martedì 31 maggio 2011

Ora si può (e si deve) cambiare rotta


Evviva! Come non esultare per il vento che è cambiato? Ora soffia decisamente a sinistra con una forza tale da riaprire il cielo. Tale da travolgere anche il governo ed offrire importanti spazi alla domanda di un reale cambiamento.
Che questa sia la sua chiara direzione ce lo dimostrano in primis, come sgargianti “galletti segnavento” i nuovi sindaci di Milano, Napoli e Cagliari, il loro inequivocabile profilo, la riconoscibilità della proposta di governo ed il carattere delle campagne elettorali che li hanno portati alla vittoria. Essi non nascono certo nei laboratori degli apprendisti stregoni del centro sinistra che da anni sfornano proposte indistinte e candidati sbiaditi, nell’inutile rincorsa di un presunto centro moderato. Democrazia, solidarietà, legalità, giustizia sociale, accoglienza, beni comuni, ecologia: sono queste le parole chiave, i contenuti riconoscibili, chiari, alla base del loro successo e del nostro successo. Potranno dire ciò che vogliono ma sono proprio questi i pezzi del nostro Dna, i contenuti del patrimonio genetico di una sinistra che si voleva “superata dalla storia” e quindi bistrattata, censurata ed esclusa dai luoghi della rappresentanza da un bipolarismo del “pensiero unico”.
Se la direzione di questo vento nuovo appare chiara a tutti, non si può ancora dire altrettanto del contesto politico e sociale e delle prospettive generali. Non è certo cambiata d’incanto questa Italia socialmente disgregata, culturalmente ed eticamente degradata da almeno due terribili decenni di liberismo incontrastato e di Berlusconismo. Così come è innegabile la varietà e la diversità dei molteplici fattori che hanno generato questa spinta. Hanno inciso certamente l’impresentabilità dei “mostri” oggi al comando, la loro disgregazione interna, la crisi dello stesso blocco sociale che li ha espressi.
Ma come non riconoscere che è fondamentale, dentro questo dato, il peso della collera della crescente povertà, di chi subisce l’ingiustizia dilagante, la privazione del lavoro e dei suoi diritti, la negazione di futuro e del presente stesso? C’è dentro l’indignazione per le discriminazioni ed i soprusi di ogni tipo, il saccheggio dei beni comuni, lo spreco e la distruzione delle risorse naturali e dell’ambiente. C’è la consapevolezza, anche di chi non è morso così forte dalla crisi, che questo modello di economia e di società debba necessariamente imboccare una vera alternativa.
E allora, se questo è il vento, non si tratta semplicemente di cambiare il timoniere, come già avvenuto infruttuosamente nel passato, ma di lavorare per invertire decisamente rotta! Altro che le ricette, riproposte proprio in questi giorni, da Emma Marcegaglia ad una platea plaudente, larga e trasversale! Proprio le medesime ricette velenose che ci hanno condotto in questa “macelleria sociale” e che sappiamo essere care da sempre a larga parte dello stesso fronte del centrosinistra che ha sostenuto in queste elezioni i nostri stessi candidati vittoriosi. Tagli alle tasse per le imprese ed alla spesa sociale, privatizzazioni e grandi infrastrutture.
No. Oggi è necessario più che mai il coraggio di un netto cambiamento, di dare avvio ad una vera “alternativa di società” che, in vista dell’imminente e inesorabile cacciata del sultano da palazzo Chigi, questi nuovi sindaci possono iniziare a far vivere nei loro rispettivi territori. Stoppando, per fare qualche esempio, grandi infrastrutture speculative, privatizzazioni, poli logistici, centri commerciali, inceneritori di rifiuti, inutili consumi di territorio. Puntando invece su una nuova economia basata sulla conoscenza, la sostenibilità, la qualità e soprattutto sulla giustizia e l’equità sociale. Un cambiamento che, per essere tale, faccia leva sul conflitto sociale e sulla partecipazione. Perché non basta e non funziona l’affidarsi a nuovi timonieri, magari esperti e illuminati. Bisogna farlo ricorrendo a un modo nuovo di “navigare”. Un modo basato appunto sulla socializzazione delle conoscenze e sulla più larga partecipazione.
Anche questo ci dicono i risultati di ieri, scaturiti non a caso da coinvolgenti percorsi partecipativi in cui, tanto Pisapia quanto De Magistris e Zedda, non sono apparsi come leader carismatici o nuovi messia ma quali garanti dell’unica vera pratica del cambiamento: quella democrazia che chiama in causa la società e la spinta innovatrice dei suoi conflitti.
Ma siccome, avrebbe detto Seneca, «non c’è buon vento per marinaio che non conosce la rotta», c’è una bussola pronta ad indicarla. Sono i referendum sull’acqua e il nucleare. La loro vittoria, che non possiamo mancare, può affermare l’indisponibilità dei beni comuni e la necessità di ricostruire attorno ad essi una comunità partecipante che se ne prende cura collettivamente con scienza e con coscienza, per garantirne i benefici per tutti e per ognuno. Che poi tradotto in due parole vuol dire: bene comune. Senza dimenticare il quesito sul legittimo impedimento per dare voce a quell’indignazione nei confronti dell’arroganza del potere che è componente essenziale dell’ondata di Milano e Napoli. C’è da ricostruire la res pubblica. L’esatto contrario del neoliberismo in salsa italiana, con i suoi insopportabili privilegi, le sue cricche corrotte, la sua prepotenza nel cancellare diritti, la sua volontà famelica di accaparrarsi i beni comuni.
Per chi come noi della Federazione della Sinistra, da posizioni minoritarie e scomode, da tempo indica e lavora in quella direzione si riaprono pertanto spazi politici ed ambizioni nuove. Nuove responsabilità di lavorare ad un’ampia ed unitaria sinistra d’alternativa, capace di progettare e praticare quella diversa rotta economica e sociale, opposta al berlusconismo ma anche alle sirene della Marcegaglia ed ai ricatti di Marchionne. Si offrono inedite opportunità di praticare questa rotta con una diversa idea partecipata di “navigazione” che il vento nuovo ci consente.

Massimo Rossi,
Portavoce nazionale della Federazione della Sinistra

UN PAESE ALLA DERIVA

Un autentico disastro sociale è in corso. Naturalmente il «partito degli ottimisti» non lo ammetterà mai, naturalmente gli uomini del governo hanno già le loro interpretazioni rassicuranti, naturalmente per quelli della finta opposizione il problema è sempre e solo Berlusconi, ma i dati diffusi nei giorni scorsi da Istat ed Inps parlano chiaro.
In Italia la povertà è in crescita, e mentre la disoccupazione giovanile è ormai alle stelle, per gli anziani si prospetta un futuro (vedi i dati sulle pensioni) sempre più nero.

Esagerazioni? No, basta esaminare i numeri nella loro crudezza. Numeri ancora più drammatici se analizzati in prospettiva. Numeri che ci parlano di un futuro insostenibile per il grosso delle classi popolari, specie se passerà la linea dei sacrifici «europei» per la riduzione del debito pubblico. Questa linea non ha oggi oppositori né a destra né nel centrosinistra, mentre di tutto si parla, nei media come nel cosiddetto «dibattito politico», tranne che della gravità della situazione sociale.
Come hanno scritto gli «indignados» spagnoli in un loro cartello: «Il capitalismo non funziona». Un modo sintetico di dire che la crisi è tutt'altro che risolta, che anzi i suoi effetti sociali devono ancora dispiegarsi, che né le oligarchie dominanti né la classe politica al servizio hanno la benché minima idea su come uscirne.
Ma veniamo ai numeri. I dati diffusi dall'Istat ci dicono che 15 milioni di persone si trovano in condizioni di povertà. Si tratta di un quarto della popolazione italiana (per l'esattezza il 24,7%). Si tratta - precisa l'Istat - di famiglie che vivono in condizioni di deprivazione, che non riescono a far fronte a spese impreviste, anche se di modesta entità, che restano morose nel pagamento delle bollette o del mutuo, che non riescono a riscaldare adeguatamente la casa nei mesi invernali.
Il peggioramento generale delle condizioni economiche emerge chiaramente dal dato sui risparmi delle famiglie, calato nel 2010 del 12,1% rispetto all'anno precedente. Una dinamica facilmente spiegabile alla luce di un altro dato, quello sul potere d'acquisto, calato del 3,5% nel 2009 e di un ulteriore 0,5% nel 2010. Giova ricordare che questi dati sono soltanto delle medie che, viste le gigantesche diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza, contengono larghe fasce popolari che hanno visto un crollo del potere d'acquisto (e dunque non parliamo dei "risparmi") ben più grave. Sta di fatto - segnala l'Istituto di statistica - che, sempre nel 2010, il 16,2% delle famiglie ha dovuto contrarre debiti, mentre la percentuale di quanti sono impossibilitati a far fronte ad una spesa imprevista di soli 800 euro è pari al 33,3%. Le famiglie in arretrato nei pagamenti (mutuo, affitto, bollette, ecc.) sono l'11,1%, mentre quelle che dichiarano di non potersi permettere neppure una settimana di ferie lontano da casa sono addirittura il 40%.
E' esagerato, alla luce di queste cifre, parlare di disastro sociale? Non ci pare proprio.
Ma se il presente è questo, il futuro per milioni di persone si chiama Inps, cioè pensioni. E proprio nei giorni scorsi l'Inps ha presentato i dati del 2010. Numeri che parlano da soli: oltre la metà delle pensioni Inps (50,8%) non raggiunge i 500 euro, il 28,2% si colloca tra i 500 e i 1.000 euro, l'11,1% tra i 1.000 e i 1.500 euro, mentre solo il 9,9% supera i 1.500 euro mensili. Da notare che tutte queste cifre sono al lordo, cioè a monte del prelievo fiscale.
Cifre pesantissime, ma che ancora non scontano se non in piccola parte i tagli draconiani imposti con le varie controriforme del sistema pensionistico, che dispiegheranno i loro effetti letali nei prossimi anni, quando le pensioni arriveranno al 45% dei salari, mentre i lavoratori con lunghi periodi di precariato si fermeranno a percentuali ancora più basse.
Dati drammatici, che pure hanno trovato la piena soddisfazione del ministro del Welfare Sacconi e del presidente dell'Inps Mastrapasqua. Mentre per il primo l'unica preoccupazione è la scarsa adesione dei lavoratori (5,3 milioni su una base potenziale quattro volte più grande) ai fondi previdenziali integrativi, il secondo ha rassicurato sul fatto che anche i giovani avranno la loro pensioncina: basterà lavorare fino a 70 anni, versare più contributi ed accontentarsi di una pensione da fame...
Abbiamo scritto più volte che un massacro sociale è alle porte, che l'uso di classe del debito pubblico sarà lo strumento per scaricare sulle classi popolari i costi della crisi del sistema. Ma questo massacro non ha un'ora x. In realtà è già in corso, anche se il peggio deve ancora venire. Istat ed Inps ce lo confermano, così come i dati di Bankitalia sulla ricchezza - il 10% delle famiglie che possiede il 45% della ricchezza, mentre il 50% delle famiglie ne possiede solo il 10% - ci dicono che nella crisi le differenze sociali sono destinate a farsi ancora più profonde.
Non necessariamente la povertà conduce alla rivolta, ma l'impoverimento in genere sì. Nell'ultimo ventennio i salari si sono prima fermati, per poi perdere decisamente potere d'acquisto. I giovani sono stati i più colpiti. Compensavano però le famiglie, con i risparmi e con i redditi degli anziani. Questo schema ormai non funziona più. Funziona, invece, ma non sappiamo ancora per quanto, l'egemonia culturale di quel «pensiero unico» che impedisce di vedere la possibilità della fuoriuscita dal capitalismo.
Intanto, però, la rabbia sociale cresce. Non passerà molto tempo prima che la lotta di classe riprenda il centro della scena. Non sappiamo con quali forme avverrà, ma certamente esse saranno più simili a quanto avviene in Spagna, piuttosto che alle vecchie e logore liturgie sindacali. Non illudiamoci sulla strada che imboccherà questa rabbia sociale. Dipenderà da molti fattori, tra i quali non ci stancheremo mai di sottolineare la necessità di un'adeguata piattaforma politico-programmatica. Non illudiamoci, perché le sconfitte dell'ultima parte del Novecento pesano ancora come macigni. Ma non si illudano neppure le classi dominanti, né i loro scribacchini. Si scordino la pace ed il compromesso sociale. Hanno creato un inferno e dovranno scottarsi anche loro.
Leonardo Mazzei

sabato 28 maggio 2011

Vaffansilvio

Confindustria, la rabbia dei signori

Il mito da sfatare è che l’Italia vada in fondo bene e che dunque gli imprenditori devono piantarla di lamentarsi”. La Confindustria scopre che Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti raccontano balle. Meglio tardi che mai. Ma soprattutto rivendica per i suoi iscritti – non tutti poveri – quel diritto alla ribellione che ha sempre negato ai lavoratori, ai precari, a chi vede lo spettro della disoccupazione, a chi ha già perso l’impiego: è noto che "sempre allegri bisogna stare ché il loro piangere fa male al re".
Adesso che Emma Marcegaglia ci ha detto che anche i ricchi, anzi, solo i ricchi piangono, c’è veramente da avere paura. Ancora pochi mesi fa recitavano il mantra del loro collateralismo: “Il peggio è passato”. Se questi signori, che la sapevano così lunga, ammettono il loro smarrimento, che cosa deve pensare l’operaio della Fincantieri?

La declinante lobby degli industriali ci ha rivelato di essere travolta dalla bancarotta del berlusconismo. Non una sola parola di autocritica, naturalmente: la borghesia industriale italiana vuole giustamente comandare, ma anche assegnare le colpe a chi ha solo obbedito, politici compresi. La presidente della Confindustria ha disegnato un agghiacciante ritratto del “decennio perduto” che ha fatto dell’Italia un Paese semplicemente più povero e forse disperato. E allora ricordiamo che esattamente dieci anni fa, il 24 maggio 2001, la Confindustria di Antonio D’Amato si consegnò a Berlusconi che aveva appena vinto le elezioni e contraccambiava dicendo “il vostro programma è il mio”.
Gli industriali hanno scommesso sul berlusconismo, lo hanno usato per attaccare i sindacati e smontare la concertazione, lo hanno spalleggiato per poter meglio “ottenere aiuti pubblici” (la Marcegaglia ieri ha confessato che per decenni la Confindustria è servita a questo). Chiedevano in cambio nel 2001 più contratti a termine, riforma fiscale e infrastrutture. Hanno ottenuto solo tanti precari in più. Ieri la Marcegaglia ha letteralmente gridato: “Infrastrutture subito! Riforma fiscale subito!”. Con la memoria hanno perso la cognizione del tempo. Marx è morto, la Confindustria è moribonda, e anche i giovani disoccupati oggi non si sentono tanto bene.
Giorgio Meletti, Il Fatto Quotidiano,

domenica 22 maggio 2011

La lezione spagnola

Sono tanti, determinati, giovani. Disoccupati, precari, studenti. Come scrivono nei loro manifesti, alcuni hanno convinzioni ideologiche profonde, altri meno. In comune hanno di fronte a loro un futuro fatto di un'unica certezza. Quella della precarietà, della disoccupazione, dell'esclusione sociale per la gran parte di loro. Sono coloro che ereditano il portato della crisi e degli effetti reali del neoliberismo: ricchezza e privilegi per pochi, precarietà, disoccupazione e sfruttamento per i più.
Sono le migliaia di ragazzi che stanno da giorni occupando le maggiori piazze della Spagna. Quando scrivevamo delle rivoluzioni medio orientali, della loro natura sociale e della loro potenzialità di contagio sulla sponda nord del mediterraneo avevamo visto giusto. Sono indignati contro il sistema sociale e politico. Sbaglia chi, in cerca di facili analogie, vuole rappresentare questo movimento come semplicemente antipolitico. E' contro il sistema sociale e politico. Ma pone domande politiche. A partire dalla richiesta di una legge elettorale proporzionale.
Ha domande di giustizia sociale a cui la post politica bipolarista non sa e può rispondere. Perché si è arresa da tempo al domino del monetarismo e ai diktat dei mercati e della banca centrale europea.
La Spagna di Zapatero, quella che alcuni, anche da noi, volevano ergere a nuovo paradigma della sinistra del ventunesimo secolo, crolla di fronte alla sua sostanziale inesistenza di fronte alle domande reali della società spagnola e delle sue giovani generazioni. Domanda di lavoro, salari, casa, sanità, politiche ambientalmente e socialmente giuste. La post-politica bipolare non può rispondere. Può avanzare sui diritti civili, ma, come è stato evidente nel caso di Zapatero, è muta e arrendevole quando si parla di diritti sociali. Senza colpo ferire si sono accettati tutti i tagli imposti dai piani di austerità europei. Si sono applicate le ricette liberiste e oggi si raccolgono le macerie di quanto seminato in questi anni. In questo la Spagna non è sola. E' insieme alla Grecia, all'Italia, al Portogallo, all'Irlanda. All'Europa, che risponde alla crisi sociale ed economica scaricando tutto sui più deboli.
Vi è un bello striscione, che abbiamo visto esposto da un balcone di una delle piazze in rivolta. Dice, testualmente: «Il capitalismo non funziona. Vivere è un'altra cosa». Nel manifesto scritto della piazza di Barcellona si leggono inoltre queste parole: «Le priorità di qualsiasi società avanzata devono essere l'uguaglianza, il progresso, la solidarietà, la libertà di accesso alla cultura, la sostenibilità ecologica e lo sviluppo, il benessere e la felicità delle persone. Ci sono diritti fondamentali che dovrebbero essere al sicuro in queste società: il diritto alla casa, al lavoro, alla cultura, alla salute, all'istruzione, alla partecipazione politica, al libero sviluppo personale, e il diritto di consumare i beni necessari a una vita sana e felice. L'attuale funzionamento del nostro sistema economico e di governo non riesce ad affrontare queste priorità e costituisce un ostacolo al progresso dell'umanità… La volontà e lo scopo del sistema è l'accumulazione del denaro, che ha la precedenza sull'efficienza e il benessere della società. Sprecando intanto le risorse, distruggendo il pianeta, creando disoccupazione e consumatori infelici».
Sottoscriviamo parola per parola. In Italia oggi cacciare Berlusconi è una priorità. Un bisogno democratico, di civiltà, di decenza. Le recenti elezioni hanno portato una salutare ventata di novità nel nostro paese. Ma rispondere a questa giusta aspirazione non basta. Anche nel nostro paese esiste una generazione per cui non basta solo liberarsi di Berlusconi, ma che chiede un'Italia diversa, più giusta. Non ha bisogno di un'altra suggestione, ma di risposte concrete alle ansie e alle paure che la crisi del capitalismo produce, all'incertezza e alla disillusione che ne derivano. Le domande dei giovani spagnoli ci chiedono di insistere nel rimetter a tema in forma contemporanea la questione dell'alternativa di sistema, dell'alternativa al capitalismo, del comunismo.
Uguaglianza, giustizia sociale, diritti.
Sono le grandi domande per cui è nata la nostra parte politica. E' la questione del cosa, come e perché produrre. Per rispondere a tutto questo c'è bisogno, in Spagna, in Italia come in tutta Europa, di un pensiero forte e di una sinistra degna di questo nome. Perché, come scrivono sempre i ragazzi della Spagna, «Siamo persone, non prodotti sul mercato. Io non sono solo quel che compro, perché lo compro e a chi lo compro».

In Italia abbiamo una possibilità per dimostrarlo. Il 12 e il 13 giugno, partecipando ai referendum, facendo vincere i sì e così battere non solo il governo, ma anche un pezzo di neoliberismo bipolare.
Fabio Amato, Liberazione

Grillo, un Gattopardo a 5 stelle. Attacca tutti per non cambiare nulla

Ci sono solo due politici in Italia, con un passato di brillanti intrattenitori (l’uno di piazze, l’altro di croceristi) che pensano di dover esercitare il mestiere della politica in perfetta, onnipotente solitudine, senza mai incrociare le parole e la faccia con un avversario: sono Silvio Berlusconi e Beppe Grillo. Dei quali non si ricorda, negli ultimi dieci anni, un solo pubblico confronto (tv, teatro, strada) con qualcuno che non la pensi come loro.
Ci sono stati solo due politici capaci di dire, senza tema di apparire ridicoli, «io non sono né di destra né di sinistra: io sono oltre». Uno era Charles De Gaulle (e forse qualche titolo lo aveva), l’altro è Beppe Grillo: sul suo blog, due giorni fa. E siccome le parole sono cosa seria, sempre sul blog, dopo averci comunicato che il suo movimento ha preso un consigliere a Bovolone e un seggio a Sala Baganza col 9,58%, Grillo spiega che lui ai ballottaggi non si schiera, tanto Moratti o Pisapia «sono la stessa cosa».
Per Grillo, laggiù a Napoli, anche De Magistris e Lettieri sono la stessa cosa: stesso fiato pesante, stesso programma, stessa metaforica munnizza: perché dunque sporcarsi le mani appoggiando il candidato del centrosinistra? «Di errori ne ho commessi molti e purtroppo ne commetterò altri», scriveva settimane fa Beppe Grillo, «uno dei più imbarazzanti è stato Luigi de Magistris».
Eppure me lo ricordo, Grillo, quando sbarcò a Bruxelles con De Magistris e Marco Travaglio, per regalarci una tirata contro l’Europarlamento con toni e argomenti da casalinga di Marsiglia (l’elettorato forte di Le Pen): basta con i fondi di Agenda 2000 che tanto vanno tutti alla mafia, basta con questo parlamento cimitero di elefanti, basta con questo chiacchiericcio inconcludente.
È un peccato. Non che Grillo non dia indicazioni di voto che tanto gli italiani sono stufi marci di chi li tratta come soldatini di piombo e ai ballottaggi spiega loro cosa dire, cosa fare, cosa pensare. È un peccato che Grillo si sia smarrito in questo delirio d’onnipotenza, unto anch’egli dal Signore, dalle piazze e da minime, presunte, scontate verità: tutti uguali i politici, tutti indegni, tutti vecchi.
Me lo sono sentito ripetere per trent’anni, in Sicilia, a ogni tornata elettorale quando in lista c’erano i notabili da centomila preferenze, quelli che piazzavano i famigli negli assessorati e facevano carte false per gli amici di Cosa Nostra, quelli che si mangiavano la politica e la vita degli altri senza nemmeno chiedere permesso, quelli che ti organizzavano cento varianti ai piani regolatori per i cento terreni degli amici che bisognava benedire. Quelli. E quando tu dicevi, avanti, proviamo a mandarli a casa, proviamo a riprenderci questa terra maledetta, proviamo a dire le cose che pensiamo, a trovarne uno onesto, a tenere la schiena dritta, proviamoci per una volta… ecco, ce n’erano tanti, come Grillo, che ti facevano una carezza in testa e ti spiegavano che tanto è tutta la stessa merda, la stessa pasta, lo stesso inciucio, destra e sinistra, Cuffaro e Borsellino, Pisapia e Moratti, De Magistris e Cosentino, e allora tanto vale turarsi il naso e stare dalla parte dei peggiori che almeno sono i più forti, sono furbi antichi e impuniti, e se promettono cose sfacciate poi le mantengono.
Io non lo so se Grillo pensi di essere davvero l’unico capace di buon senso. E non so nemmeno se le cose che dice su Pisapia le pensi davvero. Se fa parte dell’etica del suo movimento dare del “busone” a Vendola. Non lo so, non ancora, se questo signore c’è o ci fa. Ma ogni giorno che passa, ogni strepito suo che m’arriva, mi mette sempre più tristezza.
Claudio Fava

La revuelta della "generaciòn perdida" - Editoriale dalle piazze degli "Indignados"

In Spagna sta accadendo qualcosa che mai si era visto, quello che può essere chiamato "Movimento del 15 Maggio", la cui nascita è un avvenimento veramente storico. A due giorni delle elezioni amministrative le piazze di più di cinquanta città sono occupate da quelli che, con lo slogan “non ci rappresentano”, hanno perduto la fiducia nella politica e adesso si fanno vedere ogni giorno nelle assemblee in strada e nelle piazze. Anche se nessuno si sarebbe aspettato un movimento di tale entità, la cosa strana è il fatto che non avesse avuto luogo prima: quando la disoccupazione giovanile aveva toccato il 45%, quando il 63% dei cittadini spagnoli vivevano con mille euro al mese o ancora meno; tutto questo mentre le grandi imprese raggiungevano profitti record e stipendi mai visti per i dirigenti delle stesse. Duecentocinquantamila famiglie sono sotto sfratto perché non riescono a pagare il mutuo, mentre la stessa banca che le lascia senza casa e con molti debiti ottiene, come premio, quasi due punti del PIL nei piani di salvataggio pubblico; la gente a questo punto scende in strada e prende parola.
I cittadini, con il motto “Non siamo merce nelle mani dei politici e dei bancheri”, non si vedono rappresentati da una classe politica permanentemente colpita da scandali di corruzione e che in una crisi sistemica come questa ragalano benefici alle banche e agli istituti finanziari, precarizzando sempre più la vita della maggior parte della popolazione.
La riforma delle pensioni, quella delle casse di risparmio, le riforme universitaria e quella dei contratti collettivi sono le cause che producono queste conseguenze. I tentativi di mobilitazione più recenti possiamo individuarli in due date: la prima è il 7 aprile, con la grande manifestazione convocata dalla piattaforma studentesca “Gioventù senza futuro”. Con lo slogan “Senza pensione, senza casa, senza lavoro, senza paura”, migliaia di giovani sono scesi in strada in differenti città spagnole per riavere indietro il futuro di una intera generazione che il Fondo Monetario Internazionale ha definito “una generazione perduta”.
La seconda data fondamentale è stata il 15 maggio, creata dalla rete sociale “Democrazia reale adesso”. La manifestazione convocata ha visto l’adesione di centinaia di collettivi; tra questi proprio la piattaforma studentesca “Gioventù senza futuro”. Una manifestazione di massa che è terminata a Madrid tra la repressione della polizia e l’arresto di 24 giovani manifestanti. Il giorno seguente, la Puerta del Sol, cosiddetta Kilometro Zero, ha cominciato a riempirsi di gente. Ogni giorno alle otto di sera le piazze spagnole hanno richiamato sempre più “indignati” (molti dei quali hanno dormito nelle piazze stesse); specialmente la Puerta del Sol di Madrid, rinominata dagli occupanti “Piazza della soluzione” o “La nostra Piazza Tahir” con riferimento alle rivoluzioni in nord Africa.
Sono le stesse motivazioni che hanno spinto sia le mobilitazioni europee di quest’anno (per esempio gli studenti di “Gioventù senza futuro” hanno come riferimento le rivolte italiane dello scorso autunno), sia quelle del mondo arabo che hanno ormai provocato un fortissimo effetto-contagio.
Tutti i settori che fino ad ora erano rimasti assopiti cominciano a risvegliarsi ed unirsi, confluendo in un movimento ampio ed eterogeneo. Gli studenti e i giovani senza futuro, i disoccupati, i precari, gli sfrattati. Tutti insieme ogni giorno per le strade, costruendo una nuova politica non assoggettata ai mercati. Ogni giorno più persone ricominciano a credere che “La rivoluzione è possibile”, con un altro modo di fare politica, e che uniti si può vincere. Sanno che c’è ancora molto lavoro davanti a loro: grazie alle commissioni create in ogni città il principale lavoro è la diffusione della protesta per aumentare il numero dei manifestanti.
Grazie alle grandi assemblee vengono portate avanti le rivendicazioni in maniera concreta, anche incontrando difficoltà dovute all’eterogeneità delle piazze; ma non hanno fretta, perché adesso sono loro che scandiscono il tempo, stabiliscono le linee guida per una classe politica sempre più spaventata.
La Giunta elettorale ha dichiarato illegale la manifestazione che “Gioventù senza futuro” vorrebbe indire sabato, il giorno prima delle elezioni (giorno del silenzio elettorale). Gli studenti si sono dichiarati “insorti” e partiranno domani (oggi n.d.T) dalla Puerta del Sol in corteo con lo slogan “Non c’è democrazia se governano i mercati” per bloccare la città. Intanto il vicepresidente del governo, Rubalcaba, ha dichiarato che “non ci sarà sgombero con la forza a meno che non abbiano luogo atti di violenza o altre infrazioni della legge”. Il governo sa che utilizzare la repressione in questo momento significa aumentare l’indignazione verso il proprio operato, che è una delle cause principali per la quale è cominciata la protesta.
Nessuno sa cosa succederà oggi e nei prossimi giorni, tuttavia è chiaro che la chiamata ad una “Spanish revolution” è sempre più forte, e gli occupanti non sembrano rassegnarsi, hanno ormai perduto ogni tipo di timore.

di Isabel Serra da wwwateneinrivolta.org

venerdì 20 maggio 2011

Cosa ci insegna questo voto

Possiamo, a ragione, esprimere soddisfazione per i risultati di queste elezioni amministrative. Il primo dato, in sé rilevantissimo, è che il centrodestra subisce un duro colpo a Milano. Non si tratta solo della debacle della Moratti, un candidato sindaco sulla cui spendibilità vi erano molti dubbi nello stesso centrodestra, quanto del fatto che quelle elezioni erano state rivendicate da Berlusconi come test nazionale, fino a spingerlo a candidarsi come capolista del Pdl. Il risultato suona quindi come un’esplicita delegittimazione dello stesso Berlusconi e della coalizione di governo, resa ancora più significativa dall’arretramento dell’alleato di ferro, la Lega Nord. Inevitabilmente questo risultato accentua le tensioni nel centrodestra e segna un duro colpo per l’operazione di consolidamento del governo, anche se sarebbe azzardato trarre conclusioni automatiche sul destino della legislatura. Molto dipenderà dai risultati dei ballottaggi.
A questo primo elemento di soddisfazione se ne aggiunge un altro, anche questo non scontato. In alcune grandi città il candidato di sinistra ottiene un risultato di grande valore, al punto da far insorgere la destra contro la minaccia dell’estremismo. A Milano Pisapia sbaraglia il centrodestra e pone una seria ipoteca, nel ballottaggio, sulla vittoria della coalizione di centrosinistra. A Napoli il risultato è ancora più clamoroso, perché in questo caso De Magistris, guidando una coalizione alternativa al Pd, supera alla grande il candidato dello stesso Pd e passa al ballottaggio con il candidato della destra Lettieri. Sono due vicende non identiche, ma che ci dicono di uno spostamento a sinistra dell’elettorato, di una domanda di maggiore radicalità.
Questo non significa che assistiamo alla crisi conclamata del Pd, che anzi ottiene in generale buoni risultati, ma certamente alla non corrispondenza fra la proposta politica di quel partito e la domanda che viene da parti rilevanti dell’elettorato. Non solo, la vicenda mette in luce l’erroneità della tesi secondo cui nei sistemi di tipo maggioritario per vincere occorra collocarsi al centro. La sconfitta di Morcone a Napoli è, da questo punto di vista, molto significativa, perché quella candidatura era finalizzata ad un’operazione di convergenza con il terzo polo nei ballottaggi.
Così come è indicativo che tanto Pisapia quanto, soprattutto, De Magistris, ottengano più voti della coalizione che li sosteneva. Nel contempo il terzo polo, vezzeggiato dal Pd come possibile interlocutore, al punto da sacrificare al rapporto con questo le alleanze con le forze di sinistra, arranca. Fli in primis, ma anche l’Udc, se si esclude il risultato significativo di Napoli. E nelle realtà dove il Pd privilegia il rapporto con il terzo polo, le coalizioni alternative di sinistra ottengono in alcuni casi buoni risultati, come nelle province di Macerata e di Vercelli e nel comune di Grosseto, diventando determinanti nei successivi ballottaggi. Il dato generale, insomma, mette in luce una oggettiva difficoltà del Pd a procedere sulla strada delle grandi intese con il terzo polo.
Queste elezioni ci dicono, però, anche qualcosa sulla sinistra. In queste amministrative è cresciuta un’unità a sinistra, anche se in maniera ancora insufficiente, per la indisponibilità soprattutto di Sel. In taluni casi questa unità si è tradotta liste unitarie di sinistra; in altri casi ha assunto la forma di coalizioni autonome dal Pd. L’esempio più eclatante è quello di Napoli con l’alleanza fra IdV, FdS, liste civiche. Ma non si tratta del solo esempio. Nelle elezioni provinciali coalizioni alternative al Pd sono sorte a Macerata, a Vercelli, a Mantova, a Pavia, a Campobasso. Nei comuni capoluoghi, a Torino, a Rovigo, a Grosseto, a Salerno, a Cosenza. I risultati sono stati diversificati, ma seguendo una logica comune. Laddove la sinistra di alternativa non si riduce ad un micro polo, dove assume una dimensione adeguata ed è in grado di proporsi come alternativa credibile, è possibile rompere la morsa del voto utile, che invece scatta laddove questo profilo non si determina. Il caso negativo più eclatante, quello di Torino, riflette certamente questa tendenza generale, che si manifesta anche laddove le ragioni per una presentazione autonoma erano le più forti, dopo le scelte del candidato del Pd a sostegno di Marchionne e le chiusure settarie dello stesso Pd.
In queste elezioni Prc e FdS ottengono un risultato globalmente positivo, che per molti versi inverte il trend negativo che abbiamo conosciuto negli ultimi mesi. Nei 24 comuni capoluogo in cui la Fds si è presentata il risultato si attesta all’incirca su quello delle precedenti regionali e nelle 11 elezioni provinciali – un test quindi più politico – si migliora il risultato delle europee di circa lo 0,5% attestandosi, come dato globale, intorno al 4%. E, dato ancora più significativo, riducendo la distanza con le altre formazioni della sinistra, Sel in primis. Spiccano in questi risultati, per l’incremento dei consensi, i casi - fra l’altro - delle province di Gorizia, Lucca, Macerata, Ravenna e nei comuni capoluoghi, oltre che di Napoli, di Milano, Barletta e Arezzo. Questo risultato globale naturalmente è costellato di successi e anche di insuccessi. Nei casi dove i risultati sono stati migliori ha molto pesato il radicamento delle forze della FdS sui territori, la qualità delle candidature e soprattutto la capacità di polarizzare l’attenzione dell’elettorato, di segnare con i propri contenuti le stesse alleanze. Dove invece vi sono state difficoltà e anche arretramenti si misura la debolezza delle strutture locali, ma anche – in taluni casi- l’inadeguatezza delle scelte e, elemento non meno rilevante, la presenza di una competizione serrata a sinistra. Il caso di Bologna riflette in modo evidente questa condizione di difficoltà. Il formarsi di una lista civica di sinistra guidata dalla stessa candidata a sindaco che la FdS aveva sostenuto e che ha posto un veto sulla inclusione della stessa FdS, ha certamente inciso. Ma non va trascurato in queste elezioni un altro dato rilevante e cioè la presenza di una formazione (Cinque stelle) di stampo populista, ma sicuramente capace di penetrare nell’elettorato di sinistra, che ha penalizzato in alcune realtà le liste della Fds.
In ogni caso, i risultati ci dicono che una fase nuova si sta aprendo, una fase in cui scricchiola la coalizione di governo e nella quale ricomincia a spirare un vento di sinistra, che la FdS - oggetto di un oscuramento clamoroso da parte dei principali mass media - riesce almeno in parte ad intercettare. Non si tratta che dell’inizio di un processo che ha interessanti potenzialità, ma che resta denso di incognite, nel quale elemento decisivo è la possibilità che si affermi un polo della sinistra autonomo dal Pd, ma non settario, capace sia di condizionare le alleanze di centrosinistra nei contenuti programmatici, nelle candidature e nel sistema di alleanze che di proporsi, dove necessario, come alternativa. Un’esigenza per dare alle comunità locali governi credibili, ma anche per aprire una prospettiva politica generale. Le alleanze che in queste elezioni la FdS ha costruito in molte realtà con pezzi di sinistra costituiscono una utile base di partenza. Sta a noi saper far vivere queste esperienze e dar loro un raccordo e una base politica comune.
Gianluigi Pegolo, Liberazione

giovedì 19 maggio 2011

Ora possiamo rilanciare il nostro progetto politico

Grazie, grazie, grazie. Ogni ragionamento sull’andamento delle elezioni deve partire da un ringraziamento per la generosità e l’impegno con cui migliaia di voi, compagni e compagne di rifondazione comunista, avete affrontato le elezioni. Se oggi respiriamo un’aria un po’ migliore di una settimana fa è merito vostro.

Dopo tanti sondaggi utilizzati come clave dai grandi potentati per plasmare la realtà a loro piacimento, le elezioni amministrative hanno determinato un positivo bagno di realtà. Questo ha assunto le caratteristiche di un positivo terremoto politico.

Innanzitutto Berlusconi ha preso un colpo molto forte, in particolare a Milano, ma non solo. Inoltre, la perdita di consensi del PdL non si è travasata sulla Lega che ha perso consensi a sua volta. Il voto non rappresenta quindi solo una perdita di voti della destra, ma incrina pesantemente l’asse di governo con la Lega che è il vero cemento della maggioranza. In secondo luogo, il centro sinistra dimostra di poter vincere con candidati radicali e senza il centro.

La crisi di Berlusconi non avviene su un piano centrista ma propone una domanda di sinistra potenzialmente maggioritaria nel paese. Se ottimo è il risultato di Pisapia a Milano, addirittura clamoroso è il risultato di De Magistris a Napoli. Un voto che premia un profilo non solo di sinistra, ma in discontinuità con la fallimentare gestione di un centro sinistra consociativo.

Per quanto riguarda il risultato della Federazione della Sinistra – nel quadro di una censura mediatica totale - ritengo sia da considerare positivamente. Nelle elezioni provinciali andiamo avanti, sia rispetto alla regionali che rispetto alle europee, sia anche se in modo disomogeneo. Più articolata la situazione delle comunali dove hanno pesato moltissimo due fattori: il radicamento sociale del partito e la sua capacità di relazione con il territorio da un lato, la collocazione relativa agli schieramenti dall’altro. La collocazione a noi più favorevole è indubbiamente quella di coalizioni di sinistra in cui il profilo della coalizione era coerente con la nostra impostazione politica. Napoli, Macerata, ma anche Milano, per non fare che tre esempi. Mediamente, un po’ più difficoltoso il nostro schieramento dentro il centro sinistra largo. Decisamente più difficile – salvo situazioni con forte radicamento territoriale – dove siamo andati da soli o con schieramenti molto ristretti.

Per rimanere a sinistra, nonostante l’enorme esposizione mediatica, Sel non raggiunge i risultati previsti dai sondaggi e l’Idv segnala un calo. Le forze politiche alla nostra sinistra non hanno risultati significativi, indipendentemente dalla nostra collocazione. In generale si può dire che la sinistra tende a crescere, ma che il tema dell’unità della sinistra non viene risolto dalle urne e rimane completamente aperto come problema politico.

Un discorso a parte, che va approfondito, merita il consenso raggiunto dalle liste Grillo, in particolare in Emilia Romagna ed in generale nel nord. Ci segnala un diffuso voto di protesta che viene raccolto da una proposta politica sbagliata. E’ quindi necessario operare per rispondere positivamente alle domande politiche che sono alla base del consenso delle liste Grillo, sulla base di una proposta politica orientata a sinistra.

In questa situazione possiamo dire che il responso delle urne ci consegna una situazione positivamente dinamicizzata in cui Rifondazione Comunista e la Federazione della Sinistra hanno la forza e gli spazi per produrre l’iniziativa politica.

A mio parere i terreni principali su cui operare sono questi:

-massimo impegno nei ballottaggi, a partire da Napoli e Milano, per dar vita a governi qualificati sul piano programmatico e con l’obiettivo complessivo di sconfiggere le destre;

-massimo impegno nella campagna referendaria che deve decollare subito. Il tentativo del governo è quello di oscurare i referendum producendo l’impressione che il governo sia riuscito con qualche leggina ad evitarli. Così non è e noi dobbiamo renderlo evidente con l’obiettivo di raggiungere il quorum referendario e la vittoria del Si nei referendum;

-lancio effettivo della campagna di mobilitazione sulle cinque emergenze sociali.

Si tratta ovviamente di puntare oggi su ballottaggi e referendum, ma di cominciare a lavorarci; occorre operare per il rilancio della Federazione della Sinistra, che rappresenta per noi un punto fondamentale del nostro progetto politico. Si tratta, da un lato, di superare la situazione di impasse che si è venuta a creare a livello centrale, con la definizione degli organismi della Federazione. Dall’altro è necessario raccogliere sui territori le positive relazioni costruite con realtà esterne in occasione delle elezioni amministrative, al fine di allargare la Federazione, generando un vero e proprio processo costituente dal basso.

Per noi la costruzione della Federazione deve intrecciarsi con un più ampio processo di unità delle forze della sinistra di alternativa. Per questo ritengo necessario proporre a Sel, all’IdV, alle forze politiche alla nostra sinistra, di dar vita ad un percorso unitario al fine di costruire un polo politico della sinistra di alternativa. Tale percorso unitario è importante sia per offrire un punto di riferimento unitario ad una sinistra plurale, sia per poter pesare fortemente nel confronto programmatico con il Partito democratico. Al fine di dare uno sbocco politico alla crisi del governo Berlusconi dobbiamo riproporre con forza la costruzione di un fronte democratico tra la forze di sinistra e di centro sinistra.

Il nostro obiettivo non è la partecipazione al governo, ma dar vita ad una legislazione di salvaguardia democratica, che abbia al suo centro l’adozione di misure atte a contrastare i negativi effetti sociali della crisi economica e il superamento del bipolarismo.

Per realizzare il complesso di questa iniziativa politica è necessario rafforzare il partito, il suo insediamento, il suo lavoro sociale. Mai come in queste elezioni si è vista una corrispondenza tra radicamento sociale e consenso elettorale. E’ questa la strada giusta su cui proseguire, sviluppando l’intuizione del partito sociale.

Occorre quindi una grande cura del partito. Lo chiedo a tutti i compagni e alle compagne, a partire dal gruppo dirigente: abbiamo la possibilità di rilanciare il nostro progetto politico, facciamolo al meglio, dispiegando l’iniziativa politica e portando avanti le nostre proposte. Con questo spirito dovremo aprire la fase congressuale, per puntare ad un congresso unitario, sulla base di una proposta politica chiara, puntando al superamento delle attuali componenti interne. Centinaia di migliaia di persone ci hanno dato la loro fiducia, utilizziamola responsabilmente per rilanciare le ragione di un’alternativa di sistema.

Paolo Ferrero, Seg. Nazionale PRC

sabato 14 maggio 2011

L'armata Bundesbank

Là dove 70 anni fa la possente Wehrmacht aveva fallito è riuscita oggi la discreta Bundesbank. Un tempo i principati si conquistavano con le armate, oggi bastano gli ultimatum dei creditori. I banchieri tedeschi impongono la loro dura legge con la stessa prussiana sicumera degli Junker guglielmini, i von Moltke e gli Hindenburg. Gli invisibili gnomi di Francoforte hanno piegato nazioni dove le divisioni tedesche non erano mai arrivate, come Irlanda e Portogallo. In altre, come la Grecia, hanno risvegliato duri ricordi.
Come chiamare altrimenti quel che sta avvenendo nel nostro continente? Siamo talmente presi a seguire le cabrate dell'imperialismo Nato, i tonneau dei Mirages di Nicolas Sarkozy, le picchiate dei Tornado di David Cameron, da perdere di vista il pugno d'acciaio con cui la Germania unificata di Angela Merkel impone le sue regole draconiane. Una volta, per abolire la costituzione di un paese e privarlo della sua sovranità bisognava invaderlo, occuparlo militarmente. Oggi Grecia, Irlanda e Portogallo sono state assoggettate dalle cambiali. Perché assoggettate? Perché qualunque governo gli elettori abbiano scelto, qualunque politica abbiano votato, devono comunque sottostare alle condizioni della Banca centrale europea, devono decurtarsi gli stipendi, dimezzare le pensioni, privarsi della sanità pubblica, chiudere scuole, biblioteche, ospedali.

Come riferiva il Wall street Journal di ieri, gli stipendi della funzione pubblica in Grecia sono stati tagliati fino al 25%. E cosa possono fare i greci oltre che protestare invano? Qui sta la grande differenza con l'invasione armata: che questa volta i paesi occupati hanno abdicato alla propria sovranità senza fiatare. E contro chi vuoi resistere? Contro uno sportello di banca? In quale maquis ti puoi arruolare? Tra gli indomiti debitori morosi?
Perché il problema è questo: i banchieri che t'impongono l'austerità non sono stati eletti da nessuno, nessuno li può mandare a casa. Cosa può fare contro Jean-Claude Trichet (e domani contro Mario Draghi) un greco o un portoghese o un irlandese? Non c'è nessun governo eletto da far cadere. Altro che Europa del capitale! Stiamo assistendo a una dittatura informale del capitalismo (un po' come "informale" era detto l'imperialismo Usa). In Europa la sovranità popolare non ha mai avuto grandi quotazioni, ma adesso è stata proprio degradata a «titolo spazzatura». Ogni volta che ci parlano del «popolo sovrano» ci sentiamo presi in giro. Mai come oggi si pone un problema di democrazia. Ci vorrebbe una «primavera europea», altro che «primavere arabe».
I finanzieri non devono rispondere a nessuno, neanche ai loro azionisti: tanto, se mandano in rovina le proprie banche, ci pensano i provvidi governi a salvarle. Infatti due anni fa le banche erano messe assai peggio di Grecia o Portogallo, ma questi templi della «razionalità del mercato» furono considerati too big to fail, troppo grandi per lasciarli fallire, e così gli Stati uniti cacciarono più di 3.000 miliardi di dollari per «confortarli» (relief). E la Germania fu altrettanto prodiga verso i propri istituti di credito, anche se con più discrezione. Tutte queste banche sono state salvate con i nostri soldi. Invece Portogallo e Grecia sono evidentemente too small to save. Ma non sarebbe il caso ora di salvare noi con i soldi delle banche?
Certo, il problema non si limita all'Europa dell'euro. Disoccupati, pensionati e pubblici dipendenti inglesi stanno pagando con lacrime e sangue le sovvenzioni elargite alla Royal Bank of Scotland e ai Lloyds (una ragione non secondaria del trionfo degli indipendentisti scozzesi alle ultime, recenti elezioni).
E poi c'è un versante che nemmeno la potente Germania controlla. Un tempo c'era sempre un esercito (o una flotta) più potente del tuo, come tante volte ha sperimentato la Germania. Oggi c'è sempre un capitalismo più forte del tuo. È quello delle agenzie di rating, Moody's e Standard & Poor's. Le agenzie di rating assegnano voti ai debitori: peggiore il voto, più alto è considerato il rischio, quindi più alta deve essere la remunerazione di chi presta e quindi più salati gli interessi pagati sul proprio debito.
Il problema è che queste agenzie di rating sono imprese private, possiedute da privati, spesso proprietari di Hedge Funds: il 19,1% delle azioni di Moody's appartiene all'«oracolo di Omaha», Warren Buffett, il secondo uomo più ricco d'America, che specula sui debiti cui la sua Moody's assegna i voti (ratings). Anche qui, un 81enne miliardario del Nebraska determina se tua nonna perderà la pensione a Portogruaro o Ariano Irpino. Di nuovo un problema di democrazia.
Ma vi è anche un problema di sinistra europea. Ancor più della tracotanza teutonica, colpisce l'indifferenza con cui le varie sinistre europee hanno accolto questo esercizio di dispotismo finanziario. Come se la faccenda non riguardasse noi italiani (o i francesi che se la stanno facendo sotto all'idea di perdere la tripla AAA di rating). Non vorremmo essere costretti tutti a parafrasare la famosa sentenza del pastore Martin Niemöller: «Prima se la presero con i greci, ma io non protestai perché non ero greco. Poi se la presero con gli irlandesi. Ma non protestai perché non ero irlandese. Poi se la presero con i portoghesi, ma non protestai perché non ero portoghese..... Quando poi se la sono presa con me, non c'era rimasto nessuno a difendermi».
Marco D'Eramo, Il Manifesto

Dopo lo sciopero la Cgil svolta: ma dove?

Patto per la crescita. Questo è il titolo con cui è stato annunciato dalla stampa il documento votato poi a maggioranza dal direttivo della Cgil. La sintesi, per quanto brutale, chiarisce il senso negativo di questa scelta.
La Cgil fa propria la priorità della "crescita", sulla quale si stanno orientando non solo le posizioni della Confindustria, ma tutta la politica economica dell'Unione Europea, del sistema bancario, del Fondo monetario internazionale. E' una scelta profondamente sbagliata che, al di là delle cautele e delle attenuazioni di circostanza, accetta che la crisi possa essere affrontata con il rilancio dell'attuale modello di sviluppo. Tutti vogliono la crescita, ma la crescita di che? Quella dei salari, quella dei diritti sociali, quella dell'area dei beni comuni e dell'economia sottratta a una produzione di massa che distrugge tanto la salute delle persone quanto quelle del pianeta, oppure la crescita del Pil secca e brutale? Non si scappa da questo punto e assumere oggi la priorità della crescita significa inevitabilmente diventare subalterni alla strategia della competitività, della produttività, del profitto a tutti i costi che oggi anima gli indirizzi della Confindustria e dei principali governi europei.
Non è un caso che da questa scelta derivi sul piano sindacale il secco ridimensionamento del contratto nazionale. Per la prima volta il direttivo della Cgil auspica un contratto «meno prescrittivo e più inclusivo» che, tolto il sindacalese, vuol dire un contratto nazionale più leggero, che abbassi il livello delle tutele e dei diritti nella speranza di allargare l'area dei lavoratori compresi in esso.
Questo significa sposare una vecchia tesi, mai provata dai fatti. Quella dei vasi comunicanti dei diritti, per la quale si spera di estendere un po' di tutele ai precari, ai disoccupati, al lavoro nero, abbassando la qualità e la quantità dei diritti medi per tutti. Questa teoria alimenta la campagna contro il "privilegio" di chi ha ancora la tutela dell'articolo 18 e che, non essendo licenziabile, non può essere sostituito da un giovane precario. La Cgil non ha mai sposato queste teorie, e non lo fa tuttora, ma il documento apre inevitabilmente ad esse dal momento che indebolisce complessivamente il ruolo e il peso del contratto nazionale. Di cui vengono ridotte la funzione salariale così come quella normativa, in particolare sugli orari e le flessibilità. Si apre così la via alla cosiddetta articolazione della contrattazione, che nei fatti significa dare spazio alle deroghe "contrattate" dalle Rsu, soprattutto quando sono sotto ricatto occupazionale.
La Cgil respinge le clausole di responsabilità, con cui Marchionne in Fiat attenta alle libertà costituzionali dei lavoratori. Tuttavia accetta l'idea che ci sia una "esigibilità dei contratti". Parola terribile questa, che nel linguaggio delle imprese significa una sola cosa: una volta che qualcuno ha firmato, non puoi più discutere, né tantomeno rifiutare. Si apre così la via, alla generalizzazione del sistema delle deroghe.
Oltre alle evidenti obiezioni di merito, c'è anche una fortissima obiezione politica a questa scelta della maggioranza della Cgil. Anche questa è stata argomentata nel direttivo, in particolare da Gianni Rinaldini. Che ragione c'era, dopo uno sciopero che ha dato un importante segnale di combattività di massa, che ragione c'era di proporre questa svolta? E' stato detto forse nelle piazze del 6 maggio che si scioperava per il ritorno alla concertazione e per il patto sociale? E' chiaro che questa scelta, giustificata con il solito motivo che la Cgil non può non avere una proposta, si dà una torsione negativa a tutto il movimento di lotta che si è sviluppato in quest'ultimo anno, a partire da Pomigliano. E' tutto da discutere che questo movimento si sia sviluppato per arrivare al contratto leggero e a un nuovo sistema di regole finalizzato alla produttività e alla crescita. A me sembra, al contrario, che l'anima vera e profonda di questo movimento, sia stato il no al modello proposto dalla Confindustria e dalla Fiat, il no alla flessibilità e alla produttività come vie principali per la crescita, il no insomma al modello Marchionne non solo nella fabbrica, ma nella scuola, nella cultura, in tutta la società. Ci sono stati arretramenti in questa battaglia, difficoltà, sconfitte dolorose come alla Bertone. Ma l'anima vera del movimento di lotta è stata questa. Quella che chiedeva una piattaforma di cambiamento sociale fondata sui diritti e le libertà e non un nuovo patto con la Confindustria.
Con questa accelerazione moderata la maggioranza della Cgil ha riassorbito tutte le sue articolazioni interne e ha messo di nuovo ai margini la maggioranza della Fiom e la minoranza congressuale, che hanno votato contro.
Bisogna allora prendere atto che, pur tra conflitti e contraddizioni, è in atto un processo che punta alla sostituzione di Berlusconi con una concertazione politica e sociale di stampo neocentrista. La maggioranza della Cgil, con il suo documento, entra in questo processo politico. E' vero che le confusioni del governo, le rigidità e gli applausi agli omicidi dell'assemblea della Confindustria, non rendono vicinissimo un nuovo accordo. Verso di esso però marcia la maggioranza della Cgil. Ed è questa una direzione di marcia pericolosa e anche sbagliata nella prospettiva, perché non solo l'Italia, ma tutta l'Europa è colpita dalla crisi del modello di sviluppo, dalle catastrofi sociali che provocano le politiche liberiste di risanamento quali quelle che stanno massacrando la Grecia, dall'assenza di una vera strategia di cambiamento sociale.
La mossa della Cgil può forse servire a rimettere nei giochi della politica la principale confederazione italiana, ma non affronta minimamente i drammatici problemi sociali del mondo del lavoro, la caduta dei salari e dei diritti, l'aggressione alla libertà dei lavoratori che si sta scatenando.
Il voto del direttivo della Cgil è sul piano sindacale l'equivalente degli indirizzi politici del Partito Democratico. Non coincide in tutto con essi, ma la direzione di marcia è quella. Alla base di quella scelta sta l'idea che si possa sostituire Berlusconi rendendolo inutile anche per le imprese, con un nuovo patto con questa Confindustria, questo sistema di potere economico, questo modello di sviluppo. Un'idea che comporta inevitabilmente la normalizzazione dell'opposizione sociale.
Di fronte a questo passaggio tutte e tutti coloro che, nel sindacato e nei movimenti credono e pensano ad un'altra prospettiva, oggi hanno il dovere di ritrovarsi per contrastare queste scelte e per costruire una piattaforma alternativa ad esse.
Giorgio Cremaschi, Liberazione

venerdì 6 maggio 2011

Tu quoque Nichi?

Caro Nichi,
Dicci che non è vero e che è stato tutto un terribile equivoco. Non hai mai descritto Israele come “un Paese che ha trasformato aree desertiche in luoghi produttivi e in giardini”. Non ne hai mai parlato come di “un Paese che si confronta col tema mondiale del governo del ciclo dell’acqua” senza dire che nei territori occupati il ciclo dell’acqua consiste nel sottrarre l’acqua ai palestinesi per annaffiare colonie illegali. E’ stato quel furbacchione dell’Ambasciator Meir a “confondere un po’ le acque”? E allora perché non pubblicare una bella smentita?

Ti hanno già scritto in molti e lo ha già fatto molto bene Myriam Marino, ci siamo anche noi: un bel gruppo di persone le più diverse appena tornate da un “viaggio di conoscenza” in Israele e Palestina, pensa. Uno di quei bei viaggi organizzati dall’Associazione per la Pace di Luisa Morgantini, un viaggio che nessuno di noi dimenticherà mai, che è appena cominciato e che vogliamo continuare, anche con te se ne avrai voglia e curiosità.Si dice che la Sinistra sia molto più brava a fare autocritica che a criticare i propri avversari. E infatti eccoci qua, a esercitare la nostra critica, tanto forte quanto forti sono le nostre aspettative nei tuoi confronti. Molti di noi sono “di sinistra”, alcuni di noi militano nelle file di Sinistra, Ecologia e Libertà. C’è anche chi non vede l’ora di vederti a capo di un governo che traduca sogni di giustizia in realtà quotidiana.

Tutti noi crediamo che essere “radicali” non voglia dire essere “faziosi” e per forza “oppositivi”, ma essere in grado di arrivare alle radici delle cose, per capirle, interpretarle e tentare di dare risposte a questioni che sembrano difficili da risolvere.Siamo contrari a battaglie identitarie che servono solo a dare un’etichetta a chi si sente perso senza un simbolo appiccicato addosso. Crediamo che oggi più che mai sia necessario studiare e reinterpretare il mondo. Neanche a te piacciono gli slogan vuoti e anche tu hai sempre voglia di imparare. E’ finita l’epoca della fedeltà assoluta ad una “causa superiore”, bisogna coltivare il dubbio, siamo d’accordo. Ma alcune battaglie vanno portate avanti con convinzione. Per questo abbiamo superato i dubbi di Pasolini su Israele e il mondo arabo e non abbiamo dubbi da che parte stare quando si parla dei Territori Occupati. Ogni tanto fa anche bene sentirsi nel giusto.

A noi ha fatto bene manifestare contro il Muro a Bil’in insieme ai comitati palestinesi di resistenza popalare, ballare a Sheik Jarrah con i giovani israeliani strillando a una voce “One, two, three, four…occupation no more!”. Davanti a noi, due coloni che facendo finta di niente leggevano il Talmud seduti sul divano in cortile. Hanno ignorato noi come ogni giorno ignorano l’anziana profuga palestinese, a cui hanno occupato la casa assegnata dall’UNRWA ma che in quel cortile ha deciso di viverci lo stesso, sotto una tenda.

Ci ha fatto bene conoscere gli Human Supporters di Nablus che aiutano i bambini a superare il dolore, e ci ha fatto bene vedere quel che riesce a fare il Rehabilitation Centre di Hebron in una città militarizzata da 5000 soldati venuti a proteggere i 400 coloni che hanno occupato il centro storico rendendo la vita impossibile ai palestinesi.

Tutto questo ci ha fatto bene, ma ci ha fatto anche soffrire, perché l’ingiustizia fa soffrire, come fanno soffrire i racconti di violenza inaudita che ci sono stati riferiti dalle stesse vittime, anime di un assurdo purgatorio che chiedono di riportare in terra la loro verità.Nichi, lo sai che nell’ “unico Stato democratico del Medio Oriente”esistono le prigioni per i morti? Quelle dove i palestinesi marciscono, letteralmente, per scontare pene di 250 anni?

Noi comprendiamo le ragioni diplomatiche che ti spingono a parlare anche con l’Ambasciatore di uno Stato che pratica l’apartheid, ma è davvero necessario sposarne e diffonderne la propaganda? Non dobbiamo dirti noi che già nella Bibbia la Palestina è identificata come la terra dove scorrono latte e miele: non è stato certo lo Stato di Israele a renderla fertile. Semmai, lo Stato di Israele sta utilizzando i territori abitati dai palestinesi come discariche. E a proposito di tecniche d’avanguardia, lo sai che dalle belle oasi che si sono costruiti in Cisgiordania i coloni aggrediscono i bambini palestinesi che per andare a scuola senza fare deviazioni chilometriche osano avvicinarsi a loro? E sai che non lontano dalle meravigliose palme piantate dai coloni nella Valle del Giordano esistono villaggi di beduini dove l’acqua potabile non passa perché è stata deviata?

Siamo andati a conoscerli i bambini di questi villaggi, abbiamo visto le loro scuolette fatte coi copertoni delle macchine (anche grazie all’aiuto della cooperazione italiana), abbiamo visto le tende dove fanno lezione in attesa che sia pronta la scuola di fango intitolata a Vittorio Arrigoni: qualche mattone l’abbiamo messo pure noi, simbolicamente, per testimoniare la nostra vicinanza. Giardinetti per loro non ce ne sono, e qualcuno vorrebbe che neanche loro fossero lì. Come a Gerusalemme, dove i palestinesi non possono costruire case nemmeno sulla terra che appartiene a loro. E i figli devono arrangiarsi altrove, perdendo in questo modo per sempre la residenza.

E allora Nichi, questa terra che in tutto sarà grande come la tua Puglia, bisogna conoscerla tutta per saper distinguere gli orrori dalla speranza, per capire che anche chi sta male a volte non si arrende. Per denunciare chi, nel nome di una religione e di una cultura, fa terra bruciata intorno a sé, teorizzando e riuscendo a far passare il messaggio che i suoi diritti valgono più dei diritti degli altri.Lo stato di Israele sarà pure denso della cultura ebraica che tutti apprezziamo, ma cosa c’entra questa cultura con le prevaricazioni che subiscono i palestinesi?

Infine, riguardo al tuo desiderio di “sviluppare reciprocamente le attività turistiche”, ci chiediamo: è per difendere questa cultura che quegli uomini e donne di ghiaccio del sistema di sicurezza israeliano hanno sottoposto noi “turisti” italiani a un vero e proprio interrogatorio sulla via del ritorno, all’aeroporto di Tel Aviv? Terrorismo psicologico, il loro, roba da farti venire la tremarella. L’accusa, gravissima, quella di “essere dei volontari”.Pensa che curioso, ci hanno accusati di essere venuti in Israele “solo” per aiutare i palestinesi, e hanno voluto le prove che fossimo stati nei posti giusti: posti, ad esempio, come i giardini di Haifa di cui sono (siete?) tanto orgogliosi. Fra le tante foto “compromettenti”che hanno visto dopo averci requisito la macchina fotografica è spuntata fuori anche quella dei giardini di Haifa. Meno male, siamo particolarmente sensibili ai giardini.Ci vuoi venire a vedere i giardini e le palme con noi? Noi ti ci portiamo volentieri, ma poi facciamo anche un viaggio nei villaggi e nelle città palestinesi.

Con la stima che non vogliamo perdere,


Giovanna Bagni, Giulia Bellandi, Sara Bellandi, Franca Bocci, Raffaele Boiano, Sergio Caldaretti, Bernardetta Casa, Carla Consonni, Davide Costa, Nicola Costa, Silvia Dal Piaz, Marco De Luca, Francesco Del Bove Orlandi, Rosa Di Glionda, Francesca Fanchiotti, Gabriella Fazzi, Ornella Fiore, Liana Gavelli, Isa Giudice, Valentina Loiero, Maria Grazia Lunghi, Giovanna Manaccia, Paola Marazziti, Marcello Musio, Mariella Pala, Cristiana Paternò, Marco Pecci, Ivan Proto, Alice Proto, Elisabetta Schintu, Stefania Spiga, Massimo Tesei, Edvino Ugolini, Carolina Zincone, Biancamaria Zorzi

domenica 1 maggio 2011

Costruire l'autonomia di classe

Buon Primo maggio a tutti e tutte. Questa festa acquista con i passare degli anni un significato maggiore, come quella del 25 aprile. Il motivo è semplice e grave allo stesso momento: i significati di fondo delle feste della liberazione e della festa dei lavoratori e delle lavoratrici sono messi in discussione radicalmente.

Sul 25 aprile questo è un po’ più chiaro. Da anni che vi è una coscienza diffusa sul fatto che il revisionismo storico - propagandato dalle destre e da tanta parte del centro sinistra - mette in discussione la resistenza e l’antifascismo come elementi fondanti la Repubblica italiana e la civile convivenza nel nostro paese. Il 25 aprile è negato alla radice da chi considera la Costituzione italiana un fardello da cui liberarsi la fine di svincolare il potere economico e politico dal rispetto delle regole. Per questo attorno al 25 aprile, all’antifascismo è cresciuta una nuova coscienza civile, che ha coinvolto anche i giovani. Il 25 aprile da celebrazione è diventata una data di battaglia politica, di orgogliosa riaffermazione della lotta partigiana come cesura, come nuovo inizio della storia del paese.
Sul primo maggio le cose sono più confuse. E’ del tutto evidente che è in corso un tentativo di sistematica demolizione del movimento operaio. Questo tentativo ha subito una accelerazione in quest’ultimo anno con l’attacco condotto da Marchionne che mira a peggiorare le condizioni di lavoro e a distruggere l’autonomia del sindacato. L’attacco è però più generale e più di lungo periodo. Il punto centrale riguarda proprio l’autonomia del movimento operaio in quanto tale. Riguarda la possibilità di pensare e praticare la lotta di classe come lotta dotata di contenuti, prospettiva e potenzialità di trasformazione.

Il punto di fondo dell’offensiva di Marchionne è che l’unico soggetto dotato di progetto è l’impresa che deve essere assecondata dentro il vero scontro in atto: la lotta tra imprese e territori dentro la globalizzazione. La narrazione di Marchionne postula che l’unico soggetto della trasformazione è l’impresa - guidata da condottieri che sanno muoversi fuori e contro le vischiose regole della democrazia e dei contratti – e che il conflitto di classe è un fastidioso e nocivo disturbo rispetto alla vera guerra in corso. Nella narrazione di Marchionne il libero dispiegarsi dell’iniziativa manageriale è la condizione del successo dell’impresa, che a sua volta è la condizione per il mantenimento dei posti di lavoro. Il lavoro torna ad essere presentato come variabile totalmente dipendente dal capitale. I lavoratori e le lavoratrici vengono presentati come infanti incapaci di capire il loro vero interesse, che ovviamente coincide con quello dell’azienda. Per questo devono essere guidati per mano da una elite illuminata che pedagogicamente li fa votare il peggioramento delle loro condizioni di lavoro. Ai lavoratori viene chiesto non solo di lavorare di più ma di essere consenzienti a questa prospettiva individuata come l’unica strada praticabile per salvare i posti di lavoro. In questa narrazione quindi il movimento operaio non solo è inutile ma è dannoso per i lavoratori stessi: più i lavoratori lottano e peggio staranno, loro e i loro figli. Il punto di vista operaio viene così svuotato da qualsiasi valore positivo e presentato come egoismo miope, inconcludente e – ovviamente- vetero, conservatore.
Il mancato riconoscimento del valore positivo della lotta di classe si accompagna con altri due elementi, di lungo periodo.
Da un lato la messa in discussione della necessità di una organizzazione autonoma dei lavoratori e delle lavoratrici sia sul piano politico che sindacale. L’ideologia interclassista a guida borghese è stata alla base della distruzione del PCI vent’anni fa e dell’attacco forsennato alle organizzazioni di sinistra che fanno del riferimento di classe un punto fondante. Da questo deriva il tentativo di assassinio continuo e pervicace della Federazione della Sinistra che viene attuato attraverso la nostra cancellazione sistematica dalla comunicazione di massa. La stessa ideologia è alla base del compromesso neocorporativo attraverso cui la Cgil e il sindacalismo di base sono regolarmente messi in discussione come agenti contrattuali. Il tentativo è il ritorno ad una politica in cui destra e sinistra politica sono espressioni interne al blocco sociale borghese e in cui il sindacato di classe viene aggredito a favore di un sindacalismo aziendalista e neocorporativo. La messa in discussione dell’autonomia di classe porta quindi con se l’aggressione alle organizzazioni del movimento operaio.
In secondo luogo l’autonomia di classe viene negata sul piano simbolico, della produzione dell’immaginario. La cultura di massa televisiva propone un modello solo: l’obiettivo è essere ricchi, belli e famosi. Chi non risponde a queste caratteristiche è uno “sfigato” e se si ribella lo può fare per un motivo solo, perché è invidioso. I ricchi non ci hanno portato via solo i soldi ma anche la fantasia, la capacità di pensare. Fino a vent’anni fa un operaio o un disoccupato era uno sfruttato, con il diritto a ribellarsi contro una società ingiusta, oggi viene presentato come uno sfigato, un fallito, uno che non è stato capace. Uno che deve solo vergognarsi.
Il problema è che di questa aggressione sottile ma violentissima alle ragioni di fondo del movimento operaio e della sua autonomia vi è una consapevolezza limitata. Assai minore di quella relativa all’aggressione ai valori della resistenza. Le manifestazioni del primo maggio sono organizzate sia da chi vuole sviluppare l’autonomia di classe che da chi la vuole affossare nel paternalismo. Festeggiano fianco a fianco coloro che contestano la centralità assorbente dell’impresa e coloro che la santificano.
Per questo il compito storico di noi comunisti e comuniste è quello della
ricostruzione dell’autonomia operaia, di una visione del mondo, di una aggregazione politica e di una pratica sociale e sindacale che metta al centro gli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici e la messa in discussione dello sfruttamento.
Per questo siamo a fianco dei lavoratori della Fiat e della Bertone contro i dictat di Marchionne. Per questo sosteniamo lo sciopero generale e il 6 maggio saremo in piazza con la Cgil. Per questo proponiamo a tutte le forze della sinistra che sono autonome da padroni, banche e Vaticano di unirsi, perché c’è bisogno di costruire una sinistra degna di questo nome. Per questo ci battiamo contro la guerra, in Libia come in Afganistan, perché la lotta contro lo sfruttamento del lavoro non è che l’altra faccia della medaglia della lotta contro lo sfruttamento dei popoli. Per questo proponiamo una piattaforma di mobilitazione basata sulla lotta alle grandi ricchezze attraverso la patrimoniale, sulla lotta per il lavoro basata sulla riconversione ambientale e sociale delle produzioni. Per questo proponiamo di rilanciare la lotta al neoliberismo costruendo coalizioni – come quella per il referendum sull’acqua pubblica e contro il nucleare – che siano in grado di proporre l’alternativa fuori e contro la centralità assorbente dell’impresa capitalistica.
Questo Primo maggio allora non partecipiamo solo ad una manifestazione ma assumiamo il tema della costruzione di un nuovo movimento operaio come il punto fondante di una lotta politica contro la guerra e contro lo sfruttamento del lavoro. Perché occorre battere Berlusconi ma anche il berlusconismo, cioè il neoliberismo e il pensiero unico.
Paolo Ferrero, Liberazione