza e protezione sociale, si è mantenuta negli ultimi dieci anni pressoché costante, oscillando tra il 25 ed il 26 per cento del Pil (il picco del 28% registratosi negli ultimi 2 anni è dovuto solo ad un più massiccio, e straordinario, ricorso agli ammortizzatori sociali). Peraltro, nel nostro caso, gran parte di essa (ben il 61%) è assorbita dal sistema previdenziale e ciò spiega il perché tra i 28 paesi dell’Ue siamo al 24° posto per assegni di disoccupazione, al 25° per quanto riguarda sanità, invalidità, famiglia e infanzia. In quanto a spesa per edilizia sociale e lotta all’esclusione siamo proprio agli ultimissimi posti[5], il fanalino di coda dell’Europa, insomma. D’altronde non si spiegherebbe altrimenti il fatto che il nostro paese, dai primi anni novanta, registra ininterrottamente i migliori saldi primari in ambito Ue (eccesso della raccolta fiscale sulla spesa pubblica al netto degli interessi sul debito). Nel 2013 l’avanzo primario è stato nel nostro paese di oltre due punti di Pil (più di 30 miliardi). Ciò nonostante il deficit si è attestato al 2,8% (strutturale al 0,9%)[6]. Ad incidere su questo dato sono stati gli interessi che paghiamo sul debito (4,8% sul Pil, circa 100 miliardi all’anno), che, come si è detto, è cresciuto anche per la nostra partecipazione al salvataggio delle banche europee a partire dal 2011[7].
L’impennata del debito, quindi, in tutti i paesi europei ha altre radici. La prima, quella più importante, ha a che fare con il rovesciamento del rapporto di forza tra politica e finanza. Gli stati, il cui debito un tempo era davvero “sovrano”, appartenente cioè a chi deteneva il potere politico di battere moneta, oggi sono tenuti al guinzaglio dalla finanza internazionale (banche, fondi assicurativi, hedges funds, vulture funds, ecc.). Nel caso italiano c’è una data simbolo in questa vicenda: il 1981,l’anno in cui si sancì il “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro. Fino a quel momento il rapporto tra Stato e banca centrale era di tipo strumentale, di servizio, ed il prezzo dei bond veniva fatto essenzialmente dal Tesoro. Con la separazione, invece, l’Italia è costretta a finanziarsi interamente sul mercato, al prezzo stabilito da quest’ultimo (nel 1993 il tasso di interesse arrivò a toccare il 12,6%). Le conseguenze, per quanto riguarda l’entità del debito, furono, per ovvie ragioni, devastanti: si passa dal 58% del Pil del 1980 al 124% del 1994. E’ stato calcolato che dal 1980 al 2012 l’Italia ha pagato di soli interessi sul debito qualcosa come 3,1 Trilioni di euro (rivalutati al 2012), ovvero 3.100 miliardi di euro[8].
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Una seconda causa, più recente, della crescita impetuosa del debito europeo è quella che rimanda ai salvataggi bancari ad opera degli stati tra il 2009 ed il 2012. A partire dai primi anni ottanta, una gigantesca macchina speculativa, con al centro un sistema bancario (compreso quello “ombra”) sempre più interconnesso su scala globale, ha ammorbato, drogato, l’economia degli stati, fino all’esplosione delle bolle finanziarie (ed immobiliari) degli anni 2007-2008. Un incendio finanziario che è stato domato solo grazie all’intervento massiccio dei governi (in Europa anche della Bce), corsi al capezzale delle banche con forti e sistematiche iniezioni di liquidità. Si pensi al programma di rifinanziamento messo a punto dalla Bce tra il 2011 e il 2012, denominato Long term refinancing operation (LTRO): Eurotower ha concesso alle banche in crisi mille miliardi di Euro ad un tasso d’interesse (quasi simbolico) dell’1%. Soldi che le stesse banche hanno poi largamente impiegato nell’acquisto di titoli pubblici ad un tasso di interesse quadruplo[9]. Centra qualcosa anche questo con l’aumento del debito pubblico? Difficile negarlo.
Per una crisi che aveva trovato origine nelle scorribande speculative del sistema bancario, ben presto si è data una spiegazione che ne ha rovesciato totalmente il significato. Le responsabilità delle banche finiscono sullo sfondo (forse è meglio dire nell’oblio) ed il problema diventa, inevitabilmente, il debito pubblico. Inizia a circolare la nota espressione “crisi dei debiti sovrani”. Ne discenderanno le regole che oggi impongono agli stati membri del sodalizio europeo ferree politiche di rigore e “riforme strutturali” in chiave neoliberista. Dal 2011 in poi una serie di norme (Six Pack, Fiscal compact, Two Pack) modificano sensibilmente la governance economica europea, imponendo una stretta severa sui bilanci degli stati, aggravando, di fatto, le condizioni generali dell’economia.
Per alcuni paesi, e tra questi ci siamo noi, il debito costituisce oggi un fattore di dipendenza (storicamente, ma anche in letteratura, al concetto di debito è stato sempre associato quello di schiavitù) formidabile da banche e fondi speculativi. A fronte di un debito inestinguibile, si impongono sacrifici immani ai cittadini per sostenerne il servizio (pagamento degli interessi). Si tratta di risorse che vengono sottratte all’economia, al welfare, al lavoro, alla cura del territorio, alla difesa dei beni culturali, al futuro delle nuove generazioni. Ridurne la consistenza con le modalità previste dal Fiscal compact non solo è impossibile, ma anche immorale. Significherebbe condannare milioni e milioni di cittadini europei alla miseria più nera, a prolungati periodi di disoccupazione, quasi ad espiazione di una colpa che assolutamente non hanno. Sarebbe la fine di ciò che è rimasto del “modello sociale europeo”, inteso come insieme di norme, strumenti, politiche pubbliche volte ad assicurare alti livelli di protezione ed inclusione sociale, diritti sociali e redistribuzione della ricchezza, attiva partecipazione dei cittadini alla vita della nazione. Un laboratorio greco su vasta scala,in breve. Né è pensabile che nelle condizioni date si possa risolvere il problema puntando tutto su un’agognabile ripresa, che, per varie ragioni, tarda ad arrivare, e che, comunque, sarebbe del tutto insufficiente.
Al punto in cui è arrivato, il debito europeo, almeno per una sua parte (e segnatamente in alcuni paesi), è impagabile. Esso si è strutturato ormai come un debito perpetuo, in continua crescita, che genera profitti soltanto per i grandi investitori, le banche, i fondi speculativi (i piccoli risparmiatori, le famiglie, ne detengono solo una minima parte[10]). Abbiamo visto come si è formato in questi decenni e come è diventato ipertrofico negli ultimi anni. Tagliarne una parte del suo valore nominale, nell’ambito di una conferenza europea sul debito, non comporterebbe pertanto grossi problemi, nemmeno sul piano morale. In prospettiva sarebbe comunque auspicabile un ruolo attivo della Bce, secondo lo stesso schema che caratterizzava il rapporto tra stati e banche centrali prima dei “divorzi” avvenuti a cavallo tra gli anni settanta e gli anni ottanta. La Bce, in sostanza, andrebbe a finanziare gli stati direttamente e non attraverso la mediazione del sistema bancario, eliminando così l’opera di strozzinaggio di quest’ultime a danno dei primi. E’ inammissibile che le banche europee ricevano, a tassi prossimi allo zero, i soldi creati dal nulla dalla Bce (Fiat money) e con questi soldi acquistino i Titoli del Tesoro dello Stato, che, al punto in cui siamo, servono soltanto a ripagare ogni anno gli interessi sullo stesso debito pubblico.
Un’ipotesi che non comporterebbe, nell’immediato, un cambiamento della natura della Bce, ma che potrebbe sortire l’effetto di un abbattimento dello stock del debito, è quella prevista nel cosiddetto Piano P.A.D.R.E. (acronimo di Politically Acceptable Debt Restructuring for the Eurozone/Ristrutturazione politicamente accettabile del debito per l’Eurozona) .[11] Si tratterebbe di una soluzione compatibile con l’attuale governance europea, che funzionerebbe più o meno così: la Bce (o un’altra istituzione finanziaria europea, Mes, Bei) acquisterebbe a scadenza, e al valore nominale, una quota del debito di ciascuno dei paesi dell’Eurozona, in proporzione alla quota di partecipazione del singolo paese al capitale della Bce. Tali titoli, emessi ad interesse zero da parte dello stato, verrebbero convertiti in titoli irredimibili (perpetuities, senza scadenza) da parte dell’ente acquirente, perdendo, di fatto, la loro natura di “debito”. La compensazione delle perdite che ne deriverebbero per l’acquirente avverrebbe attraverso la rinuncia da parte degli stati al profitto loro spettante sull’attività di emissione di moneta (gettito da signoraggio).
Una cosa ben diversa dal programma di Quantitative easing (QE) annunciato da Mario Draghi, che ancora una volta ha come riferimento le banche. Esso, per come è stato congegnato, contribuirà certamente a consolidare i bilanci delle banche e ad “alleggerire” il peso dei titoli di stato che esse hanno in pancia,[12] senza alcuna garanzia che il “denaro fresco” (anche quello dei programmi Ltro e TLtro era “denaro fresco”) affluito nelle loro casse venga opportunamente impiegato per aprire linee di credito a favore di cittadini ed imprese.[13] Tale misura, poi, non avrà alcun effetto sulla consistenza del debito dei paesi che ne beneficeranno (cambierà soltanto il creditore). Al massimo farà risparmiare qualcosa sugli interessi.
In conclusione si può affermare che l’attuale dinamica del debito, in Europa come in altri paesi del mondo, è figlia dell’assoggettamento dei governi, e degli stati, alla grande finanza ed al capitale. Qualunque sarà la modalità per liberarci dal suo fardello, essa costituirà un primo passo per il recupero di sovranità da parte degli stati e di autonomia da parte della politica.
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[1] Fonte: Istat, elaborazione su dati Eurostat, Euro-indicators (23 aprile 2014)
[2] Ibidem
[3] Il dato è riferito al 2013
[4] Fonte: Eurostat
[5] Fonte: Eurostat
[6] Fonte: Mef, Nota di Aggiornamento al Def 2014
[7] Per il salvataggio delle banche nazionali l’Italia ha speso però meno degli altri paesi europei, circa 40 miliardi.
[8] Fonte: scenarieconomici.it
[9] La Bce, in due tranche (dicembre 2011 e febbraio 2012), ha erogato alle banche europee più di un trilione di Euro (1000 miliardi). Alla prima asta hanno partecipato 523 banche, alla seconda 800, di cui la metà tedesche. Le banche italiane hanno preso in prestito complessivamente 293 miliardi di Euro.
[10]In Italia il debito attualmente è così composto: il 30% Detentori esteri; il 10,6% da Banca d’Italia e BCE; il 42,2% da Banche, Fondi Comuni ed Assicurazioni Italiane; il 10% dalle Famiglie Italiane; il 7,2% da altri gestori Italiani.
[11] La proposta è stata lanciata dagli economisti Pierre Paris e Charles Wyplosz.
[12] Si tratta in gran parte di titoli del debito acquistati tra il 2011 ed il 2012 con i soldi dei programmi Ltro della Bce.
[13] C’è da aggiungere che in assenza di politiche di bilancio espansive da parte degli stati (rimane l’obbligo del pareggio di bilancio), come è accaduto negli Usa, l’efficacia di queste misure per il rilancio dell’economia non potrà che essere minimo.

Kobane, la resistenza a capitalismo e scontro di civiltà

kobane2-630x325Da sempre destinata a resistere, Kobane ha respinto l’Isis e inaugurato un percorso di autogoverno in tutta la Rojava, contro capitalismo e scontro di civiltà

di Carlo Perigli, Popoffquotidiano.it
Kobane si trova nella Siria occidentale, al confine con la Turchia, o in quello che i curdi chiamano Kurdistan occidentale o meglio ancora, Rojava, in curdo semplicemente “ovest”. Kobane è lì, a pochi passi da una ferrovia che segna il confine tra Ankara e Damasco, tranciando di netto il Kurdistan in due delle quattro entità statuali in cui è stato scomposto in seguito agli accordi segreti Sykes Picot del 1916 e degli accordi di Losanna del 1923. Così, la ferrovia, niente di più di una semplice infrastruttura adibita al trasporto, da quasi un secolo a Kobane è simbolo di divisione e morte. Su quella linea, immaginaria e reale allo stesso tempo, centinaia di persone hanno perso la vita mentre cercavano di oltrepassare il confine, quello spazio tra Kobane e Qamishlo, quasi impalpabile eppure tremendamente incolmabile.
Ma gli abitanti di Kobane, di Qamishlo e di tutta la Rojava, sono abituati a resistere da sempre, perché sono consapevoli che solo in questo modo possono continuare ad esistere, a dispetto chi li vorrebbe assimilati in questo o quello Stato. A dispetto di Ankara, che da quasi un secolo cerca ostinatamente di strappare ai curdi le loro radici, ma anche di Damasco, che dagli anni ’60 ha cercato di creare una guerra tra poveri, facendo emigrare forzatamente popolazioni arabe nei territori curdi del cantone di Jazira.
Kobane, in particolare, fa paura più di tutte le altre città del Kurdistan, perché è da sempre il centro nevralgico della resistenza curda. Non è un caso che proprio lì abbia preso vita la rivoluzione che presto ha coinvolto tutta la Rojava. Una resistenza attiva, contro il governo Assad, l’opposizione («un gruppo di sciovinisti e islamisti radicali», secondo le parole del comandante di brigata Ypg, Mishteur Yall) e i ripetuti attacchi di Al Nusra e Isis, in atto fin dal marzo del 2013.
Ma se Kobane da sola fa paura da un punto di vista prettamente strategico, l’intera Rojava spaventa per motivi politici, per la sua auto-definita natura egualitaria, comunitaria e anti-sessista, per il suo essere un esperimento senza precedenti in tutto il medio-oriente. Così, una piccola porzione di terra diventa la diretta negazione del sistema capitalista globale, la dimostrazione che una società diversa non solamente è auspicabile, ma finanche possibile.
Un’organizzazione sociale basata sulla Carta del Contratto Sociale, una costituzione che coinvolge le regioni democratiche di Kobane, Afrin e Cirze, unite in una confederazione che, alla faccia della becera retorica nazionalista e occidentale, coinvolge sette popoli diversi. Una costituzione basata sul principio di autogoverno locale di ciascun cantone, sull’equilibrio biologico, sulla libertà di religione, di opinione ed espressione, sulla parità dei sessi. Una struttura che, di fronte ad un occidente che privatizza ed emargina, sancisce la gratuità dell’istruzione primaria e secondaria, la sicurezza sociale e la tutela della maternità e dell’infanzia, che prevede la proprietà pubblica delle risorse naturali, che orienta il sistema economico verso la garanzia dei «bisogni fondamentali e ad un tenore di vita dignitoso per tutti i cittadini».
Forse è proprio per questo che le cancellerie occidentali per lungo tempo si sono “dimenticate” di fermare Isis, intervenendo solamente quando Kobane era ormai sottoposta ad un lungo e straziante assedio. Forse in questo senso si spiega l’atteggiamento della Turchia, più preoccupata di reprimere i curdi che di respingere le bande islamiste, che per troppo tempo hanno beneficiato della “porosità” della frontiera con Ankara, quella stessa linea immaginaria, mortale per i curdi e zona di transito e passeggio per gli islamisti. Ora Kobane è libera dall’Isis, ma è allo stesso tempo consapevole che la resistenza dovrà durare a lungo. Sarà una battaglia diversa, volta al riconoscimento della Rojava e del contratto sociale che ne è alla base, la rivendicazione di un percorso dal basso, esempio perfetto di quanto sia sterile e strumentale descrivere il mondo come uno scontro di civiltà.

Cofferati: ‘Sinistra riparta dai valori o partito nuovo non va da nessuna parte’

Cofferati: ‘Sinistra riparta dai valori o partito nuovo non va da nessuna parte’


L'ex leader della Cgil, che ha lasciato il Partito Democratico dopo aver denunciato brogli alle primarie in Liguria traccia la strada: "Rodotà e Landini dicono: partiamo dalla società, dalle persone in carne ed ossa, dai loro bisogni". Parteciperà all’eventuale lista civica che si contrapponesse al Pd della Paita? "Da qui a maggio il tempo è infinito..."

Ue-Grecia. Primo round, match pari di Claudio Conti, Contropiano.org

Ue-Grecia. Primo round, match pari
Fin qui tutto bene, si diceva ad ogni piano l'uomo che cadeva dal grattacielo (La haine). I primi due round di confronto tra Unione Europea e nuovo governo greco hanno registrato la conferma assoluta delle posizioni di partenza. Il primo incontro di giovedì, tra il presidente del parlamento europeo Martin Schulz e Alexis Tsipras è stato “cordiale ma franco”, come si usa dire in linguaggio diplomatico. Ossia non si sono picchiati, ma non hanno trovato alcun punto d'accordo, se non quello generico di non voler mettere in discussione l'Unione Europea e la moneta unica.
Quello di ieri, tra l'ultraliberista presidente dell'Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, e il ministro delle finanze Yanis Varoufakis ha invece fatto segnare una contrapposizione radicale sul problema del debito greco. «Ignorare gli accordi non è la strada da seguire», ha spiegato Dijsselbloem all'uscita; mentre Varoufakis ha ribadito di non avere “alcuna intenzione di collaborare con i funzionari della Troika” per estendere il programma di salvataggio che scade alla fine di febbraio, per l'ottima ragione di essere «stato eletto puntando a rimettere in discussione il programma di aiuti» europeo. Diciamo che è l'unico punto di accordo tra i due, al termine di un incontro così teso da far quasi dimenticare – all'isterico olandesino, abituato a vedere teste che si inchinano al suo passaggio – il rito della stretta di mano con l'avversario.
imhdhcbages copiaLa posizione della Troika è ben nota: si può discutere di allungamento dei tempi per la restituzione del debito (per l'80% in mano a soggetti pubblici (Fmi, Bce, Stati), di riduzione dei tassi di interesse (già rinegoziati in segreto con l'ex premier conservatore Samaras), di cifre cash da versare nelle casse di Atene per far fronte alle esigenze più urgenti, in cambio però della continuazione della politica di austerità,con tanto di “riforme strutturali”, riduzione drastica della spesa pubblica, privatizzazioni e via cantando. Ma non si prende nemmeno in considerazione l'ipotesi di una “ristrutturazione” del debito (brutalmente: un taglio secco di almeno il 50%).
La posizione del nuovo governo greco rappresenta l'esatto opposto: prima di tutto viene il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, poi – eventualmente – il “rispetto di accordi” sottoscritti da altri. “Questa piattaforma – ha ricordato Varoufakis al termine dell'incontro – ci ha permesso di ottenere la fiducia del popolo greco e il nostro primo atto di governo non sarà quello di respingere la base delle contestazioni a questo programma attraverso la richiesta di estenderlo”.
Abbiamo la netta impressione che dovremo abituarci presto a una situazione che non è affatto somigliante a quella italiana. Intanto sulla definizione politica dei soggetti in campo. Schulz, per esempio, è un “socialdemocratico tedesco” e i media italiani ne parlano come di uno che, per collocazione ideale, non dovrebbe poi essere troppo distante da Tsipras e Varoufakis. E così anche l'intollerabile Dijsselbloem, che nel suo paese risulta prodotto dal Partito Laburista. Queste definizioni non servono più a nulla. In Europa c'è di fatto un “partito unico”, che ha messo insieme nell'essenziale – il programma di costruzione dell'Unione Europea come spazio a disposizione del capitalismo multinazionale, con vaghe ambizioni geopolitiche – il vecchio conservatorismo e le ex “socialdemocrazie” ufficiali (socialisti francesi, spagnoli e greci, “democratici italiani, Spd tedesca, laburisti inglesi, ecc). Fanno finta di scontrarsi solo in occasione delle campagne elettorali, in modo che non emergano soggetti anche idealmente alternativi; ma vanno avanti di pari passo su “riforme” economiche, avventure militari, sanzioni a tizio e caio, ecc.
Ne consegue che Syriza (e Podemos, in Spagna) – movimenti politici che sono nati sulla ricerca di soluzioni empiriche a problemi urgenti, che abbiamo chiamato “riformisti dei bisogni” - hanno ben poco a che vedere col vecchio establishment “progressista” continentale, che si differenzia ormai dalla destra solo per quanto riguarda alcuni diritti civili (matrimoni omosessuali, fecondazione assistita, ecc).
Hanno ben poco a che vedere anche con i loro “tifosi” italiani, che si illudono di poterne imitare il successo senza spogliarsi totalmente di una radicata aspirazione al sottogoverno nonché di una dirigenza che non ne ha mai imbroccata una o si è venduta ogni programma non appena assisa sull'agognata poltrona. Ve lo immaginate Vendola al posto di Varoufakis? Si sarebbe prostrato già al momento del primo saluto, chiedendo scusa per aver vinto le elezioni con un programma che non piaceva a Bruxelles ma che non andava preso alla lettera (i dubbiosi possono riascoltarsi la telefonata con il pr dell'Ilva, a suo tempo)...
La Grecia è il paese più debole dell'Unione Europea, prostrato da cinque anni di “cura” che ne hanno reso irrisolvibili i problemi (a cominciare dalla dimensione del debito pubblico, passato dal 125 al 180% “grazie” ai cosiddetti “aiuti europei”). La reazione della Troika e dei mercati alla ribellione guidata da Syriza sarà certamente violenta, una vera e propria guerra (già ieri sera "i mercati" hanno fatto sentire il proprio morso sui titoli del tesoro; ma intanto, dopo lo stop alle privatizzazioni di energia elettrica e porto del Pireo, il ministro dell’Energia, Panagiotis Lafazanis, ha bloccato anche i piani per Depa, società pubblica del gas; mentre è pronto il no all'offerta della società canadese Eldorado Gold per lo sfruttamento di una miniera d'oro nel nord della Grecia). Vedremo se la strategia elaborata da Varoufakis – che potete leggere in questa ottima intervista a Joseph Halevi – potrà reggere e, fino a un certo punto, affermarsi.
Di certo è il primo tentativo vero – dal vivo, non “su carta” né “su tastiera”- di mettere in discussione gli assetti consolidati. E non solo sul piano delle politiche economiche.

venerdì 30 gennaio 2015

Il nuovo governo greco. Intervista a Joseph Halevi


Il nuovo governo greco. Intervista a Joseph Halevi
In questi giorni sono usciti molti articoli sul nuovo governo greco e in particolare su alcuni suoi componenti. La maggior parte di questi articoli si è concentrata su aspetti di costume e non sulla sostanza, ossia su quali politiche economiche potrà mettere in atto la nuova compagine governativa.
Abbiamo quindi intervistato Joseph Halevi, professore di economia presso l'Università di Sydney, che ben conosce Yanis Varoufakis, neo ministro delle finanze in Grecia, di cui è amico e con cui ha anche scritto un libro (insieme a Nicholas Theocarakis): “Modern Political Economy: making sense of the post-2008 world” (Routledge).
Noi Restiamo: ci dai un giudizio sul risultato delle recenti elezioni in Grecia?
Joseph Halevi: il mio giudizio è essenzialmente positivo. C'è ovviamente un problema dovuto al fatto che Syriza ha delle posizioni molto eterogenee. Però voglio dire che l'esigenza che nasceva dalla crisi del Pasok ovviamente ha trovato sbocco in Syriza. Non poteva trovare sbocco nel KKE (partito comunista greco), impossibile. Per scegliere il partito comunista greco bisognava essere ideologicamente strutturati, e la popolazione che usciva dalla crisi del Pasok non lo era. Quindi il mio giudizio è sostanzialmente positivo, anche se a me Syriza non piace moltissimo. 
NR: ha dei limiti come impostazione del partito, ricorda un po' SEL per certi punti di vista.
JH: sì, anche se ovviamente in modo più serio. La componente centrale, quella che l’ha fondata seriamente, sono i comunisti del partito comunista dell’interno, che erano gli euro-comunisti, che si sono scissi dal KKE teoricamente dopo l’intervento sovietico in Cecoslovacchia. Il KKE, comunque, negli ultimi 40/50 anni, non ha mai modificato la sua analisi sul sistema capitalistico, che è sempre quella sovietica: capitalismo monopolistico etc. Poi, sull’Unione Sovietica loro hanno riflettuto, e sono arrivati alla conclusione, basta andare sul loro sito per leggerlo,  che l’Unione Sovietica è caduta perché hanno cercato di affrontare i problemi per via capitalistica. Se invece fossero rimasti all’interno dello schema socialista, non ci sarebbe stata questa crisi, questo crollo. Un approccio estremamente schematico: non analizza il perché il partito comunista sovietico sia andato in quella direzione, né un sacco di altri aspetti. Quindi anche se tendenzialmente hanno la mia simpatia, allo stesso tempo sono di un settarismo totale.
NR: Il problema principale di Syriza adesso è che, pur essendo partiti subito con una serie di proposte anche abbastanza interessanti, come l’aumento del salario minimo o il ripristino di una serie di condizioni di vita a livelli precedenti le impostazioni della Troika, si trovano in una posizione molto delicata per via del fardello del debito. Secondo te quanto spazio di manovra c’è per il nuovo governo greco?
JH: nessuno. E lo sanno. Quindi dovranno andare allo scontro. E lì si vedrà come agirà Syriza, al cui interno c'è la componente eurocomunista e non solo, c'è anche gente che ha lasciato il KKE successivamente. Questa componente è più possibilista sul debito, nel senso che sono per accettare dei compromessi invece che andare alla rottura. Questo potrebbe provocare problemi interni seri a Syriza.
NR: quando tu dici andare allo scontro cosa intendi? 
JH: per scontro intendo la linea di Yanis Varoufakis. Quella è giustissima. Ossia fare default ma restando nell'eurozona.
NR: Quindi secondo Varoufakis è possibile fare default rimanendo nell'Eurozona?
JH: Certo, non paghi e basta. Mica devi uscire, nessuno ti obbliga ad uscire e loro non ti possono cacciare. Questo non lo capiscono coloro che parlano di “Grexit”, e nemmeno i Tedeschi che dicono: ah allora te ne vai. Nessuno può cacciare la Grecia, nessuno può cacciare nessun paese dalla zona euro. Quindi Yanis dice: va bene, se loro non vogliono accettare dei compromessi noi dichiariamo il default stando nella zona euro, vediamo un po' che succede. L'ha scritto anche sul suo blog, spesso.
NR: Visto che lo abbiamo citato, in conclusione due battute sul nuovo governo. Tu conosci bene Varoufakis, con cui hai anche scritto un libro, ma ci sono anche altre figure interessanti, ad esempio Rania Antonopoulos dovrebbe occuparsi di lavoro. 
JH - Sì, questo è un governo molto moderno, gente che veramente conosce il mondo, e non conosce il mondo dei banchieri. Tra l'altro la Grecia è molto meno provinciale dell'Italia, poiché in Grecia anche la borghesia è emigrata, non soltanto il popolo (diciamo il popolo delle isole, i contadini semi-analfabeti) degli anni Cinquanta. In Italia la borghesia è sempre stata stanziale: solo adesso la gente di origine middle-class si muove, emigra. La borghesia italiana è stata stanziale al massimo, provincialissima, magari perché ricca, sicura di sé; mentre in Grecia no, la borghesia parla molte lingue, nei dipartimenti delle facoltà universitarie greche c'è gente che si è formata in Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Germania, e anche in Russia. E' gente che ha viaggiato vivendo in altri paesi, non vivendo da persone importanti – diciamo non come i Giavazzi, che vanno al MIT – ma dovendo cercare lavoro, vivendo veramente in altri paesi.
Però il punto centrale, la persona cruciale lì è proprio Yanis Varoufakis. Yanis ha sviluppato questo algoritmo: è inutile che gli andiamo a dire che usciamo dall'euro - che, secondo Yanis, potrebbe essere un ulteriore disastro - è inutile andare a chiedere di fare politiche keynesiane, tanto in Europa non ci sentono da questo orecchio.Bisogna partire da questo presupposto per fare delle proposte: una sulla questione della mutualizzazione di una parte del debito, la quota prevista da Maastricht, come più volte ha detto. L'altra sul fatto che si debbano attivare tutte quelle istituzioni che in Europa sono preposte alla spesa, come la Banca Europea degli investimenti. La devono sganciare dal fatto che ogni volta che la banca europea degli investimenti fa una spesa viene addebitata ad uno stato. E' letta come spesa pubblica.
Quindi questa è la sua idea: noi facciamo questa proposta, se si rifiutano sta a loro sostenere le conseguenze (ossia un default della Grecia).
NR: la maggior parte degli articoli usciti in questi giorni su Varoufakis hanno molto calcato la mano sullaspetto, come dire, della personalità e della figura. Il “Manifestol'ha definito con entusiasmo un economista marxista. A noi francamente più che marxista Varoufakis sembra un keynesiano di sinistra, se vogliamo.
JH: Ma lui non è da questo punto di vista una persona semplice, non è accademicamente marxista, è - a mio avviso -  strategicamente più leninista che marxista, perchè sotto molti aspetti ha una concezione propria del giocare sui rapporti di forza. E di trovare i limiti degli avversari, da questo punto di vista ha molto assorbito la teoria dei giochi.
Yanis viene da una famiglia resistenziale, il padre ha fatto anni di prigione, era già formato politicamente quando si è trasferito in Gran Bretagna. La Grecia è un paese come l'Italia, dove marxista significa essere militante, non puoi fare il marxista accademico e basta.Marxista è un sistema di idee che c'hai, poi fai altre cose, puoi anche fare il geometra.
Varoufakis ha fatto l'economista, studiando la teoria dei giochi. Gli piaceva, perchè prevedeva la possibilità del conflitto. Poi è arrivato ad una visione critica, e qui il suo contributo è molto importante. Ha una critica della teoria dei giochi che è tanto forte quanto la critica sraffiana alla  teoria neoclassica. Inoltre lui è andato avanti epistemologicamente, al di là della caccia all'errore, che è insufficiente e anche sterile. Lui è andato alla radice, ossia ha fatto una critica dell’economia individualistica.
Da questo punto di vista è molto più importante di quanto si creda. E lasciatemi dire che trovo veramente molto provinciale, piccolo-borghese che la maggior parte dei quotidiani italiani si sia concentrata su aspetti esteriori come il fatto che Varoufakis non porti la cravatta.
Anche la sua collaborazione con la Valve corporation è stata derubricata come consulenza ad una società che produce videogiochi. In realtà questa azienda si occupa di vendita di beni virtuali, Yanis era stato assunto per collaborare alla creazione di firewall che impedissero la nascita di bolle finanziarie virtuali, e questa esperienza gli ha dato una conoscenza di sistemi di moneta virtuale, su cui ha anche scritto, come “bitcoin” che gente come Visco o Padoan non potrà mai avere.

“La sinistra non rinasce intorno al Quirinale”. Intervista a Stefano Rodotà



RodotàIl giurista Stefano Rodotà.
"La scelta di Mattarella è una buona scelta, si tratta di una persona rigorosa. Renzi è stato abile, ma questo non cambia la natura dei problemi a sinistra”. È netto quanto pacato Stefano Rodotà, in questo commento a caldo sulla partita presidenziale. Ma l’intervista serve soprattutto a fare il punto sulle prospettive della sinistra italiana dopo la vittoria di Alexis Tsipras in Grecia.   Matteo Renzi lancia la candidatura di Sergio Mattarella.    
"Ne do una valutazione molto positiva. L’ho visto all’opera in Parlamento e devo testimoniarne l’estremo rigore."
Come mai Renzi si è mosso in questo modo?    
"Mi sembra abbia cercato di evitare la decomposizione del suo partito. Non può permettersi di sfaldarlo. Mattarella, inoltre, gli consente di intercettare un’area più ampia esterna al Pd."
L’operazione modifica i termini del confronto a sinistra e il modo in cui si riorganizzerà?   
"Il successo di Renzi, se si verificherà, non cambia il segno delle sue politiche. Sulle questioni sociali non ci saranno modifiche rilevanti."    
Perché?    
C’è stato un passaggio non trascurabile negli ultimi mesi: lo scontro tra Renzi e il sindacato. L’atteggiamento del ‘ce ne faremo una ragione’, irridente e sbrigativo, pone la questione dei ‘corpi intermedi’ e quindi della democrazia. L’assenza di opposizione politica è stata surrogata dall’opposizione sociale.    
La sinistra, dopo la vittoria di   Tsipras, cosa deve fare?    
"La centralità è sociale. Senza sottovalutare il rapporto con le istituzioni. È ancora d’attualità il tema dell’‘altra politica’, di cui c’è un gran bisogno. Il successo di Tsipras dice che la pratica sociale è decisiva per costruire una politica di sinistra improntata alla solidarietà, ai diritti, in grado di collegare grandi temi di dibattito con le pratiche più concrete. 
Lei ha definito “zavorre” i partiti e partitini della sinistra.   
"Non mi attraggono gli annusamenti, gli aggiustamenti, i negoziati di piccole forze politiche e penso che serva un cambio di passo radicale. Non si   può costruire una forza politica traghettando quel che   resta del Prc, di Sel, della lista Tsipras. Tutti devono rimettersi in gioco attraverso   le pratiche sociali."    
È questa la proposta della coalizione sociale?    
"Come diceva ieri Maurizio Landini, non so se la parola ‘coalizione’ sia la più adeguata. Ma l’aggettivo è quello giusto. Penso a diverse soggettività che si muovono già su temi definiti. Ad esempio il reddito minimo o di cittadinanza, con la Basic Income Network, i comitati per i beni comuni, il lavoro fatto da molti sindaci sui beni di proprietà comunale. Penso alla giunta Pizzarotti a Parma. E poi occorre recuperare il tema dell’acqua pubblica, dopo il referendum vinto, e le leggi di iniziativa popolare, come quella per abolire l’articolo 81 della Costituzione, la campagna Miseria ladra promossa da Libera, Emergency, il sindacato. Tutti questi soggetti possono stare in ‘rete’ attraverso punti convergenti."  Sel ha proposto un “coordinamento delle sinistre”.   
La proposta di coordinamenti con la ‘doppia tessera’ non mi convince per nulla.    
Cofferati può essere compreso in questo disegno?    
Nel caso di Cofferati io vedo fatti nuovi interessanti che rimettono in discussione equilibri consolidati. Dobbiamo costruire uno spazio, anche organizzativo, in cui chi vuole lasciare le gabbie di appartenenza possa farlo liberamente.    
Tempi e proposte per il futuro?    
"In tempi brevi serve un’iniziativa pubblica comune in cui tutti questi soggetti si mettano insieme. Con iniziative ma anche strumenti organizzativi. Non si può delegare a chi c’è già, serve costruire qualcosa di nuovo."    
È una strada percorribile anche dal M5S?    
"Sì, senza l’assillo di dover per forza fare una proposta anche a loro. Definiamo terreni e pratiche di iniziativa, senza lanciare sfide. Sul reddito minimo, don Luigi Ciotti ha incontrato Beppe Grillo, vediamo cosa succederà. Dovremo creare piattaforme civiche interattive sapendo utilizzare la “rete” in maniera partecipativa e non autoritaria. E superare costruzioni artificiose e create a tavolino. Non hanno mai funzionato."
di Salvatore Cannavò, da Il Fatto Quotidiano del 30/01/2015.

La sinistra "mattarellata" di Ciuenlai


Vi stupirò con effetti speciali. La lettura della candidatura di Sergio Mattarella è, per me, l’esatto inverso di quello che sostengono i media, che sospetto abbiano avuto una imbeccata perché hanno tutti lo stesso titolo. Aperture, editorialisti, conduttori tv, affermano all’unisono che è una rottura del patto del Nazareno. Balle! Mattarella è invece un allargamento alla minoranza del Pd di quel patto. E’ quello che chiedevano Bersani e soci. Le “abbaiate alla luna” del nano sono solo un giochino delle parti. Il Governo non subirà contraccolpi (Alfano e soci già hanno messo e mani avanti) e le controriforme andranno in porto come previsto. In ognuna di queste partite ci saranno dei finti oppositori (Fi sul Governo, La minoranza Pd sulle controriforme, Berlusconi sulle nomine) che complessivamente però avranno le loro garanzie di potere all’interno del patto. Nessuno romperà e soprattutto non romperanno gli ex comunisti.
La finta “svolta a sinistra” del Premier, non è quindi una grande vittoria, ma una mossa necessaria e di grande realismo, che tutti i contraenti hanno dovuto accettare. Nella decisione ha pesato la Grecia. L’ordine in Europa è quello di evitare che la “peste Tzipras e soci non si propaghi”. In Italia l’elemento di pericolo era rappresentato dalla minoranza Pd. Rimettendoli in gioco, isolando Civati, lasciando credere a Sel che anche loro possono essere della partita, si eliminano i presupposti per la formazione di un soggetto politico come Syriza. Mattarella è quindi il punto di caduta di quel patto. Un patto che potremmo chiamare anche partito della nazione.
P.S.1 – Vediamo, se Mattarella verrà eletto , saranno di cultura democristiana il Presidente della Repubblica, del Consiglio, il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, i ministri degli esteri, dell’economia, dell’interno, dei lavori pubblici e dello sviluppo economico, dei beni culturali e del turismo. Dice è tornata la balena bianca; no c’è solo la balena bianca.

Basta un Colle, e Lassie torna a casa di Lorenzo Bedin

Basta un Colle, e Lassie torna a casa
Se dobbiamo dar retta alle dichiarazioni ufficiali, il “patto del Nazareno” si sarebbe rotto, ridotto, azzoppato, sepolto. La corsa al Quirinale, con Sergio Mattarella candidato ufficiale (ma solo dalla quarta votazione), avrebbe dunque segnato la fine dell'asse privilegiato che ha fin qui retto l'attacco portato a Renzi alla Costituzione materiale (col jobs act, la delegittimazione del sindacato, ecc) e formale (lo svuotamento del Senato, la riforma elettorale super-porcellum, il premierato assolutista che ne deriva, ecc).
Qualche perplessità davanti a questa notizia ci sembra inevitabile. Non stiamo parlando di uno dei tanti accordicchi di giornata che costellano la politica di palazzo, ma appunto dell'unica maggioranza vera esistente in Parlamento, per quanto articolata tra una maggioranza di governo ufficiale (col solo Alfano e frattaglie varie) e una “per le riforme”. Sappiamo tutti che, di fronte ai passaggi più rischiosi, la seconda ha fatto tranquillamente da argine ai possibili inciampi di un premier specializzato nel farsi nemici.
Ora l'incanto si sarebbe rotto intorno al nome di un vecchio democristiano silenzioso, peraltro uno dei pochi che abbia almeno una volta dimostrato concretamente – dimettendosi da ministro, oltre 20 anni fa – di non esser disposto a mettere le istituzioni al servizio del Caimano. Difficile dunque, a prima vista, affermare che sarà lui il presidente della Repubblica che cancella con la grazia l'incandidabilità di Berlusconi in conseguenza di una sentenza definitiva. Ma mai dire mai, con i democristiani... Sarebbe anche nella posizione dell'insospettabile che prende una decisione “sofferta” per “puro scrupolo”, per “l'interesse della patria in un momento difficile” e via formulando frasi ad hoc.
Le cronache a là Repubblica ci raccontano insomma di un Renzi che si sarebbe improvvisamente liberato dai vincoli di reciproca convenienza con l'uomo di Mediaset, mettendolo all'angolo o rifilandogli un'inattesa fregatura.
Nulla ci viene detto sulle ragioni della rottura tra i due mentitori seriali. Ma, appunto, ci dobbiamo ricordare che si tratta di due professionisti dell'inganno.
Non ci siamo mai appassionati per i toni alla Dinasty con cui ci viene racontata la politica di palazzo. E consigliamo sempre di non credere a quanto ci viene sventolato sotto il naso. Sappiamo bene, infatti, che siamo noi del “mondo di sotto” il torello da far fesso.
In attesa di sviluppi che non possiamo prevedere (la scelta di un singolo uomo che faccia da garante davanti all'Unione Europea, e da “buon padre premuroso” agli occhi del popolino, ha troppe variabili casuali per poter esser calcolata da chi, come noi, è fuori dai giochi), possiamo constatare che “la svolta” renziana ha cancellato in pochi minuti ogni minaccia di scissione del Pd, azzerato l'entusiamo dei vendoliani per il “terremoto Tsipras”, ricondotto all'ovile un branco sparso di personaggi che da mesi storcevano il naso nel ritrovarsi – dopo un quarto di secolo buttato a far girotondi e “agende rosse” - “guidati da Verdini”. Ossia nelle mani della più recente evoluzione della P2 o come si chiama adesso.
Se qualcuno si stupisce della rapidità di questa conversione – neanche quattro giorni sono passati dai festeggiamenti sotto il palco di Atene, dai toni hollywoodiani di "the human factor", ai sorrisetti compiaciuti per essere di nuovo “dentro i giochi” di Roma - non ha ancora capito con chi ha a che fare. E neanche la differenza tra questi rottami della ex “sinistra radicale” e quanto sta avvenendo in Grecia e in Spagna.
Negli altri due paesi mediterranei è cresciuto un movimento di rifiuto delle politiche della Troika capace di unificare nel merito soggetti sociali, sindacali, frammenti politici. Un movimento che ha fatto della rottura con i socialdemocratici storici (Pasok in Grecia, Psoe in Spagna) il passaggio indispensabile per unire la resistenza sociale all'austerità. In nessuna elezione Syriza o Podemos si sono presentati insieme agli equivalenti italiani del Pd (e non importa se in versione bersaniana o renziana; i governi Prodi-D'AlemaBersani-Treu hanno provocato disastri sociali incalcolabili, hanno preparato la strada all'attacco finale ora condotto da Renzi). Non sarebbero mai diventati terminali credibili dell'incazzatura popolare se avessero “amministrato” le politiche lacrime-e-sangue insieme ai fedelissimi di Bruxelles.
L'esatto contrario di quanto è avvenuto in Italia, con Sel e Rifondazione e Pdci sempre in anticamera del Pd a pietire un accordo elettoralistico che garantisse loro qualche poltrona e un po' di finanziamento pubblico. Renzi li aveva infine cacciati dalla porta, obbligandoli ad atteggiarsi da “oppositori”.
Abbiamo definito sia Syryza che Podemos movimenti “riformisti dei bisogni”, ovvero espressione di strati sociali che sentono sulla propria pelle il bisogno immediato di un'altra politica economica, pur non avendo – o rifiutando esplicitamente – una qualsiasi visione complessiva della trasformazione sociale. Ma questo livello di coscienza politica è stato prodotto dalla realtà della crisi, non dalla decadenza di vecchie visioni socialdemocratiche e/o riformiste. Fossimo in Sudamerica, insomma, farebbero probabilmente parte dell'arco di forze che collaborano nel dar vita all'Alba, quel “mercato comune solidale” e senza moneta unica che si è affrancato dall'egemonia statunitense e prova ad allentare la stretta del capitale multinazionale.
Movimenti non comunisti né rivoluzionari, insomma, ma espressione conflittuale – spesso anche confusa e confusionaria – di una necessità di rottura col presente del capitalismo in crisi. Non però deprimenti “contenitori” pensati per aggregare caporali senza esercito, abituati a svendere il programma politico-sociale con qualche poltrona individuale (Bertinotti, in questo mestiere, ha fatto davvero scuola, imprintando un'intera leva di “dirigenti della sinistra”).
Dai movimenti reali c'è sempre qualcosa da imparare, pezzi di strada da sperimentare, battaglie comuni da fare. Dalla corte dei miracoli fuori alla porta di Renzi o Bersani, invece, non c'è che da pretendere una cosa: sparite.

L'euro e l'Europa non convincono più di Claudio Conti, Contropiano.org

L'euro e l'Europa non convincono più
Ci deve pure essere un motivo concreto, niente affatto ideologico, se il deplorato "euroscetticismo" prende tanto piede da far vincere le elezioni a una forza popolare che pone come obiettivo eliminare l'influenza della Troika dalle politiche economiche per il proprio paese (la Grecia) o se in altri paesi guadagnano posizioni movimenti apertamente xenofobi, razzisti, fascisti.
Il motivo è secondo noi chiarissimo: così non si riesce più a vivere.
Il perché e le possibili soluzioni ovviamente divergono fino alla contrapposizione fisica (con i fascisti non si parla, ribadiamo), ma negare il dato di fatto e lambiccarsi in complicate pippe mentali su come conciliare opposizione all'austerità e difesa dell'Unione Europea è un esercizio pericoloso. Oltre che una manifestazione di stupidità.
Vediamo cosa scrive oggi l'Eurispes nel suo rapporto:
Quattro italiani su 10 (40,1%) pensano che sarebbe meglio uscire dall'Euro; a inizio 2014 la quota di delusi dalla moneta unica si attestava al 25,7%. Il 55,5% degli euroscettici è convinto che l'Italia debba uscire dall'euro perché sarebbe la moneta unica il motivo principale dell'indebolimento della nostra economia.  
Si può natturalmente discutere se questa diagnosi sia esatta (non lo è), se sia troppo semplificatrice dei problemi che abbiamo davanti come paese (lo è), se fornisca o meno una via d'uscita illusoria (è ilusione allo stato puro)... Ma è il dato reale - quindi un punto fermo di qualsiasi analisi e prognosi politica - di cui dobbiamo prendere atto. Com'è noto noi preferiamo parlare di "rottura dell'Unione Europea", di denuncia e invalidazione dei trattati sottoscritti da Maastricht in poi (salvaguardando Schengen e la libera circolazione delle persone), compreso ovviamente quello sulla moneta unica (che andrebbe altrettanto ovviamente sostituita con una o altre monete internazionali tra paesi economicamente "compatibili"  oppure da "unità di conto" per gli scambi commerciali; niente "ritorno alla lira", insomma). Ma tra quello che a noi sembrerebbe sensato e quel che si può fare ci sta la realtà. Che comprende anche la (mutevole) opinione popolare. E ricordiamo sempre che "non si governa contro il popolo". Massima che a Bruxelles o a Francoforte devono aver decisamente dimenticato inaugurando le politiche di austeità.
Capiamo perfettamente - da atei assoluti - che cresca la popolarità di un papa che critica di continuo le diseguaglianze create dalla ricerca spasmodica del profitto, l'ingordigia dei ricchi e le sofferenze dei poveri. Se i consensi sul suo operato arrivano addirittura all'89,6% vuol dire che nessun altro - sulla scena pubblica - copre questo spazio in modo convincente.
Capiamo anche perché quasi la metà degli italiani (il 45,4%) si trasferirebbe all'estero, se potesse. E infatti consideriamo importante, come controtendenza che può e deve svilupparsi, l'esperienza del nascente movimento giovanile "Noi restiamo"; perché non si può regalare un paese così agli speculatori che ne farebbero una gigantesca disneyland in salsa di centurione.  
Sapevamo già, prima che ce lo quantificasse l'Eurispes, che la nostra gente - "il mondo di sotto" - fa sempre più fatica a curarsi. Il 46,7% italiani paga a rate spese mediche; il  24,3% in più rispetto all'anno prima!
Conosciamo la paura dei lavoratori di perdere il posto e di non poter dunque più mantenere la famiglia, far studiare i figli, dare loro una prospettiva di vita migliore di quel che hanno avuto loro. Sono ormai il 65% del totale di coloro che hanno almeno "la fortuna" di averlo, un lavoro.  Il 28% di chi lavora è costretto a ricorrere all'aiuto di genitori e parenti.
Alla radice di tutti questi comportamenti c'è il brutale dato economico: il 71,5% italiani ha visto diminuire il proprio potere d'acquisto. L'orizzonte diventa nero, le speranze svaniscono.
Uscire dall'euro da soli è folle, certo. Rompere tutti insieme la gabbia dell'Unione Europea, costruendo una comunità solidale e paritaria di Stati è l'unica possibilità reale. Difficile, certo. Come togliersi di dosso il capitalismo...