mercoledì 27 febbraio 2013

Elezioni. Il poco che ho da dire di Rino Malinconico



Ci sono momenti in cui il noi deve cedere il posto all’io.
Parlo perciò di me, di quello che posso fare, che reputo abbia ancora senso fare, e dunque, in certo qual modo, di ciò che vorrei effettivamente fare. Scelgo così in partenza di non aggiungermi alla schiera numerosa di coloro che continueranno a parlare in prima persona plurale, magari dicendo ora ciò che avremmo dovuto fare ieri (e può essere pure che si tratti di opinioni davvero espresse a tempo debito, ma la cosa è del tutto insignificante nell’attuale contesto di macerie), ovvero che insisteranno a muoversi sul presupposto che questo nostro soggetto politico collettivo - Partito della Rifondazione Comunista o Rivoluzione Civile, tanto l’essenziale non cambia - possa continuare ad esistere anche dopo l’ennesima, brutale sconfitta elettorale, a beneficio delle prossime amministrative, delle prossime europee, o di un possibile voto politico anticipato dopo il quadro uscito dalle urne (certamente complicato, ma non impossibile da governare).
Il fatto è che ci sono sconfitte e sconfitte. Questa del febbraio 2013, terribilmente impietosa nei numeri, arriva dopo quella delle politiche del 2008, dopo quella delle europee del 2009, dopo quella delle regionali del 2010; e arriva, inoltre, dopo la pesantissima scissione del 2009 da parte dei compagni di “Sinistra, ecologia e libertà”, e dopo il vero e proprio stillicidio di abbandoni che ci ha accompagnato in questi anni, e dopo il fallimento plateale del tentativo di “federare” la sinistra. Una sconfitta pesantissima come quella di oggi, che ci colpisce dopo tutte queste vicende, sancisce anche - e lo sancisce, a mio avviso, con solare evidenza, per tutta una fase di medio periodo - che davvero non esistono condizioni praticabili per un soggetto politico anticapitalista con connotati di massa. O, almeno, non esistono in Italia.
Cosa proverò a fare allora?
Anzitutto proverò ad elaborare il senso di questa perdita. Il che significa, tra l’altro, sottrarsi senza rimpianti alla discussione sulle “ragioni specifiche” del disastro di oggi. Non ritengo, infatti, che noi abbiamo perso perché abbiamo sbagliato la tattica, o le parole d'ordine, o le persone da candidare, o perché siamo stati poco attivi. Può essere senz’altro che ci siano stati tutti questi errori, e anche molti altri, o che l'impegno sia stato al di sotto delle necessità; ma, dal mio punto di vista, non cambia per nulla la sostanza. E l’essenziale della vicenda è che la nostra specifica esperienza politico-organizzativa è venuta progressivamente e realmente consumandosi.
D’altronde, questo giudizio è stato largamente e implicitamente condiviso, tanto che abbiamo scelto di dar vita al raggruppamento di Rivoluzione civile, consapevoli della nostra assoluta insufficienza.
Il punto è che se una cosa, anche una determinata formazione politica, è poi realmente consumata, non serve neppure metterla assieme ad altri soggetti organizzati, peraltro anch’essi tutti più o meno inutilizzabili e “vecchi dentro”, pure quando s’affaticano a sembrare innovativi (come gli “arancioni” o “cambiare si può”). Le cose che hanno fatto il loro tempo non possono produrre dinamiche vitali.
Noi eravamo già consumati prima di queste elezioni e non ce ne siamo accorti, o non abbiamo voluto ammetterlo. Occorre adesso - e lo dico per me, ma forse anche per molti “come me” - provare a recuperare l'esercizio del silenzio e dell'umiltà. L'elaborazione di una perdita importante ha almeno questo di buono: che ci costringe a vedere, senza orpelli e senza veli, ciò che davvero siamo...
Detto questo, io vorrei provare a fare, se ne avrò la forza e se ci saranno le condizioni, le seguenti tre cose:
-Partecipare, in modo pacato e assolutamente “non stressante”, alla ineludibile discussione sul compiersi del destino del Partito di cui faccio parte, per dare una mano a consegnare, nel miglior modo possibile, l’insieme di questa esperienza alla storia. Penso sia un dovere morale portare a conclusione tutti assieme, con stile e dignità, quello che è stato indubbiamente un tentativo di grande generosità, attraversato da momenti coinvolgenti e addirittura esaltanti, e che tuttavia ha già dato tutto quello che poteva dare; e che non ha più alcuna possibilità storica, per una fase più o meno lunga, di far valere le sue ragioni costitutive, ovvero di vivere come polo autonomo anticapitalista con connotati di massa. Lo dico con grande tristezza, ma anche con tutta la chiarezza necessaria. Slogan del tipo “rifondare Rifondazione” o “rilanciare Rivoluzione civile”, o cose analoghe, oggi avrei serie difficoltà, non dico a condividerli, ma anche semplicemente a capirli…
-La seconda cosa che vorrei provare a fare è di dar vita, assieme ad altri, a un luogo di riflessione teorica che metta a tema il capitalismo e le sue contraddizioni, e che contribuisca a ricostruire un'idea del comunismo all'altezza di questi tempi così complessi, ma anche così pieni di nuove possibilità per gli esseri umani. Una rivista? Una struttura stabile di lavoro seminariale? Non so bene cosa sia più opportuno e davvero possibile…
-La terza cosa che vorrei provare a fare è quella di agire insieme alle compagne e ai compagni con i quali ho più immediata consuetudine di discussione e facilità di relazioni (se non altro, per condivisione di territorio o di ambito di lavoro). Vorrei contribuire a mantenere aperta - in forme associative e non partitiche, con una modalità agile e senza appesantimenti formali - una iniziativa concertata di resistenza sull'insieme dei diritti di cittadinanza umana, dal lavoro all'ambiente, dai servizi di cura al sapere critico, dalla denuncia dell'ingiustizia e del malaffare alle battaglie generali sui temi della pace, del disarmo e della fratellanza tra i popoli. Immagino un reticolo associativo aperto alla collaborazione paritaria di tutte le esperienze similari, che scelga il piano dell'azione territoriale, dotandosi degli strumenti di comunicazione più appropriati, e che metta da parte, per tutta una fase (che io ritengo di medio periodo), le forzature di tipo partitico ed elettorale…

Il Movimento 5 Stelle alla prova della fiducia

Una battuta di Grillo ("Bersani è un morto che parla") fa calare una cappa plumbea sugli entusiasti della convergenza Grillo-Pd. Tutti gli scenari.

di Cinzia Gubbini, Popoff.globalist.it

Le ultime dichiarazioni di Grillo "Bersani è un morto che parla" stanno terremotando il quadro politico. Tutti si chiedono: ma che vuol dire? Allora Grillo non appoggerà il governo? Ammesso che voglia davvero dire qualcosa, e che non sia una boutade, è altrettanto vero che Bersani non ha mai scommesso al 100% che il Movimento 5 Stelle avrebbe votato la fiducia.

Non li conoscono, non hanno idea di quali mosse vogliano fare. A dirla tutta, non lo sanno neanche i grillini, che ancora non hanno fatto del tutto i conti con la "macchina parlamentare". Idealmente sono orientati a replicare il "modello Sicilia", ma le Regioni, poiché eleggono direttamente il presidente della regione e quindi hanno già adottato un "modello presidenzialista" non devono ottenere la fiducia da parte del Consiglio regionale. Comunque, lo scorso novembre, in una intervista a Pubblico il portavoce del Movimento Cinque Stelle Giancarlo Cancelleri aveva detto - a un giornalista che glielo chiedeva - che nel caso avrebbe votato la fiducia alla giunta regionale "perché non dargliela a prescindere, facciamoli lavorare..". Ora invece Grillo scrive sul suo blog, ricordando tutti gli "insulti" rivolti da Bersani al M5S in questi mesi, "non voteremo alcuna fiducia".

In effetti votare la fiducia non è solo un modo per "dare fiducia", in qualche modo impegna quella forza politica a condividere il programma con cui si presenta il governo. E se una cosa è sicura è che la linea del Movimento Cinque Stelle è: avere le mani libere. Come non capirli, d'altronde. Il Pd ha provato a sondare la disponibilità grillina a sporcarsi un po' le mani, per esempio offrendo la presidenza della Camera, anche qui cominciando già da subito a seguire le orme del presidente siciliano Rosario Crocetta che con i quindici grillini ha instaurato un dialogo anche concedendo alcune posizioni istituzionali (la famosa presidenza della Commissione Ambiente a Cancelleri, ma non solo).

E' chiaro però che si potrà pure replicare il modello siciliano, ma fino a un certo punto. Questo è un debutto importantissimo per il Movimento Cinque Stelle, hanno l'onere di mostrare "un'altra faccia" della politica. Insomma, sono nati per questo. Non è che possono tout court votare la fiducia e beccarsi la presidenza della Camera (che, comunque, gli spetterebbe, anche se il Pdl non è d'accordo perché "la nostra è una legge elettorale orientata alle coalizioni, e noi siamo la seconda coalizione"). E allora?

Una possibilità è che il Movimento Cinque Stelle esca dall'aula quando si tratterà di votare la fiducia. Così avrebbero le "mani pulite" e potrebbero coronare il sogno di "votare legge per legge". Perché una cosa è chiara: i grillini non hanno nessuna voglia di tornare subito alle urne. Anche perché se disgraziatamente gli capitasse di dover davvero governare, sanno benissimo che i problemi sarebbero enormi. Forse ingestibili per un movimento così giovane e i cui eletti sono "gagliardissimi" però impreparati sul fronte della macchina istituzionale.

Semplice? Per niente. Perché a quel punto si presenta un problema abbastanza insormontabile per il Pd. Su quale programma chiede la fiducia? Difficile che con un programma zeppo di istanze grilline (senza neanche arrivare a pensare al conflitto di interessi) si possa incassare la fiducia del Pdl. Sarebbe persino ingiusto chiederglielo. Potrebbe esserci Monti, che per la governabilità farebbe tutto - anche perché il suo destino prossimo è molto incerto. Ma al Senato non basta. Anche perché: ammesso che i grillini escano dall'aula, potrebbe decidere di farlo anche il Pdl. A quel punto mancherebbe addirittura il numero legale. Se invece il Movimento 5 Stelle rimane in aula e si astiene il voto viene contato come contrario. Ma aldilà dei tatticismi, il problema, tanto più in questo momento, è anche sui contenuti. Se Bersani si presenta con un programma minimo che abbraccia le istanze grilline, perché mai non dovrebbero votare la fiducia? Solo per una questione di principio? Anche la base di Grillo non capisce, e sul blog sono già numerosi i commenti del "partito" contrario alle urne e a favore del voto di fiducia per far partire la legislatura.

Beppe Grillo contro dipendenti pubblici e pensionati di Luca Fiore, Contropiano.org


La "rivoluzione" di Grillo? Attaccare dipendenti pubblici e pensionati. Secondo il guru del M5S la società non si divide in classi ma in generazioni: giovani precari e imprenditori tartassati contro evasori, politici, dipendenti pubblici e pensionati.
Gridano alla pulizia e al rinnovamento, si rappresentano come gli 'anticasta' e in molti, moltissimi, gli hanno dato in buona fede il proprio voto di fronte a una situazione intollerabile. Ma il primo intervento del proprietario del marchio dei Cinque Stelle in un intervento pubblicato ieri sul suo seguitissimo blog parla chiaro: non ci sono abbastanza risorse per tutti, e per dare qualcosa ai giovani - il promesso reddito di cittadinanza - bisogna attaccare quei "privilegiati" di dipendenti pubblici e pensionati.
Ci voleva un rivoluzionario per dire ciò che decine di "tecnici", giuslavoristi e imprenditori di PD, PDL e Monti ci stanno ripetendo da anni, cercando di mettere i giovani contro gli adulti? 

Gli italiani non votano mai a caso


da www.beppegrillo.it

Gli italiani non votano a caso, queste elezioni lo hanno ribadito, scelgono chi li rappresenta.
In Italia ci sono due blocchi sociali. Il primo, che chiameremo blocco A, è fatto da milioni di giovani senza un futuro, con un lavoro precario o disoccupati, spesso laureati, che sentono di vivere sotto una cappa, sotto un cielo plumbeo come quello di Venere. Questi ragazzi cercano una via di uscita, vogliono diventare loro stessi istituzioni, rovesciare il tavolo, costruire una Nuova Italia sulle macerie. A questo blocco appartengono anche gli esclusi, gli esodati, coloro che percepiscono una pensione da fame e i piccoli e medi imprenditori che vivono sotto un regime di polizia fiscale e chiudono e, se presi dalla disperazione, si suicidano.
Il secondo blocco sociale, il blocco B, è costituito da chi vuole mantenere lo status quo, da tutti coloro che hanno attraversato la crisi iniziata dal 2008 più o meno indenni, mantenendo lo stesso potere d'acquisto, da una gran parte di dipendenti statali, da chi ha una pensione superiore ai 5000 euro lordi mensili, dagli evasori, dalla immane cerchia di chi vive di politica attraverso municipalizzate, concessionarie e partecipate dallo Stato.

L'esistenza di questi due blocchi ha creato un'asimmetria sociale, ci sono due società che convivono senza comunicare tra loro. Il gruppo A vuole un rinnovamento, il gruppo B la continuità. Il gruppo A non ha nulla da perdere, i giovani non pagano l'IMU perché non hanno una casa, e non avranno mai una pensione. Il gruppo B non vuole mollare nulla, ha spesso due case, un discreto conto corrente, e una buona pensione o la sicurezza di un posto di lavoro pubblico.

Si profila a grandi linee uno scontro generazionale, nel quale al posto delle classi c'è l'età. Chi fa parte del gruppo A ha votato in generale per il M5S, chi fa parte del gruppo B per il Pld o il pdmenoelle. Non c'è nessuno scandalo in questo voto. E' però un voto di transizione. Le giovani generazioni stanno sopportando il peso del presente senza avere alcun futuro e non si può pensare che lo faranno ancora per molto. Ogni mese lo Stato deve pagare 19 milioni di pensioni e 4 milioni di stipendi pubblici. Questo peso è insostenibile, è un dato di fatto, lo status quo è insostenibile, è possibile alimentarlo solo con nuove tasse e con nuovo debito pubblico, i cui interessi sono pagati anch'essi dalle tasse. E' una macchina infernale che sta prosciugando le risorse del Paese. Va sostituita con un reddito di cittadinanza.
Nei prossimi giorni assisteremo a una riedizione del governo Monti con un altro Monti. L'ammucchiata Alfano, Bersani, Casini, come prima delle elezioni. Il M5S non si allea con nessuno come ha sempre dichiarato, lo dirò a Napolitano quando farà il solito giro di consultazioni. Il candidato presidente della Repubblica del M5S sarà deciso dagli iscritti al M5S attraverso un voto on line. Passo e chiudo. Sta arrivando la primavera. Ripeto: sta arrivando la primavera.

Il vero obiettivo è privatizzare il pubblico Posted by keynesblog


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Enrico Mattei, presidente dell’ENI















A che serve la crisi europea? Una risposta è che rende inevitabile la privatizzazione delle attività pubbliche, con grandi profitti per i privati. Come mostrano i casi di Spagna, Grecia e Portogallo
L’Europa è avvolta in una spirale senza uscita fatta di ricette controproducenti, mentre la crisi fa il suo lento, inesorabile lavoro. Le famiglie, se possono, risparmiano e contraggono i consumi. Le imprese non investono. Le banche cercano di limitare i danni e riducono il credito. Una crisi di debito estero (prevalentemente privato) è stata spacciata per una crisi di debito pubblico. La spesa pubblica viene bloccata con perfetto tempismo da un trattato internazionale che impone un rozzo vincolo di pareggio di bilancio, senza troppo distinguere se si tratti di spesa per investimenti o di spesa corrente.
Era ben noto che una politica di repressione della spesa pubblica, in presenza di un eccesso d’indebitamento del settore privato e di tassi di interesse già bassi e ai minimi storici, non poteva che avere effetti deleteri. Il crollo della domanda interna ha raggiunto le economie più solide della zona euro, che si avvicinano anch’esse a scenari recessivi. Assumendo l’impossibilità di una follia collettiva di tutte le classi dirigenti europee, resta da chiedersi cui prodest? A chi giova tutto questo?
Non è un caso che le ricette per uscire dalla crisi più in voga si concentrino su un punto: la dismissione del patrimonio pubblico per ridurre il debito. Ovviamente, la sensazione di trovarsi in un vicolo cieco per le finanze pubbliche, con la scelta obbligata di privatizzare enti, beni e servizi pubblici, è la scena classica di un film già visto in tante parti del mondo.
Non ci si arriva per caso, anzi, spesso è uno degli obiettivi neanche troppo nascosti della lunga strategia di logoramento del settore pubblico, la cosiddetta “starve the beast”. La bestia è lo stato, nemico ideologico da affamare, sottraendo continuamente risorse necessarie al suo funzionamento. La qualità dei servizi che esso eroga al cittadino diminuisce. Il cittadino lo nota e incomincia a chiedersi se davvero valga la pena mantenere in piedi con le proprie imposte un servizio pubblico sempre più scadente.
Poi arrivano i salvatori della patria, che comprano l’azienda o servizio pubblico a un prezzo conveniente e ne estraggono profitti. Quando va bene, il nuovo proprietario del servizio ex-pubblico lo eroga in modo più selettivo e a costi maggiori per il cittadino. Quando va male, scorpora la parte migliore da quella cattiva, scarica i costi sulla collettività (bad companies), sfrutta gli attivi ancora validi, e poi scappa.
La privatizzazione della sanità negli Stati Uniti ha raddoppiato i costi per i cittadini, escludendo un’enorme fetta della popolazione da ogni copertura sanitaria. Una volta capito l’errore commesso e verificati i costi economici e sociali di tale processo, l’inversione di questa tendenza nefasta è l’atto che Obama considera come il più importante del suo primo mandato presidenziale.
L’esperienza delle “riforme” nell’Europa centrale ed orientale subito dopo la caduta del comunismo ci insegna che le privatizzazioni realizzate per necessità di far cassa si traducono in svendite di beni comuni a vantaggio di pochi privati, che i primi servizi a essere privatizzati sono quelli che funzionano meglio, i gioielli di famiglia, e che questo contribuisce a un notevole aumento delle disuguaglianze.
Altre parti del mondo, come l’America Latina, hanno vissuto esperienze simili, in cui beni e servizi pubblici sono stati ceduti a condizioni vantaggiose solo per l’acquirente. Non è un caso che Carlos Slim, l’uomo più ricco del mondo secondo Forbes, debba la sua fortuna alle privatizzazioni selvagge degli anni ’80-‘90 in Messico, dalle miniere alle telecomunicazioni.
Adesso è il turno della vecchia Europa. Il Portogallo ha chiuso il 2012 privatizzando gli aeroporti, la compagnia aerea nazionale, la televisione (ex) pubblica, le lotterie dello stato e i cantieri navali. In Spagna le privatizzazioni “express” riguardano i porti, gli aeroporti, la rete di treni ad alta velocità, probabilmente la migliore e più moderna d’Europa, la sanità, la gestione delle risorse idriche, le lotterie dello stato e alcuni centri d’interesse turistico. La Grecia è stata recentemente esortata ad accelerare il processo di privatizzazione dei beni e servizi erogati finora dallo stato, come condizione per continuare a ricevere gli aiuti europei.
In Italia Mario Monti, poco prima di dimettersi da Presidente del Consiglio, decretava l’insostenibilità finanziaria del sistema sanitario nazionale, spiegando la necessità di “nuovi modelli di finanziamento integrativo”. L’agenda Monti oggi ci ricorda che “la crescita si può costruire solo su finanze pubbliche sane” e quindi invita a “proseguire le operazioni di valorizzazione/dismissione del patrimonio pubblico”. E sulle prime pagine di alcuni giornali c’è anche chi vede ancora “troppo stato in quell’agenda”.
La teoria economica e l’esperienza del passato ci insegnano che la privatizzazione di aziende pubbliche se da un lato riduce il deficit di un dato anno, dall’altro ha un notevole rischio di aumentare il deficit di lungo periodo, nel caso in cui l’azienda dismessa sia produttiva. Inoltre non basta che la gestione privata sia più efficiente di quella pubblica; il guadagno di efficienza deve anche assorbire il profitto che il privato necessariamente persegue.
Se chi vende (lo stato) ha urgenza e pressioni per farlo, chi acquista (privati) ha un chiaro vantaggio negoziale, che gli permette di ottenere condizioni più convenienti. E se le condizioni della privatizzazione sono più convenienti per il privato, esse saranno simmetricamente più sconvenienti per il pubblico, cioè i cittadini.
Studi recenti dimostrano come i cittadini dei paesi che hanno subito privatizzazioni rapide e massicce negli anni ’90 siano profondamente scontenti degli esiti. I giudizi ex-post sono tanto più critici quanto più rapide erano state le privatizzazioni, maggiore la proporzione di servizi pubblici svenduti (acqua ed elettricità in particolare), e più alto il livello di disuguaglianza creatosi nel paese.
La questione delle privatizzazioni è il punto d’arrivo del processo che l’Europa e l’Italia stanno vivendo. Discuterne più apertamente è fondamentale, se si ha a cuore il bene comune. Le decisioni che si prenderanno in proposito definiranno la rotta che l’Italia sceglierà di seguire nel dopo-elezioni.

Il Movimento 5 stelle ha difeso il sistema di WU MING

Adesso che il Movimento 5 stelle sembra aver “fatto il botto” alle elezioni, non crediamo si possa più rinviare una constatazione sull’assenza, sulla mancanza, che il movimento di Grillo e Casaleggio rappresenta e amministra. Il M5S amministra la mancanza di movimenti radicali in Italia. C’è uno spazio vuoto che il M5S occupa… per mantenerlo vuoto.

Nonostante le apparenze e le retoriche rivoluzionarie, crediamo che negli ultimi anni il Movimento 5 stelle sia stato un efficiente difensore dell’esistente. Una forza che ha fatto da “tappo” e stabilizzato il sistema. È un’affermazione controintuitiva, suona assurda, se si guarda solo all’Italia e, soprattutto, ci si ferma alla prima occhiata. Ma come? Grillo stabilizzante? Proprio lui che vuole “mandare a casa la vecchia politica”? Proprio lui che, dicono tutti, si appresta a essere un fattore di ingovernabilità?
Noi crediamo che negli ultimi anni Grillo, nolente o volente, abbia garantito la tenuta del sistema.

Negli ultimi tre anni, mentre negli altri paesi euromediterranei e in generale in occidente si estendevano e in alcuni casi si radicavano movimenti inequivocabilmente anti-austerity e antiliberisti, qui da noi non è accaduto. Ci sono sì state lotte importanti, ma sono rimaste confinate in territori ristretti oppure sono durate poco. Tanti fuochi di paglia, ma nessuna scintilla ha incendiato la prateria, come invece è accaduto altrove. Niente indignados, da noi; niente #Occupy; niente “primavere” di alcun genere; niente “Je lutte des classes” contro la riforma delle pensioni. Non abbiamo avuto una Piazza Tahrir, non abbiamo avuto una Puerta de Sol, non abbiamo avuto una Piazza Syntagma. Non abbiamo combattuto come si è combattuto – e in certi casi tuttora si combatte – altrove. Perché?
I motivi sono diversi, ma oggi vogliamo ipotizzarne uno solo. Forse non è il principale, ma crediamo abbia un certo rilievo.

Da noi, una grossa quota di “indignazione” è stata intercettata e organizzata da Grillo e Casaleggio – due ricchi sessantenni provenienti dalle industrie dell’entertainment e del marketing – in un franchise politico/aziendale con tanto di copyright e trademark, un “movimento” rigidamente controllato e mobilitato da un vertice, che raccatta e ripropone rivendicazioni e parole d’ordine dei movimenti sociali, ma le mescola ad apologie del capitalismo “sano” e a discorsi superficiali incentrati sull’onestà del singolo politico/amministratore, in un programma confusionista dove coesistono proposte liberiste e antiliberiste, centraliste e federaliste, libertarie e forcaiole. Un programma passepartout e “dove prendo prendo”, tipico di un movimento diversivo.
Fateci caso: il M5S separa il mondo tra un “noi” e un “loro” in modo completamente diverso da quello dei movimenti di cui sopra.

Quando #Occupy ha proposto la separazione tra 1 e 99 per cento della società, si riferiva alla distribuzione della ricchezza, cioè va dritta al punto della disuguaglianza: l’1 per cento sono i multimilionari. Se lo avesse conosciuto, #Occupy ci avrebbe messo anche Grillo. In Italia, Grillo fa parte dell’1 per cento.
Quando il movimento spagnolo riprende il grido dei cacerolazos argentini “Que se vayan todos!”, non si sta riferendo solo alla “casta”, e non sta implicitamente aggiungendo “Andiamo noi al posto loro”. Sta rivendicando l’autorganizzazione autogestione sociale: proviamo a fare il più possibile senza di loro, inventiamo nuove forme, nei quartieri, sui posti di lavoro, nelle università. E non sono le fesserie tecnofeticistiche grilline, le montagne di retorica che danno alla luce piccoli roditori tipo “parlamentarie”: sono pratiche radicali, mettersi insieme per difendere le comunità di esclusi, impedire fisicamente sfratti e pignoramenti eccetera.

Tra quelli che “se ne devono andare”, gli spagnoli includerebbero anche Grillo e Casaleggio (inconcepibile un movimento comandato da un milionario e da un’azienda di pubblicità!), e anche quel Pizzarotti che a Parma da mesi gestisce l’austerity e si rimangia le roboanti promesse elettorali una dopo l’altra.
Ora che il grillismo entra in parlamento, votato come extrema ratio da milioni di persone che giustamente hanno trovato disgustose o comunque irricevibili le altre offerte politiche, termina una fase e ne comincia un’altra. L’unico modo per saper leggere la fase che inizia, è comprendere quale sia stato il ruolo di Grillo e Casaleggio nella fase che termina. Per molti, si sono comportati da incendiari. Per noi, hanno avuto la funzione di pompieri.

Può un movimento nato come diversivo diventare un movimento radicale che punta a questioni cruciali e dirimenti e divide il “noi” dal “loro” lungo le giuste linee di frattura?
Perché accada, deve prima accadere altro. Deve verificarsi un Evento che introduca una discontinuità, una spaccatura (o più spaccature) dentro quel movimento. In parole povere: il grillismo dovrebbe sfuggire alla “cattura” di Grillo. Finora non è successo, ed è difficile che succeda ora. Ma non impossibile. Noi come sempre, “tifiamo rivolta”. Anche dentro il Movimento 5 stelle.

L'amico del giaguaro - Marco Travaglio


La domanda era: riusciranno i nostri eroi a non vincere le elezioni nemmeno contro un Caimano fallito e bollito? La risposta è arrivata ieri: ce l’han fatta un’altra volta. Come diceva Nanni Moretti 11 anni fa, prima di smettere di dirlo e di illudersi del contrario, “con questi dirigenti non vinceremo mai”. Del resto, a rivedere la storia del ventennio orribile, era impossibile che gli amici del giaguaro smacchiassero il giaguaro. L’abbiamo scritto fino alla noia: nel novembre 2011, quando B. si dimise fra le urla e gli sputi della gente dopo quattro anni di disastri, era dato al 7%: bastava votare subito, con la memoria fresca del suo fallimento, e gli elettori l’avrebbero spianato, asfaltato, polverizzato. Invece un’astuta manovra di palazzo coordinata dai geniali Napolitano, Bersani, Casini e Fini, pensò bene di regalarci il governo tecnico e soprattutto di regalare a B. 16 mesi preziosi per far dimenticare il disastro in cui ci aveva cacciati. Il risultato è quello uscito ieri dalle urne. Che non è la rimonta di B: è la retromarcia del centrosinistra. Che pretende di aver vinto con meno voti di quando aveva perso nel 2008. Il Pdl intanto ha incenerito metà dei voti di cinque anni fa, la Lega idem. E meno male che c’era Grillo a intercettarli, altrimenti oggi il Caimano salirebbe per la quarta volta al Quirinale per formare il nuovo governo. Il che la dice lunga sulla demenza di chi colloca M5S all’estrema destra o lo paragona ad Alba Dorata. Il centrodestra è al minimo storico, sotto il 30%, che però è il massimo del suo minimo: perché B. s’è alleato con tutto l’alleabile, mentre gli strateghi del Pd con la puzza sotto il naso han buttato fuori Di Pietro e quel che restava di Verdi, Pdci, Prc e hanno schifato Ingroia: altrimenti oggi avrebbero almeno 2 punti e diversi parlamentari in più, forse addirittura la maggioranza al Senato. Ma credevano di avere già vinto, con lo “squadrone” annunciato da Bersani dopo le primarie: l’ennesima occasione mancata (oggi, col pur discutibile Renzi, sarebbe tutta un’altra storia). Erano troppo occupati a spartirsi le poltrone della nuova gioiosa macchina da guerra per avere il tempo di fare campagna elettorale. I voti dovevano arrivare da sé, per grazia ricevuta e diritto divino, perché loro sono i migliori e con gli elettori non parlano. Qualcuno ricorda una sola proposta chiara e comprensibile di Bersani? Tutti hanno bene impresse quelle magari sgangherate di Grillo e quelle farlocche di B. (soprattutto la restituzione dell’Imu, tutt’altro che impossibile, anche se pagliaccesca visto che B. l’Imu l’aveva votata). Di Bersani nessuno ricorda nulla, a parte che voleva smacchiare il giaguaro. Anche questo l’abbiamo scritto e riscritto: nulla di particolarmente brillante, tant’è che ci era arrivato persino D’Alema. Ma non c’è stato verso: la campagna elettorale del Pd non è mai cominciata, a parte i gargarismi sulle alleanze con SuperMario (da ieri MiniMario) e i formidabili “moderati” di Casini (tre o quattro in tutto). Col risultato di uccidere Vendola, mangiarsi l’enorme vantaggio conquistato con le primarie e regalare altri voti a Grillo, non bastando l’emorragia degli ultimi anni. Ora è ridicolo prendersela col Porcellum (peraltro gelosamente conservato): chi, dopo 5 anni di bancarotta berlusconiana, non riesce a convincere più di un terzo degli elettori non può pretendere di governare contro gli altri due terzi. Anzi, dovrebbe dimettersi seduta stante per manifesta incapacità, ponendo fine al lungo fallimento di un’intera generazione: quella degli ex comunisti che non ne hanno mai azzeccata una. Ma dalle reazioni fischiettanti di ieri sera non pare questa l’intenzione: tutti resteranno al loro posto e, lungi dallo smacchiare il giaguaro, proveranno ad allearsi col giaguaro in una bella ammucchiata per smacchiare il Grillo e soprattutto evitare altre elezioni. Auguri. Quos Deus vult perdere, dementat prius.

lunedì 25 febbraio 2013

A futura memoria...Per chi si è illuso che la soluzione consista in un semplice VAFFA

ELEZIONI: un commento di Paolo Ferrero

Grande è la delusione e lo scoramento. Voglio quindi dare un grande ringraziamento ai compagni e alle compagne per il loro lavoro e proporvi una prima riflessione a caldo.
I dati sono arrivati e sono chiari: abbiamo perso. Rivoluzione Civile è rimasta schiacciata tra il voto di protesta dato a Grillo e il voto utile dato a Bersani.
Il voto è caratterizzato dal grande successo di Grillo che rappresenta l’insofferenza di massa per le politiche economiche e il sistema politico. Questo è il risultato che fornisce la cifra della consultazione elettorale: un paese che non condivide le politiche neoliberiste e non si riconosce nel sistema politica ma non ha maturato alcuna alternativa. Contemporaneamente un parlamento in cui nessuno degli schieramenti che si è presentato alle elezioni ha la maggioranza.
Quella che ci consegna il voto non è allora una rivoluzione, ne una situazione di stallo, ma una crisi organica, in cui il sistema non è più in grado di dare una risposta stando all’interno delle sue regole. Per descrivere la situazione italiana ho più volte parlato di Weimar al rallentatore, adesso ci siamo finiti dentro in pieno.
Il risultato concreto delle elezioni non è quindi la rivoluzione ma l’implosione del sistema in cui nemmeno il nuovo ricorso alle urne è così semplice: rischierebbero di riprodurre la situazione di stallo.
Parallelamente mi pare difficile che possano ridar vita ad una grande coalizione: la campagna elettorale ha fortemente polarizzato la situazione.
In questo contesto la cosa più probabile e più pericolosa è che i poteri forti aprano una battaglia politica per ottenere un governo a termine che dia vita alle riforme istituzionali, al fine di risolvere attraverso una semplificazione autoritaria il tema della governabilità. Temo cioè che emergerà pesantemente la proposta del presidenzialismo. La stabilizzazione che non è possibile determinare per via politica potrebbe essere perseguita per via istituzionale, aprendo la strada ad una riduzione dei margini di democrazia.
Nostro compito in questa situazione è la proposta di riscrittura attraverso un percorso di partecipazione popolare delle forme e dei contenuti della sovranità popolari al di fuori delle politiche neoliberiste.
Qui mi fermo stasera. Da domani cominceremo a rifletterci meglio a mente lucida.

RISULTATI Torgiano: SENATO

Comune di Torgiano: SENATO

Abitanti: 6.585 / Elettori: 4.715
Affluenza (alla chiusura delle operazioni) 81,6 %
Affluenza nel 2008 (alla chiusura delle operazioni) 86,6 %
6 sezioni su 6
Partiti Voti %
Partito Democratico (Pd) 1.191 31,9
Sinistra ecologia e libertà (Sel) 100 2,7
Totale coalizione - Pier Luigi Bersani 1.291 34,5
Il Popolo della libertà (Pdl) 860 23,0
Fratelli d'Italia 121 3,2
La Destra 35 0,9
Lega Nord 25 0,7
Intesa Popolare 8 0,2
Mir - Moderati in Rivoluzione 5 0,1
Totale coalizione - Silvio Berlusconi 1.054 28,2
Con Monti per l'Italia 332 8,9
Totale coalizione - Mario Monti 332 8,9
MoVimento 5 Stelle - beppegrillo.it 915 24,5
Totale coalizione - Beppe Grillo 915 24,5
Rivoluzione Civile 78 2,1
Totale coalizione - Antonio Ingroia 78 2,1
Fare per Fermare il Declino 29 0,8
Totale coalizione - Oscar Giannino 29 0,8
Partito comunista dei lavoratori 36 1,0
Totale altri 36 1,0

RISULTATI Comune DERUTA: SENATO

Comune di Deruta

Abitanti: 9.622 / Elettori: 6.762

Affluenza (alla chiusura delle operazioni) 80,4 %

Affluenza nel 2008 (alla chiusura delle operazioni) 84,9 %

9 sezioni su 9



Partiti Voti %
Partito Democratico (Pd) 1.433 27,5
Sinistra ecologia e libertà (Sel) 100 1,9
Totale coalizione - Pier Luigi Bersani 1.533 29,4
Il Popolo della libertà (Pdl) 1.307 25,0
Fratelli d'Italia 145 2,8
La Destra 79 1,5
Lega Nord 39 0,7
Intesa Popolare 21 0,4
Mir - Moderati in Rivoluzione 9 0,2
Totale coalizione - Silvio Berlusconi 1.600 30,6
Con Monti per l'Italia 395 7,6
Totale coalizione - Mario Monti 395 7,6
MoVimento 5 Stelle - beppegrillo.it 1.533 29,4
Totale coalizione - Beppe Grillo 1.533 29,4
Rivoluzione Civile 86 1,6
Totale coalizione - Antonio Ingroia 86 1,6
Fare per Fermare il Declino 36 0,7
Totale coalizione - Oscar Giannino 36 0,7
Partito comunista dei lavoratori 35 0,7
Totale altri350,7

domenica 24 febbraio 2013

IL NUOVO CHE AVANZA !



Berlusconi, le mafie e le agende rosse per difenderci di Arnaldo Capezzuto, Il Fatto Quotidiano

L’esplosione del tritolo è solo l’atto finale. Un magistrato, un servitore dello Stato muore un po’ prima: quando è delegittimato; quando è esautorato; quando è minacciato. Le parole pronunciate da un uomo di Stato come l’ex premier Silvio Berlusconi mi terrorizzano, mi inquietano, mi turbano. “Da noi la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. Sono parole violente, oltraggiose, mimetiche. Leggendole con freddezza, ascoltandole nella mente, guardandole singolarmente e poi mettendole insieme: mi danno bruciore e fastidio. E’ una sensazione: non mi piace il loro rumore.
Tra poche settimane ci saranno importanti sentenze. Cito una tra tutte: quella che riguarda il senatore uscente Marcello Dell’Utri. La filigrana di quelle parole è maligna, puzzano di morte. Gli occhi mi si riempiono di lacrime.
Appartengo alla generazione del 1970, una generazione disgraziata che sembra non avere il diritto alla verità. Il mio pensiero corre e si ferma a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ne potrei aggiungere tanti altri: Rosario Livatino, Rocco Chinnici e Cesare Terranova delegittimati e poi dilaniati dall’esplosivo. C’è un vento fresco di popolo che soffia e non vuole più piangere eroi perché non erano eroi, ma solo servitori dello Stato.
Immedesimatevi e chiedetevi cosa debba pensare un magistrato che ogni santo giorno rischia la pelle con i suoi uomini della scorta, una volta ascoltate le parole pronunciate da Berlusconi. Il clima è diventato pesante. L’aria si è fatta irrespirabile. C’è come un presentimento. Non a caso scrivo questo post. Proprio in questi giorni nel frastuono delle notizie cotte e mangiate è saltata fuori una intercettazione: “Può essere che nel frattempo che faccio l’appello muore Maresca”. “Voglio vedere cosa succede. Muore di malattia per cazzi suoi”. La risata è fragorosa. La “battuta” è di un certo Vincenzo Inquieto mentre chiacchiera in un colloquio in carcere con i suoi parenti. L’uomo era stipendiato dai Casalesi perché aveva ricavato nella sua abitazione a Casapesenna (Caserta), il covo dove si nascondeva il padrino latitante Michele Zagaria alias Capastorta, arrestato il 7 dicembre del 2011 dopo 15 anni di latitanza. Inquieto è stato condannato in primo grado a quattro anni di carcere per favoreggiamento. Il suo avvertimento-minaccia è rivolto al pm Catello Maresca, uno dei magistrati di punta del pool che indaga da anni e con importanti risultati sulla cosca dei Casalesi.
E’ solo una delle tante intimidazioni che questo bravissimo pm ha ricevuto. A maggio dell’anno scorso. Infatti, nel giorno del suo quarantesimo compleanno giunse puntuale l’ennesima minaccia di morte da parte della camorra. E per difendersi Maresca ha adottato il metodo di un suo ideale maestro il giudice Paolo Borsellino: “Ho pensato di comprare un quaderno per scrivere ogni giorno quello che vedo, quello che so: le complicità, i tradimenti, i sacrifici di tanti onesti. Mi è venuta voglia di scrivere un’agenda rossa”. In cuor mio consiglio al pm Catello, ai tanti servitori dello Stato e alle tante persone oneste di appuntare nelle nostre agende rosse le ultime parole pronunciate da Silvio Berlusconi : “Da noi la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. Per difenderci, per non dimenticare.  

Rifondazione per una Rivoluzione Civile


Rifondazione per una Rivoluzione Civile


Intervista a Paolo Ferrero 
di rifondazione.it -
La campagna elettorale è agli sgoccioli e nella corsa dell’ultimo miglio, vuoi la stanchezza, vuoi la paura di perdere o di vincere risicato, la tensione è alle stelle, le gaffe non si contano, qualche cavallo si azzoppa. Ci sono le inchieste di corruzione; c’è l’invincibile armata di Grillo; ci sono gli appelli al voto (f)utile. Quanto basta per rendere incerto il quadro che uscirà dalle urne, con il rischio di dover tornare a votare (scenario drammatico evocato o agitato come spauracchio anche da importanti quotidiani stranieri)? Non vede questo rischio Paolo Ferrero, segretario del Prc e candidato alla Camera con Rivoluzione civile. «Posso sbagliare, certo, ma guardiamo la situazione. Il Pd vincerà alla Camera e Bersani ha già detto che non governerà da solo. Ci saranno i numeri per fare la maggioranza con Monti. Magari ci sarà un braccio di ferro durissimo; e magari questa maggioranza si sfrangerà un po’, ma la prospettiva di Bersani è proprio quella di fare l’accordo con Monti dando vita ad una maggioranza simile a quella che lui ha ipotizzato. Diverso sarebbe stato se la sua prospettiva fosse stata quella di governare da solo e poi si trovasse nella necessità di dover fare la mediazione con altri».
E Monti?
Monti sarebbe interessato a rivotare solo se fosse in condizione di proporsi come carta di ricambio della destra complessiva. Ma anche così rischierebbe di essere percepito come fattore di ingovernabilità, cosa problematica per uno che si è proposto come salvatore della patria. Berlusconi potrebbe essere interessato, ma anche per lui sarebbe da una posizione di minoranza. Quanto a Grillo, sì a lui potrebbe interessare tornare a votare perché farebbe il pieno di voti, ma, appunto tutto porta a far sì che chi vincerà sia invece interessatissimo a non tornare alle urne. Tanto più che, ripeto, il tipo di mediazione cui Bersani sarà obbligato non è molto diversa da quella che aveva preventivato. Sennò non sarebbe andato a discutere con Schauble: hanno avuto la benedizione della destra della Cdu sulle politiche economiche; Bersani ha detto sì al super-commissario europeo; ha detto cose che nemmeno Hollande si è mai sognato di dire. Anche il rilanciare da parte di Monti l’opzione della grande coalizione ha un che di propagandistico: il premier, per prendere più voti possibile, ha tutto l’interesse ad evitare di apparire come la stampella del centrosinistra e dunque la proposta dell’unità nazionale dal suo punto di vista è la migliore. Potrà sempre dire: “Vedete? Io ho proposto l’unità nazionale, ma questa destra populista e irresponsabile ha detto no e a me non resta che fare l’alleanza con Bersani per il bene del paese”. Insomma, per come la vedo io, tutto è chiaro e lineare e l’intensità dell’accordo tra Pd-Sel e Monti è tale persino da permettergli di litigare in campagna elettorale. Monti da una parte e Vendola dall’altro fanno un gran teatro per prendere voti perché, paradossalmente, sono legati da un patto di ferro.
In un quadro così compatto, che spazio potrà avere Rivoluzione civile?
Il ruolo di Rivoluzione civile dovrà essere quello della costruzione di un’opposizione da sinistra e di sinistra al governo Monti-Bersani, che sia non solo un’opposizione parlamentare ma che sia la costruzione nel paese di un movimento di massa e di una sinistra diffusa. Entrambe le cose vanno di pari passo, anche perché, se va come penso io, Sel avrà un problema. E a quel punto penso che davvero Rivoluzione civile potrà diventare il luogo di un processo costituente che veda arrivare gente che pensava di andare in un posto e si è ritrovata in un altro.
Che bilancio fai della campagna elettorale?
Direi che, anche per come sta finendo, è sempre più evidente la necessità di Rivoluzione civile. Da un lato hai Bersani che si pone l’obiettivo di governare con Monti e Vendola mantenendo la continuità delle politiche del rigore;  dall’altra c’è la destra populista; e dall’altra ancora Grillo che dà voce alla rabbia e al malessere ma si ferma lì, non avanza proposte che abbiano qualcosa a che vedere con la soluzione dei problemi. Per esempio nel suo programma non è prevista la patrimoniale, l’abolizione della Riforma Fornero sulle pensioni o non si spiega come e dove recupera le risorse per il reddito sociale, insomma, fa pura propaganda.
E quindi?
Quindi mi pare che una buona affermazione di Rivoluzione civile sia decisiva per riaprire una strada di sinistra dentro una situazione che è colonizzata dai tecnocrati da un lato e dai populisti dall’altro. In questo senso, la caratteristica di Rc di essere sia una lista espressione della sinistra ma anche di aggregare percorsi diversi da quelli classici della sinistra è un fatto positivo, perché esprime potenzialmente proprio la coalizione che serve per sconfiggere queste politiche liberiste che sono contemporaneamente di classe, che trasformano l’Italia in una colonia e pongono dunque il problema della sovranità e, terzo, che usano impunemente la corruzione. Sono tre questioni, tra loro strettamente intrecciate, che la coalizione di Rc è in grado di tenere assieme.
Si può dire, allora, che con Rivoluzione civile si è riusciti a fare ciò che non è riuscito con la Federazione della sinistra?
Spero di non essere smentito, ma direi potenzialmente sì. Non esattamente negli stessi termini, ma sì, Rivoluzione civile può essere il terreno da cui partire per costruire una sinistra unitaria, plurale. Esattamente il tentativo fatto con la Fds. Che non ha funzionato su due punti. Uno è l’autonomia dal Pd: perché Rc possa diventare uno spazio pubblico della sinistra deve confermare l’autonomia non solo politica, ma strategica e culturale dal Pd. Il secondo punto, i processi decisionali. Alla fine, la Fds funzionava come il Consiglio di sicurezza dell’Onu, con il diritto di veto, cosa che ha portato alla paralisi. Quello che serve, al contrario, è un meccanismo che funzioni in modo democratico: una testa, un voto.
Ti sembra che si stia andando in quella direzione?
Rivoluzione civile è comunque una cosa plurale. Confido che si possa arrivare ad un percorso partecipato, banalmente perché c’è una domanda sociale fortissima su questo. Basta pensare alle istanze sollevate da Cambiare si può, che non hanno ricevuto soddisfazione nella formulazione delle liste, anche se molti di cambiare si può hanno dato una mano e voteranno Rc. E basta pensare alle centinaia di assemblee, dove ho visto con i miei occhi la partecipazione di gente nuova, non è solo una sommatoria. E questa gente ti chiede di partecipare.
Rifondazione, dunque, si presenta alle elezioni per la prima volta senza il suo simbolo e con un po’ di malessere per come si sono formate le liste. La campagna elettorale è riuscita almeno in parte a far “digerire” queste novità?
A me sembra di sì. Anzi chi ha fatto la campagna elettorale su tutto il territorio nazionale è proprio Rifondazione comunista. Sulla questione del simbolo il corpo del partito ha mostrato maturità: i compagni hanno compreso bene che nessuno di noi voleva abbandonare il nome comunista. E questo dimostra anche la fiducia tra partito e gruppo dirigente: non è sempre stato così. Siamo una cosa piccola, ma buona, con gente razionale, di buon senso, con buoni rapporti. Il partito si è dimostrato all’altezza della sfida. Né questi cinque anni hanno prodotto elementi di settarismo. Ovviamente le questioni che vengono dai compagni mi vedono pienamente d’accordo: l’esistenza di Rifondazione Comunista non è in discussione. L’attualità del tema del comunismo chiede che ci sia un partito comunista che fa battaglia politica e culturale, ma che non deve diventare settario ma crescere nel contesto di una sinistra antiliberista più ampia. Rovesciando i termini, si può anche dire che il tema della costruzione di un polo antiliberista non deve prefigurare la scomparsa di Rifondazione comunista. Sono d’accordo che questa deve essere la dialettica da tenere e sulla quale c’è l’accordo della maggioranza dei compagni e delle compagne. Se poi Rivoluzione civile diventasse stabilmente il modo con cui ci si presenta alle elezioni, al partito resterebbe l’essenziale ruolo politico di analisi, costruzione delle lotte, loro connessione, identificazione degli obiettivi, formazione dei quadri ecc. Come sempre vale, chi ha più filo tesse.
Questo è forse lo scenario più temuto, altrimenti perché questa ennesima e forsennata campagna sul voto utile?
Vogliono i voti della sinistra per governare con la destra, perché Bersani ha già detto in tutte le salse che anche se prenderà il 51% farà come se avesse il 49, quindi l’esito del voto utile sarebbe quello di dare più voti al Pd perché faccia il governo con Monti. Una follia.
Era scontato? O è successo qualcosa che li ha costretti a tirare fuori questo argomento?
No, non si aspettavano Ingroia e la sua capacità di mettere insieme Rivoluzione civile. Resta il fatto che è una scelta miope. Se fossero una sinistra davvero moderata e se davvero considerano Grillo un pericolo per la democrazia, dovrebbe essere loro interesse che ci sia una sinistra alternativa. A quanto pare, invece, preferiscono avere qualche senatore di destra in più e come uniche opposizioni quelle populiste di Berlusconi e Grillo. Forse è il caso di rivedere il giudizio sul Pd: abbiamo sempre detto che centrosinistra e centrodestra sono simili sul piano delle politiche economiche, ma non su quello della democrazia. Ora mi viene qualche dubbio: se avessero a cuore la democrazia non se la sarebbero presa sempre e solo con noi. Tentare di evitare che la sinistra arrivi in parlamento non è cosa da poco. Prima Veltroni nel 2008, poi l’introduzione dello sbarramento al 4% nel 2009 per le europee e oggi di nuovo la campagna per il voto utile. E bisognerà pure prendere atto che le contraddizioni interne al Pd finora si sono sempre sciolte tutte a destra.
Però dobbiamo anche parlare di noi. Quali sono, secondo te, le prime battaglie da condurre in parlamento?
Subito il tetto agli stipendi dei parlamentari e dei manager a 5000 euro, via il cumulo delle pensioni; tassa sui grandi patrimoni, sopra gli 800mila euro, per abbattere le tasse su lavoratori e pensionati e introdurre il reddito sociale per i disoccupati. Secondo, chiudere le opere inutili e dannose (tav, ponte stretto ecc) e fare invece un piano pubblico del lavoro. Tre: una legge sulla corruzione per permettere il sequestro dei beni dei corrotti o accumulati in modo illecito. Che poi sono tre questioni che si intrecciano e hanno l’uno ricadute sugli altri.
E l’Europa?
In breve, dobbiamo smarcarci dalle due posizioni estreme ma che alla fine sono entrambe impotenti: una che dice aspettiamo di riuscire a cambiare l’Europa; e l’altra: basta, usciamo dall’euro. Le due posizioni . che appaiono antitetiche –  tendono a coincidere perché sostanzialmente impotenti: tanto per cambiare i trattati come per uscire dall’euro occorre che la Merkel sia d’accordo.  Io propongo una terza via: la disobbedienza attiva; cioè, che si cominci a non applicare i trattati europei a partire dal fiscal compact e poi l’acquisto dei titoli di stato da parte della Banca d’Italia. Insomma, fare un’operazione di forzatura consapevole dei trattati, che obblighi gli altri paesi europei a rimettersi a discutere.
Ed è una strada praticabile, concreta? Come la mettiamo con lo spread?
Noi non siamo la Grecia, siamo un paese ricco. La quota del nostro debito sul mercato internazionale è di 5-600 miliardi; se interviene la Banca d’Italia e fissa tassi di interesse bassi, diciamo due per cento, a quel punto la vedo dura per la speculazione internazionale riuscire a “fare il prezzo”. Il punto vero è che le regole assurde con cui funziona l’Europa sono un bluff: hanno una loro cogenza solo nella misura in cui tutti fanno finta di non poterle violare. Il sistema dei trattati sta in piedi solo perché tutti sono d’accordo: se l’Italia non rispettasse i trattati, pensi che non lo farebbero anche Francia o Spagna? Determineremmo un positivo effetto contagio e gli unici colpiti sarebbero i mercati speculativi. Dubito che la Germania potrebbe reagire a questa nostra azione inviando i carri armati ad invaderci…
Messa a posto l’Europa, torniamo a noi. Domenica e lunedì si vota. Un appello finale?
Mettiamola così. Vi è piaciuta la linea Monti? Votate Monti, Bersani, Vendola, Casini. Se pensate che per rovesciare la linea di Monti bastino quattro vaffa e tagliare i costi della politica, votate Grillo. Se pensate che per rovesciare questa situazione, che è da rovesciare, sia necessario ricostruire un movimento di massa, una sinistra, una partecipazione dal basso e non semplicemente l’identificazione con le quattro urla del capo, fate sì che il successo di Rivoluzione civile possa essere il principio di tutto ciò.